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ARRAMPICARE
Partendo dal presupposto che ‘ad arrampicare si impara arrampicando’, essendo questa una riscoperta di una capacità primordiale ereditata dalle scimmie che è prima di tutto ‘ricordata’ attraverso la sua esecuzione progressiva, si possono comunque osservare similitudini tra le varie tecniche individuali che ciascuno di noi sviluppa più o meno autonomamente, che andiamo ad analizzare. La gran parte delle scimmiette infatti eseguirà movimenti simili in numerose occasioni, dipendenti da quello che la roccia/plastica ha da offrire. E’ evidente che più le difficoltà aumentano meno possibilità di scelta rispetto ai movimenti si avranno, e quindi la quasi totalità dei climber eseguirà ‘movimenti obbligati’, senza particolari possibilità creative. Quindi andiamo ad analizzare le principali situazioni di scambio della forza tra arti superiori/inferiori e roccia, giusto per non risultare completamente analfabeti in materia se ci viene chiesto da uno sconosciuto col pizzetto e i rasta ‘oh ma tu lì hai tenuto il rovescio o hai lanciato allo svaso? No perché io pensavo di tenerlo basso andare alla tacca e rilanciare violentemente allo svaso alto!...comunque dopo birretta al paki ci siete?’.
In generale le asperità della roccia sulle quali viene appoggiato il piede sono indicati come APPOGGI, mentre quelle sulle quali tirano o spingono le mani sono chiamate APPIGLI. Comunque sia l’arto inferiore, da un punto di vista generale, può sfruttare le asperità della roccia in:
Nel primo caso la forza peso cade perpendicolarmente alla roccia e viene direttamente sopportata
da questa. Nel secondo caso invece la forza-peso cade obliquamente e può essere scomposta in due componenti: una perpendicolare alla superficie di appoggio, che viene trasmessa al suolo come forza di pressione, l’altra parallela alla superficie di appoggio che deve essere contrastata dalle forze di attrito che si sviluppano tra suola e roccia. Nel terzo caso viene incastrata la scarpa in una fessura, e in più si sviluppano forza d’attrito sui bordi della scarpa stessa.
DIFFERENZE SCARPONI-SCARPETTE
Con gli scarponi è favorito lo sfruttamento in appoggio delle asperità, in quanto la rigidità della suola permette di trasmettere perpendicolarmente la forza-peso anche a piccole superfici d’appoggio senza un grosso sforzo del piede. Più limitata ne risulta invece la possibilità di un impiego in aderenza, per la minore adattabilità della suola rigida alla superficie rugosa della roccia, ma soprattutto per la rigidità dello scarpone steso che limita le flessioni del piede necessarie per scaricare quanto più possibile sugli arti inferiori la forza-peso. Con le scarpette risulta più difficile operare in appoggio come per gli scarponi data la minore rigidità, dacchè si cercherà di posizionare la scarpetta più laterale possibile, ma sempre sulla punta della scarpa!. Per contro è nettamente più facile il loro uso in aderenza, grazie sia alla flessibilità che le caratterizza, la quale permette di effettuare le opportune flessioni del piede, sia anche alla maggiore adattabilità della suola alla superficie rugosa della roccia, sia infine, in molti casi, al più elevato coefficiente d’attrito ottenuto mediante l’impiego di mescole speciali (vibram).
Dal punto di vista generale gli arti superiori sono in contatto con la roccia/plastica tramite APPIGLI. Inoltre possono operare in:
La varietà degli appigli che si incontrano arrampicando è infinita, ma in pratica si possono suddividere in due gruppi fondamentali:
Per il secondo gruppo si attua una suddivisione dipendente dalle caratteristiche geometriche dell’appiglio, che conseguentemente andranno a variare il modo in cui la mano si disporrà sull’appiglio cercando la condizione di massima tenuta, come si può vedere dalle figure:
Per quanto riguarda gli incastri è importante ricordare che ci possono più tipi di incastri eseguibili con diverse posizioni dell’arto superiore, in questo modo:
Tutti questi tipi di incastro e in generale di posizionamento della mano e dei piedi sugli appigli/appoggi sono da un lato il risultato di quello che l’istinto naturale induce nell’arrampicatore e dall’altro quello che i diversi tipi di tools garantiscono, e quindi sarà difficile affrontare una parete in aderenza con gli scarponi mentre sono preferibili le scarpette, ma non è per forza necessario affrontare le tante vie classiche delle dolomiti con le scarpette, poiché rare in questi casi sono le occasioni in cui si debba fare totalmente affidamento all’aderenza. Oppure, difficile sarà affrontare appigli svasi in una giornata d’agosto senza far uso di magnesite che aumenta l’aderenza sulle mani.
E’ più che giusto quindi RICONOSCERE cosa si sta facendo all’interno di queste suddivisioni, ovvero dove ci porta la nostra naturalità, ma anche provare a stimolare se stessi andando ad affrontare nuovi incastri con nuovi tipi di posizioni, oppure provare diverse soluzioni di presa sulle tacche, esaurientemente spiegate nei vari blogs online, giusto per ampliare una cultura tecnica personale che potrebbe essere utile ad interpretare passaggi laddove il nostro istinto non ha abbastanza fiuto. Questo capita frequentemente nel boulder di alto livello, dove i passaggi sono obbligati e bisogna dedicarsi all’interpretazione di questi a seconda del tipo di prese presenti, piuttosto che seguendo l’istinto naturale. E allora si comincia a vedere strana gente guardare i blocchi al materasso e agitare le braccia stese simulando i passaggi…rispetto!
Ora che abbiamo una discreta coscienza di come si mettono giù i piedi e le mani e conosciamo un po’ di nomenclatura più o meno tecnica a riguardo, addentriamoci nel mondo della vera e propria ‘tecnica d’arrampicata’. Ricordando sempre e comunque che non si può imparare ad arrampicare sui libri, andiamo inizialmente ad analizzare le due principali forme di progressione caratteristiche dell’arrampicata, carpendone la differenza principale e prendendone le due principali linee guida, per poi smettere di leggere e cominciare a metterle in pratica anche con la testa mentre si arrampica. Ci si accorgerà che le due tecniche non si differenziano grandemente da come ci arrampicavano sugli scogli al mare da piccoli in cerca di malcapitati granchi. Le varie guide si allineano però nel dare almeno un paio di linee guida per ciascuna tecnica che si presentano come concetti utili e sempre validi in qualsiasi situazione, dacché mi sembra giusto averne almeno una vaga idea e portarne rispetto. Tali tecniche di progressione sono state infatti la base dell’arrampicata classica e grazie alle quali si sono potute compiere imprese storiche degne di stima e allo stesso tempo di grande invidia, anche senza tutine in gore-tex.
Le due principali e classiche modalità di progressione seguite dal corpo durante l’arrampicata sono:
L’ARRAMPICATA DIRETTA si svolge lungo un unico piano sul quale si trovano sia appigli che appoggi, differentemente dall’opposizione nella quale questi sono presenti su piani diversi non paralleli.
PRINCIPI BASE:
Partendo da questi principi base si possono cominciare ad affrontare le medie difficoltà e arrivare nel tempo alle alte dopo aver sviluppato un repertorio di movimenti personale che mai nessun manuale sarà in grado di sostituire, e quindi non mi sento di aggiungere cose che è giusto che vengano magicamente da se, e che all’inizio potrebbero sembrare ridondanti.
L’ARRAMPICATA IN OPPOSIZIONE è quella che si svolge lungo due piani variamente angolati, che sfrutta, cioè, le asperità della roccia poste su piani diversi. L’uso del termine ‘opposizione’ è dovuto al fatto che in questo tipo di arrampicata, l’equilibrio non è ottenuto scaricando semplicemente il peso del corpo sugli arti inferiori verticalmente alla parete, bensì spingendo con le gambe in direzioni opposte su piani diversi, di modo da creare una coppia di momenti equilibrati e opposti sufficienti ad annullare qualsiasi possibilità di caduta (rotazione sul piano del corpo, caduta banalmente) e tale da poter in molti casi staccare le mani dalla roccia e riempirsi di magnesite senza pericolo di volo. Di fatto in molti casi le mani servono solo per evitare di perdere il controllo del bacino rispetto ad una rotazione sull’asse del corpo, oppure per indirizzare la salita che continua a sfruttare il principio dell’opposizione utilizzando un braccio in trazione ed uno in spinta, o entrambi in spinta.
PRINCIPI BASE:
Se seguiti, questi due principi base garantiranno un risparmio sostanzioso di energia muscolare, e scoprirete di avere fatto metri e metri in camino ad esempio senza aver dissipato granché di energia, anzi a volte si risulta più stanchi psicologicamente che a livello muscolare.
STRUTTURE ROCCIOSE
Andiamo ora ad analizzare i tipi più comuni di strutture rocciose che ci possiamo trovare ad affrontare, un po’ per cultura personale rispetto alla nomenclatura di queste e un po’ per cercare di individuare dove le progressioni trattate precedentemente si possano ‘correttamente’ applicare, per quali tipi di conformazione. Si può infatti dire che si continua sempre durante l’arrampicata ad utilizzare le due tecniche di progressione precedenti, però in differenti situazioni. Andremo quindi ad evidenziare ‘i trucchi del mestiere’, ovvero alcune linee guida che si integrano a quelle precedenti quando applicate ai diversi tipi di conformazione rocciosa. Ancora una volta, ci tengo a sottolineare come questi trucchi possano essere acquisiti a tutti gli effetti solo con tanta pratica senza leggerne da nessuna parte, ma è pur vero che se siamo sempre impegnati forse la lettura aiuta a velocizzare questo processo di apprendimento che altrimenti durerebbe anni.
Inoltre, penso che tutti abbiano avuto qualcuno che gli ha suggerito di spingere con quella mano, mettere il piede lì, respirare, mettere dentro il bacino, uscire in spaccata e così via.. Che non si abbia paura di sembrare meno ‘liberi’ se si sfruttano tecniche non subito istintive, acquisite da “quel qualcuno che chiamerete per sempre maestro”, o lette da qualche parte. Anche i più grandi fricchettoni dell’arrampicata libera anni 80 con tutine multicolor che arrampicavano in free-solo (perché allora c’era la grande voglia di liberarsi da qualsiasi scuola alpinistica e qualsiasi tecnica artificiale per rimanere ‘puri’) comunque hanno avuto qualcuno che gli ha insegnato i principi fondamentali, certo è che poi li hanno sviluppati in qualcosa che difficilmente sarà ripetibile dalla maggioranza dei climber mondiali, vedi Patrick Edlinger. E’ infatti nell’uso e nella reinterpretazione di queste tecniche che sta l’artista, ed è li che si misura il talento, ed è li che si migliora il proprio livello.
La parete costituisce l’esempio più semplice della conformazione rocciosa ‘aperta’, vale a dire sviluppata essenzialmente secondo un unico piano, lungo il quale sale l’arrampicatore.
L’arrampicata in parete è quindi generalmente un’arrampicata diretta. Valgono i principi base della progressione diretta. Ricordiamo che nel caso la parete sia appoggiata risulta più corretto tenere il bacino staccato dalla parete per guadagnarne in visibilità e attrito sulle suole.
Nel caso di parete verticale o strapiombante si tende a portare il baricentro più possibile verso la parete, come spiegato nelle linee guida dell’arrampicata diretta.
Naturalmente l’arrampicatore deve di volta in volta adattarsi alla conformazione della roccia, sfruttando le asperità offerte da questa nel modo più razionale, andando quindi a sfruttare anche principi di opposizione sulla stessa parete, appoggiata o strapiombante che sia, come mostrato in figura, o sfruttando fessurazioni (con le tecniche ad-hoc sotto esposte) e lame.
Pareti verticali o con appigli minuscoli non consentono molte posizioni di riposo, tratti di arrampicata molto lunghi possono stancare soprattutto i muscoli delle braccia e provocare crampi. Come linea guida in questo caso è utile progredire tenendo la braccia più distese possibile, essendo questa in realtà la loro posizione di minor fatica. Addirittura se arriviamo ad una buona presa facile da tenere si può allentare la tensione di muscoli mettendosi in posizione di massimo riposo, ovvero con bacino alla parete, braccio di sostegno steso e l’altro viene ripetutamente scosso verso il basso. Ciò provoca l’apporto veloce di nuovo sangue ricco di ossigeno ai muscoli affaticati, facilitando l’allontanamento di quello vecchio. La stessa cosa va ripetuta con l’altro braccio.
Il posizionamento dei piedi deve essere il più preciso possibile, e contribuisce a mantenere il piano del corpo più possibile parallelo ad un piano idealmente verticale.
Pareti particolarmente lisce e prive di appoggi ed appigli vengono anche indicate col termine PLACCHE. Il loro superamento in arrampicata libera avviene, sempre che l’inclinazione lo consenta, grazie all’impiego di una raffinata tecnica di aderenza degli arti inferiori. L’ADERENZA è la tecnica di arrampicata che sfrutta l’attrito tra le parti del corpo interessate e la roccia. Maggiore è la superficie di contatto, e maggiore è il caricamento sulla superficie, maggiore sarà l’aderenza e la tenuta. Su tali placche gli arti superiori principalmente aggiustano l’equilibrio del corpo, oppure aiutano a sollevarlo aggrappandosi alle minuscole asperità offerte dalla roccia, oppure sempre in aderenza spingono verso il basso sui palmi delle mani. Negli arti inferiori avviene la parte più importante del movimento tecnico, di pura aderenza delle suole.
LINEE GUIDA:
ADERENZA DINAMICA
Se gli appigli sono lontani la soluzione migliore è correre! Mentre le mani restano sugli appigli presenti i piedi salgono a piccoli passi veloci fino all’altezza delle mani. Ruotando poi lateralmente la parte superiore del corpo una mano può liberarsi e cercare l’appiglio successivo. La mano che resta sull’appiglio può venir ruotata e servire di appoggio.
Il diedro è una conformazione rocciosa prodotta dall’incontro di due piani di roccia, che formano per l’appunto un angolo diedro concavo di varia ampiezza. Le sue pareti possono essere variamente articolate ed offrire un maggiore o minore numero di appigli ed appoggi. Solitamente la tecnica di arrampicata di diedro è quella di opposizione, per cui si sfruttano gli appigli e gli appoggi presenti sui due piani di roccia: questo permette infatti di scaricare maggiormente il peso del corpo sugli arti inferiori, eseguendo la cosiddetta ‘spaccata’.
Qualora fosse più opportuno, in relazione a cosa offre la roccia, l’arrampicatore può trovare utile salire una delle due pareti in arrampicata diretta per poi tornare all’opposizione in spaccata.
Usualmente si alternano quindi queste due tecniche di progressione.
Spesso in corrispondenza allo spigolo interno si trova una fessura che può essere usata sia dagli arti superiori che da quelli inferiori ad incastro. Comunque sia si preferisce sfruttare l’opposizione per gli arti inferiori stando più possibile in spaccata sulle due pareti per scaricare le braccia.
La fessura interna al diedro può anche essere sfruttata applicando la tecnica DULFER, tecnica molto comune e specifica per le fessure, dovunque esse siano. Per questo motivo approfondiremo questo capitolo a parte successivamente. Ricordate comunque che si può decidere di affrontare il diedro, se dotato di appropriata fessura interna, anche con questa tecnica molto dispendiosa in termini energetici ma anche molto efficace laddove le pareti del diedro siano veramente molto lisce!
Il camino è costituito dalla classica conformazione rocciosa ‘chiusa’. Esso è infatti formato da due piani di roccia paralleli, o quasi, tra loro, posti a distanza tale da permettere all’arrampicatore di muoversi nel suo interno. Ciò che contraddistingue maggiormente un camino da un altro è la sua apertura, cioè la distanza tra le sue pareti, perché da questa dipenda la tecnica da impiegare per salirvi. Le tecniche sempre di opposizione, sostenendo il corpo mediante spinte sovrapposte ma le modalità di applicazione di tali spinte variano appunto a seconda DELL’APERTURA DEL CAMINO!
In camini normali o larghi la tecnica di opposizione è attuata in spaccata frontale o sagittale (rivolgendosi cioè verso una delle due pareti) come mostrato nelle figure.
In camini stretti, qualora non sia possibile cioè applicare la spaccata, l’opposizione può risultare dalle spinte dalle spinte contrapposte della schiena, appoggiata su una parete, e dei piedi, appoggiati su quella opposta (opposizione schiena-piedi), mentre le mani aiutano l’equilibrio ed eventualmente anche l’innalzamento del corpo operando in appoggio o in trazione.
LINEE GUIDA PER I CAMINI:
La fessura è una fenditura della roccia ad andamento VERTICALE, OBLIQUO od ORIZZONTALE, di larghezza tale da consentire all’arrampicatore di sfruttarla in vario modo per salire o procedere in traversata, ma comunque senza permettergli di penetrarvi con tutto il corpo, come avviene invece nel caso del camino. Le fessure si possono trovare dovunque, in parete, su placca, in diedro e persino in camino. Per le fessure non si può parlare direttamente di arrampicata diretta o in opposizione, per tali conformazioni infatti esistono specifiche tecniche di progressione di grande interesse di cui bisognerebbe veramente conoscere i principi, poiché non del tutto naturali. Data la varietà di fessure queste tecniche sono inoltre di volta in volta reinterpretate. Daremo qui le indicazioni di maggiore interesse in relazione all’ampiezza delle fessure.
Fessure strette permettono di risolvere la progressione tramite un incastro doppio sia degli arti superiori che di quelli inferiori, con i vari tipi di incastro mostrati nei paragrafi precedenti. Questa tecnica è sfruttatissima nei graniti delle montagne rocciose americane, per esempio.
In base alla condizione delle pareti si può decidere di scaricare parte del piede su appoggi o in aderenza esternamente alla fessura, a sentimento.
Le mani incastrate dovrebbero venir tirate il più possibile verso il basso. Tanto meno tengono quanto più la trazione viene esercitata verso l’esterno.
All’inizio, parlando di come disponiamo le mani e i piedi abbiamo mostrato i principali tipi di incastro per le mani. Ora è il momento, per completezza, di analizzare come si incastra un piede in fessura in modo che sia ‘portante’. Per infilare un piede in fessura, distenderlo alla caviglia e girare la gamba verso l’esterno finché la suola sia più o meno parallela alla fessura. A questo punto lo si introduce nella fessura il più in alto possibile e lo si carica ruotando la gamba internamente.
Fessure più larghe non permettono una progressione unicamente ad incastro per tutti gli arti, ma possono essere utilizzate con successo per l’incastro mano-gomito/mano-spalla dell’arto superiore e per quello piede-ginocchio dell’arto inferiore omolaterale (stesso lato del corpo).
Fessure abbastanza larghe da fare entrare il corpo di lato sono una manna dal cielo, poiché sono ottimi punti di sosta breve per rigenerare i muscoli, sfruttando l’opposizione piedi-schiena. La progressione su queste fessure risulta un misto tra l’opposizione che permette una certa staticità dell’arrampicatore e le tecniche di incastro in fessura e di arrampicata diretta in parete che permettono, dopo aver liberato l’opposizione, di muoversi e progredire. Si passa quindi attraverso una successione statico-dinamico-statico che si ripete lungo la spaccatura. Tali fessure sono anche chiamate FESSURE-CAMINO.
TECNICA DULFER:
La tecnica Dulfer prevede l’opposizione totale e continua tra gli arti superiori in trazione e quelli inferiori in spinta sulla fessura, lama o scaglia. Questa tecnica è anche chiamata piazen o “alla
Piaz” dai tedeschi. Questo gioco dovrebbe creare uno scambio di forze perpendicolare alla verticale della parete che mantiene l’arrampicatore statico. E’ evidente l’enorme sforzo muscolare richiesto, poichè si vuole proprio andare a sfidare la gravità. E’ su fessure strapiombanti che sono state scattate alcune tra le più sorprendenti foto della storia dell’arrampicata sportiva. Fare una Dulfer risulta però spesso il miglior modo per superare più o meno velocemente tratti fessurati altrimenti da interpretare con incastri e aderenza di placca. Vi sono alcuni principi alle base di una corretta tecnica Dulfer:
Possiamo indicare quindi come posizioni statiche errate rispetto ai principi citati le seguenti posizioni 3.121/3.122/3.123
PROGRESSIONE CORRETTA:
di effettuarlo doppio possibilmente e mantenere il movimento senza incrocio per gli arti inferiori.
Si tratta si conformazioni di roccia orizzontali o fortemente strapiombanti, che possono interrompere o comunque inserirsi in ciascuna delle formazioni finora viste. Fondamentale è la spinta degli arti inferiori perché oltre a sopportare una parte del peso del corpo, questi aiutano a sollevarlo il più possibile, per raggiungere così appigli situati al di fuori dello strapiombo. Nel caso si incontri lo strapiombo lungo una conformazione che si sta salendo con la tecnica dell’opposizione (diedro-camino) il modo più razionale per superarlo è quello di ampliare il più possibile la spaccata, o comunque portarsi verso l’esterno, in modo tale da risentire il meno possibile dello sbilanciamento a cui obbligherà lo strapiombo, evitando di andare ad incastrarvisi sotto, posizione dalla quale è sempre difficilissimo uscire. Quando invece lo strapiombo è in parete, è impossibile evitare lo sbilanciamento del corpo. In questo caso, però, si devono alzare i piedi quanto più possibile ad andare a comprimersi e rannicchiarsi sotto lo strapiombo per poi andare a cercare gli appigli con gli arti superiori sopra lo strapiombo. Solo allora ci si può sollevare, estendendo gli arti inferiori ed eccezionalmente aiutandosi con l’aggancio di un piede ad un appiglio situato sopra lo strapiombo, situato anche all’altezza delle mani.
Riccardo Montipò - Trento, 27 marzo ‘14
Fonte: http://ausl.altervista.org/FILES/montipo/ARRAMPICARE.pdf
Sito web da visitare: http://ausl.altervista.org
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