Olimpiadi storia e discipline

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Olimpiadi storia e discipline

STRUTTURA GENERALE
1) Introduzione (con un confronto con le Olimpiadi moderne e con l'indicazione delle fonti archeologiche e letterarie)
2) Giochi e feste nel mondo  greco(miti, motivazioni, caratteristiche, luoghi delle principali feste sportive e non)
3) Il programma olimpico (l'annuncio, il trasferimento ad Olimpia, le cerimonie, l'ordine di svolgimento delle varie gare, le premiazioni)
4) Le raffigurazioni artistiche degli atleti e la celebrazione dei vincitori e dei valori da essi rappresentati
5) Bibliografia

 

1)   INTRODUZIONE

Per oltre un millennio (dal 776 a.C. al 261 d.C. ininterrottamente) il mondo greco festeggiò ogni quattro anni gli atleti convenuti a Olimpia per le gare in onore di Zeus da tutti i paesi di cultura ellenica Mille cinquecento anni dopo, nel 1896, il barone francese Pierre de Coubertin realizzò l'idea delle Olimpiadi moderne, ispirate agli antichi giochi. Tuttavia, molte differenze separano le due Olimpiadi: le pratiche sportive dei greci poco hanno in comune con quelle odierne, anche quando portano gli stessi nomi.

ANTICHI E MODERNI
1) Anzitutto, diverso è il significato, che era religioso e non di puro divertimento;.
2) inoltre, il protagonista della gara greca era sempre un singolo individuo, mai una squadra;
3)  poi, le gare olimpiche venivano svolte ogni quarta estate sempre sullo stesso luogo (Olimpia), anche in periodi di conflitto bellico (invece le Olimpiadi moderne hanno conosciuto tre interruzioni, legate tutte ai due conflitti mondiali, nel 1916, nel 1940 e nel 1944;
4) partecipavano solo gli uomini; nelle gare erano certamente apprezzate l'abilità e la forza (coltivate con un lungo allenamento) ma al tempo stesso era ammirata l'armoniosa bellezza corporea degli atleti (che gareggiavano completamente nudi tranne che nelle gare sui carri e nelle corse di fanti; è chiaro, quindi, che sul significato primario dei giochi s'innestavano anche criteri e motivazioni di ordine estetico; la civiltà greca come civiltà della percezione visiva);
5) nello svolgimento delle varie gare non veniva registrato "il record", non tanto per problemi di misurazione, quanto perché l'importante era la vittoria in quanto tale e quindi, per il medesimo motivo, non c'erano un secondo o terzo posto, una medaglia d'argento o di bronzo: non essere il primo significava perdere e basta. Risulta, quindi, molto lontano dalla realtà dell'agonismo greco il motto coniato da De Coubertin per le Olimpiadi moderne secondo il quale "l'importante è partecipare": agli orecchi dei greci questa affermazione sarebbe risultata assurda! Il termine “dilettantismo” è il più inadatto a definire lo sport antico.
6) anche alcuni aspetti del folklore olimpico, ormai entrati nell'immaginario collettivo, sono trasposizioni moderne di situazioni non documentate in antico: ad esempio, nella pratica dei Greci antichi non c'era nulla che giustificasse la torcia olimpica, oggi portata in giro per mezzo mondo come simbolo dell'internazionalismo olimpico, visto che nell'antichità le corse con le torce erano staffette puramente locali, "da altare ad altare"; inoltre la gara regina delle olimpiadi moderne, la maratona, non costituì mai nell’antichità una competizione atletica bensì una dura necessità!;
7) infine, l'antico programma olimpico diventò circoscritto e stabile solamente dopo un periodo iniziale di lenta crescita, mentre ai suoi margini si sviluppò ogni sorta di attività, che però non furono mai incorporate nel programma ufficiale.
8) Aspetti lessicali ed etimologici Palestra, stadio, ippodromo, olimpionico, ginnastica, agonismo, pentathlon, atleta: termini greci introdotti di sana pianta nell’italiano. Tra queste manca la parola moderna fondamentale, ovvero “sport”: non è un paradosso: il francese déport trasformato dai ricopritori inglesi in sport, significa infatti “diporto”, “divertimento”. E per i Greci lo sport fu tutto, fuorché un semplice divertimento. Fu, al contrario, un’attività di prestigio, accompagnò i riti religiosi e funebri, costituì gran parte dell’educazione dei ragazzi, rappresentò una forma di contesa tra le più nobili e illustri. Fu, infine, quasi un modo per esorcizzare la morte. E la vittoria rappresentò la sola parcella d’immortalità alla quale gli uomini potessero ambire. Per questi motivi, fu un tema prediletto dall’arte figurativa, dalla poesia ma anche dalla riflessione scientifica e filosofica. Non era praticato solo dagli atleti, ma da tutti i cittadini liberi e dai loro stessi capi militari e politici. Per provocare Ulisse, restio a gareggiare con i suoi ospiti, i Feaci, uno di questi lo apostrofò con un’ingiuria che, in quel contesto, era la peggiore di tutte: “Tu non hai l’aspetto di un atleta”. Per rispondere all’affronto il re di Itaca, pur reduca da un naufragio, non potè far altro che spogliarsi e affrontare vittoriosamente la sfida sul campo. No, non era solo sport!

 

3) GIOCHI E FESTE NEL MONDO GRECO

IL MITO

  1. Gli eroi ovvero i Prw'toi EuJrhtaiv

Come in moltissimi altri campi della cultura greca, anche per l’agonistica i Greci vollero gli eroi come “inventori” delle varie discipline, anche se, a volte, le stesse motivazioni sono le più strane e lasciano perplessi. Perseo, ad esempio è ritenuto l’inventore del lancio del disco per aver fatalmente ucciso con l’attrezzo, in occasione di una gara, il nonno Acrisio; Bellerofonte è inventore della corsa  a cavallo per essere stato il possessore del cavallo alato Pegaso. Aitolo invece è inventore di uno speciale giavellotto; l’invenzione della lotta, uno dei generi più popolari, è contesa tra gli eroi più famosi come Eracle, Teseo, Peleo, Polinice di Tebe, Anteo, Autolico, avo materno di Ulisse. Molti sono gli Argonauti come si può rilevare dai nomi ricordati, ritenuti inventori di generi dell’agonistica, e molti sono anche tra i più bravi atleti del mito: Castore e Polluce, entrambi Argonauti, sono ritenuti tra l’altro anche inventori il primo della corsa e il secondo del pugilato. Jolao, nipote di Eracle, è inventore della corsa col carro, mentre Giasone, il condottiero degli Argonauti, è inventore del pentathlon perché a Lemno “per piacere a Peleo unì le cinque gare”

  1. L’origine mitica dei giochi

L’origine dei Giochi olimpici, riferita spesso a cerimonie funebri, trova anch’essa la sua collocazione nella sfera mitica, alla quale è sempre collegata. Secondo una versione del mito, ad Olimpia avrebbe avuto luogo la contesa tra Urano e Zeus per il possesso dell’universo e qui avrebbero gareggiato tutti gli dei, dando origine ai Giochi dei quali Apollo risultò vincitore; successivamente Eracle, sfidando nella corsa i suoi cinque fratelli, avrebbe regolamentato i Giochi stabilendo che avrebbero avuto luogo ogni cinque anni (di qui il nome di penthterikoiv dato ai Giochi olimpici), e assegnando in premio al vincitore una corona intrecciata con i rami di ulivo che l’eroe aveva preso nel paese degli Iperborei.
Un’altra e più complessa versione del mito, riportata da Pausania e accolta da Pindaro nella I Ode olimpica, trova consacrazione nella splendida raffigurazione del frontone orientale del tempio di Zeus ad Olimpia: qui, eternato nel marmo, avviene alla presenza del dio il solenne giuramento di Pelope e di Enomao in procinto di partire per la corsa dei carri. Secondo il mito, l’eroe peloponnesiaco Pelope figlio di Tantalo, aspirando alla mano di Ippodamia figlia di Enomao re dell’elide, accetta le condizioni imposte dal re per le nozze della figlia, le quali stabilivano che il pretendente dovesse gareggiare nella corsa dei carri con lo stesso Enomao. Questi, partendo per secondo dopo aver compiuto un sacrificio in onore di Zeus, aveva il diritto, secondo quanto fissato nei patti, di uccidere, se lo avesse raggiunto, il contendente. Molti eroi erano morti in questo modo: ma Pelope, grazie all’aiuo divino, vince Enomao, sposa Ippodamia e, divenuto re dell?elide, istituisce i Giochi a celebrazione e ricordo della vittoria.

  1. L’origine storica dei giochi e l’ ejkeceiriva

L’istituzione storica dei giochi, invece, viene riferita ad Ifito, re dell’Elide, che ripristina i Giochi olimpici n ottemperanza al responso dell’oracolo di Delfi, in seguito ad una pestilenza. Avendo stretto un accordo con Licurgo, il mitico fondatore dello Stato  spartano, Ifito definisce la regolamentazione dei Giochi e stabilisce la “tregua sacra” ( jekeceiriva), che permetteva a tutti i Greci di ragiungere la sede delle gare ed era il fondamento della panellenicità dei Giochi. In senso etimologico  jekeceiriva significa “situazione in cui ci si astiene dall’usare le mani (ceivr)”: in realtà non si trattò di una tregua d’armi assoluta (e ci sono numerosi casi di violazione che lo testimoniano), ma l’elemento fondamentale era e rimase l’inviolabilità permanente e universalmente riconosciuta del tempio di Zeus e la neutralità dello stati di Elide;  jekeceiriva , dunque, non aveva come conseguenza la sospensione della guerra, ma serviva ad assicurare lo svolgimento delle gare nonostante la guerra.

Bisogna subito ricordare che i Giochi di Olimpia non erano gli unici disputati nell’Ellade, anche se rimasero sempre i più prestigiosi; essi infatti, erano inseriti in un “circuito” (perivodo") di gare che comprendeva anche i giochi Pitici a Delfi presso il santuario di Apollo Pizio, quelli Istmici a Istmia presso Corinto e quelli Nemei a Nemea nell’Argolide. I giochi Olimpici e Pitici erano a scadenza quadriennale, mentre i Nemei e gli Istmici erano biennali; il “Circuito” era strutturato in modo tale che in un anno si teneva almeno una manifestazione, secondo il seguente schema:

I° ANNO

II° ANNO

II°ANNO

IV°ANNO

 

OLIMPICI

NEMEI

PITICI

NEMEI

 

ISTMICI

 

ISTMICI

 

In tutti i Giochi le premiazioni erano costituite da corone vegetali; in particolare, a Delfi di alloro, a Corinto di pino, a Nemea di sedano selvatico e a Olimpia di olivo sacro che cresceva dentro il recinto del santuario.

I Giochi Pitici avevano una funzione politica e diplomatica molto più importante di quelli di Olimpia. In onore del dio, che aveva avuto l’attributo di Pizio in ricordo della sua vittoria contro il serpente Python, si celebravano fin dall’antichità agoni musicali nei quali, accompagnandosi col suono della cetra, i cantori narravano la vittoriosa lotta del dio contro il serpente. Con l’istituzione dei Giochi pitici nel 582 a.C., accanto alle gare musicali, che ebbero comunque a Delfi un ruolo sempre predominante, si introdussero anche le gare ginniche e il concorso ippico. I Giochi ebbero cadenza quadriennale e le gare venivano disputate nel terzo anno di ogni olimpiade, nel mese di agosto; le gare ippiche, a causa della configurazione orografica di Delfi in una zona particolarmente montuosa, venivano disputate nella pianura di Crisa, fuori del santuario. La partecipazione ai Giochi Pitici anche di personaggi di spicco del mondo politico è attestata dalla presenza di ex-voto come quello che Gelone dedicò nel santuario di Delfi, per la vittoria ippica riportata nel 486 quando era tiranno di Gela. Il monumento, formato da una quadriga bronzea di cui è stata ritrovata la splendida statua dell’Auriga che si conserva nel Museo di Delfi, fu ridedicato dal fratello Polyzalos vincitore a Delfi nel 475 a.C.

I Giochi Istmici, istituiti nel 581 a.C. in onore di Poseidone presso l’Istmo di Corinto, comprendevan gare ginniche e ippiche e, solo nel periodo ellenistico, furono aggiunti gli agoni musicali. La particolare posizine geografica della sede delle gare presso la città di Corinto, aperta ad una ricca attività commerciale e naturale punto d’incontro tra Grecia e Asia, contribuì a dare ai Giochi istmici un carattere socialmente più aperto, particolarmente festoso e a volte anche caotico; ben lontano, comunque, e dalla severa disciplina olimpica e dall’atmosfera di profonda sacralità di cui erano permeati i Giochi pitici. Essi dovettero comunque essere tenuti presso i Greci in grande considerazione se nel VI secolo Slone, che aveva stabilito i compensi che Atene assegnava ai vincitori panellenici, previde laute ricompense solo per i vincitori olimpici e istmici: 500 dracme per i primi, 100 per i secondi. Considerando che, come è stato calclato, una dracma in età soloniana corrispondeva al prezzo di una pecora, ci si rende conto che si trattava comunque di somme ingenti.

I Giochi Nemei, istituiti in ricordo, come canta il poeta Bacchilide, della vittoria di Eracle sul leone nemeo, venivano celebrati ogni due anni in onore di Zeus e comprendevano competizioni ginniche e ippiche, mentre gli agoni musicali vennero aggiunti solo in età ellenistica. Proprio per celebrare una vittoria nei Giochi nemei, Pindaro, nella X Nemea, ci ha lasciato l’espressione più sublime della sua poesia, ricordando il pianto e la preghiera di Polluce sul corpo del gemello Castore.

Le Panatenee e i Giochi Panatenaici

I Giochi Panatenaici erano un insieme di competizioni sportive che nell'antica Grecia si tenevano ogni quattro anni ad Atene
I giochi facevano parte di una più ampia serie di feste di carattere religioso, le Panatenee, che si celebravano invece con cadenza annuale. Ogni quattro anni, in coincidenza con l'organizzazione dei giochi, le feste prendevano il nome di "Grandi Panatenee" e duravano dai 5 ai 6 giorni in più delle feste normali. Per i cittadini ateniesi i Giochi Panatenaici erano la competizione più prestigiosa, anche se in realtà non erano importanti come i Giochi Olimpici o i Giochi Panellenici.
Le Grandi Panatenee furono organizzate per la prima volta da Pisistrato nel 566 a.C. sul modello dei Giochi Olimpici. Pisistrato aggiunse anche delle competizioni musicali e poetiche, presenti nel programma dei Giochi pitici ma non in quelli Olimpici. Le competizioni erano divise in due categorie: quelle riservate ai soli Ateniesi e quelle aperte a qualsiasi Greco che desiderasse parteciparvi. Le gare aperte a tutti erano essenzialmente le stesse dei Giochi Olimpici e comprendevano pugilato, lotta, pancrazio, pentathlon e la corsa dei carri. Tra tutte la più prestigiosa era la corsa con i carri, a differenza delle Olimpiadi in cui la più importante era lo Stadion, ovvero una corsa a piedi. Il vincitore della corsa dei carri riceveva in premio 140 anfore panatenaiche piene di olio d'oliva
Le gare a cui potevano partecipare solo gli Ateniesi erano diverse. Tra queste c'erano:
Una corsa da disputarsi reggendo una fiaccola che andava dal Pireo all'Acropoli
Dei combattimenti simulati di opliti e cavalieri
Il lancio del giavellotto da cavallo
Le "Apobatie", delle gare tra carri nelle quali il guidatore doveva saltare giù dal carro, corrergli a fianco e balzare nuovamente a bordo
Le "Pirriche", che probabilmente consistevano in esercitazioni militari effettuate con un accompagnamento musicale
L'"Evandria", che era essenzialmente una gara di bellezza tra gli atleti.
In un periodo successivo fu introdotta anche una gara di voga. Le gare si svolgevano allo Stadio Panathinaiko, che è ancora in uso anche ai giorni nostri.
Le Panatenee comprendevano anche concorsi poetici e musicali. Furono istituiti dei premi per la migliore declamazione dei poemi omerici da parte dei rapsodi, per i migliori suonatori di aulos e di kithara (una specie di lira), e per il canto che si accompagnava a questi strumenti.
La processione che si concludeva al Partenone era, tuttavia, ben più importante dei giochi. Durante le Grandi Panatenee (ma non per i normali festeggiamenti che si svolgevano ogni anno), le donne di Atene tessevano uno speciale "peplo" per la statua di Atena, che veniva portato al Partenone durante la processione. Si celebrava anche un sacrificio di massa in onore della dea chiamato Ecatombe (il sacrificio di cento buoi), e la carne degli animali uccisi veniva consumata nel corso di un fastoso banchetto che si teneva alla fine delle feste, la Pannychis.
Le Panatenee erano tra le poche feste di Atene a cui potevano partecipare anche le donne.

 

Ma, tornando a Giochi olimpici...: perché proprio a Olimpia e non in qualche altra città? Cos’era effettivamente Olimpia? In quale regione è situata?
Si è già fatto cenno alle motivazioni “mitiche” dell’origine dei Giochi a Olimpia, spiegazioni che però, logicamente, sono frutto di elaborazioni posteriori alla realtà storica.
Facendo quindi riferimento ai dati storici e alle testimonianze, si nota che i resti archeologici più antichi risalgono alla metà del II millennio a.C.; solo attorno al 1000 a.C. questa località divenne un santuario di Zeus; poiché la sede principale della divinità era il Monte Olimpo, situato al confine tra Tessaglia e Macedonia, il centro cultuale venne denominato “Olimpia”. Non si sa bene perché divenne il centro più importante dell’Ellade per il culto a Zeus; quel che è certo è che, comunque, in tutta la sua storia Olimpia restò un recinto sacro e nient’altro; non si sviluppò mai in una vera e propria comunità, per non dire una povli", ma fu controllata dapprima dai vicini abitanti di Pisa e poi dalla città di Elide sul fiume Peneo, circa 40 chilometri a N-O, la quale venne creata come città-stato solo nel 472 a.C. da una aggregazione volontaria di più villaggi e diede anche il nome a tutta quanta la regione a N-O del Peloponneso, l’Elide appunto, che restò sempre nel corso dei secoli una zona a carattere agricolo, sottosviluppata e con scarsa urbanizzazione.
Come poté, allora, conquistare Olimpia, un luogo così appartato di una regione periferica, il ruolo straordinario che ebbe? Forse una parte della risposta, se non la risposta completa (che non sapremo mai) sta proprio nella irrilevanza di Elide-città. Infatti, i Giochi erano organizati dappertutto da autorità locali, non da comitati internazionali come oggi, e quanto più debole era quell’autorità, tanto minore era il rischio che il prestigio di una grande festa ne accrescesse il potere plitico. Atleti di ogni parte della Grecia potevano tranquillamente gareggiare per la propria gloria e per la gloria delle proprie città senza incrementare il prestigio di una potente comunità ospitante. Nel complesso gli Elei cercavano di evitare la partecipazione armata e quando venivano sconfitti, erano protetti dalla loro qualità di “popolo sacro”, responsabile degli “onori dovuti agli dei”.

3)  IL PROGRAMMA OLIMPICO

Nella primavera dell'anno olimpico tre "araldi sacri" partivano da Olimpia per visitare ogni angolo dell'Ellade, proclamando i Giochi imminenti. La data era fissata secondo un complicato calendario religioso, in modo che il terzo giorno dei Giochi coincidesse sempre con il secondo o il terzo plenilunio dopo il solstizio d'estate.
I concorrenti erano tenuti ad arrivare ad Elide con almeno un mese di anticipo e ad allenarsi sotto il controllo dei giudici; tutte le altre persone,a decine di migliaia tra semplici spettatori, venditori ambulanti, oratori, poeti, danzatori, cantanti, giocatori d'azzardo e così via, arrivavano a loro piacimento così come anche oggi nelle fiere è dato di incontrare una folla variopinta di persone le più diverse e stravaganti.
Ma chi è l’atleta che partecipa ai Giochi olimpici, qual è il suo rango sociale, la casata cui appartiene?  Secondo la rigida normativa vigente ad Olimpia deve essere un personaggio libero, nato da genitori entrambi greci e incensurato. D’altronde, in un regime di tipo aristocratico, non può trattarsi di un personaggio di umili origini: egli, infatti, oltre a rappresentare sè stesso, rappresenta la sua città e il potere di coloro che la governao, perciò deve provenire da famiglia “illustre” e cioè nobile, ricca e soprattutto detentrice del potere. D’altronde, il lungo e stressante allenamento cui i giovani atleti devono sottoporsi impedisce di esercitare qualsiasi altra attività e richiede, anzi, una privilegiata posizione economica. C’è da ricordare, inoltre, che anche il viaggio e il soggiorno ad Olimpia sono completamente a carico degli atleti.

Il primo giorno
L'inaugurazione dei Giochi è costituita, sin dalle origini, dai riti in onore di Zeus e dal giuramento degli atleti sull'altare di Zeus Orkios. I partecipanti alle gare, i loro padri e i loro fratelli giurano solennemente davanti ad un cinghiale, sacrificato appunto a Zeus Orkios, di aver eseguito secondo le norme gli allenamenti per dieci mesi consecutivi e che non ordiranno frodi contro le regole previste dalle gare olimpiche (Sono, comunque, tramandati numerosi casi di gare truccate, che venivano punite con costose multe, il cui ricavato serviva per innalzare idoli a Zeus, contrassegnati da iscrizioni inneggianti alla rettitudine e alla moralità degli atleti; cfr. le basi delle sedici statue poste all'entrata dello stadio e  fatte erigere col ricavato delle multe pagate dagli atleti).
Parimenti i giudici proclamavano sotto giuramento la loro incorruttibilità, l’equità del loro verdetto e la segretezza del voto. Quindi, rivolti agli atleti, dicevano: “Se vi siete esercitati in maniera da  far onore alle gesta olimpiche, se non vi siete resi colpevoli di atti ignobili, andate con coraggio, altrimenti andate dove più vi piace”.

Il mattino del secondo giorno
E’ importante fare una breve osservazione introduttiva: infatti, sulla esatta e reale successione dei concorsi bisogna innanzitutto ricordare che nessuna fonte antica ci fornisce indicazioni certe e indiscutibili: quella qui presentata sulla scorta, in particolare, degli studi di M.I.Finley e di H.W.Pleket e sulla base delle testimonianze, si riferisce ai cinque giorni dei Giochi classici, dopo che erano stati riorganizzati nel 472 a.C.; nei secoli che seguirono vi furono mutamenti, che non sono però delineabili con precisione.

La corsa dei carri costituiva la gara di apertura. I carri a due ruote, tirati da quattro cavalli affiancati entravano nell'ippodromo in processione, capeggiata dai giudici con le vesti colore porpora, da un araldo e un trombettiere. Una volta passati davanti al palco dei giudici,l'araldo gridava i nomi del proprietario, di suo padre e della sua città; poi proclamava ufficialmente aperti i Giochi. A noi può sembrare un programma sbagliato, dato che la corsa dei carri si adatterebbe ottimamente più al momento culminante dei Giochi. Probabilmente si voleva aprire con la competizione che offriva la maggiore possibilità di sfoggiare splendore e sontuosità, alla quale nessuna successiva parata di concorrenti o gara era paragonabile sotto questo aspetto.
L’ippodromo non era una costruzione, ma un grande spazio aperto rettangolare, più o meno piatto, immediatamente a sud-est dello stadio (vedi figura ...) . Il lato nord era delimitato da una bassa collina su cui stavano gli spettatori, il lato sud da un terrapieno, anch’esso per gli spettatori. C’erano sedili solamente per i giudici e per alcuni personaggi famosi. Il percorso era segnato dalla linea di partenza e da due mete alle estremità, senza alcuna barriera tra le due corsie né pista curva. La linea di partenza era larga più di 250 metri, la distanza tra le mete era probailmente di poco inferiore a 400 metri.
Le posizioni sulla linea di partenza erano assegnate per estrazione e il problema che si poneva , quindi, era quello di compensare quelli che stavano alle estremità che dovevano coprire una distanza maggiore per raggiungere per la prima volta la méta più lontana. Pausania, autore del II sec., narra che venne allora costruito un congegno meccanico con una lunga barriera mobile fatta come la prua di una nave con un box separato per ogni carro; un apparecchio sollevava in successione le barriere, cominciando da quelle più esterne e procedendo verso il centro. A beneficio degli spettatori il trombettiere segnalava l’inizio e la fine delle manovre con le barriere, un delfino di bronzo appoggiato su una pertica al centro della “prua” cadeva, mentre un’aquila di bronzo “volava” da un altare. “Da quel momento - continua Pausania - è tutta questione di abilità dei guidatori e di velocità dei cavalli”.
Per dodici giri, più di nove chilometri, i cavalli lanciati tiravano i carri leggeri in brevi scatti veloci, intervallati dalle svolte a 180° attorno alle mete. Benché le regole vietassero di deviare davanti ad un concorrente, gli urti, le collisioni e gli scontri frontali erano più la regola che l'eccezione, mentre i carri percorrevano, in un numero che, forse, superava anche le venti unità, su e giù la stretta pista non divisa.
Questa gara era di esclusivo appannaggio di persone molto ricche e potenti in quanto presupponeva il possesso di scuderie, di cavalli di razza da mantenere e da sottoporre a lunghi periodi di addestramento. Del resto, sono proprio queste le vittorie più ambite, sia perché consentono di ostentare ricchezza e potere, sia perché conferiscono al concorrente un attributo di magnificenza e prodigalità nell’esecuzione di una gara di grande e spettacolare partecipazione.
Nella descrizione più bella nel suo genere, la più precisa nelle osservazioni, in tutta la letteratura greca antica, il racconto omerico dei giochi funebri per Patroclo, il vecchio Nestore dà al figlio Antiloco i seguenti consigli sul modo di rimediare alla notoria lentezza dei suoi cavalli:
L'eccitazione degli spettatori doveva scatenarsi fino al parossismo quando lo squillo della tromba annunciava l'ultimo mezzo giro. I giudici offrivano al proprietario vincitore la corona d'olivo; i fantini invece, la cui abilità e coraggio erano, come abbiamo visto, decisivi, restavano curiosamente nell'ombra, senza ottenere nulla di paragonabile alla delirante popolarità dei conducenti romani e bizantini.

La seconda competizione in programma era la gara dei cavalli e si svolgeva subito dopo quella dei carri, sullo stesso percorso. Non c’è da stupirsi se i signori preferissero non parteciapre di persona: il percorso, infatti, era stato sconvolto dalla gara precedente e montare un cavallo senza sella né staffe era veramente pericoloso (il medico Galeno del II sec. d.C. ricorda come in queste occasioni si verificassero spesso rotture nella zona dei reni e lesioni al torace e come talvolta i cavalieri siano stati sbalzati di sella e uccisi all’istante).
Anche questa corsa richiedeva una linea di partenza a ventaglio e il percorso si sviluppava probabilmente su un solo giro completo, cioè circa 800 metri.
Pausania ci racconta un’antica storia che illustra la situazione, per lo meno rispetto al povero fantino e al suo ruolo irrilevante: “La cavalla di Fidolao di Corinto si chiamava Brezza, secondo i documenti corinzi, e proprio alla partenza fece cadere il cavaliere, tuttavia corse alla perfezione, girò alla meta e quando sentì la tromba affrettò il passo e arrivò per prima dai giudici; capì di aver vinto e si fermò. Gli Elei proclamarono vincitore Fidolao”.

Il pomeriggio del secondo giorno
Era questo il momento delle gare di pentathlon (disco, salto in lungo da fermo, giavellotto, corsa dei 200 metri e lotta) che si disputavano nello stadio, ad eccezione forse della lotta, praticata a quanto pare negli spazi aperti attorno all’altare di Zeus. Le prime tre gare erano esclusive del pentathlon, mentre le altre due si svolgevano anche come competizioni indipendenti il quarto giorno.
Per ovvie ragioni, il numero dei concorrenti del pentathlon era limitato e non era raro che alcuni si ritirassero durante le prove. La vittoria non era calcolata in punti come oggi: se uno era primo in tre gare, ciò metteva fine automaticamente al confronto; altrimenti, per l’incontro finale, la lotta, il campo si riduceva a quei concorrenti che avevano ancora la possibilità di vincere in base al loro piazzamento nelle prime quattro prove: in questo caso i concorrenti meglio piazzati si affrontavano a due a due nella lotta. Il campione del pentathlon, vero trionfatore, era oggetto di onoranze particolari.

1)Lancio del disco
Normalmente l’attrezzo era di bronzo, aveva la stessa forma dei dischi moderni ed era lanciato allo stesso modo, anche se forse era un po’ più pesante. Ogni concorrente disponeva di cinque lanci, dei quali contava il migliore, segnato con un picchetto (vedi figura ...).
2) Lancio del giavellotto
L’attrezzo, più leggero e più lungo dell’asta degli opliti, veniva scagliato con l’aiuto di una cordicella, lunga 30-45 cm. avvolta strettamente attorno all’asta presso il baricentro, lasciando un cappio di circa 10 cm. che veniva afferrato con un dito: questo dispositivo serviva evidentemente a moltiplicare, grazie all’effetto - leva, la forza applicata al giavellotto.
3)Salto in lungo
Il quadro di questa gara si presenta non molto chiaro: i saltatori impugnavano dei pesi di pietra o di metallo di circa 2 chili (aJlth're"). Essi erano fatti oscillare in avanti fino all’altezza delle spalle e poi, nell’oscillazione di ritorno, il saltatore si piegava bene in avanti e balzava quando i pesi erano scesi al livello delle ginocchia. Questo per aumentare la lunghezza del salto e assicurare una buona caduta (effetti che si ottengono solo col salto da fermo e non con il salto in corsa come quello moderno). Probabilmente, così come nel lancio del disco, erano a disposizione cinque prove distinte.
E così terminava la seconda giornata, la prima delle gare vere e proprie.

 

Il terzo giorno
Questo giorno coincideva col plenilunio e quindi la mattina era dedicata ai vari riti religiosi, pubblici e privati, culminanti in una grande processione dalla Casa dei magistrati fino all’altare di Zeus, dove veniva celebrata un’ecatombe.
Il pomeriggio era riservato alle tre gare dei giovani,”): la corsa dei 200 metri, la lotta e il pugilato. Erano considerati “iuniores”, come diremmo noi,  coloro che avevano compiuti 12 anni e non avevano ancora raggiunto i 18. Questa classificazione basata sull’età scatenò numerosissimi pasticci, imbrogli e false dichiarazioni di nascita: ciononostante, Olimpia si mantenne fedele a queste gare di “iuniores” e, anzi, i vincitori venivano celebrati e acclamati alla pari dei “seniores” (basti pensare che un quarto delle odi di Pindaro a noi rimaste furono composte in onore di vincitori appartenenti a questa categoria)

La mattina del quarto giorno

La mattina dell’ultimo giorno di gara era interamente occupata dalle tre corse (200 metri, 400 metri e gara di fondo di 4800) tenute tutte nello stadio, un’area piatta alle pendici del colle di Crono, con un terrapieno sul lato opposto, assai simile all’ippodromo.La linea di partenza era segnata da una serie di pedane di marmo separate, una per ogni corridore, che appoggiava un piede contro la pedana, teneva l’altro avanzato di alcuni centimetri e si piegava in avanti per la partenza. Le false partenze erano punite e nel V sec. a. C. , per impedirle, fu introdotta una barriera costituita da asticelle comandate da un arbitro tramite un sistema di corde. L’arbitro era seduto in una buca che costituiva il vertice di un triangolo isoscele (che aveva come base la stessa linea di partenza). Al segnale della partenza l’arbitro allentava le corde facendo cadere la barriera di asticelle e gli atleti scattavano per la corsa.
La gara di velocità era una volata giù per lo stadio, la corsa di 400 metri, di lunghezza doppia, copriva un intero giro, quella di 4800 metri dodici giri. Non è chiaro dove fosse posto l’arrivo, dato che il palco dei giudici si trovava non alla fine ma a circa un terzo del percorso verso l’arrivo. Dovevano inoltre essere programmate delle fasi eliminatorie dei concorrenti, visto che sulla linea di partenza c’era posto per soli 20 partecipanti. Ad ogni modo, l’interesse e l’eccitazione dovevano essere connessi a qualcosa di diverso rispetto alla corse moderne entro corsie chiaramente segnate, su distanze precisamente uguali e su un percorso adatto. In tali condizioni, ovviamente, i tempi record dovevano essere piuttosto insignificanti.

Il pomeriggio del quarto giorno

Era questo il momento dei rudi e popolarissimi sport corpo a corpo: la lotta, il pugilato e il pancrazio. I concorrenti venivano abbinati tirando a sorte da un’urna d’argento i loro nomi e i vincitori di ogni coppia si scontravano fino alla vittoria finale. L’estrazione offriva naturalmente alle divinità protettrici la possibilità di accordare favori: l’elemento di fede e di magia che avvolgeva la dea Fortuna spiega la pratica talvolta osservata, peraltro curiosa, di riprodurre su monete e monumenti l’urna da cui si era estratto a sorte. I tre sport erano tutti brutali, per non dire violenti, in diversa misura; c’erano poche regole, non c’erano limiti di tempo né un ring; non c’erano neppure categorie di peso, come oggi, sicché il confronto al massimo livello si restringeva a uomini grossi, muscolosi e rudi
La lotta (pavlh): lo scopo era di conseguire tre atterramenti, cioè nel far toccare il terreno con le ginocchia all’avversario. Probabilmente era proibito mordere o tirare agli occhi, ma non c’erano molte altre mosse vietate. Un lottatore del V sec. a.C., Leontisco di Messina, cercava di spezzare le dita dell’avversario il più presto possibile e venne ricordato perché era stato tra i primi lottatori a sviluppare nuove prese oltre a quelle convenzionali. Tuttavai la lotta non era considerata uno sport brutale; poche fonti ne danno un’immagine particolarmente sanguinosa e dolorosa, e tanto meno risulta che fosse causa di morte.
Il pugilato (pugmhv): al contrario, particolarmente duro era il pugilato. Le mani e gli avambracci dei pugili erano legati strettamente con cinghie di cuoio duro rinforzato da piastrine di piombo, mentre le dita venivano lasciate libere. Era permesso colpire sia di pugno che con la mano aperta; i colpi proibiti erano veramente pochi e i due concorrenti combattevano senza interruzione finché uno non era messo fuori combattimento o alzava la mano destra in segno di resa.
In questa disciplina la linea di demarcazione tra correttezza e scorrettezza era più vicina al “tutto è ammesso” di quanto noi accettiamo oggi. I pugili, e del resto tutti gli atleti, non conoscevano l’uso di stringersi la mano prima o dopo un incontro. Lo spirito dei versi di Pindaro, “volevi il loro male ... la sventura li ha azzannati”, era incompatibile con un gesto simile.
Il pancrazio (pagkravtion): era sicuramente lo sport preferito tra tutti e deriva il suo nome dall’aggettivo pagkrathv" “onnipotente”, epiteto tipico di Zeus. Questa disciplina può essere considerata come una combinazione di lotta, e judo con l’aggiunta di un po’ di pugilato: i contendenti si scambiavano pugni, calci, schiaffi, lottavano, si mordevano e anche tiravano agli occhi, sia pure contro il regolamento, finché uno si arrendeva battendo la mano sulla schiena o sulla spalla del vincitore. Eppure gli antichi consideravano il pancrazio meno pericoloso del pugilato, tanto che era praticato largamente non solo da atleti più o meno professionisti, ma anche da ragazzi nei ginnasi locali.

Prima della conclusione dei giochi, restava una sola gara. la corsa dei 400 metri con l’armatura. Uno scrittore tardo dice che essa si teneva per ultima allo scopo di segnare la fine della tregua olimpica, ma questa sembra una spiegazione erudita, escogitata a posteriori senza alcun fondamento. La spiegazione più semplice e più plausibile è che si desiderava riflettere nei giochi il fatto che la fanteria aveva soppiantato la cavalleria come principale arma militare dei greci. In origine, probabilmente, gli atleti correvano con l’armatura completa, ma ben presto della panoplia restarono solo l’elmo, lo scudo e per un certo tempo gli schinieri (cfr. figura...). E’ difficile sottrarsi all’impressione che questa gara offrisse una coda leggermente comica a un pubblico esausto dopo una lunga giornata di corse, pugilato, lotta e pancrazio; d’altronde essa restò nel programma dall’anno in cui fu introdotta (520 a.C.)fino alla fine.
Due altre gare fecero una breve apparizione ai Giochi: il pentathlon dei giovani(disputato una sola volta nel 628 a.C. e poi abbandonato er motivi sconosciuti) e la corsa dei carri trainati da coppie di muli (introdotta nel 500 e lasciata cadere dopo i Giochi del 444 a.C.).
In conclusione la lenta evoluzione del programma olimpico può essere valutata dalla tabella seguente che indica la data (sempre a.C.) in cui ogni gara fu disputata per la prima volta e la città o la regione di provenienza del vincitore.

TIPO DI GARA

ANNO DI INTRODUZIONE

ORIGINE DEL VINCITORE

200 METRI

776

ELIDE

400 METRI

724

ELIDE

4800 METRI

720

SPARTA

PENTATHLON

708

SPARTA

LOTTA

708

SPARTA

PUGILATO

688

SMIRNE

CORSA DEI CARRI

680

TEBE

CORSA DEI CAVALLI

648

CRANNON (Tessaglia)

PANCRAZIO

648

SIRACUSA

200 METRI GIOVANI

632

ELIDE

LOTTA GIOVANI

632

SPARTA

PUGILATO GIOVANI

616

SIBARI

CORSA CON L’ARMATURA

520

EREA (Arcadia)

Appare subito ovvio che si può parlare solo in retrospettiva del 776 a.C. come data d’inizio dei giochi olimpici (al plurale): per una sola gara, la corsa dei 200 metri, disputata prima ancora che esistesse uno stadio, è difficile parlare di “Giochi”. Tuttavia, la tradizione antica insiste tanto sulla data del 776 che non possiamo metterla da parte; forse fu quello il primo concorso sacro nella storia greca, distinto dai giochi funebri e dai passatempi.

Il quinto giorno

Il quinto giorno si celebrava il trionfo dei vincitori: alle prime luci dell’alba questi si avviavano verso il tempio di Zeus portando un ramo di palma; intorno al capo  avevano una benda rossa, un colore ritenuto simbolo divino e di potere. Lungo il percorso la folla lanciava foglie e fiori. Giunti al tempio i vincitori si fermavano dinanzi ad un tavolo sul quale erano deposte le corone, premio della vittoria, intrecciate con i rami dell’ulivo sacro. All’incoronazione dei vincitori seguivano banchetti e cortei trionfanti. Gli atleti ricevevano ricompense più concrete in patria: i loro nomi venivano incisi nei templi, la loro maestria celebrata dai poeti, la loro immagine immortalata nelle statue. La città li ricompensava con olio, bestiame, denaro e alcuni venivano mantenuti a vita dalla città stessa.

4) Le raffigurazioni artistiche degli atleti e la celebrazione dei vincitori e dei valori da essi rappresentati

Una vittoria ai Giochi olimpici non può esaurirsi nel fuggevole attimo della conquista del primato o dell’incoronazione con il serto di ulivo: essa va ricordata ed eternata nei secoli. Poeti e scultori sono, allora, gli artefici di questo onore, di questa gloria destinata a sopravvivere a vittorie e vincitori. Ed è proprio ad Olimpia il palcoscenico in cui si rappresentano le più belle e leggendarie composizioni artistiche.
Se le odi e gli epinici (canti di vittoria) sono recitati al momento della vittoria per essere poi eternati per iscritto, le statue dei vincitori rimangono per sempre nell’Altis, il recinto sacro di Olimpia., davanti al tempio di Zeus. Dalle più antiche rappresentazioni in legno di Prassidamo, campione di pugilato nel 544 a.C. e di Rexibios, che vince nel pancrazio nel 536 a.C., si passa alle statue in bronzo descritte dal geografo Pausania che sottolinea, pur nella diversità di epoche storiche, l’identità del tema sviluppato: la figura umana e l’espressione dell’ideale atletico, tema figurativo che ha avuto una straordinaria importanza nella scultura greca, tanto da costituirne il filo conduttore.
Ma cosa è giunto fino a noi di queste sculture sportive? Molto poco, ma è possibile giudicare il valore e lo spirito di queste competizioni attraverso repliche e copie di età romana, relative ad un tema figurativo sempre caro e vivo nella società antica.
Dalla rigida impostazione dei kouroi arcaici, che vibrano di un’intensa vitalità interna, si passa ad una ricerca fondata sulla resa della figura in movimento, espressa dalla rivoluzionaria impostazione del Discobolo di Mirone. L’atleta è colto nel momento del lancio, con ardito e staordinario equilibrio; il suo corpo e la sua musclatura sono tesi e concentrati nello sforzo per vibrare il colpo decisivo.
La scuola peoloponnesiaca, soprattutto con Policleto, detta nuove regole sull’impostazione della figura umana stante in un secolodi ricerca formale. Norme di simmetria, precise proporzioni per le diverse parti del corpo, nuovi ritmi nella ponderazione sono imposti dal canone policleteo, mirabilmente espressi dal Diadumenos -l’atleta che si allaccia la benda della vittoria- o dal Kyniscos, il giovane che si incorona, forse il pugile di Mantinea vincitore nel 460 a.C. nei Giochi olimpici.
Ma cosa c’è di individuale in queste raffigurazioni? E’ possibile riconoscere nella statua i tratti, i lineamenti dell’atleta vincitore? E’ questo un tema assai dibattuto dalla critica moderna, che nasce dalla testimoninza tramandataci da Plinio, vigile e attento collezionista di fatti nella sua Naturalis Historia.Come egli sostiene, al limpia vengono dedicate, a coloro che hanno riportato la vittoria per tre volte, statue che esprimno una somiglianza con le “membra” del vincitore. Se con questa affermazione vogliamo intendere che le statue degli atleti avessero un intento ritrattistico, andremo incontro ad un grave errore. Infatti, è impossibile pensare ad un fenomeno aristico di questo tipo almeno per quanto riguarda il periodo classico. Fino al V secolo a.C., rigidi criteri estetici e morali impongono una ideale perfezione: viene eliminato, perciò, tutto ciò che è soggettivo e personale, che potrebbe turbare l’armonico equilibrio dell’intera composizione. E’ possibile, invece, che l’unico riferimento individuale si limitasse all’espressione dell’età più o meno giovanile dell’atleta.
Solo a partire dal IV secolo a.C. si evidenzia una spiccata sensibilità nei confronti di una visione individualistica; Lisippo e la sua scuola sono i grandi innovatori nella ricerca intesa a riprodurre la figura nello spazio con effetto tridimensionale, ma ancora più originale è il loro intervento per lo spiccato interesse verso l’individuo e verso la sua personalità. L’Apoxyomenos, l’atleta che si deterge con lo strigile, capolavoro della piena maturità di Lisippo, rappresenta l’apice delle ricerche formali sulla figura atletica ed apre con il suo espressivo individualismo una nuova strada ai nuovi interessi dell’età ellenistica. In quest’epoca la figura dell’atleta no è più idealizzata: non è importante che essa corrisponda ai più rigidi requisiti della bellezza, ma che esprima le caratteristiche del personaggio, i “segni” della sua attività. Sono improntate ad un sempre maggiore espressionismo opere come la testa in bronzo riferibile forse al pugile Satyros di Elide, modellata da Silanion nel 330 a.C. e si vanno via via definendo elementi peculiari della ritrattistica vera e propria. L’interesse dell’artista si concentra sulla resa del volto dell’atleta; gli occhi sono sempre più grandi e dallo sguardo profondo e intenso, l’espressione diventa spesso patetica quasi a sottolineare il duro sforzo richiesto per conquistare la vittoria.
Con toni più o meno accentuati si ribadisce questa nuova tendenza artistica, che sfocia in raffigurazioni di un verismo esaperato e compiaciuto mirabilmente esemplificate dalla statua in bronzo del pugile in riposo del Museo Nazionale Romano. L’atleta no è fiero e aitante come nell’età classica, ma stanco e depresso mentre cerca riposo durante una gara o un allenamento. Le prorzioni del suo corpo non sono perfette né corrispondono ad un’ideale perfezione ma si addicono piuttosto in una visione naturalistica a chi svolge una pesante attività fisica. Egli è il rappresentante di una nuova professione, quella sportiva, e ne porta sul corpo e sul viso i segni e le cicatrici.

 

ILIADE, XXIII, vv.304-348

...  e il padre accostandosi
consigliava con animo amico il figlio, già saggio per sè;
"Antiloco, han preso ad amarti, per quanto giovane,
Zeus e Poseidone, e tutte t'appresero l'arti
dei cavalieri; d'insegnarti non c'era gran bisogno.
Tu sai girare bene intorno alla mèta. Ma i tuoi cavalli
son tardi a correre; e penso che sarà un guaio.
Son più veloci i cavalli degli altri. Essi però
non sanno poi pensare molte più astuzie di te.
Tu dunque, mio caro, tutta mettiti in cuore
l'arte, ché i premi non ti debban sfuggire.
Per l'arte più che per forza il boscaiolo eccelle,
con l'arte il pilota sul livido mare
regge la rapida nave, squassata dai venti, per l'arte l'auriga può superare l'auriga.
Chi può fidarsi nei cavalli e nel carro,
ma gira da stolto, a casaccio,
sbandano i suoi cavalli pel campo, ché non li guida:
ma chi, pur guidando cavalli peggiori, sa molte astuzie,
gira stretto guardando sempre la mèta e non dimentica
prima di tutto di reggere con le briglie di cuoio
i cavalli, fermo li guida, l'occhio su chi lo precede.
Il segno io ti dirò, molto chiaro, non può sfuggirti:
un tronco secco s'innalza quanto è un braccio da terra,
sia di quercia o pino, e non marcisce alla pioggia:
due sassi bianchi di qua e di là vi s'appoggiano,
al crocevia; intorno è liscia la pista:
forse tomba d'un uomo morto in antico
fu, o termine fra le genti d'un tempo.
Ora ne ha fatto la mèta Achille glorioso piede rapido.
Spingi accosto il carro e i cavalli fino a sfiorarlo,
e nella cassa ben intrecciata piegati, intanto,
un po' a sinistra di quelli; il cavallo di destra
pungola e sgrida, allentando le redini,
e il cavallo sinistro ti sfiori la mèta,
tanto che sembri quasi raggiungerla il mozzo
della ruota ben fatta; ma non toccare la pietra,
che tu non ferisca i cavalli e non fracassi il carro:
gioia per gli altri, ma biasimo a te ne verrebbe!
Dunque, mio caro, sii prudente e guardingo.
Se stretto alla mèta puoi girare correndo,
nessuno v'è che possa pigliarti d'un balzo o passarti,
nemmeno se ti incitasse dietro il glorioso Arione,
il veloce cavallo d'Adrasto, ch'era stirpe di numi,
o quelli di Laomedonte, che qui sono i migliori".

 

Fonte: http://carioca40.altervista.org/olimpiadi/OLIMPIA_testo_unit__didattica.DOC

Sito web da visitare: http://carioca40.altervista.org/olimpiadi/

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