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L’etica è la scienza che istruisce la conformità degli atti umani ai principi ontologici fondativi della persona umana per cui esprime il dover essere dell’essere uomo. Di qui l’appello all’etica rispetto al pugilato significa evidenziare la congruenza e la legittimità di uno sport di combattimento in riferimento ad una vita degna e buona, ad una vita vissuta secondo coscienza.
Nel gesto sportivo del pugilato va in scena il corpo dell’atleta. Attraverso un movimento leggero e costante, il corpo si distende nella sua plasticità, sviluppando energie, risorse e potenza, in un disegno armonico, di valore tecnico preordinato e strategico, che si misura rispetto al corpo dell’altro atleta, posto di fronte. La scena presenta due corpi che si muovono in un “progetto” di confronto.
In tal modo si sviluppa una dinamica avvincente dove il movimento, coordinato e mirato, avvolge con armonia tutta la persona dei due atleti. E’ la persona che genera e sostiene la complessa gestualità del corpo, reso duttile ed elastico da una meticolosa preparazione tecnica e da una “coscienza” atletica. Corpo, coscienza, tecnica definiscono l’atto del pugile ed evidenziano la “bellezza” del pugilato, il suo fascino più singolare.
Occorre subito osservare che non è solo un “corpo materiale” che si muove come un automa, come corpo separato, ma è la totalità della persona che “entra-in-gioco”. Essa si attua, in modo ritmico e bilanciato, attraverso l’elasticità mentale, il coordinamento simultaneo tra facoltà psichiche e fisiche, il controllo del sistema emozionale, la concentrazione spirituale e la capacità di memoria della sequenza di gesti concatenati e connessi.
Qui si rivela il corpo nella sua accezione di “strumento” versatile, flessibile, sicurizzante, efficiente, affidabile, fedele. Esso infatti si adegua al fine del gesto sportivo in cui è proteso; si presta in modo oggettivamente lucido ad esprimere la sua potenza; risponde ad un ruolo segnato dal “programma” agonistico predefinito.
Il gesto del pugile
Va da sè che il pugilato si configura nella logica del combattimento, come uno sport di attacco e di difesa. Storicamente, fin dai lontanissimi primordi dell’umanità, il pugilato si costituisce in forma di espediente di conquista; è finalizzato a sottomettere l’avversario, ritenuto in linea di principio pericoloso per sé; è proteso a rendere inoffensivo l’aggressore o quantomeno sospettoso di sconfitta, e dunque a convincerlo alla desistenza.
In tale ambito circoscritto il pugilato rientra nella naturale strumentazione atta ad una convivenza fondata sulla forza, sulla violenza, sulla strategia offensiva, sul principio “homo homini lupus”. Questo antefatto antropologico-culturale soggiace al giudizio diffuso che il pugilato sia in sé disonorevole, soggetto a riprovazione morale in quanto manifesta un palese intento aggressivo e distruttivo, lesivo dell’integrità della vita.
Nella trasformazione dell’antico pugilato in gesto sportivo, il pugilato odierno conserva in sé la memoria della sua origine. Tuttavia nel contempo il processo di razionalizzazione culturale gli procura nuovi significati, lo carica di simbologie del tutto inedite, lo organizza e lo struttura in modo da incrementare una reale sicurezza dell’atleta. Gli espedienti messi in atto difendono l’incolumità fisica del pugile stesso.
Non vi è dubbio che la finalità che definisce il pugilato, come avviene in altri sport, consiste nel “colpire” duramente l’avversario. Non è un colpire “a casaccio”, come in una sorta di massacro annunciato, ma anticipandone le intenzioni e utilizzando ogni possibilità consentita dai regolamenti della stessa disciplina, cerca di stendere al tappeto l’atleta avversario che raffigura l’obiettivo del confronto.
Occorre anche annotare che, ai fini del risultato, è possibile una soluzione mediana, la cosiddetta vittoria “a punti”, secondo una convenzione sostitutiva del KO, cioè secondo una misurazione predeterminata dei diversi gesti atletici della gara entrando nella “guardia” dell’avversario.
L’evidenza etica
Certo è che l’aspetto saliente e qualificante permane l’intenzione di “colpire” l’avversario in modo definitivo, pena l’essere colpito a sua volta dall’altro contendente. Il significato del “colpire” produce un’effettiva perdita etica, in quanto è la persona a subire un affronto, per altro del tutto gratuito e immotivato, privo come è dell’assunto della legittima difesa. In tal caso la persona è oggetto di “violenza agonistica”.
Di fronte all’evidenza oggettiva del gesto, vanno considerati diversi aspetti propri dello sport. Anzitutto appare ragionevole l’appello alla metafora sportiva. Si ricorre a quel particolare simbolismo in quanto meglio esplicita il significato pregnante oltre la materialità visiva e sensibile del gesto in sé considerato. Si vuol dire che nel pugilato viene messa in scena la “simulazione” di un combattimento in cui è assolutamente assente l’intenzione distruttiva, anche per effetto di automatismi tecnici collegati ai processi interni dello specifico gesto sportivo.
In considerazione del fatto che si riportano abrasioni o contusioni, fatto notorio e indubitabile, è da dire che ciò avviene in modo “innocente”, non in modo intenzionale o almeno così non dovrebbe accadere. Del resto anche in altri sport si realizzano contatti violenti e contrasti rovinosi, con effetti a volte devastanti, anche se, va detto, tale confronto non alleggerisce la gravità. Sotto il profilo etico permane un’aporia vera e propria.
Il riferimento etico, esplicitato dal dover essere della persona nella fattispecie del pugilato, va inteso nel senso complessivo del bene totale della persona, della sua dignità e della sua integrità. Se si considera il beneficio generale che perviene all’atleta, il pugilato può essere valutato nel suo essere portatore di un bene personale, in quanto promuove potenzialità individuali e relazionali che altrimenti non giungerebbero a compimento. Si tratta della dotazione fisico-motoria, dell’estro, della soluzione creativa, della resistenza, dell’equilibrio psico-dinamico, della capacità di applicare il principio della deterrenza.
Inoltre il superamento dell’aporia denunciata – a mio sommesso parere – va ricercato non nella negazione preconcetta del pugilato, ma nella evidenziazione della sua attenuante di rischio calcolato che, teoricamente, sussiste in ogni attività umana esposta all’imprevedibile.
In considerazione degli esiti positivi del pugilato, come ambito in cui si propizia il controllo degli istinti distruttivi e bellicosi, la rischiosità viene contenuta nel doveroso allineamento in un programma agonistico normato. Certamente non si tratta solo di rifiniture tecniche o di particolari attenzioni proprie del fair-play, ma del necessario rinvio ad una vera “cultura sportiva” che sappia concretamente ed efficacemente esprimere comportamenti e gesti entro le dinamiche del confronto e non dello scontro, entro le categorie del “gioco” e non dell’aggressività brutale.
Elementi elevanti
In sostanza va coltivato lo spirito dell’atleta, sedimentando e attivando nel suo spazio interiore i valori imprescindibili della persona. Qui è decisivo il trascendimento dello schema positivista che vede solo un “corpo materiale” che si scontra confliggendo con un altro “corpo materiale”. E’ vero invece che nel pugilato si “incontrano” corpi viventi, mossi da un medesimo spirito intuitivo e guidati da profonde intenzionalità di vita e non di morte.
Inoltre va superata la persistenza della visione dualistica della persona che scinde il corpo dallo spirito e impedisce di valutare correttamente il gesto sportivo proprio del pugilato. Perciò il dover essere del pugilato richiede di essere attentamente valutato nel riferimento al quadro dei valori pratici inerenti alla persona umana e al necessario riferimento unitario che è la coscienza.
Non va sottaciuto l’aspetto di purificazione di sé che nel pugilato emerge, ed è il senso proprio dell’ascesi come sfida di se stessi e come sforzo di perfezione. Così si stabilisce uno stretto nesso tra bellezza del corpo e bellezza dello spirito, tra edificazione di un atletismo ideale e la perfezione delle virtù interiori.
Perciò il pugilato, lungi dall’abbruttire la persona, promuove la sua unità e la sua armonia a patto che venga coltivato adeguatamente lo spirito, indulge a raffinare l’astuzia, a smaterializzare la primitiva pesantezza del corpo.
In questo contesto valoriale si evidenzia la complessiva realtà del fenomeno pugilistico che favorisce anche un guadagno sotto il profilo educativo e spirituale per la persona del pugile. Forse i “puri” potrebbero ritrovarsi indignati, ma occorre andare oltre le apparenze e verificare, con una visione più aperta e dinamica, il “bene” di cui è resa disponibile la persona umana in una attività sportiva che a prima vista può suscitare legittime perplessità.
Conclusione
In sintesi, il rapporto “etica e pugilato” richiama almeno quattro principi morali insostituibili perché sia un atto umano accettabile: il principio di responsabilità, il principio di integrità della persona, il principio del sano agonismo, il principio del rispetto assoluto dell’altro, il principio del superamento di sé.
Questi “principi” valgono come guida per valutare positivamente un’attività sportiva qual’è il pugilato in modo che sia degno, bello e giusto coronamento della persona.
Mons. Carlo Mazza
Pastorale del tempo libero, turismo e sport
Fonte: https://www.chiesacattolica.it/cci_new/documenti_cei/2005-03/17-38/Etica%20e%20pugilato.doc
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