Naturalismo e politica nel Rinascimento

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Naturalismo e politica nel Rinascimento

Uno dei temi fondamentali sviluppati in epoca rinascimentale riguarda il rapporto tra l’uomo e la natura. Ora l’uomo non guarda più alla natura con diffidenza e paura, come in genere faceva in epoca medievale quando essa veniva avvertita come qualcosa di misterioso e di pericoloso, ma si riconosce come parte integrante della stessa, come microcosmo nel macrocosmo, e inizia a studiarla con nuove metodologie e con logica prescientifica. La voglia di conoscere la forze che la governano fa avvicinare gli intellettuali, soprattutto nella prima metà del ‘500, alla magia e alla riscoperta degli antichi testi ermetici, in quanto l’uomo rinascimentale aspira a dominarla e governarla.
Tale approccio iniziale, basato anche su pratiche alchemiche e astrologiche,  viene ben presto sostituito da un’indagine di tipo scientifico: infatti la filosofia di questo periodo è alla costante ricerca del giusto e oggettivo metodo scientifico con cui affrontare, capire e risolvere i problemi legati ai fenomeni naturali senza dover ricorrere a pratiche magiche o spiegazioni di natura metafisica, perché i filosofi si rendono ben presto conto che la natura è governata da leggi specifiche e da propri principi inalienabili che non hanno nulla di metafisico o magico. In definitiva si comprende che la natura non è una manifestazione del divino, ovvero dominata da aspetti e motivi irrazionali.
Il primo filosofo che intraprese questa strada fu Bernardino Telesio (1509-1588) che, polemizzando aspramente con la filosofia aristotelica, perché aveva ridotto lo studio della natura alla semplice analisi razionale delle sue cause finali e metafisiche, sostenne che era invece fondamentale l’indagine tramite l’esperienza sensibile, ovvero lo studio basato sui sensi. Infatti egli tornò come concezione alla filosofia presocratica attribuendo a due elementi fisici, il caldo e il freddo, la capacità di trasformare la terra e la materia dilatandole o contraendole.
La concezione filosofica più importante del naturalismo rinascimentale fu senza dubbio quella di Giordano Bruno (1548-1600) cultore della filosofia di Cusano e dell’ermetismo. Egli aveva idee poco confacenti a quelle della Chiesa, tanto che fu ritenuto eretico e dovette fuggire dall’Italia per trovare scampo in vari Stati europei. Tornato a un certo punto in patria, fu catturato, processato ed arso vivo in Campo dei fiori a Roma nel 1600.
Bruno affrontò nella “Cena delle Ceneri” un argomento a cui la Chiesa si opponeva decisamente: partendo dalla tesi eliocentrica di Nicola Copernico (1473-1543), infatti, elaborò l’idea che l’universo fosse infinito (lo chiamò “uno infinito”), quindi senza centro. Ovviamente questa concezione, che toglieva sia la Terra sia il Sole dal centro dell’universo, incideva profondamente anche sulla concezione antropocentrica dell’uomo, che ora diveniva un essere tra infiniti esseri, così come si mutava il rapporto uomo-Dio e il posto dell’uomo nel mondo, in quanto non era più la creatura privilegiata di Dio, ma solo una creatura tra possibili infinite creature.
Ammettendo che l’infinità dell’universo, dunque, Bruno sostenne che Dio, infinito anche Lui, coincideva con l’universo stesso, quindi anche con ciascun uomo. Conoscendo l’uomo e l’universo (microcosmo/macrocosmo), si può raggiungere anche la conoscenza di Dio.
Bruno aveva una concezione panteista dell’universo in quanto per lui ogni cosa faceva parte di Dio, che ne era l’anima; per tale motivo la materia e la forma non potevano essere separate, poiché facevano parte dell’unità della natura, che così veniva divinizzata. Inoltre aveva anche una concezione immanentista in quanto riteneva Dio sia causa, essendo il creatore del mondo, sia principio, perché vivifica il mondo dall’interno.
Bruno aveva una forte tensione verso Dio, con una profonda ansia di ricerca ed un impellente desiderio di superamento dei propri limiti: per lui è l’eros che muove l’animo sia verso i singoli esseri, sia verso Dio. L’uomo, come Dio, non è mai pago di quello che ha conseguito e conquistato, per cui è dotato di “eroico furore” che lo spinge sempre ad andare oltre il punto raggiunto in precedenza.
Per Bruno, oltre agli eroi, esistono pure gli uomini volgari, i sempliciotti che, come bestie, si accontentano di rimanere sempre uguali a se stesse L’uomo eroico, invece, è colui che, riconoscendosi come essere intelligente e capace di andare oltre la sua semplice esistenza quotidiana, vuole sempre giungere a nuovi traguardi non accontentandosi mai del presente.

Anche la politica diventa argomento di discussione tra gli intellettuali rinascimentali in quanto le vecchie forme politiche erano ormai al tramonto, e sempre più si avverte l’esigenza d’ipotizzare nuove forme di governo, anche utopistiche, come fa Thomas More (1478-1535) nella sua opera intitolata proprio “L’Utopia”, o Tommaso Campanella ne “La città del sole”, che riprende la concezione comunistica de “La Repubblica” di Platone. In tale opera egli delinea quella riforma universale che aveva sempre avuto in mente e che cercò anche di attuare nei fatti, organizzando una rivolta, sostenuta da forze popolari e da ambienti cittadini, per la creazione di una società giusta, senza conflitti di alcun tipo. L’opera si basa su un dialogo di un navigatore genovese che descrive le istituzioni, gli usi e i costumi di un’immaginaria città di un’isola orientale da lui visitata, la cui vita è sorretta dal principio vitale del Sole, adorato da un popolo che ignora la rivelazione di Cristo.
In tale città utopistica non esiste proprietà privata e tutti i beni sono comuni, anche le donne: la famiglia intesa come microcosmo privato è praticamente cancellata. Tuttavia i cittadini non sono uguali tra loro (differenza col comunismo contemporaneo), perché ogni membro della società occupa il grado che corrisponde  alle sue capacità e alle sue qualità naturali (ricordarsi di Platone).
Al di là dell’utopia, l’opera in questione deriva della straordinaria sete di giustizia di Campanella, che in vita aveva cercato con tutte le sue forze di individuare poteri politici reali a cui affidare l’unificazione del mondo sotto l’egida della verità e della giustizia: prima la Chiesa, poi la monarchia spagnola e, infine, quella francese, osannata nella figura di quel Luigi XIV che avrebbe ricevuto proprio l’appellativo di “Re Sole”.
Accanto all’utopismo di derivazione platonica, si sviluppa anche una politica molto più realista e basata sugli avvenimenti storici del XVI e XVII secolo. Jean Bodin (1529-1596) appartiene a questa categoria di pensatori in quanto, dopo aver assistito ai disastri delle guerre di religione in Francia, alla notte di San Bartolomeo (23-24/8/1572) e all'ascesa al trono di Enrico IV, è deciso assertore dell’assolutismo regio, indicando nel sovrano l’unica fonte idonea a elaborare le leggi, mentre governo e burocrazia hanno solo compiti amministrativi.
Altro pensatore politicamente molto pragmatico è Niccolò Machiavelli (1469 – 1527), che è considerato l’iniziatore della politica come materia scissa dalla filosofia e il primo teorico dello Stato moderno. Il suo pensiero non s’interessa a Stati ideali, ma solo al miglior regime possibile per il momento storico in cui stava vivendo.
Lo Stato che concepisce è laico, concreto e privo di obiettivi trascendenti, e nasce dall’osservazione della realtà politica in cui si era venuta a trovare la penisola italiana agli inizi del XVI secolo. Infatti vivendo in un’epoca storica particolarmente turbolenta, in cui gli Stati italiani si erano ormai fortemente indeboliti a causa delle lotte interne e per le continue invasioni di potenze straniere, egli sostiene, nella sua opera fondamentale intitolata “Il Principe”, che il popolo italiano aveva necessità di un condottiero politico forte e spregiudicato, appunto un principe, capace di affrontare e gestire al meglio i problemi del suo principato utilizzando qualunque metodo utile a tale scopo, e senza farsi particolari scrupoli di natura morale, servendosi, se necessario, delle due virtù basilari che dovevano caratterizzarlo: la furbizia (volpe) e la forza (leone) (il fine giustifica i mezzi).
Nel pragmatismo che sempre lo contraddistingue, M. sostituisce il concetto di “bene” con quello di “utile”: per lui anche la religione è utile quando diventa strumento per gestire meglio il potere e creare coesione tra i sudditi, ma non deve essere alternativa al potere o immischiarsi nella gestione del potere.
M. pensa che l’uomo sia intrinsecamente crudele e competitivo, per cui spetta al principe attutire e convogliare nell’ordine statale la crudeltà dei singoli cittadini. Il principe deve essere figura dotata di virtù laica (aretè), ovvero di carisma e di capacità di leggere le situazioni che gli si presentano e di risolverle con acume, ma anche imponendo la sua volontà. Questo tipo di virtù non ha similitudini con quella predicata dalla religione.
L’autorità del principe non deriva dal popolo né da altre autorità a lui superiori, ma solo da se stesso. Egli è il responsabile della politica interna ed esterna dello Stato e ne accentra tutti i poteri. Il bene dello Stato s’identifica con l’interesse del principe. Lo Stato deve essere autartico (indipendente politicamente ed econo-micamente da ogni autorità straniera). Il principe deve tener conto anche della fortuna (sorte) perché molti av-venimenti avvengono per caso: un’equilibrata presenza di virtù e fortuna è per M. garanzia di successo per il principe. La figura in cui M. vede le qualità del principe da lui ipotizzato è Cesare Borgia, detto il Valentino.
Thomas Hobbes (1588 – 1679) Gli interessi principali di questo pensatore sono politici: d' altronde la sua filosofia matura nel contesto della prima rivoluzione inglese degli anni ‘40 del Seicento, quella sanguinosa e traumatica che ha determinato la dittatura di Cromwell e la decapitazione di Carlo I nel 1849.
L’altro grande filosofo politico inglese, John Locke, vivrà invece durante la secondo rivoluzione inglese, quella definita “gloriosa” perché fu violenta, e il suo pensiero sarà molto diverso da quello di Hobbes. Infatti per costui ciò che va evitata ad ogni costo é la guerra civile, mentre per Locke sarà la perdita della libertà.
Durante la guerra civile Hobbes rimase sempre legato alla monarchia inglese: infatti egli é uno dei grandi teorici dello Stato assoluto, ma non necessariamente della monarchia assoluta, verso la quale, comunque, nutre grandi simpatie. H. non considera il governo assoluto come una derivazione diretta da Dio, ma dal popolo: gli uomini, guidati dalla loro ragione, dalla paura reciproca e dall’esigenza di darsi un ordine sociale, decidono di aggregarsi in società e di rinunciare in parte alla loro libertà (l’uomo è lupo dell’uomo) in favore di una figura che li governi e garantisca la pace sociale, il sovrano (o il dittatore) appunto.
Rovesciando completamente la teoria aristotelica che considerava l’uomo un animale sociale, perché l’uomo di H. può essere un pericolo per sé e per gli altri, non essendo per natura un essere sociale, ma in perenne stato di guerra contro tutti, egli teorizza uno Stato assoluto in grado di sopprimere la naturale bellicosità umana, basato, però, sul consenso popolare, non sul diritto divino. H. ritiene di poter fondare la politica su una base fisico – matematica perché pensa che tutto ciò che esiste é materiale, anche quello che ci sembra spirituale (la coscienza, la memoria, il dolore). Per lui tutto è corpo, cioè materia, anche lo stesso Dio.
Questo drastico meccanicismo materialistico ovviamente condiziona anche l’etica di H.: egli, infatti, rifiuta qual-siasi teleologia (finalismo) in quanto non esistono cose buone (stabilite a priori) a cui aspirare. Ogni comporta-mento é legato ad azioni di tipo meccanicistico: a certi stimoli corrispondono determinate reazioni; é come nelle macchine (l'uomo per H. é una macchina) in cui ad ogni input corrisponde un output.
L'uomo reagisce sempre in maniera tale da sopravvivere, da autoconservarsi: perciò sceglie certe cose e non altre, ovvero opta per tutto ciò che gli consente di sopravvivere, anche se può commettere errori e darsi danno. Il bene é ciò che l' uomo di fatto sceglie a suo vantaggio e il male é ciò che evita. Da notare come in questi ragionamenti ci sia un’evidente volontà di riallacciarsi alla concretezza della matematica, che d’altra parte è tipica di tutta la filosofia del XVII secolo. Hobbes stesso riteneva che pensare non fosse altro che operare e che ogni nostro pensiero fosse riconducibile ad operazioni di somma o di sottrazione: dire “la rana é verde” significa addizionare al vocabolo rana il vocabolo verde (H. é nominalista: le idee non esistono in sé proprio perché non esistono sostanze spirituali, ma solo materiali; i nomi hanno utilità pratica perché consentono di raggruppare le cose in categorie). Dire invece “la rana non é verde” significa sottrarre alla rana il verde.
Sulla base di questa concezione totalmente realistica del bene e del male, si genera il comportamento individu-ale, ma a H., da politico, interessa maggiormente quello collettivo. Per lui nella società civile il bene e il male individuali devono cedere necessariamente il passo al bene e al male di tutti. Gli uomini sono razionalmente in grado di stabilire cosa sia più utile per la loro sopravvivenza a lungo termine e non solo sul momento.
E’ proprio quest'esigenza che li porta a fondare lo Stato: infatti per natura ogni individuo non è socievole, ma è egoista e bada solo all’utile proprio. Tuttavia, per evitare un perenne stato di guerra di tutti contro tutti (homo homini lupus), in cui ogni individuo correrebbe il pericolo di perdere la vita, ovvero il suo bene supremo, l’uomo sceglie la strada del patto (o contratto) sociale, cioè di un accordo convenzionale in cui tutti i contraenti, per garantirsi pace e sopravvivenza, si sottomettono ad un sovrano.
Non necessariamente il sovrano deve essere una persona: infatti H. concepisce lo Stato come sovrano supre-mo: In tal modo si dà origine ad una società organizzata, allo Stato, che non è naturale, dunque, ma artificioso perché nasce da un accordo fra tutti i suoi contraenti. Costoro così diventano sudditi: rinunciano alle loro libertà di individui, ma ottengono la sicurezza della sopravvivenza, il vero e principale diritto di ogni individuo.
Lo Stato, con le sue leggi e la sua sovranità assoluta, è una necessità imprescindibile per l’uomo, perché sen-za il rispetto di tale assolutezza si riprodurrebbe immediatamente lo stato di guerra che è naturale per l’uomo. Il sovrano o dittatore può tutto, può cambiare o conservare le leggi, può elargire diritti e può anche riprenderseli, ma non può obbligare al suicidio o compromettere arbitrariamente l’esistenza dei suoi sudditi o dello Stato stesso, perché il contratto che lo ha reso sovrano nasce proprio per salvaguardare questo fondamentale diritto. In tal caso i sudditi possono disfarsi del sovrano perché non garantisce più la loro sicurezza. In ogni altro caso, invece, la ribellione è illecita in quanto è una contraddizione logica, perché si rischia di compromettere la sicurezza dello Stato, quindi anche la propria.
L' opera politica più famosa di Hobbes é il “Leviatano”, e prende il nome da un mostro mitologico dell'Antico Testamento. Esso non é altro che lo Stato stesso, considerato come un mostro positivo, o anche un “Dio in terra”: lo Stato é quella realtà, spiega H., dalla quale, subito dopo Dio, ci si deve aspettare il bene maggiore.
H. lo dipinge come un leviatano, cioè un mostro, perché lo concepisce dotato di potere immenso in quanto i cittadini, per aver salva la vita, gli cedono quasi tutti i loro diritti. Il fatto che sia terribile non implica però che debba essere evitato: é e rimane l' unico mezzo per non piombare nel caos dello stato di natura, dove vige solo il diritto del più forte, dove il lupo più feroce sbrana quelli più deboli.
H. apprezzava Cromwell proprio per tale logica: ciò che conta é che ci sia un potere forte, non importa di qual natura. Il potere valido é quello che c'é, purché sia potente, cioè in grado di garantire la sopravvivenza, e pur-ché sia operativo.

Da Ermete Trismegisto, mitico mago vissuto prima di Cristo, ma in realtà mai esistito storicamente. La magia era vietata dalla Chiesa, anche se si faceva una distinzione tra magia bianca e magia nera.

 

Fonte: http://imparoqualcosa.altervista.org/rinascimento_natura_politica.doc

Sito web da visitare: http://imparoqualcosa.altervista.org

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