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Superstizione e magia nell’antica Roma (lezione 6, le Streghe/1)
Unità d’approfondimento a cura delle prof.sse Benedetta Nanni e M.Luisa Vezzali
Il mondo latino conosce due tipi di streghe: le striges (strix, strigis, f.) e le sagae (saga, sagae, f.).
STRIGES – Il nome strix (che alterna con il più raro striga, f.) in latino è in origine un ornitonimo, designa cioè un rapace notturno, probabilmente il barbagianni. Eppure compare in molti testi della tradizione letteraria con il senso di creatura demoniaca, molestatrice di bambini, avida di carni umane. Da qui il significato della parola italiana “strega”. Gli etimologisti sono ancora incerti se farla derivare da stringo (= stritolare, legare) o strido (= stridere, sibilare). Per la seconda opta con decisione Ovidio che nei Fasti (VI 139-40) mette in diretta relazione i due termini: est illis (avibus) strigibus nomen; sed nominis huius / causa, quod horrendum stridere nocte solent, «Quegli (uccelli) hanno il nome di “strigi”, ma il motivo del nome è che sono soliti stridere orrendamente di notte».
SAGAE – Si tratta di un termine dall’etimologia più positiva rispetto al precedente, come ci conferma lo stesso Cicerone nel De divinatione (I 21): Sagire enim sentire acute est; ex quo sagae anus, quia multa scire volunt, et sagaces dicti canes. Is igitur qui ante sagit quam oblata res est, dicitur praesagire, id est futura ante sentire, «Sagire, difatti, significa aver buon fiuto; donde si chiamano sagae le vecchie fattucchiere, perché pretendono di saper molto, e "sagaci" sono detti i cani. Perciò chi ha il sentore (sagit) di qualcosa prima che accada, si dice che "pre-sagisce", ossia sente in anticipo il futuro».
Come indirettamente afferma anche lo scrittore enciclopedico Plinio il Vecchio (23-79 d.C.), le streghe romane sono depositarie di tre tipi di magia:
1. magia del gesto: per esempio, a Roma era vietato andare per la campagna facendo ruotare i fusi, perché il loro moto avrebbe impedito agli steli di crescere diritti, non si potevano incrociare le braccia o le gambe nelle riunioni pubbliche; cfr. adsidere gravidis vel cum remedia alicui adhibeantur, digitis pectinatim inter se inplexis veneficium est, «stare con le dita incrociate a pettine presso una donna incinta o mentre si somministrano medicine a qualcuno è maleficio» (Naturalis Historia, XXVIII 17, 59);
2. magia della parola: formulata attraverso un carmen (formula) o cantatio (incantesimo); cfr. ex homine remediorum primum maximae quaestionis et semper incerta est, polleantne aliquid verba et incantamenta carminum… in universum vero omnibus horis credit vita nec sentit, «circa i rimedi tratti dall’uomo, la prima e più dibattuta questione, concerne il potere che avrebbero certe parole e formule… ma in generale tutti vi prestano fede, seppur inconsapevolmente, in ogni momento» (ib., XXVIII 3, 10);
3. magia dei pocula, cioè delle sostanze, anche tratte dal corpo umano, soprattutto femminile; cfr. mulieris quoque salivam ieiunam petentem diiudicant cruentatis oculis et contra epiphoras, si ferventes anguli oculorum subinde madefiant, efficacius, si cibo vinoque se pridie ea abstinuerit… invenio etiam… abigi grandines turbinesque contra fulgura ipsa mense nudato; sic averti violentiam caeli, in navigando quidem tempestates etiam sine menstruis, «ritengono la saliva a digiuno di una donna efficace per gli occhi infiammati o contro la secrezione lacrimale, se vengono bagnati a poco a poco gli angoli degli occhi che bruciano, rimedio ancora più efficace, se la donna si sarà astenuta dal cibo e dal vino il giorno prima… trovo anche che… le donne esponendosi nude di fronte ai lampi, nel periodo delle mestruazioni, allontanano la grandine e le bufere; così volgono altrove la violenza dei fenomeni atmosferici; durante la navigazione, poi, cacciano le tempeste anche senza essere mestruate» (ib., XXVIII 23, 76-7).
Uno dei testi più famosi che ha come protagonista una strega che, aiutata da tre colleghe, compie un rito orrendo su un fanciullo per preparare un filtro d’amore, è del poeta d’età augustea Orazio (65-8 a.C.). Accanto alla descrizione minuziosa dell’aspetto mostruoso delle fattucchiere, dei vari ingredienti magici che vanno maneggiando per i loro riti, sono notevoli la cupa preghiera di Canidia e la maledizione con cui il fanciullo promette alle streghe che tornerà a tormentarle in forma di fantasma notturno. Il pezzo attacca bruscamente con la domanda del ragazzo impaurito che chiede cosa gli sta per capitare: solo a poco a poco si viene precisando il quadro impressionante della scena, con l’accurata registrazione degli atti e delle formule della stregoneria. L’effetto è ottenuto grazie a un tono spiccatamente realistico che indugia sui particolari (per es. Canidia che si morde la lunga unghia del pollice). L’epodo può essere scandito in quattro sezioni: 1) dal v. 1 al v.10 inizio in medias res, disperata supplica del puer; 2) dal v. 11 al v. 46 (36 versi) ogni strega svolge il suo compito; 3) dal v.47 al v. 82 (altri 36 versi) invocazione di Canidia e dichiarazione del suo orrendo proposito; 4) dal v. 83 al v. 102 (20 versi) maledizione del puer in Ringcomposition. Considerando la prevalenza delle parti “parlate”, l’andamento è simile a quello di un mimo, genere teatrale molto amato all’epoca che con l’andare del tempo assunse caratteri sempre più grotteschi, pornografici e violenti (fino alla vista raccapricciante di sangue umane sotto Caligola). Grande novità del mimo rispetto alle altre rappresentazioni, affidate esclusivamente ad attori maschi, era la presenza di donne (in genere prostitute) sulla scena.
T5 Canidia
(Orazio, Epodi, carme 5)
Metro: trimetro + dimetro giambico
«At o deorum quidquid in caelo regit
terras et humanum genus,
quid iste fert tumultus? aut quid omnium
vultus in unum me truces?
5 per liberos te, si vocata partubus
Lucina veris adfuit,
per hoc inane purpurae decus precor,
per improbaturum haec Iovem,
quid ut noverca me intueris aut uti
10 petita ferro belua?»
ut haec trementi questus ore constitit
insignibus raptis puer,
impube corpus, quale posset impia
mollire Thracum pectora:
15 Canidia brevibus implicata viperis
crinis et incomptum caput,
iubet sepulcris caprificos erutas,
iubet cupressos funebris
et uncta turpis ova ranae sanguine
20 plumamque nocturnae strigis
herbasque, quas Iolcos atque Hiberia
mittit venenorum ferax,
et ossa ab ore rapta ieiunae canis
flammis aduri Colchicis.
25 at expedita Sagana, per totam domum
spargens Avernalis aquas,
horret capillis ut marinus asperis
echinus aut currens aper.
abacta nulla Veia conscientia
30 ligonibus duris humum
exhauriebat, ingemens laboribus,
quo posset infossus puer
longo die bis terque mutatae dapis
inemori spectaculo,
35 cum promineret ore, quantum exstant aqua
suspensa mento corpora;
exsecta uti medulla et aridum iecur
amoris esset poculum,
interminato cum semel fixae cibo
40 intabuissent pupulae.
non defuisse masculae libidinis
Ariminensem Foliam
et otiosa credidit Neapolis
et omne vicinum oppidum,
45 quae sidera excantata voce Thessala
lunamque caelo deripit.
hic inresectum saeva dente livido
Canidia rodens pollicem
quid dixit aut quid tacuit? «o rebus meis
50 non infideles arbitrae,
Nox et Diana, quae silentium regis,
arcana cum fiunt sacra,
nunc, nunc adeste, nunc in hostilis domos
iram atque numen vertite.
55 formidulosis cum latent silvis ferae
dulci sopore languidae,
senem, quod omnes rideant, adulterum
latrent Suburanae canes
nardo perunctum, quale non perfectius
60 meae laborarint manus.
quid accidit? cur dira barbarae minus
venena Medeae valent,
quibus superbam fugit ulta paelicem,
magni Creontis filiam,
65 cum palla, tabo munus imbutum, novam
incendio nuptam abstulit?
atqui nec herba nec latens in asperis
radix fefellit me locis:
indormit unctis omnium cubilibus
70 oblivione paelicum?
a! a! solutus ambulat veneficae
scientioris carmine.
non usitatis, Vare, potionibus,
o multa fleturum caput,
75 ad me recurres nec vocata mens tua
Marsis redibit vocibus.
maius parabo, maius infundam tibi
fastidienti poculum
priusque caelum sidet inferius mari
80 tellure porrecta super
quam non amore sic meo flagres uti
bitumen atris ignibus.»
sub haec puer iam non, ut ante, mollibus
lenire verbis impias,
85 sed dubius unde rumperet silentium,
misit Thyesteas preces:
«venena magnum fas nefasque, non valent
convertere humanam vicem.
diris agam vos: dira detestatio
90 nulla expiatur victima.
quin, ubi perire iussus exspiravero,
nocturnus occurram furor
petamque voltus umbra curvis unguibus,
quae vis deorum est Manium,
95 et inquietis adsidens praecordiis
pavore somnos auferam.
vos turba vicatim hinc et hinc saxis petens
contundet obscaenas anus;
post insepulta membra different lupi
100 et Esquilinae alites
neque hoc parentes, heu mihi superstites,
effugerit spectaculum.»
Traduzione: «Per tutti gli dei che in cielo governano il genere umano e la terra, cos'è questo fermento? Perché tutte mi guardate con occhi truci? Per i tuoi figli, se a presenziare un tuo parto hai mai invocato Lucina1, per questo vano ornamento di porpora, per Giove che questo condanna, dimmi, perché mi guardi come una matrigna o una belva ferita?» Cosí con voce tremante pianse il fanciullo, quando impietrito fu spogliato, un corpo immaturo che avrebbe intenerito l'empio cuore dei traci. Canidia allora, che fra i capelli arruffati ha nodi guizzanti di vipere, ordina che su fiamme della Còlchide siano arsi cipressi funebri, caprifichi divelti dai sepolcri, uova di rospo viscido sporche di sangue, penne di civetta, erbe che vengono da Iolco o dall'Iberia2, patria di veleni, e ossa strappate ai denti di una cagna. Sàgana intanto, discinta e con i capelli irti come riccio di mare o cinghiale in fuga, sparge in tutta la casa acqua del lago Averno3. Veia, che non è distolta da alcun rimorso, scava a colpi di zappa la terra, gemendo per la fatica: qui seppelliranno il fanciullo con solo il capo che affiora, come chi nuota fuori dell'acqua ha solo il mento, perché davanti ai cibi sempre nuovi e freschi abbia a morire lentamente: con il midollo estratto e il fegato inaridito si farà cosí un filtro d'amore, quando le sue pupille sbarrate sul cibo vietato si saranno spente. Era presente anche Folia, la riminese (cosí si crede a Napoli fra gli sfaccendati e nelle città vicine), che ama le donne come un uomo e per magia con l'incanto della sua voce strappa dal cielo luna e stelle. E Canidia, livida di rabbia, rodendosi con i denti l'artiglio del pollice, senza ritegno disse: «Dell'opera mia fedeli testimoni, Notte e Luna, regina del silenzio, al tempo dei sacri misteri, ora, ora assistetemi e l'ira divina volgete sulle case ostili. Mentre le fiere si nascondono negli orridi, abbandonate a un dolce sonno, fate che i cani di Suburra4 latrino contro quel vecchio traditore e tutti ridano, profumato cosí com'è di nardo, che migliore non saprei fare. Ma perché, perché non hanno effetto i veleni spietati della barbara Medea5? Con questi, in fuga, si vendicò della figlia del grande Creonte, la superba rivale, quando il peplo avvelenato, datole in dono, tra le fiamme rapí la sposa in fiore. Nessuna radice nascosta in luoghi impervi, nessuna erba m'è sfuggita, e il letto, in cui dorme, tutte le mie rivali dovrebbe per malia fargli scordare. Per gli incantesimi di un'altra maga, ahimè, piú sapiente, se ne va libero. Ma ora, Varo, dovrai piangere a lungo: per effetto di un filtro inusitato correrai da me e a me tornerà il tuo cuore non piú attratto da cantilene marsiche. Filtro piú forte ti preparerò, piú forte te lo mescerò, visto che mi odi, e il cielo sprofonderà nel mare e su questo si stenderà la terra, se tu per me non arderai d'amore come la fiamma nera del bitume.» A queste minacce il fanciullo piú non tenta d'intenerire quelle scellerate, ma dopo lo smarrimento rompe il silenzio e lancia, come Tieste6, la sua maledizione: «I filtri non possono mutare il destino degli uomini, giusto o ingiusto che sia. Vi maledirò; e questa maledizione nessun sacrificio potrà espiarla. Quando, messo a morte, sarò spirato, innanzi vi comparirò nella notte come un demone, larva che con gli artigli vi ghermirà il volto, perché questo possono i morti, e pesando sui vostri cuori inquieti, nel terrore vi ruberò il sonno. Nei villaggi da ogni parte la folla vi lapiderà, streghe maledette, e avvoltoi e lupi sull'Esquilino7 dilanieranno le vostre membra insepolte: questo dovranno vedere i miei genitori, che, ahimè, mi sopravviveranno.»
1 Epiteto di Giunone, protettrice del parto.
2 Iolco è una città della Tessaglia, regione rinomata per le maghe, e patria di Giasone; l’Iberia è la regione del Ponto fra l’Armenia e la Colchide il luogo dove era nata Medea.
3 Lago vicino a Cuma, dove si riteneva si trovasse l’ingresso degli Inferi.
4 Quartiere malfamato di Roma, tra il Quirinale e l’Esquilino, ritrovo di prostitute.
5 Medea, figlia di Eeta, re della Colchide, quando gli Argonauti giunsero nella sua patria per impadronirsi del vello d’oro, fu presa d’amore per Giasone; a lui Eeta aveva imposto di aggiogare all’aratro due tori dagli zoccoli di bronzo che spiravano fiamme dalle narici. Medea aiutò Giasone a superare la prova, ungendolo con un filtro magico che lo protesse dalle fiamme. Compiuta l’impresa, Medea e Giasone fuggirono insieme dalla Colchide. Ma Giasone ripudiò Medea per sposare la principessa corinzia Creusa, figlia di Creonte. Medea si vendicò inviando alla sposa una veste avvelenata (secondo Orazio con lo stesso filtro magico che aveva usato per Giasone): indossatala, la principessa si consumò tra le fiamme. Medea infine fuggì sul carro del dio Sole, suo nonno.
6 Tieste, figlio di Pelope, fratello e rivale di Atreo. Quando Atreo, fingendo la riconciliazione, lo invitò ad un banchetto in cui gli imbandiva le carni dei figli, Tieste maledì il fratello e tutta la sua discendenza.
7 Sull’Esquilino si gettavano i cadaveri dei poveri, degli schiavi e dei condannati e lì si riunivano le streghe.
Fonte: http://www.liceogalvani.it/download_file.php?id=7443
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