Cronologia crisi del 29

Cronologia crisi del 29

 

 

 

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Cronologia crisi del 29

1- Profeti di sventura

 

5 SETTEMBRE 1929 -  L'economista Roger Babson parlando a Wall Street lanciò un allarme: "Presto o tardi il crack arriverà. E quando arriverà sarà tremendo. Gli stabilimenti saranno chiusi, gli operai licenziati, il circolo vizioso diventerà inarrestabile."

40 GIORNI DOPO

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15 OTTOBRE 1929 - L'economista Irvin Fischer della Università di Harward, si ribellò a questa Cassandra:  "Io invece prevedo che il mercato azionario sarà, entro pochi mesi, molto più alto di quanto non sia ora".  Charles Mitchell, presidente della National City Bank, ma anche direttore della Federal Reserve Bank di New York, confermò "La situazione industriale negli Stati Uniti é assolutamente solida, nulla può fermare il movimento positivo del mercato"
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21 OTTOBRE - Si avvertono segni di nervosismo in Borsa. Il continuo ribasso dei corsi inizia ad allarmare alcuni risparmiatori. Torna a parlare Fischer "E' un bene!...il mercato finalmente si è scrollato di dosso la frangia lunatica degli speculatori". (dimentica di dire che gli speculatori sono le stesse banche. Come vedremo)
Il Presidente Hoover subito dopo rassicurò che "le attività economiche fondamentali del paese, ossia la produzione e la distribuzione delle merci, sono su basi solide e prospere". Ma non parlò di Borsa; si disse su pressioni esercitate sulla Casa Bianca da influenti banchieri.
Altrettanto va scrivendo il New York Times, che invece nelle settimane precedenti aveva ospitato articoli pessimistici come il primo citato sopra. Infatti il primo giorno del crollo il N.Y.T. rincuora i risparmiatori e gli operatori in Borsa, affermando "Il mondo finanziario americano si sente sicuro nella consapevolezza che le più potenti banche del paese sono pronte a intervenire per impedire il panico".
Questo l'ottimismo di autorevoli personaggi, alla vigilia del giorno che Galbraith definì "il più devastante nella storia di tutti i mercati".

2 – la situazione pregressa

Da tempo c'era l'età dell'oro. Le cifre parlavano chiaro:

  • fra il 1925 e il 1929, le industrie americane erano aumentate da 183.900 a 206.700.
  • L'indice della produzione era passato, dal 1921 al giugno del 1929, da 67 a 126. La sola Detroit nell'anno precedente il crack aveva sfornato quasi 5,4 milioni di automobili.
  • Erano nate le prime industrie di elettrodomestici, che con lavatrici, frigoriferi, radio ecc. avevano portato la produttività industriale nel corso del decennio al 43%, ma  con i salari che erano saliti solo del 20%.

Quindi la differenza fra la crescita della produttività e i salari andava nei profitti delle aziende e ovviamente a far salire in una forma anomala le proprie azioni in Borsa. La febbre frenetica di questi titoli  poi sfuggì ad ogni controllo. La politica del denaro facile, la febbre del profitto, contagiò un po' tutti, e l' aggiottaggio dei titoli degli agenti della Borsa per farli salire (operando solo con il margin, cioè bastava anticipare il 10%) diventò quasi uno sport per loro. Ma l' insufficienza di mezzi di pagamento (il margin) non poteva durare all'infinito. Le azioni venivano comperate e rivendute pagandole con danaro ‘virtuale’, ancora da crearsi con nuove compravendite, un po’ come nel cosiddetto ‘aereoplano’, o catena di S. Antonio: prima o dopo qualcuno doveva pur pagare per tutti, poiché che apriva un buco lo richiudeva aprendone altri da un' altra parte, sempre più numerosi, a catena.
Il valore reale delle aziende non corrispondeva più al valore dei "pezzi di carta" che giravano in Borsa, fra l'altro comprati allo scoperto. La grande azienda capitalizzata 1000 in realtà valeva 200, e spesso aveva i magazzini pieni di merce invenduta.
Scrive Galbraith: "...il mondo imprenditoriale americano aveva accolto negli anni venti un gran numero di procacciatori di affari, truffatori, impostori e venditori di fumo; e a tali deficienze degli uomini si aggiungeva la fragilità delle holding; bastava che gli utili di un'azienda diminuissero che subito crollava l'intero edificio (quello che poi accadde). Altro sintomo, una non buona ripartizione del reddito, concentrato in un piccolo numero di persone: un terzo dell'intero reddito andava soltanto a un 5% della popolazione, e tale concentrazione faceva sì che l'economia dipendesse dalle loro decisioni" (Galbraith, Il grande crollo).
Questa anomala situazione era iniziata nel secondo semestre  del 1924. L'indice Dow Jones era a 134, a fine anno era salito a 181. A fine 1927 salì a 245. Nel 1928 con questi risultati iniziò la vera e propria orgia speculativa "una fuga di massa nella fantasia" la chiamò Galbraith. Ci fu un altro incredibile balzo  e a fine agosto del 1929 l'indice toccò i 449 punti. Cioè il raddoppio in poco più di un anno, mentre i consumi diminuivano, cosicché alcune industrie avevano i magazzini pieni di invenduto. Una parte sempre più cospicua del liquido circolante negli USA finiva nella Borsa, e veniva così sottratta ai consumi, deprimendo ulteriormente il mercato reale, nella misura in cui veniva gonfiato il mercato fittizio della Borsa.
"Nel 1923 le azioni negoziate furono 237 milioni; nel 1924, 280 milioni; nel 1925, 452 milioni; nel 1926, 449 milioni; nel 1927, 577 milioni;  nel 1928, 920 milioni, e quasi altrettante nei sei mesi del fatidico 1929, cioè 827 milioni.
I prestiti agli agenti di cambio (bisognosi di somme per le liquidazioni quotidiane) da 3219 milioni del 1926, nei sei mesi del 1929 erano saliti a 8500 milioni (Corriere della Sera, del 31 ottobre 1929).

3- tipologie di investitori

Da tempo i ranghi dei ‘nuovi milionari’ si infittivano di giorno in giorno. Un giovane avvocato racconta " non avevo un soldo, mi feci prestare qualche somma dagli amici, ed ero pronto a far l'affare utilizzando il margin, ossia quel sistema che permetteva di pagare soltanto il 10% del valore delle azioni acquistate. Dopo pochi mesi giravo con un milione di dollari in contanti ".
Lui era avvocato, ma la stessa cosa fece il lift dell'ascensore della Borsa. Lo racconta un agente di cambio -Stokes- ". "Non volle stare a guardare; iniziò a comprarmi qualche azione di Radio al mattino a 100 dollari e verso mezzogiorno le vendeva a 130. Così un giorno dopo l'altro, aumentando sempre di più il pacchetto, in pochi mesi era diventato milionario".
Poi c'era in "parco buoi" dei piccoli investitori (pensionati, casalinghe, studenti, apprendisti finanzieri, gente di ogni ceto sociale) che passavano la giornata in Borsa a seguire l'andamento dei titoli, come faceva il lift. A metà ottobre almeno un milione e mezzo di americani possedeva un suo consistente giardinetto e altri 20 milioni di americani qualche pacchetto di azioni  in mano lo aveva già, e si era fatto il suo "giardinetto".

4- Alla vigilia del crollo

Il 22 Ottobre, martedì, a inizio seduta la relativa frenata del giorno prima aveva già allarmato alcuni speculatori che iniziarono a vendere. Intervenne allora il Mitchel citato già sopra (della Federal Reserve), che con un gruppo di banchieri decise di intervenire per frenare il ribasso acquistando alcuni corposi pacchetti per sostenere i corsi. L'allarme a fine seduta sembrava cessato.
Ma la mattina dopo, il 23 ottobre mercoledì, i primi a vendere furono alcuni operatori che operavano con i margin. Cercavano di affrettarsi a incassare, correvano a vendere a rotta di collo per colmare l' enorme differenza che si andava creando di ora in ora fra il valore delle azioni comprate allo scoperto nei giorni precedenti (ancora da saldare) e la quotazione sempre più bassa del titolo che la telescrivente senza pietà registrava. Più cercavano di vendere e più i titoli calavano; più calavano e più venivano venduti, in un circolo infernale. A fine seduta nemmeno un miracolo sarebbe riuscito a tappare tutti i buchi di quel grande colabrodo che loro stessi con tanta disinvoltura avevano creato. Ma fuori pochi ancora sapevano del dramma che stava per compiersi. La notizia iniziò a diffondersi, molti non dormirono la notte, la passarono a fare concitate telefonate (New York nel 1929 contava già 1.702.889 telefoni, 6 volte l'intera Italia).

5- La settimana nera

24 ottobre: prima dell'apertura della borsa di Wall Street oramai molti sapevano, la notizia  si era diffusa per tutta New York. Al mattino davanti alla Borsa si era radunata un gran rumorosa folla. Vera o falsa qualcuno sparse la voce che nella notte si erano già suicidati undici noti speculatori. Inizia il panico, la ressa, la psicosi della rovina. 
Ma il peggio doveva ancora accadere. Il giovedì era stato nero (ed è questo passato alla storia), ma è la giornata del martedì del 29 ottobre che fu infausto, e a distanza di anni economisti  come Paul Samuelson preferiscono datare il collasso della Borsa in questo giorno, e non il 24.
Gli economisti sono d'accordo nel sostenere che dal 24 al 29 il più grave disastro finanziario della storia si poteva evitare. Approfondendo gli studi emergono le colpe dei banchieri; e questo per la politica del credito facile da essi perseguita nei confronti della speculazione (8,5 miliardi di dollari prestati agli speculatori, con elevati interessi che gli speculatori ora in crisi difficilmente avrebbero pagato).
Ma dopo la mattinata nera del 24 i grandi banchieri cominciarono a temere per i propri crediti. Decisero così di intervenire. Ma nessuno comunica con quanto capitale i banchieri sarebbero intervenuti per salvare i corsi. Ci sono solo voci contrastanti, chi parla di 20-30 milioni di dollari, chi di 240 milioni.
Tuttavia la fiducia ricompare quando teatralmente (come messaggero del salvataggio) il  capo della banca Morgan, Whitney (che tutti in borsa conoscono) entra spavaldo nel salone delle contrattazioni, e inizia a piazzare ordini di acquisto. La messinscena funzionò. Uscito Whitney, continuarono i  suoi rialzisti, che calmarono le acque per qualche ora, ma alla chiusura del pomeriggio e anche il giorno dopo (venerdì 25) i salvataggi furono pochi e qualche milione di azioni trovarono altri "vuoti d'aria". Il sabato 26 mattina (allora si apriva il sabato, ma fino a mezzogiorno) la situazione era altrettanto inquieta anche se il N.Y.Times scriveva quanto abbiamo citato all'inizio ("le ns. potenti banche sono pronte, ed impediranno il panico"). A mezzogiorno la chiusura fu sotto l'insegna di una grande incertezza.
28 OTTOBRE Lunedì - Alla riapertura della Borsa proprio il N.Y. Times perde 49 punti. Sembrò una beffa, aveva parlato bene dei salvatori e intanto questi lo lasciavano affogare in un mare di svendite, e non era il solo, infatti su tutto il salone era ripiombata la tempesta. Quel mattino "volarono" via 9.250.000 azioni.
Si riunirono  nuovamente i "salvatori", ma l'esito dell'incontro fu disastroso. Per la Borsa, ma non per i grandi Banchieri.
Il nuovo comunicato diffuso affermava  "non è nostro compito sostenere i livelli dei prezzi che possono contribuire  a rendere ordinato lo svolgimento del mercato", e "assicurare che l'offerta trovi una controparte a un qualsiasi livello di prezzo". Liquidarono così la loro posizione.
Cioè il consorzio dei banchieri rinunciava a svolgere il compito che pochi giorni prima si era impegnato ad assolvere: di sostenere la domanda azionaria. Loro erano i primi a sapere che tutta la borsa era un pallone gonfiato, anche perché l'aria per gonfiarla l'avevano fornita loro. Avevano deciso di non far salire le azioni, ma semmai di sfruttare il ribasso comperando le azioni più svalutate per poco o niente.
29 OTTOBRE martedì - I banchieri avevano fatto bene i conti. Infatti alla riapertura le quotazioni iniziarono a scendere senza sosta, in poche ore alcuni titoli non valevano più nemmeno il costo della carta con la quale erano stati stampati.
"Al mattino erano state buttate sul mercato 3.260.000 azioni, alle ore 12  il numero era di 8 milioni, alle ore 13,30 era salito a 12.600.000, all'ora di chiusura venne stabilito il nuovo primato degli scambi: 16.380.000 azioni, che si assommavano a quelle del giovedì (15.000.000) e con quelle di venerdì e sabato, toccavano  l'impressionante totale di 48.617.700 azioni". (CorSera)
Una curiosità, il Mitchel citato già sopra (della Federal Reserve, ed anche presidente della National City Bank) il "grande ottimista" quello che diceva "che nulla poteva fermare il mercato positivo" andò in rovina.
Questo crollo, in gran parte cinicamente voluto dalle grosse banche d’ affari segnò l'inizio della "grande depressione", che finì per travolgere molte di quelle stesse banche. Gli Stati Uniti piombarono di colpo in una crisi senza precedenti. Alcuni economisti sostengono che l' origine non fu solo borsistica,  ma che la recessione era già in atto, mentre altri indicano negli speculatori ed avventurieri la vera causa.
A parte i risparmiatori (da 15 milioni a 20 milioni di malcapitati), iniziò la reazione a catena dei fallimenti di Società finanziarie, Istituti di credito, aziende grandi e piccole, una strage che continuò per diversi anni. Nel giro di qualche mese coinvolse tutti i settori, con riduzioni di posti di lavoro, di prezzi, chiusure improvvisa di banche, di fabbriche, di negozi, di servizi essenziali. E con la Borsa che continuò a fare altri tonfi, il 6 novembre con 37 punti, e l'11-12-13 novembre con altri 50 punti.
Nell'autunno del 1930 ci fu una vera e propria epidemia di fallimenti. A novembre fallirono 256 banche con depositi per 180 milioni di dollari; il mese dopo  altre 352 prestigiosi istituti di credito con 370 milioni di depositi, poi fallì la più grande, la Bank of United State di N.Y, con più di 200 milioni di dollari di risparmi "volati via".

6-Il New Deal

Ci sarà poi l' avvento alla Casa Bianca di Roosevelt, con il suo New Deal (pacchetto di leggi sociali ed economiche) che riuscì ad arrestare la grande depressione a partire dal 1934. L"assistenzialismo" fece anche miracoli, ma non sapremo mai quanto incise veramente nella ripresa dell' economia americana, perché intervennero altre situazioni favorevoli. Come l'intervento degli Usa alla seconda guerra mondiale.
Lo storico B. Bernstein ad esempio è radicale nelle sue conclusioni: " Il New Deal non va esagerato: non fu certo la "terza rivoluzione americana", come suggerisce Carl Degler. Non solo fu limitata l'estensione della rappresentanza politica a nuovi gruppi, ma il New Deal trascurò pure numerosi americani, contadini, fittavoli, emigranti, braccianti, abitanti dei tuguri, operai non specializzati, neri senza impiego. Essi furono lasciati al di fuori del nuovo ordine."
Le idee di Keynes nel New Deal sono meno presenti di quanto solitamente si pensa, e divennero determinanti solo in occasione della recessione del 1937. Tra lui e il presidente nei quattro anni precedenti non c'erano stati molti rapporti. Il primo diceva che nelle idee di Keynes vi aveva trovato solo "un guazzabuglio di cifre", mentre il secondo da parte sua era rimasto deluso nell'incontrare  "un presidente così incompetente nel campo dell'economia".
L’ ex presidente Hoover scrisse nelle sue Memorie che considerava il New Deal come la negazione di tutta la tradizione americana.  Queste le sua amare considerazioni: "Se gli adepti del New Deal avessero continuato la nostra politica invece di sabotarla definitivamente e di sforzarsi di trasformare l'America in un sistema collettivista, ci saremmo completamente ripresi diciotto mesi dopo il 1932". (Memorie)
Gli Usa toccarono il fondo della crisi dal dicembre 1931 a ottobre 1932. La produzione raggiunse il livello più basso (46 punti se facciamo base 100 il 1958), 10 punti in meno rispetto al 1929. Il mercato azionario era ridotto a 1/6 rispetto al '29. Quanto alla disoccupazione i dati ufficiali stimano che all' acme della crisi rimasero a spasso 12 milioni di lavoratori.
La situazione si era aggravata con la crisi in Europa. Germania e Austria stavano crollando trascinandosi dietro le stesse banche americane; la Germania aveva sospeso i pagamenti delle riparazioni di guerra facendo crollare l'edificio del famoso ed osannato piano Dawes (aiuti e investimenti in Germania con lo scopo di farsi pagare i debiti). Altrettanto accadde in Italia che nel '25 aveva ricevuto ingenti somme di banche americane, come la Morgan con 100 milioni di dollari in prestito, stornati alle industrie italiane dell'auto, gomma, siderurgiche..
La Gran Bretagna (partner privilegiato degli Usa), per problemi suoi interni abbandona il gold standard (o tallone aureo) trascinandosi dietro tutti i paesi del suo impero. Il gold venne  abbandonato da 22 Paesi che chiusero così tutte le importazioni americane. Un altro ko per gli Usa.
Quando  Roosevelt fu eletto, assume le sue funzioni in condizioni che sfiorano il disastro. E i democratici non hanno di certo l'appoggio del mondo degli affari, i conservatori  gli contestano gli elevati costi dei provvedimenti assistenziali da lui varati; poi nel '35 gli bocceranno il N.I.R. Act , un piano di ristrutturazione dell' industria nazionale, che molti ritenevano autoritaria; quella che Hitler aveva già inaugurato.
Roosevelt  vara comunque, non senza difficoltà,  il New Deal; controllo rigoroso dei cambi; pianificazione centrale della produzione; blocco dei salari; autarchia, protezionismo e isolazionismo; assistenza sociale; sistematica politica deflazionistica. Insomma "Una soluzione alla tedesca - (scrive Claude Fohlen -  La Storia, L'Età Contemporanea, di  N.Tranfaglia e M.Firpo, ed. Garzanti, 4 vol.p.226) -  imitata in vari stati dell'Europa centrale, soluzione che si impose con l' instaurazione del regime nazionalsocialista di Hitler nel gennaio del 1933".
Anche in America - come in Germania- gli industriali che aderirono alla "pianificazione autoritaria" si avvantaggiarono dall’ intervento americano nella guerra, intervento che Roosevelt caldeggiava da ben prima il dicembre 1941.

7- Il ‘new deal’ nazionalsocialista e la guerra

Altrettanto aveva fatto Hitler al gotha della finanza e alla Reichsverband (associazione industriali tedeschi) quando addirittura in anticipo di qualche mese impose autoritariamente - ma forse non lui ma i grandi industriali stessi- il  suo "Piano di spesa pubblica", in tedesco “Wirtschaftslenkung”, che prende il nome dal suo ministro dell’ economia, Reinhardt. Che sotto il profilo tecnico-economico era simile a quello che stava varando Roosevelt. Il New Deal di Roosevelt era basato sul deficit pubblico da rifinanziare tramite nuove forme di tassazione; mentre quello tedesco era basato tutto sugli  investimenti privati, cioè degli industriali, in altre parole della Reichsverband, di cui facevano parte 29 organizzazioni industriali e 50 territoriali. Piano economico complesso ed ambizioso che non era certo la "creatura" di un caporale che aveva fatto la quinta elementare. Quando Hitler nell’ agosto ‘34 diviene il padrone assoluto – politicamente parlando- del Paese, tutta la politica economica era stata già pianificata da tempo. Nel  Piano c'era una rosa di provvedimenti di elevato contenuto tecnico; data la mole di formule e di cifre, non potevano certo averla elaborata e organizzata in pochi mesi. Questo era un lavoro di anni, fatto dalle migliori menti dell' alta finanza tedesca, nell’ interesse esclusivo del potere economico tedesco già dai tempi di Bismarck strettissimamente legato alla corte ed al governo.  
Nel piano di investimenti c'erano: la Adler Sa, Aeg, Astra, Auto-Union, Bmw, Messerschmitt, Metall Union, Opta Radio, Optique Iena, Photo Agfa, Puch, Rheinmetall Borsig Ag,  Schneider, Daimler Benz, Dornier, Erla, Goldschmitt, Heinkel, Bosch Elektroniken, Solvay, Steyr, Telefunken, Valentin, Vistra, Volkswagen, Zeiss-Ikon, Zeitz, Zeppelin. La Deutsche Bank, la Commerz Bank, la Dresder Bank. I grandi industriali dei colossi chimici IG Farben, gli Henkel, i Schnitzler, i Bosch, i Thyssen, i re della gomma Conti, dell'acciaio Voegler, delle Assicurazioni Allianz. Poi i gruppi Simens, Aeg, i Krupp, i Junker e tanti altri. Infine  Schacht, l'economista di fama mondiale che dirigeva la prestigiosa Reich Bank; improvvisamente si dimette e lo troviamo accanto al caporale Hitler;  il quale senza Krupp, Mercedes, Dornier e compagnìa bella come avrebbe potuto fare guerra all’ Europa? In quanto alle responsabilità morali degli industriali tedeschi: se la IG Farben forniva ai nazisti il gas con cui uccidere gli Ebrei altre aziende costruivano i forni crematori, gli impianti delle docce, i capannoni, guadagnandoci sopra; e spesso sfruttavano il lavoro da schiavi degli ebrei internati nei campi (vedi il caso Schindler). Notiamo come molti di questi nomi ancora oggi dopo 70 anni vivono e prosperano (Mercedes, AGFA, Volkswagen, Bosch…). Per molti tedeschi ‘voltare pagina’ dopo l’ orrore nazista è significato anche chiudere tutti e due gli occhi di fronte alle responsabilità morali proprie ed altrui.
Le aziende cosa guadagnavano dagli investimenti, ovvero: con quali risorse si aspettavano che il loro capitale fosse remunerato? Gli investimenti infruttuosi andavano a creare debito non già nelle casse statali (come nel New Deal americano) ma bensì nelle aziende investitrici; lo sbocco e verso il quale convergeva tutta questa manovra economica era la espansione della Germania, obiettivo che tra l’ altro veniva enunciato nell’ art. 1 dello Statuto del NDSAP: con il piano Reinhardt la convergenza tra la politica estera di Hitler e gli interessi della grande industria tedesca si rafforzava enormemente. Solo con lo sfruttamento economico dei Paesi vicini Hitler avrebbe remunerato adeguatamente le imprese che finanziavano il riarmo tedesco. Ad un certo punto la guerra divenne interesse comune dello Stato, della grande e media industria e, conseguentemente, anche di buona parte della classe operaia tedesca. Quando nel settembre ’39 Hitler invade la Polonia i suoi generali ed il suo ministro dell’ industria von Speer stanno preparando l’ esercito da oltre 4 anni.
Tornando al Piano di Hitler, esso ottenne risultati strepitosi, subito. Con la Wirtschaftslenkung la produzione sale già a fine 1933 al 3,2%, nel 1935  al 5,5%, nel 1938 era al 18,1 %. L'occupazione: dei 6 milioni di disoccupati, nel 1936 ne aveva assorbiti 4,5 milioni, due anni più tardi era quasi del tutto scomparsa, meno di 500.000 (C.W Guillembaud The Econony Recovery of Germany 1933-1938, Cambridge 1939).
A Roosevelt invece l'impresa non fu per nulla facile in tempi di pace. I dibattiti, le opinioni, le critiche (quelli di Hoover le abbiamo lette)  nei 6 anni del New Deal riempirono milioni di pagine. Poi venne la guerra; si iniziò con i prestiti; poi con l' emotività di Pearl Harbour (uno strano attacco, una stranissima grande concentrazione di navi da guerra del tutto indifese) l' America nella guerra ci si cacciò dentro fino al collo. Roosevelt risolse tutti i problemi rimasti insoluti, quando finalmente fu eletto per la terza volta alla presidenza.

8 – le cause economiche della guerra

Con la "pianificazione autoritaria" del dopo-1939 la produzione industriale americana fu immediatamente sollecitata dalla prospettiva di fare degli Usa "l'arsenale delle democrazie", così che, per la prima volta dal 1929, fu possibile rilanciare tutta l'economia. Via via che la guerra si decide a favore degli Alleati, cresce la consapevolezza dell'  America di essere la nuova leadership mondiale. I rapporti di forza tra le vecchie potenze sono  mutati e la stessa Inghilterra è in grave difficoltà. Un nuovo disegno egemonico Usa tra le potenze mondiali può essere realizzato mettendo tutti e 2 i piedi in Europa.
Bastava mettersi a capofila nello sforzo bellico contro la Germania, e assumersi nuovi impegni e nuove responsabilità. Prima con gli aiuti all' Europa antinazista (legge Affitti e Prestiti il Land-Lease Act, dell' 11 marzo - questa volta appoggiato anche dalla sinistra). Poi con l'attacco a Pearl  Harbour del 7 dicembre '41, l'appoggio a Roosevelt  all' intervento (senza più tanti impacci elettorali) gli venne unanime da tutti gli americani. Qualcuno ha perfino azzardato un parallelo tra l’ attacco giapponese a Pearl Harbour, e quello arabo alle Torri Gemelle del settembre 2001: entrambi vengono favoriti da una incredibile serie di negligenze da parte dell’ Intelligence e della Difesa americani; in entrambi i casi l’ esito è che il Presidente ha le mani libere per avviare, contro un Congresso recalcitrante, una nuova guerra.
Dal 1942 in poi sull' esito finale della guerra più nessuno ebbe più dubbi (nemmeno Hitler che fece di tutto per non esasperare gli Usa). Anche Churchill, che dovette mandare giù il rospo. Anzi due, prima quello russo, poi quello americano.
Non dimentichiamo che nel marzo del 1939, pochi mesi prima dello scoppio della guerra, i rappresentanti dell' industria britannica (che avevano contribuito anche al riarmo tedesco) si trovavano a Dusseldorf per diventare soci della Germania di Hitler, per promuovere una vera e propria guerra commerciale contro gli Stati Uniti. Un boicottaggio totale.
I motivi erano molto semplici: in Inghilterra fra il 1929 e il 1937, la produzione era aumentata del 24%, ma l'esportazione era caduta  a meno 16%. Un grosso squilibrio, una strozzatura pericolosa.  Un anno prima, nel 1938, dopo tante discussioni non erano riusciti a stipulare uno straccio di accordo commerciale con gli Usa, che nel frattempo si era però già  impossessata dei mercati di 20 paesi (politica rooseveltiana del "buon vicinato" Panamericano; poi riconoscimento del governo sovietico, ecc.). Ed ecco l' incontro con i tedeschi a Dusseldorff. Gli inglesi conclusero poco, anzi diedero a Hitler la esatta percezione di essere in gravi difficoltà economiche (ed era vero!), quindi l' idea di Hitler fu quella di fare la "sua" guerra da solo; in Europa, sul continente, e se non si poteva evitare anche contro l'Inghilterra. Da parte di Hitler c’era della leggerezza in questo calcolo, come poi si rivelò evidente, ma comunque è noto che il dittatore tedesco non si accanì contro gli Inglesi nelle poche occasioni favorevoli (a Dunkerque, in Africa), mentre Churchill non ricambiò certo la cortesia, scatenando dal ’43 su una Germania oramai vinta una valanga di bombardamenti aerei indiscriminati che fecero assai più vittime civili delle bombe nucleari americane.

9 – considerazioni finali: America e Italia a confronto

Attenzione a non sbagliarsi sulla reale consistenza economica dell'America negli anni presi in esame, durante e dopo il crollo e fino al 1939. Che nonostante la crisi era e rimase la nazione più ricca del pianeta.
La effettiva realtà economica americana, anche se fu decurtata del 40-50% dalla crisi,  rispetto a certi paesi come l'Italia, era possente. Basti dire che negli autoveicoli, anche durante la crisi la sua produzione era 30 volte (trenta) superiore alla cenerentola Italia. Il consumo di benzina solo per diporto era 65 volte superiore del totale consumo Italia. L'assistenza sanitaria e spesa economica data ai cani e gatti americani nel 1935, era superiore a quella offerta in Italia dalla ONMI - 1.713.978 assistiti, madri, bambini, fanciulli e adolescenti, con una spesa di 1 miliardo.) - (Bornate, Il Mondo, Corso di geografia per gli istituti magistrali, anno 1936). 
Nel 1932 negli Stati Uniti sono concentrati gli 88 centesimi degli autoveicoli esistenti in tutto il mondo, 26.697.398 su un totale di 35.805.632.
Nonostante la crisi del ’29 in America nel corso del 1931 si sono prodotte 2.030.532 auto, 435.784 camions; certo meno del 1930 (rispettivamente 2.901.251 e 599.991) ma comunque una produzione considerevole, ancora opulenta. Una crisi di produzione relativa perché  dobbiamo considerare che quasi ogni famiglia americana possedeva già un'autovettura, cioè si era alla saturazione del mercato.
Al 1° gennaio 1931 (e dobbiamo qui aggiungere quelle prodotte nel corso dell'anno '32 -  2.030.532)  troviamo la proporzione di abitanti di 4,59 per ogni automobile; mentre in Francia e Inghilterra abbiamo 28, Danimarca 31, Svezia 42, Svizzera 50,  Belgio 51, Norvegia 61, Germania 94, Spagna 119, mentre l'Italia è ferma a 142, battuta solo dalla Grecia con 147.
E' sufficiente un solo, significativo dato: nel 1929 in Italia le nuove automobili immatricolate sono 33.436, nel 1931 scendono a 14.760 (un numero pari alle auto che di media si producono e si vendono... nell'arco di sole 48 ore negli Stati Uniti sempre nello stesso anno 1931.
La crisi americana era grigia, ma non era proprio nera nera come la raccontavano, e come molti ancora la raccontano senza avere sottomano dati come questi: erano cifre piuttosto imbarazzanti. Le nuove generazioni è meglio che non sappiano in che follia si buttarono gli italiani. Prendiamo alcune cifre:
USA 133.000.000 abitanti. Italia 41.000.000
produzione frumento qli. 250.000.000.  It. 63.000.000
produzione mais 600.000.000. It. 32.000.000
bovini 57.000.000. It. 7.090.000
ferrovie 401.000 Km. It. 17.017.
acciaierie-altiforni 250. It. 4
I Telefoni in Italia sono nel 1932, 333.007 apparecchi (1,02% del mondo)
negli USA 21.679.000 (59% del mondo).
Solo New York possiede 1.702.889 telefoni  (6 volte l'intera Italia)

Quando l'11 dicembre del '41 la Germania dichiarò  guerra agli Stati Uniti (quindi anche l'alleata Italia) Mussolini era soddisfatto, dichiarò con tanta superficialità che ne era anzi "felice", da tempo andava dicendo che con l'America si doveva farla finita, che le potenze dell'Asse dovevano impartire una lezione agli USA...". Il commento dell'autorevole giornalista Giovanni Ansaldo, direttore del Telegrafo, fu molto sarcastico: "Ma il duce l'ha mai visto l'elenco dei telefoni di New York?".
Sulle altre cifre citate sopra non serve nemmeno fare un commento.

 

Fonte: http://www.evan60.net/uploads/6/3/2/5/6325749/crisi_del_29_e_ii_gm.doc

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