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Gli effetti della guerra e gli squilibri strutturali dell’economia:
Nonostante l’Italia fosse una delle potenze vincitrici della prima guerra mondiale, gli effetti provocati dalla guerra furono particolarmente drastici, sia a causa di una grande divergenza tra Nord e Sud, sia per via della ristretta base sociale che escludeva una buona parte del mondo rurale dalla vita politica. Il dopoguerra italiano fu caratterizzato da numerosi cambiamenti e avvenimenti:
Un capitalismo monopolistico e il dualismo nord-sud:
L’economia italiana è caratterizzata da due principali eventi:
La questione meridionale:
Come sappiamo il Sud stava vivendo una difficile situazione. Vi fu un grande incremento demografico, e i poveri contadini si sentivano schiacciati dai grandi proprietari terrieri. Un altro fattore che aumentò il malcontento del mezzogiorno fu sicuramente il non mantenimento degli accordi presi durante la guerra: infatti in cambio del loro appoggio in guerra, ai soldati-contadini erano state promesse delle terre e questo era stato l’unico motivo per cui i contadini pur non avendo un’adeguata preparazione militare decisero di combattere. Quindi, uno dei punti deboli del governo liberale fu quello di non essere riuscito ad affrontare e risolvere la questione agraria una volta per tutte. Cosi, i contadini decisero di occupare da soli le terre, guidati da leghe sindacali socialiste e dall’Associazione nazionale dei combattenti. Si giunse ad una radicalizzazione del conflitto, in quanto i contadini chiedevano le terre incolte delle grandi proprietà, mentre lo Stato si mostrò impassibile davanti a tali richieste. Di tale problema se ne occuparono anche alcuni intellettuali dell’epoca, infatti gli intellettuali socialisti si raccolsero attorno all’Ordine Nuovo e ad Antonio Gramsci e misero in evidenza la centralità del problema meridionale. I contadini dovevano essere i protagonisti della ricostruzione del paese. Ad eccezione dei sindacati, nessuno si propose di riorganizzare la società contadina e risolvere i suoi problemi, di conseguenza i contadini poveri rimasero dopo l’insuccesso dell’occupazione delle terre, estranei allo stato e alle sue istituzioni.
2. IL BIENNIO ROSSO IN ITALIA:
La crisi nel settore industriale:
In seguito alla conclusione del conflitto la spesa pubblica aumentò notevolmente, e cosi i colossi industriali si trovarono sull’orlo del fallimento, entrando in una delicata fase di fallimenti e contrazioni della produzione. Lo stato fu costretto ad interventi di salvataggio per impedire il crollo del sistema industriale italiano. Tutto ciò è dovuto ad un semplice fattore: gli italiani sono troppo poveri per garantire il minimo di consumazione che favorisca il sistema industriale, il quale di conseguenza, si alimentava per mezzo di esportazioni e del mercato fittizio generato dallo stato. La conseguenza di ciò fu un aumento della disoccupazione, l’aumento dell’inflazione e il crollo della lira. E sicuramente per un paese già in crisi che doveva comprare i beni di prima necessità e petrolio e carbone dall’America, il crollo della moneta costituì un vero e proprio disastro.
La mobilitazione del proletariato industriale:
Da questa grande crisi generale che investe l’economia italiana e causa l’aumento della disoccupazione, dell’inflazione e il crollo della lira, nasce un ciclo di lotte operaie, che organizzarono numerosi scioperi tra il 1918 e il 1920, facendo tre principali richieste::
Successivamente alle lotte operaie si unirono, nelle zone industrializzate, le lotte dei braccianti che non chiedevano terre ma solo salari più elevati e una organizzazione del lavoro agricolo.
Queste lotte ottennero due buoni risultati:
Nel luglio 1919 la conflittualità operaia raggiunge il suo apice quando uno sciopero indetto in segno di protesta verso il rincaro dei generi alimentari si estese a tutta l’ Italia. In questi movimenti ebbero un ruolo molto importante i Soviet che si misero a disponibilità dei ceti più poveri, distribuendo loro i beni di prima necessità. Lo stato agi molto duramente, reprimendo le lotte e causando numerose vittime. Il Psi e il Cgl non si dimostrarono in grado di controllare questo violento e forte moto popolare, che non riusci ad ottenere i risultati sperati.
La frustrazione dei ceti medi:
L’azione operaia venne meno in quanto oltre a non coinvolgere il mondo agrario lasciò isolati anche i ceti medi e la piccola borghesia urbana, che erano tutti ceti colpiti dall’inflazione. La vita in Italia era diventata impossibile, in quanto il carovita infatti dissipava i risparmi e faceva precipitare il valore dei titoli di stato che questi strati sociali si erano procurati.
Accanto a questa grave crisi economica si diffuse anche una crisi d’identità sociale. Gli ex-combattenti conoscono la disoccupazione oppure il loro tenore di vita viene pesantemente ridimensionato. Emilio Lussu, che era il fondatore del Partito sardo d’azione descrisse questa situazione nel suo romanzo a sfondo autobiografico, intitolato “Un anno sull’altipiano”.
Gli ex-combattenti messi sullo stesso piano delle classi proletarie si sentono frustati e sfogano il loro malcontento con un’opposizione alla classe operaia che riusciva con le sue rivolte ad aumentare i suoi privilegi, minacciando i piccoli privilegi e lo status di classe intermedia non proletaria degli ex-combattenti.
Oltre che verso gli operai le frustrazioni si indirizzano anche nei confronti della borghesia avida ed egoista arricchitasi durante la guerra. Si genera un clima di sfiducia nei confronti della classe dirigente liberale, incapace di tutelare gli interessi dei ceti medi rappresentandone aspirazioni e bisogni.
Benito Mussolini e la nascita del Movimento dei fasci e delle corporazioni:
A meta del 1919 si era sviluppata una chiara crisi di rappresentanza del ceto medio, il quale come sappiamo era minacciato e impoverito .
Uno dei pochi che intuirono perfettamente il malessere del ceto medio suscitato dalla grave crisi economica fu Mussolini, l’ex-direttore di “Avanti”( il giornale del Psi) ed era stato anche un esponente del Psi prima di venirne espulso a causa della propaganda interventista e nazionalista.
Il 23 marzo 1919 Mussolini fondò il movimento dei fasci e delle corporazioni che due anni dopo assunse la funzione di vero e proprio partito politico, con il nome di Partito nazionale fascista. Inizialmente il partito fondato da Mussolini era un movimento privo di riferimenti politici, i cui membri erano per lo più ufficiali e sottoufficiali delusi e i ceti medi che erano stati danneggiati dalla crisi economica.
I fasci di combattimento fanno la loro prima comparsa il 15 aprile quando incendiarono la sede dell’”Avanti” a Milano, rendendo cosi evidente il principale obiettivo del movimento: indebolire il movimento operaio e le sue organizzazioni ricorrendo alla violenza.
Fascismo e nazionalismo: Molto spesso l’azione fascista si confuse con quella del movimento nazionalista in quanto entrambi si richiamavano alla stessa concezione ideologica basata sull’attivismo volontaristico, l’esaltazione della violenza e dell’atto individuale, tutti valori che si scontrano con quelli pacifisti dello stato di diritto.
Il mito della vittoria mutilata e la questione di Fiume:
Gia immediatamente dopo la guerra, la propaganda nazionalista aveva fatto leva sul risentimento dell’opinione pubblica verso i risultati piuttosto deludenti ottenuti alla conferenza di Versailles. Infatti, durante la conferenza, Orlando (presidente del Consiglio) e Sonnino (ministro degli esteri) denunciarono la differenza di trattamento tra i diversi paesi vincitori e si scontrano con Wilson (presidente USA) sul tema dell’annessione della Dalmazia che l’Italia riteneva necessaria per proteggere i propri confini adriatici. Nel 1919 l’Italia abbandonò in segno di protesta la conferenza si diffuse l’idea secondo cui nonostante l’Italia avesse vinto la guerra, aveva perso la pace ed è da ciò che nasce il mito della vittoria mutilata, che venne utilizzato dal movimento nazionalista come strumento di propaganda contro il governo liberale, accusato di non avere uno spirito combattivo ma rinunciatario.
Così, si verifica la contrapposizione politica tra l’Italia di Vittorio Veneto (nata dalla guerra e dalla vittoria) e quella prebellica (basata sulla democrazia liberale e socialista). Tutta questa situazione di instabilità portò alle dimissioni di Orlando (giugno 1919), ma il successivo nuovo governo di Francesco Saverio Nitti non fu in grado di risolvere la crisi sviluppatasi in Italia che si aggravò invece ulteriormente nella seconda metà del 1919.
Successivamente la situazione risultò più pacifica in seguito alla proposta di un accordo che prevedeva l’indipendenza di Fiume, che era stata subordinata per 15 anni alla Società delle Nazioni. Però i nazionalisti italiani essendo in disaccordo con questa soluzione si scatenarono contro il governo. E la situazione peggiorò quando si diffuse la notizia secondo cui a Fiume si erano verificati degli scontri tra italiani e francesi che erano presenti nella città. Venne mandata una commissione per decidere di chi fosse la responsabilità e si decise di limitare la presenza italiana a Fiume, mandando a Ronchi un reggimento di Granatieri di Sardegna. Ma fu proprio da Ronchi che il 12 settembre 1919 Gabriele d’Annunzio partì alla volta di Fiume e una volta arrivato là,dichiarò l’annessione di Fiume all’Italia, rimenando il padrone della città per più di un anno. In questa situazione la debolezza del governo risultò evidente in quanto non riusci ad intervenire per oltre un anno dando la possibilità a D’Annunzio di cercare di trasformare Fiume in un modello politico di riferimento e conforme alla propaganda nazionalista, antiparlamentare e militarista. L’occupazione di D’Annunzio si concluse con il trattato di Rapallo firmato il 12 novembre 1920, attraverso cui Fiume venne dichiarata città libera, mentre D’Annunzio che si rifiutò di accettare fu cacciato via insieme ai suoi uomini dalle truppe italiane.
Il Partito popolare e il cattolicesimo democratico di Sturzo:
Con l’abrogazione del “non expedit”, bolla di Pio IX in occasione della presa di Roma nella volontà di farla capitale, che vietava ai cattolici di partecipare alla vita politica e dai sentimenti suscitati da questo difficile clima, nacque una nuova forza politica, conosciuta con il nome di Partito popolare italiano (PPI).
Il fondatore del partito fu Don Luigi Sturzo, che propose un programma i cui principali obiettivi erano:
Con il suo programma il partito raccolse l’appoggio delle masse e dei piccoli commercianti provenienti dalle aree meno industrializzate del paese.
Il Ppi rappresentava il mondo cattolico con il suo carattere complesso e le sue contraddizioni; infatti, era costituito da elementi che provenivano sia dal mondo sindacale (prestando attenzione alla giustizia sociale), sia dalla parte degli esponenti moderati (che miravano ad un’alleanza con classi conservatrici).
La vittoria dei partiti popolari:
In questa situazione di tensione e di crisi il popolo venne chiamato a votare. In queste elezioni avvenne il passaggio dal sistema uninominale (elezione di un unico candidato), che si era già precedentemente indebolito con il suffragio universale maschile, a quello proporzionale( che prevedeva l’elezione di più candiati) appoggiato dai cattolici e dai socialisti.
Con l’introduzione del nuovo sistema proporzionale la base del consenso per venire eletti si era notevolmente ampliata ed era fondamentale poter contare su una vasta rete organizzativa che solo socialisti e popolari avevano.
Il 16 novembre 1919 i popolari e i socialisti (con l’appoggio dei lavoratori) vinsero le elezioni pur avendo meno voti ma più seggi; il partito fascista ottenne solo 4 mila voti (dato significativo).
Il passaggio dai liberali ai socialisti e ai popolari costituisce l’espressione delle classi subalterne.
La difficile ricerca di nuovi equilibri:
Nonostante tutto, questo cambiamento non risolse la crisi politica e sociale del paese che raggiunse invece una situazione di stallo: i partiti vincitori avevano programmi troppo contrastanti tra loro per poter raggiungere un accordo e allearsi ma, nello stesso tempo, nessuno di loro era in grado di governare il paese da solo.
Il Parlamento rinnovò la fiducia al liberale Nitti (capo de governo dopo Orlando), ma nel maggio 1920 venne costretto alle dimissioni. In questa situazione politica molto difficile riapparve nuovamente Giolitti (che all’elezioni aveva ottenuto la maggioranza relativa, ma non la maggioranza dei seggi) come l’unico uomo politico in grado di dar vita ad una maggioranza che riproducesse nello scenario postbellico il compromesso borghesia-classi lavoratrici che aveva costituito il principale motivo del decollo industriale di inizio secolo.
Giolitti essendosi presentato con un programma fortemente riformista basato principalmente sul tentativo di aumentare i poteri del parlamento, non ottenne il consenso dei socialisti e nemmeno quello dell’intero partito popolare.
Nel frattempo nel paese il conflitto sociale aumentava così come si amplificavano a dismisura le azioni violente dei fascisti e rimaneva ancora aperta la questione di Fiume.
L’occupazione delle fabbriche: la rivoluzione alle porte?
La crisi sociale assunse un atteggiamento rivoluzionario il 30 agosto con l’occupazione della fabbrica dell’Alfa Romeo da parte degli operai che si opponevano alla chiusura della fabbrica imposta dalla direzione, che si opponeva alle rivendicazioni dei lavoratori.
Nell’arco di pochi giorni i lavoratori si accinsero ad occupare le fabbriche del triangolo industriale; e venne presa di mira soprattutto la città di Torino dove operava il gruppo dell’Ordine Nuovo di cui facevano parte Togliatti, Terracini e Tasca, che due anni dopo fondarono il Partito comunista d’Italia, che si ispirava all’esperienza sovietica e consideravano i consigli di fabbrica come uno strumento di conquista del potere. Però considerando il partito “non ancora pronto” il Psi rinunciò a guidare il movimento e ugualmente la Cgl si rifiutò di potenziarlo. Di conseguenza, a capo del movimento rimase solo la Fiom, ovvero la federazione italiano degli operai metallurgici, che però non riuscì a coinvolgere nell’iniziativa gli operai provenienti dagli altri settori.
L’iniziativa dei lavoratori e le conseguenze che ne derivarono costituiscono il momento culminante dell’attacco operaio nei confronti delle strutture della società borghese.
La crisi del compromesso giolittiano:
Il 15 settembre 1920 venne stipulato un accordo che mise fine all’occupazione delle fabbriche e che prevedeva il riconoscimento in favore degli operai di elementi di controllo ed intervento all’interno della gestione delle aziende (seppur solo formalmente) nonché forti aumenti salariali.
Il moto operaio era troppo debole e circoscritto per uscire dai confini istituzionali ed era inoltre troppo violento per essere ricomposto per mezzo di un accordo che ne decretava una fine solo apparente.
La borghesia agraria e manifatturiera che estese la sua influenza su molti settori che non concordavano più con i metodi di Giolitti, in quanto ritenevano che il potere dei sindacati e le continue richieste delle classi operaie costituivano la principale causa del disordine sociale e il maggiore ostacolo per il definitivo risanamento dell’economia italiana. Inoltre, per la borghesia industriale le cose si erano messe male in quanto le lotte, ispirate al mito dei soviet, tendevano ad avere un carattere fortemente rivoluzionario ed inoltre gli operai avevano già dimostrato di poter far funzionare le fabbriche anche da soli.
Questa prospettiva pericolosa cambiò le idee degli industriali che rifiutarono quelle moderate di Giolitti, e finirono con l’accettare quelle del fascismo e delle sue squadre armate.
Dal biennio rosso al biennio nero:
Questo periodo di incertezza e di lotte e rivendicazioni sociali è caratterizzato da due situazioni principali:
La crisi del 1921 : si trasforma lo scenario economico e sociale:
Nel 1921 le due maggiori aziende siderurgiche, l’Ilva e l’Ansaldo si trovarono in una situazione di grande crisi, andando quasi in fallimento, tra l’altro trascinando anche le banche che avevano finanziato i loro investimenti e le loro speculazioni. Fu lo Stato ad operare una sorta di attività di salvataggio, consentendo a tali aziende di sopravvivere però ridimensionandole; mentre nei vari settori produttivi in cui si verificò un calo degli investimenti che provocò una grande disoccupazione. La disperazione e soprattutto la ricerca di un occupazione stabile indebolì sicuramente la forza rivendicativa del movimento operaio (basti pensare che le ore di sciopero erano passate da 16 a 6). Questo era il principale simbolo della conclusione di uno dei più importanti cicli storici: la classe operaia manifestò un atteggiamento di arresa agevolando la borghesia, che adesso poteva ridistribuire i redditi secondo i propri interessi.
Giolitti nel 1921, abolì il prezzo politico del pane e successivamente aumentò le tariffe protezionistiche allo scopo di proteggere le industrie e l’economia Italia.
La fine del compromesso giolittiano e la nascita del Partito fascista:
Il cambiamento economico del 20-21 spinse il fascismo a diventare, da movimento minoritario violento a soggetto politico in grado di guidare la risoluzione di questa grave crisi.
La crisi del compromesso giolittiano e le difficoltà del movimento operaio agevolarono la riorganizzazione della parte conservatrice sotto la guida dei fasci.
Così, il movimento dei fasci si trasformò nel Partito nazionale fascista (11 novembre 1921)che costituiva un partito organizzato gerarchicamente che abbandonava le tendenze anticlericali e antimonarchiche tipiche del movimento dei fasci e delle corporazioni.
In parlamento, Mussolini si impegnò in favore della chiesa conquistando le simpatie di Pio XI (il nuovo papa)e abbandonò anche le idee repubblicane ottenendo ampi consensi anche negli ambienti monarchici.
Nonostante questi cambiamenti e progetti, alla base del progetto politico fascista rimaneva comunque l’uso della violenza , rivolto in particolare nei confronti del movimento operaio. A tale scopo Mussolini potenziò le squadra d’azione, e decise di intensificare le spedizioni punitive contro sedi di partiti e giornali a lui ostili (democratici) incendiando, distruggendo e causando numerose vittime. Le azioni fasciste sono rivolte soprattutto alle campagne.
Nella val Padana la proprietà si era spostata dai grandi proprietari a piccoli e medi agricoltori fortemente indebitati. Questi vedevano con timore le lotte contadine entrando in collisione con gli interessi dei braccianti aprendo quindi una frattura nella società rurale. In tale fratture fa il suo ingresso il partito fascista, garante della proprietà, il quale organizza squadre armate per distruggere le sedi dei sindacati, delle leghe, delle cooperative rosse (socialiste) e bianche (cattoliche). La violenza maggiore viene esercitata verso le leghe bracciantili.
Gli errori di prospettiva di Giolitti e l’impasse del partito socialista:
Senza l’appoggio dei liberali il fascismo non avrebbe mai potuto salire al potere; le forze liberali pur non condividendo le azioni del fascismo, lo appoggiavano allo scopo di combattere il movimento bracciantile, per poi staccarsi da esso e frenarlo una volta ottenuto il loro scopo.
L’azione del fascio e dei liberali fu agevolata dal fatto che le forze di sinistra e il movimento sindacale sottovalutavano la gravità della situazione e quindi non puntarono sulla mobilitazione popolare. Della gravità della situazione se ne accorsero nettamente in ritardo e quindi anche lo sciopero legalitario (1 agosto 1922) indetto dall’Alleanza del lavoro, nonostante avesse ottenuto un grande sostegno soprattutto dalle masse popolari, non fu in grado di ostacolare l’azione delle squadre fasciste, che organizzarono numerose incursioni senza trovare opposizione e spesso furono aiutate da prefetti e autorità militari.
Giolitti e Nitti non riuscendo ad organizzare insieme le esigenze delle classi lavoratrici e delle classi medie decise di sostenere il partito fascista.
Le spaccature nel movimento socialista:
Come abbiamo detto i riformisti decisero di appoggiare il partito fascista e questo portò a delle contraddizioni interne nel Psi. La direzione espulse alcuni membri tra i quali spicca il nome di Turati, uno dei fondatori del Partito socialista unitario avente Giacomo Matteotti come segretario. In vista di questa scelta, la Cgl che era guidata da una buona parte dei socialisti riformisti rinunciò all’alleanza con il Psi, assumendo una posizione di maggiore libertà.
Questi erano i risultati di una lunga crisi politica originatasi al 27°congresso del Psi a Livorno. In quel giorno la minoranza comunista decise di abbandonare il partito socialista e, capeggiata da Gramsci, decise di formare il Partito comunista d’Italia; tale partito rimase in aperta rottura con il massimalismo e il riformismo socialista.
Così, isolato ed indebolito il partito socialista non fu in grado di sopportare l’urto delle azioni delle squadre fasciste che con le loro incursioni si diffusero in tutte le città di “sinistra” senza incontrare alcuna resistenza.
La debolezza dei governi liberali:
Come abbiamo detto in precedenza, Mussolini intuendo il momento della svolta, fondò nel 1921 il partito fascista, che agevolò sicuramente una maggiore azione politica, che si estendeva alle componenti borghese e cattolica. Infatti, inizialmente Mussolini si impegnò a favore della chiesa ottenendo le simpatie di Pio XI.
Quindi il gruppo dirigente fascista considerò questo come il momento giusto per elaborare un piano insurrezionale allo scopo di piegare le ultime resistenze antifasciste accelerando così la scalata verso il potere.
In quello stesso momento lo stato liberale si trovava in una situazione di grande crisi: non possedeva più il controllo dell’ordine pubblico (i fascisti dettano legge con la forza e le armi), e inoltre l’opposizione socialista diventava sempre più debole davanti alla forza fascista.
La debolezza dello stato liberale si concretizzò dunque in un Parlamento “paralizzato” da divisioni interne e quindi incapace di assumere un direzione politica valida. Con il ’21, anno nel quale cadde il governo Giolitti, si susseguirono al governo ministeri incapaci di controllare la situazione, mentre la maggioranza moderata, pur criticandone la tendenza illiberale, decise di sostenere Mussolini. Così, l’instabilità politica si acuisce ulteriormente.
La marcia su Roma: l’Italia verso la dittatura
Il 16 ottobre 1922 i dirigenti fascisti stabilirono un piano allo scopo di organizzare l’insurrezione che gli avrebbe portati direttamente al potere.
Così, i fascisti al comando di un “quadrumvirato” composto da De Bono, Balbo, Cesare de Vecchi e Michele Bianchi , partirono alla volta di Roma (19 ottobre) occupando le città e i paesi dell’Italia centro-settentrionale; Vittorio Emanuele respinse la proposta del capo del governo Facta di decidere lo stato di assedio in modo da permettere l’intervento dell’esercito per bloccare le squadre fasciste e affidò a Mussolini l’importante compito di formare un nuovo governo (28 ottobre).
Così, il progetto dei liberali di allearsi con il partito fascista per poi controllarlo fallì.
L’appoggio della corona, della borghesia industriale e agraria e la neutralità della chiesa permisero ai fascisti e a Mussolini di imporre la voluta svolta autoritaria arrivando cosi al potere. Successivamente si passò dal “colpo di stato” di Mussolini ad una dittatura cupa ed aggressiva.
I fascisti al governo:
All’interno del primo gabinetto fascista trovano posto anche liberali, popolari ed indipendenti; tale governo era dunque sostenuto da un’ampia maggioranza parlamentare.
Tale fiducia fu determinata dai risultati immediati ottenuti dal governo Mussolini.
Dopo il 1924, grazie alla ripresa dell’economia nazionale, crebbero notevolmente le esportazioni di manufatti, permettendo un vero e proprio boom economico, che durerà fino al 1926, ovvero quando si giungerà ad una nuova fase di ristagno. Per porre rimedio a tale problema diminuendo le importazioni, i fascisti decisero di stimolare al massimo la produzione interna, lanciando due iniziative, che vennero propagandate attraverso i mass media come radio , cinema e giornali :
Tali iniziative richiedevano un ingente utilizzo di manodopera che risolve sicuramente positivamente (almeno in parte) il problema della disoccupazione nelle campagne.
Il delitto Matteotti: il carattere illiberale del fascismo:
Nei primi anni di governo, Mussolini, dette avvio ad un programma di radicali trasformazioni istituzionali. Tradizionalmente ostile al Parlamento, il fascismo ne sostenne le caratteristiche essenziali, costituendo dei nuovi organismi in sostituzione di esso, che erano conformi alle esigenze della futura dittatura. Così, nacquero il gran consiglio del fascismo, a cui furono attribuite alcune funzioni che in principio spettavano al parlamento, e la milizia volontaria per la sicurezza nazionale, incaricata della difesa del regime e della quale entrò a far parte anche la squadra d’assalto; aumentano naturalmente le restrizioni in materia di libertà di stampa e di riunione.
Nel 1924 le elezioni vennero vinte dal “listone” (fascisti e conservatori) per mezzo di voti truccati ed intimidazioni. Solo Giacomo Matteotti (deputato socialista) ebbe il coraggio di denunciare tale fatto al Parlamento, venendo così rapito ed ucciso a Roma il 10 giugno 1924.
Tale delitto suscitò una grande indignazione nell’opinione pubblica ed in parlamento alcuni deputati abbandonano la Camera attuando una protesta morale che restò tuttavia solo simbolica (la secessione dell’Aventino) in quanto Mussolini, sebbene apparisse preoccupato e dubbioso, utilizzò l’aiuto e la protezione del re Vittorio Emanuele III.
Sicuramente, uno dei punti di forza del fascismo fu il sostegno di papa Pio IX, che era il rappresentante della componente cattolica più conservativa, che si opponeva al socialismo.
Il 1926, l’anno di svolta :la costruzione del regime fascista:
Passata la bufera in seguito all’assassinio di Matteotti, Mussolini diede una svolta radicale alla sua politica, in quanto fino a quel momento aveva sempre rispettato formalmente le regole costituzionali. Così, prese corpo un assetto istituzionale e politico conosciuto con il nome di regime fascista anche per mezzo di iniziative parallele quali:
Il vero anno di svolta fu comunque quello compreso tra il 1925 e il 1926: si passò da un regime ad una vera e propria dittatura attraverso la promulgazione di una serie di decreti governativi con la collaborazione di Alfredo Rocco (ministro della Giustizia) uno dei capi del nazionalismo. Tali decreti limitavano ancora di più la libertà di stampa e di attività politica.
Le leggi sindacali:
Nel 1925 l’accordo di palazzo Vidoni obbligò la Confindustria a stipulare accordi solo con il partito fascista. Infatti, nell’aprile 1926 vennero promulgate delle leggi sindacali che resero illegali scioperi e chiusure delle fabbriche. Gli organismi di rappresentanza sindacale vennero riconosciuti come organismi di stato ed inquadrati in corporazioni professionali che avrebbero dovuto risolvere i conflitti sociali a favore degli interessi superiori della nazione. La tutela di questi interessi della nazione venne affidata alla Magistratura del lavoro. Con tale azione repressiva venivano disconosciuti i lavoratori come forza sociale e, nello stesso tempo, diventavano semplice forza lavoro.
Da queste leggi si nota la volontà di creare uno stato totalitario che impedisce ai lavoratori di difendersi e contrattare liberamente i propri interessi. Nell’anno successivo venne stilata la cosiddetta Carta del lavoro, che presentava gli obiettivi generali della nuova politica sociale, che avrebbero dovuto favorire una collaborazione tra le classi.
La svolta in politica economica: la rivalutazione della lira
Nel 1926 con il discorso di Pesaro, Mussolini lanciò l’operazione “Quota 90” che consisteva in una rivalutazione della lira nei confronti della sterlina, che era la principale moneta di scambio. La nuova fase prevedeva una diminuzione dell’inflazione per mezzo del controllo dei prezzi, la protezione di risparmiatori e la tutela dei settori industriali più forti facendo ricorso ad un rigido protezionismo. Tale azione rafforzò il consenso interno ed estero e stimolò la grande industria pur danneggiando la piccola impresa esportatrice. La rivalutazione politica fece capire inoltre che in Italia l’unica volontà politica era quella del duce; si trattava di una prova di forza che fece capire agli industriali che il nuovo governo non assomigliava minimamente a quello vecchio e che la mediazione non era comunque tanto semplice e scontata.
Mussolini aveva dimostrato di saper fornire garanzie e di saper mediare i suoi interessi verso i lavoratori; tutto doveva essere subordinato alla completa adesione al regime e al riconoscimento del suo potere indiscusso. La svolta politica andava quindi resa in questa ottica: lo stato corporativo e l’irriggimentazione degli organi statali erano condizioni indispensabili affinché le conseguenze sociali della rivalutazione della lira non portassero ad una nuova conflittualità sociale.
Gli effetti sociali della rivalutazione: il consenso della piccola borghesia
Quota 90 portò ad una nuova crisi nei settori economici dediti all’esportazione e aumentò la disoccupazione a dismisura e si verificò una forte erosione dei salari.
Anche la chiesa contribuì ad aumentare lo sviluppo del fascismo in quanto prima tollerò la distruzione del partito popolare e lo scioglimento delle organizzazioni giovanili ed in seguito appoggiò la svolta totalitaria del regime.
Fonte: http://anki.altervista.org/appunti/riassunti/stato_liberale_fascismo.doc
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