Cartesio

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Cartesio

 Il modello meccanicista e la filosofia di Cartesio

1. Utilitarismo scientifico e ispirazione religiosa
Prima la tragica condanna di Bruno, poi i due processi a Galilei, avevano tolto a molti intellettuali, e non solo in Italia, quello spazio ideale di cui la vita intellettuale e culturale non può fare a meno. L'esperienza galileiana sembrò entrare in rapido esaurimento, anche se alcuni suoi allievi, tra i quali il Torricelli, che facevano capo all'Accademia del Cimento, con le loro ricerche svilupparono in sordina quella linea scientifico-sperimentale del maestro che già aveva dato cospicui risultati. Si trattava tuttavia di minute ricerche sperimentali che non riuscirono mai ad arrivare a grandi sintesi conoscitive o a rilevanti risultati metodologici. C'era la ricerca sperimentale ma non la filosofia scientifica.    Le vere possibilità favorevoli allo sviluppo della nuova scienza non erano più in un'Italia ridotta al ruolo di provincia periferica, ma viveva no nell'Europa occidentale, in Francia, in Inghilterra e nei Paesi Bassi, dove lo slancio riformistico religioso aveva favorito la maturazione dello spirito critico, e dove lo sviluppo delle istituzioni politiche e civili e dei nuovi ceti borghesi, facilitava lo sviluppo e la circolazione delle idee. Nei sopracitati paesi europei, salvo rare eccezioni, la maggior parte degli uomini di scienza proviene dai nuovi ceti intermedi di professionisti, dalla nuova borghesia fortemente interessata alle novità scientifico-culturali, alle nuove idee, alle tecniche e a quegli aspetti della scienza, capaci, secondo l'ideale baconiano, di aumentare il potere dell'uomo sulla natura. Tra questi strati sociali, nel '600 sta giocando un ruolo rilevante il protestantesimo. In effetti il protestantesimo, durante il '600, specialmente in Olanda e in Inghilterra, dove non conobbe mai le punte estremiste tipiche della cultura teologica luterana e calvinista tedesca, contribuì a creare la figura dell'intellettuale scientifico.
2. I concetti di «meccanicismo» e di «legge di natura»
Galilei aveva compreso che se l'uomo vuole intendere il mondo naturale, deve crearsi un metodo scientifico adeguato, e per fare questo deve decondizionarsi dall'episteme della fisica aristotelica che di ogni fenomeno cercava il «perché» assoluto nelle «essenze» e nelle «intelligenze» che muovono la natura stessa. Lo scienziato, quindi, secondo Galilei, deve restringere il campo di osservazione nei limiti di ciò che è calcolabile quantitativamente, senza riguardo alcuno per l'aspetto qualitativo dei fenomeni. Era stato così concepito il nuovo metodo sperimentale, basato, come si è detto, su una extrapolazione matematica, condotta sistematicamente su tutti i fenomeni calcolabili, che subito aveva dimostrato la sua eccezionale fecondità; la nuova metodologia, però, in qualche modo depauperava la ricchezza qualitativa del mondo naturale, perché l'extrapolazione matematica risolve la natura stessa in una sorta di schema e in una serie di rapporti in cui la ricchezza vivente del reale sembra andare perduta.    Gli aristotelici contemporanei di Galilei, e lo stesso Bacone che non aveva afferrato il valore razionale di questo metodo potevano rimproverare a Galilei di falsare in una prospettiva astratta il mondo naturale che, nella nuova angolatura matematico-quantitativa, perde le sue qualità, colori, suoni, sapori, odori, che in definitiva costituiscono sempre quel mondo che l'uomo conosce sensi bilmente e in cui si riconosce. L'obbiezione non era indifferente, anche se essa di solito scaturiva da un pigro tradizionalismo. Inoltre questo atteggiamento di ripulsa si presentava come la difesa del buon senso comune nascente dall'esperienza sensibile quotidiana, portata a valutare fenomeni e i fatti in genere proprio secondo la loro qualificazione. Infine, il metodo galileiano sembrava ridurre notevolmente il campo di osservazione dato che, almeno in un primo momento, ben pochi erano i fenomeni riducibili a valutazioni quantitative e matematiche. Tutto ciò che costituisce il tessuto dell'esperienza e della cultura umana, tutti i molteplici accadimenti degni di attenzione scientifica, apparivano come irriducibili ad una prospettiva del genere; la storia, la letteratura, le arti che rispecchiano sentimenti e elaborazioni della esperienza umana,la stessa politica, la psicologia tradizionale e persino le scienze riguardanti la vita animale e vegetale, cioè la moderna biologia, apparivano come del tutto irriducibili alla «quantificazione» proposta da Galilei, cui sembravano adattarsi solo i fatti meccanici della statica e della dinamica.    Di fatto, lo sviluppo delle scienze, dal '600 ai nostri giorni, è consistito proprio nell'estensione del metodo galileiano al maggior numero possibile di campi di osservazione e col passare del tempo e i perfezionamenti tecnico-matematici, le scienze naturali, la chimica, la biologia hanno potuto veramente assurgere al rango di scienze proprio grazie a metodo di Galilei, il quale aveva messo alla prova la sua intuizione centrale proprio nel campo della meccanica dei moti. Perché le resistenze mentali venissero superate del tutto e il nuovo metodo potesse venire accettato senza riserve,era necessario un passo ulteriore, cioé l'acquisizione di una diversa mentalità filosofica e critica capace di «sentire» la totalità della realtà naturale come facilmente, naturalmente, riducibile allo schema del metodo galileiano. Galilei si era limitato ad affermare dogmaticamente, secondo una certa tradizione che gli veniva da Platone, che la natura è stata costruita secondo proporzioni matematiche da Dio stesso e pertanto che essa, ipso facto, è conoscibile nella prospettiva quantitativa; ma Galilei, che si muoveva all'interno di una pratica scientifica determinata, non aveva avuto bisogno di teorie filosofiche generali che lo persuadessero di questo ordine matematico della natura. Ma dal punto di vista sociale della cultura e della mentalità scientifica, affinché il metodo quantitativo potesse affermarsi liberamente, era necessario che intervenisse una giustificazione filosofica adeguata, capace di accreditare una concezione meccanica e meccanicistica dell'intero universo, di suscitare suggestioni filosofico-metafisiche tali, da rimuovere ogni remora di fronte al metodo della «quantità».    La concezione meccanicistica in senso ampiamente filosofico si affermerà verso la metà del secolo ad opera del francese René Descartes in netto contrasto col naturalismo rinascimentale che intendeva il cosmo (si pensi a Bruno) come una realtà vivente, un «infinito animale» ricco di energia spirituale, e in contrapposizione alla cosmologia aristotelica finalistica e qualitativa. La nuova concezione, sia per un'analogia con le macchine, sia per le possibilità interpretative offerte dalla matematica, e anche per la diffusione del pensiero di Democrito e di Archimede, si baserà sulla convinzione che il cosmo è costituito di materia particeIlare sottoposta a un moto eterno regolato da leggi costanti. Questa prospettiva, che Galilei non aveva giustificato filosoficamente, permetterà di intendere la realtà e i singoli fenomeni secondo modelli matematici ideali sempre più perfetti e flessibili, grazie ai progressi della matematica stessa, capaci di dar ragione del fenomeno in senso quantitativo. La realtà naturale perde così quel carattere di essere vivente cara ai filosofi rinascimentali e soprattutto quella sorta di intenzionalità finalistica di cui parlava l'aristotelismo; da questo punto di vista scompare ogni distinzione tra fenomeni privilegiati e degni di attenzione scientifica, e fenomeni di secondo ordine, vili e trascurabili. Esiste un atteggiamento scientifico generale.    La prospettiva meccanicistica apriva il problema del rapporto Dio e il mondo; Dio sarà inteso, secondo una metafora diffusa tra i filosofi del '600 come Dio «meccanico» e «orologiaio», che crea un universo materiale e lo mette in movimento secondo «princìpi» o «leggi» rigorosamente determinate.

11.3. La sintesi di Cartesio

La convinzione di poter stringere la natura in una struttura teorico-matematica generale costituisce il convincimento di fondo del filosofo-matematico francese René Descartes* (1596-1650).
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René Descartes, o latinamente Cartesius, nacque nel 1596 a La Haye da famiglia di piccola nobiltà e studiò nel collegio dei gesuiti di La Flèche dove ricevette una robusta educazione classica. Nel 1618, dedicatosi alla carriera militare, ebbe modo e tempo di approfondire i suoi studi e di elaborare una linea di ricerca geometrico-matematica che doveva diventare il criterio fondamentale di tutta la sua attività di studioso. Conclusa rapidamente la carriera militare, rimase a Parigi fino al 1628, tutto concentrato nei suoi studi, anche avvantaggiato dal fatto di godere di una modesta indipendenza economica. A Parigi strinse amicizia con padre Mersenne che manteneva i contatti tra gli studiosi del tempo e nel 1629 si trasferì in Olanda dove riteneva, secondo il suo temperamento quieto e appartato, di poter studiare con maggiore libertà e tranquillità. Nel 1649 accettò l'invito della regina di Svezia, Cristina, a recarsi a Stoccolma affinché l'ormai celebre filosofo le insegnasse la sua filosofia; ammalatosi di polmonite, morì in Svezia nel febbraio del 1650. Le opere, in gran parte pubblicate postume sono: le Rugulae ad directionem ingenii elaborate tra il 1628 e il 1629, Il mondo o Trattato della luce, scritto tra il 1629 e il 1633 che Cartesio non volle pubblicare perché messo in allarme dalla condanna subila da Galilei nel 1632, e anche perché convinto che al momento non ci fosse nulla da fare contro il conservatorismo oscurantistico della Chiesa di Roma; pertanto egli si limitò a far circolare i suoi scritti tra gli amici. Nel 1637 pubblicava il Discorso sul metodo che faceva.da introduzione a tre scritti scientifici, la Diottrica, le Meteore e la Geometria. Nel 1641 pubblicava in latino le Meditationes de prima philosophia e tre anni dopo i Principia philosophiae; l'ultima opera, Le passioni dell'anima, è del 1649.
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Cartesio, sin da giovane, si dedica alla matematica e alla geometria, convinto di trovare per questa via la chiave fondamentale e rigorosa con cui ricostruire e spiegare tutto il reale. La più importante intuizione di Cartesio, almeno nella fase giovanile della sua attività scientifica, è stata quella di aver compreso l'importanza dell'algebra, la quale era stata usata fino ad al lora còme un gioco astratto di simboli, una semplice tecnica formale che, sostituendo i numeri con lettere dell'alfabeto, poteva costruire espressioni indicanti precise relazioni logiche, senza preoccuparsi dei contenuti numerici quantitativi. Cartesio comprese anche l'importanza del modello logico- deduttivo, anche se il problema era quello di mantenere la macchina deduttiva togliendola dal suo luogo classico: il sillogismo. Il risultato largamente positivo di questo atteggiamento consiste nell'applicazione dell'algebra alla geometria classica, che porta Cartesio alla creazione della geometria analitica, di una scienza, cioè, che può ricostruire il mondo geometrico, mediante espressioni algebriche che permettono dedúzioni rigorose. Nasce in tal modo una geometria del tutto nuova; mentre infatti la geometria classica considerava le varie figure come realtà rigide, platonicamente date una volta per tutte, la geometria analitica di Cartesio può ricostruire geneticamente una retta, una curva, medlante l'uso di due rette ortogonali-base, i famosi assi cartesiani, che permettono di individuare la retta o la curva che ci interessa, per mezzo di una serie di relazioni algebriche capaci di dare la collocazione rigorosa di ogni punto della retta o curva in questione, rispetto ai due assi prefissati.    Alla concezione scientifica tradizionale che intendeva comprendere il mondo fisico dal punto di vista della qualità, Cartesio, come già Galilei, contrappone un nuovo criterio che non mira all'oggetto come assieme di qualità, ma alla relazione ricostruibile tra elementi semplici, basilari, prefissati liberamente dal pensiero, elementi semplici che, nel caso della geometria analitica, sono i punti geometrici intesi come elementi base dell'estensione spaziale. Il metodo cartesiano muove da un'esigenza razionalistica nel senso che è il pensiero stesso, per una sua esigenza pre-sperimentale, a fissare i dati di partenza, in questo caso il concetto di estensione spaziale di punto, da cui, con criterio alternativamente analitico e deduttivo(*), si possono ricavare implicazioni ricche di significati conoscitivi e scientifici. Mentre il deduttivismo classico era infecondo perché le conclusioni erano chiaramente già implicite nella premessa maggiore e minore del sillogismo, il nuovo razionalismo deduttivo si di mostra capace di portare a vere nuove scoperte, sia in geometria che in fisica dove Cartesio applicherà, sia pure con risultati più modesti, la sua originale intuizione metodologica.
*. Per Cartesio il momento analitico, che isola l'elemento ultimo e lo mette in relazione con gli altri elementi di base, in geometria i punti geometrici, costituisce la base indispensabile della ricerca; stabilite poi algebricamente le relazioni, deduttivamente si possono ricavare intuitivamente altre verità rigorose. E chiaro che a questo punto il discorso aristotelico sulle «qualità» non ha più senso, perché analisi e deduzione si basano esclusivamente sulla «quantità».

   Cartesio illustrò la sua impostazione metodologica nel 1628 con le Regulae ad directionem ingenii e~qualche anno più tardi, trasferitosi in Olanda per lavorare con maggiore tranquillità, nel Mondo, unoscritto sui fenomeni naturali in cui egli cerca di impostare il problema della fisica sulla base dei princìpi metodici applicati in geometria. Sono questi gli anni in cui Galilei ha scritto il Saggiatore e i Dialoghi esaltanti il metodo sperimentale, senza preoccuparsi di costruire una teoria generale che giustificasse teoricamente il metodo stesso, Cartesio, invece, avverte soprattutto questa esigenza, e in un certo modo egli costruisce una sorta di metafisica a giustificazione teorica del metodo sperimentale di Galilei. La scienza non ammette soluzioni plurali, essa nasce dal pensiero, inteso come fatto unitario capace di coordinare tra loro, con uno stesso procedimento, tutti quanti i piani scientifici.

4. Il mondo dell'estensione: la fisica

Cartesio ritiene che il metodo geometrico-analitico possa essere usato utilmente anche per lo studio del mondo fisico poiché, in questo caso, si tratterebbe di muovere dall'intuizione delle «nature semplici», cioè delle unità di base, cui è riconducibile il mondo fisico, che sono le idee innate di grandezza, movimento, estensione. Se l'idea di movimento, ad esempio, viene utilizzata come idea di «trasferimento» di un corpo da un luogo ad un altro, e non, come volevano gli scolastici, come passaggio qualitativo dalla potenza all'atto, allora, e solo allora, si potrà usare una descrizione matematica del fenomeno stesso; se poi si realizza l'idea che ogni fenomeno è in definitiva soltanto movimento, si dovrà drasticamente concludere che tutta quanta la realtà fisica può essere descritta algebricamente come un immenso meccanismo.    Sono le stesse conclusioni cui, per via sperimentale, in quel periodo è giunto anche Galilei, in base alle quali tutta la realtà fisica può essere descritta in formule quantitative che esprimono semplici relazioni; tuttavia mentre Galilei ha avuto il merito pratico e teorico assieme di aver messo in connessione la sperimentazione con la risoluzione matematica, Cartesio svaluta il momento sperimentale e ad esso non dedica una particolare attenzione. Egli muove da una intuizione razionalistico-aprioristica delle idee innate di estensione e movimento, e ritiene che da questi princìpi innati si possa dedurre e descrivere rigorosamente tutta quanta la realtà fisica; di conseguenza la sperimentazione di laboratorio, da cui si deve induttivamente risalire a princìpi generali, ai suoi occhi perde di importanza, quasi come una inutile curiosità che al massimo può offrire una superficiale conferma. L'esperimento, per Cartesio, può solo confermare o illustrare i risultati di una deduzione rigorosamente geometrico-matematica, e il fatto fa pensare che in lui ancora prevalga, a differenza di Galilei, il senso di una tradizione culturale dotta, di tipo classico, da sempre poco propensa a valorizzare il mondo della esperienza.    Quando Cartesio nelle sue opere di fisica come Il Mondo, la Diottrica e le Meteore  siaccinse alla descrizione della realtà fisica, coerentemente con il suo assunto metodologico, volle dedurre tutta la realtà naturale da alcune idee fondamentali aprioristicamente accolte, quali l'inesistenza del vuoto e la costanza della quantità di moto.    L'idea dell'inesistenza del vuoto deriva, secondo Cartesio, dal fatto che l'estensione non può coincidere che con il corpo, perché essa è solo attributo e non potrebbe esistere per se stessa; di conseguenza lo spazio non è mai vuoto, perché in esso vi è l'etere nel quale i corpi si muovono, e quindi pensare il vuoto sarebbe come pensare che in mezzo ad un oceano possa esistere una zona senza la presenza dell'acqua.    L'idea della costanza della quantità di moto deriva dalla convinzione cartesiana che tutto sia movimento, per cui quando un corpo in moto è costretto a variare la propria traiettoria o a rallentare la sua velocità, questo accade perché cede ad un altro corpo il moto che esso ha perduto.    La realtà fisica per Cartesio è quindi estensione, continuità corporea in movimento di particelle che si sospingono e urtano fra loro, dando luogo a una serie di vortici suiquali si baserebbe la struttura del sistema planetario, che in ultima istanza è costituito da un grande vortice che ha nel sole il suo centro.    Questa visione materialistico-meccanicistica, nonostante i suoi limiti, contribuì in modo determinante all'idea di unità della scienza durante il '600, e fu allora che si cominciò a pensare che tutti quanti i fenomeni, non solo quelli meccanici, ma anche quelli biologici e fisiologici, potessero essere ricostruiti e spiegati mediante la teoria generale del movimento, la quale permette il superamento di una conoscenza puramente sensibile, oscura e qualitativa, a favore di una prospettiva chiara e matematicamente ordinata delle strutture basilari del mondo corporeo, intese adesso come relazioni e funzioni geometrico-matematiche. La stessa vita vegetale e animale può essere ricostruita in base al comune denominatore del movimento. Per Cartesio gli animali, infatti, sono semplici automi che non hanno una benché minima capacità di co scienza e i loro organismi funzionano indipendentemente da un minimo di consapevolezza, così come l'uomo vive le sue funzioni fisiologiche indipendentemente dalla coscienza e dalla volontà.

5. Il metodo analitico e l'esigenza metafisica

Il mondo fisico é quindi per Cartesio estensione e movimento, e il cosmo costituisce un immane meccanismo che il pensiero può cogliere e descrivere secondo precisi schemi geometrico-matematici; questo fatto non deve però far pensare ad una collocazione materialistica e meccanicistica di Cartesio e non deve nemmeno dare una immagine sbagliata e unilaterale del lavoro teorico di Cartesio. Nel modello matematico egli trova la struttura esplicativa della fisica: ma esistono domande fondamentali della tradizione filosofica che investono la sua opera: domande sul fondamento della conoscenza, sulla origine delle idee, sull'esistenza di Dio. Le opere che trattano questi temi sono il Discorso sul metodo del 1637, le Meditationes de prima philosophia del 1641 e i Principia philosophiae  del 1644.    In questi scritti Cartesio allarga il suo campo di osservazione, e pur continuando ad usare il suo metodo rigoroso basato sulla chiarezza del procedimento, mira a dare ragione della legittimità del pensiero e dell'esistenza di Dio che egli vuole chiamare in causa come assoluto garante del pensiero umano e della regolarità dei fenomeni naturali.
Nel Discorso sul metodo, Cartesio, dopo avere avanzato alcune riserve di fondo sulla cultura ufficiale del suo tempo e sull'educazione scolastica che gli era stata impartita nel collegio gesuitico di La Flèche, illustra quelle che, a suo avviso, sono le regole cui bisogna attenersi per ricostruire un sapere autentico, dopo che ci si sia liberati della cultura tradizionale. Cartesio indica quattro norme fondamentali: la prima afferma che non bisogna accogliere alcuna idea che non sia pienamente evidente, e cioè chiara e distinta; la seconda regola è quella di analizzare ogni idea complessa nei suoi momenti costitutivi; la terza consiste nel ricostruire il complesso concettuale nel suo assieme, e la quarta regola, l'enumerazione, raccomanda la verifica delle relazioni tra i singoli elementi sinteticamente ricostituiti, per controllare che ognuno di essi occupi il posto che gli compete.    Si tratta, come si vede, dei princìpi normativi che hanno guidato la sua ricerca in geometria e in fisica, princìpi che Cartesio intende adesso applicare alla verifica della validità del pensiero del soggetto conoscente. Ed è infatti nella quarta parte del Discorso, e poi nelle Meditationes, che il filosofo affronta questo problema che, rispetto a quelli geometrico-matematici e fisici, potremmo definire metafisico.
In questa occasione Cartesio, fedele al criterio dell'evidenza, introduce il famoso criterio del dubbio metodico;  cioè, afferma Cartesio, anche se noi accettiamo un'idea chiara e distinta, come quella che due più due fa quattro, possiamo essere vittime di una illusione; infatti quante volte nel sogno abbiamo certezza di una nostra visione che dobbiamo poi riconoscere falsa nel momento del risveglio? Non potrebbe essere che anche le idee più evidenti fossero il prodotto di un genio malefico inteso a trarmi in inganno? Appunto per questo, Cartesio propone di sospendere il giudizio, prima che ci si accerti della validità dei nostri contenuti di coscienza che appunto potrebbero essere pur sempre ingannevoli, nonostante la loro chiarezza, come le immagini di un sogno; è questo il dubbio iperbolico di Cartesio, che ha lo scopo di sgomberare il terreno da tutto ciò che può essere sospettato di falsità. Per ricuperare almeno un elemento di assoluta certezza, bisogna per   un momento abbandonare la conoscenza, sempre problematica, del mondo esterno, e ripiegare nell'interiorità e ricuperare analiticamente l'elemento che si sottrae ad ogni dubbio possibile; in questo atteggiamento ritornano gli argomenti dello scetticismo antico e di quello più recente di Montaigne, il quale aveva escluso la possibilità di assolute certezze. Cartesio, però, nella sua fiducia nella scienza, non poteva accogliere conclusioni negative così radicali che avrebbero del tutto compromesso i risultati scientifici già realizzati, e per ritrovare un elemento di certezza nel mare del dubbio, si rifà, sia pure con intenzioni diverse, al tradizionale argomento agostiniano: io dubito, ma il mio dubitare è attività pensante, intuizione immediata della mia esistenza come pensiero. Cogito, ergo sumè l'espressione, non priva di una certa equivocità(*), che usa Cartesio per indicare la realtà del pensiero il quale, sia pure come attività dubitante, si póne al di sopra di ogni possibile dubbio.

*. L'espressione usata da Cartesio, cogito ergo sum , è equivoca perché può apparire come la conclusione di una deduzione tipicamente sillogistica, cosa questa che non era nelle intenzioni di Cartesio, il quale difende la sua formula dicendo che essa nasce da una immediata intuizione del soggetto pensante su se stesso, in questo caso, però, l'espressione sum cogitans sarebbe stata più felice.

Io sono in quanto pensante è affermazione che, per se stessa, pur essendo incontrovertibile, non mi fornisce elementi di certezza riguardanti il mondo extra-soggettivo, cioè quel mondo dell'estensione del quale fa parte anche il mio corpo; da ciò la necessità di trovare una giustificazione anche per il mondo esterno, che è ancora una realtà precaria e sottoposta al dubbio. Cartesio, con un certo tradizionalismo scolastico, sostiene che il pensiero è, sostanzialisticamente res cogitans,sostanza spirituale pensante, ovvero una «cosa» e non una «funzione», e che esso possiede un patrimonio di idee, alcune delle quali sono innate, e altre ci vengono dall'esperienza e sono avventizie  e altre ancora sono più o meno arbitrariamente costruite da noi e sono idee fittizie. Cartesio cerca la giustificazione del mondo esterno proprio mediante un'idea innata, evitando altre soluzioni troppo spregiudicate per il suo tradizionalismo; noi, egli afferma, abbiamo l'idea di Dio come essere onniscente e onnipotente e infinito, idea che non possiamo costruire da noi stessi, dato che siamo finiti: pertanto questa idea deve venirci da Dio stesso che quindi esiste. Inoltre, il sentire così vivamente la nostra imperfezione e i nostri limiti, nasce da un'idea di perfezione, che anch'essa non può venirci che da un essere assolutamente perfetto, cioè da Dio. Ma se allora Dio esiste egli non può ingannarci, perché Dio è veracità assoluta, e di conseguenza quel mondo dell'estensione, cioè il mondo della natura, creato da Dio, possiede una realtà obbiettiva e autonoma che mi permette di superare definitivamente ogni dubbio.    Bisogna osservare che la ricerca di Dio in Cartesio non ha un significato teologico in senso tradizionale; il Dio di Cartesio non scaturisce da una ricerca sostenuta da un pathos religioso, ma è piuttosto un punto di appoggio metafisico che deve servire come giustificazione totale del mondo fisico; questo Dio cartesiano, come noterà il mistico Pascal, non suscita nessuna emozione religiosa, non sollecita e non acquieta alcun sentimento dell'uomo interiore, ma appare come un lontano demiurgo ordinatore, un meccanico metafisico che, dal nulla, ha creato l'estensione mettendola in movimento una volta per tutte.    Cartesio, si è visto, sul tema della esistenza di Dio riprende argomentazioni tipiche della tradizione scolastica. Per quanto riguarda il campo di esperienza dell'estensione egli afferma che è res extensa, cioè una «cosa» sostanziale e giunge anche a contrapporle il pensiero, che pure è attività, come res cogitans, cioè sostanza spirituale, proprio secondo le modalità della filosofia scolastica.    Il risultato di questo procedimento è la costruzione di una realtà rigidamente dualistica: da un lato l'estensione materiale che è movimento meccanico e divisibilità, dall'altro il pensiero, sostanza inestesa, capace in qualche modo, ricco come è delle sue idee innate, di riflettere il mondo dell'estensione. Ma una contrapposizione così rigida, che in realtà ri propone sotto altri termini la tradizionale contrapposizione tra anima e corpo della filosofia scolastica, da un punto di vista critico propone problemi inestricabili. Come è infatti possibile che l'estensione possa agire sull'inesteso e viceversa? Come può un dato fisico, che agisce meccanicamente per contatto, colpire il pensiero inesteso e suscitarne la reazione pensante? E all'opposto come può il pensiero agire sull'estensione? Cartesio, cosciente di tali difficoltà che in seguito susciteranno un largo dibattito filosofico, offre una soluzione esclusivamente estrinseca e verbale del problema, con la famosa teoria della ghiandola pineale cioè l'epifisi, nella quale dovrebbe realizzarsi l'impossibile fenomeno dell'azione diretta della estensione sull'inesteso e viceversa. Il filosofo francese cerca di lasciare sullo sfondo e di sfumare il problema che, nei termini da lui posti, è in realtà un problema insolubile.

 

6. La possibilità dell'errore e il modello meccanico delle passioni

Il radicale intellettualismo cartesiano, cioè la convinzione che il pensiero possa sempre e comunque cogliere lucidamente la verità, sembra non lasciare spazio alla possibilità dell'errore, che pure è un fatto dell'esperienza umana; se infatti l'intelletto procede correttamente secondo il criterio delle idee chiare e distinte, l'errore appare come un fatto inesplicabile. Cartesio stesso, proprio impostando il suo metodo analitico e deduttivo, ha dimostrato che il pensiero incorre in errori clamorosi, come quello di attribuire ai corpi qualità come colori, odori e sapori che sono soltanto soggettive, come voleva anche Galilei, proprio in base al criterio per cui la realtà fisica è riducibile al movimento delle particelle estese che può essere colto e descritto solo quantitativamente.  Per giustificare la possibilità dell'errore, Cartesio deve mostrare che  esso accade fuori dallo spazio dell'intelletto e quindi sostiene che l'errore è possibile a causa della volontà che a volte, troppo precipitosamente, stabilendo frettolose analogie e non frenata dal senso critico tipico  dell'intelletto, finisce con il concedere il suo assenso a semplici superficiali suggestioni esteriori, a sensazioni ancora oscure e confuse, come quando valuta la realtà estesa dal punto di vista qualitativo, rinunciando in partenza ad un approfondimento geometrico-matematico e quindi quantitativo.  Nel suo ultimo scritto del 1649, Le passioni dell'anima, Cartesio approfondisce la sua concezione morale cui già aveva brevemente accennato nel Discorso sul metodo e in alcune lettere; anche su questo terreno Cartesio intende rimanere fedele al suo metodo analitico e quindi muove dall'analisi delle passioni umane riconducendole tutte alle pulsioni  più semplici, come l'amore, l'odio, il desiderio e la gioia, dalle cui combinazioni derivano le passioni più complesse. Come le passioni sono il  mezzo con cui il corpo, nel suo impulso all'autoconservazione tende ad agire sul pensiero, così le emozioni sono fatti essenzialmente mentali con cui il pensiero agisce sul corpo. Siccome le passioni dipendono da uno stimolo fisico e da una disposizione del corpo, Cartesio ritiene che non sempre il pensiero possa contenerle; però egli è in fondo convinto che la ragione possa esercitare un'azione moderatrice; questa convinzione del potere razionale sulla vita emotiva, è tipico della tradizione razionalista e in Francia ha un celebre passato in tutto il neoplatonismo. La riluttanza di Cartesio a trattare il problema morale era ben nota; il filosofo sapeva bene che delucidare importanti problemi di fondo attinenti alla vita morale, sociale e religiosa con il criterio delle idee chiare e distinte, avrebbe portato a conclusioni che avrebbero sollevato obbiezioni ben più violente di quelle che sollevava la sua fisica. Questo atteggiamento prudenziale prende particolare risalto quando egli, appunto a proposito della morale, memore del processo a Galilei del 1632, si limita a parlare di una morale provvisoria, detta così perché la scienza morale è complessa, ma le passioni dal canto loro urgono e quindi bisogna pur darsi una linea di condotta, appunto provvisoria, in attesa di una scienza morale compiuta. In questa prospettiva Cartesio si limita a dare alcuni suggerimenti, cui egli afferma di essersi attenuto fin da giovane, improntati a cautela e senso della misura: obbedire, per prima cosa, alle leggi e ai costumi del proprio paese, accettare la religione nella quale siamo stati allevati, praticare le opinioni le più moderate, e soprattutto adattarsi alle cose, piuttosto che volerle forzare e mutare. La prudenza cartesiana sembra semmai riscattarsi nell'appello che egli rivolge alla ragione, appello che ha indotto a paragonare la sua morale a quella degli stoici, una ragione fatta di senso della misura e intesa al rifiuto programmatico di ogni eccesso.

 

Fonte: http://www.adripetra.com/DidatticaDispense/SecondoTr/Filosofia/CARTESIO.doc

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