Crisi del 1929 e New Deal
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Crisi del 1929 e New Deal
La crisi del 1929
Il “crollo di Wall Street”, il “grande crollo”, la “crisi del 1929”, sono tutte espressioni usate per indicare un periodo della storia economica del Novecento durante il quale si ridussero considerevolmente e su scala mondiale produzione, occupazione, redditi, salari, consumi, investimenti, risparmi, ovvero tutte le grandezze economiche il cui andamento caratterizza di norma lo stato di progresso o di regresso dell'economia di un paese. Ciò che rese unica questa crisi fu che la contrazione dell’attività economica fu in quegli anni così rapida e radicale come mai era accaduto prima. La crisi si manifestò in maniera improvvisa, ma non inattesa. Ebbe inizio negli Stati Uniti nell’autunno del 1929 e si prolungò per buona parte degli anni ’30. Questa crisi fece sentire i suoi effetti anche sulla politica e sulla cultura, sulle strutture sociali e sulle istituzioni statali, segnando una netta cesura nello sviluppo storico delle società occidentali. Diede un ulteriore e decisiva spinta alla decadenza dell’Europa liberale. Compromise seriamente gli equilibri internazionali, mettendo in moto una catena di eventi che avrebbero portato, nel giro di un decennio, ad un nuovo conflitto mondiale.
Le cause della crisi
- Il boom economico. Gli Stati Uniti furono i veri vincitori della Grande Guerra. Mentre i paesi europei uscirono fortemente provati dal conflitto, gli americani avevano sopportato bene lo sforzo bellico ed anzi, grazie ad esso, le sue industrie si erano fortemente sviluppate e modernizzate. Attraverso il contributo dato alla ricostruzione europea, nei dieci anni successivi l'economia americana non cessò mai di crescere: le sue industrie e l'agricoltura esportavano in tutto il mondo. Al termine della prima Guerra Mondiale il dollaro era lo nuova moneta forte, in quanto gli Stati Uniti avevano rinsaldato la loro posizione di paese produttore, e accanto al mercato finanziario di Londra cresceva di importanza quello di New York. Successivamente Wall Street diventerà la sede del mercato finanziario mondiale sostituendo Londra, e l'andamento dell'economia statunitense condizionerà l'Europa con effetti diretti ed immediati. A partire dalla fine del XIX secolo, gli Stati Uniti conobbero anche un forte aumento demografico. Nel 1890 la popolazione americana era di 63 milioni di abitanti; nel 1910 era salita a 92 milioni; nel 1930 aveva raggiunto quota 123 milioni. Gran parte dell'incremento era stato provocato dall'immigrazione, ma, se in un primo periodo gli immigrati erano dell'Europa nord-occidentale, in un secondo tempo erano dell' Europa sud-orientale. Questo problema non era da poco, in quanti i primi immigrati erano facilmente assimilabili nella società americana, ma i secondi portavano il timore della diffusione del socialismo e dell'anarchia. Nel 1919 gli Stati Uniti decisero che non volevano più un’immigrazione libera e illimitata, come quella di prima della guerra. La crescita era accompagnata dal fenomeno dello sviluppo urbano (grattacieli, piazze enormi, autostrade gigantesche caratterizzavano il paesaggio americano). Le varie attività produttive tendevano ad accentrarsi nelle mani di poche società, come la Standard Oil Company per il petrolio, la United Steel Company per l'acciaio e la banca J. Pierpont Morgan, attorno alla quale ruotavano svariate attività. Con le sole eccezioni del 1924 e del 1927, gli USA registrarono un boom ininterrotto fino all’ottobre 1929. Il reddito nazionale aumentò, fra il 1923 e il 1929, del 23%. Questa maggiore disponibilità di capitali fece degli Stati Uniti il paese più prospero del mondo. E furono proprio queste abbondanti disponibilità che consentirono agli USA di concedere cospicui prestiti non solo all’Europa ma anche all’America latina, al Canada e ad alcuni paesi asiatici (si parla in tutto di quasi 30 miliardi di dollari). Si andò a verificare quel fenomeno di esportazione dei capitali che aveva caratterizzato la seconda rivoluzione industriale in Europa.
- La crisi della borsa: Durante questo periodo di forte crescita economica si era diffusa in America una grande fiducia e tutto lasciava credere che la macchina produttiva americana non si sarebbe arrestata e che la ricchezza fosse facilmente a portata di mano. Tutto questo venne dimostrato tramite la frenetica attività della borsa di New York – chiamata tuttora Wall Street – dove tutti compravano azioni per poi rivenderle a prezzo maggiorato, facendo affidamento sulla continua ascesa di quest’ultime, alimentata dalla crescente domanda di titoli. Questa euforia speculativa poggiava su fondamenti molto fragili, perché la domanda sostenuta di beni di consumo durevoli aveva fatto sì che nel settore industriale si formasse una capacità produttiva sproporzionata rispetto al mercato interno, dovuto al fatto che questo tipo di beni non avevano bisogno di essere continuamente cambiati e tendevano dunque a saturare il mercato. Gli Stati Uniti ovviarono a questo problema esportando nel resto del mondo, e soprattutto in Europa. Si creò così un legame di interdipendenza, dovuto al fatto che gli Stati Uniti con la loro espansione finanziavano la ripresa europea e questa a sua volta con le sue importazioni alimentava lo sviluppo dell’industria statunitense. Quando nel 1928 molti capitali americani furono dirottati verso le più redditizie operazioni speculative di Wall Street, l’economia europea ne risentì immediatamente, e si ripercosse sulla produzione industriale americana, il cui indice cominciò a scendere già nell’estate del ’29. La speculazione contribuiva largamente ad esaltare questa euforia di affari di ogni genere, infatti sulla fine del 1929 spinse il corso dei titoli industriale dell’80% rispetto l’anno precedente. L’Europa, riprendendosi economicamente, cominciava a produrre per i suoi bisogni così, per proteggere le sue industrie rinascenti, si copri di una corazza di protezioni commerciali che ostacolavano seriamente le esportazioni americane. Di fronte a questi sintomi di crisi il sistema economico americano cominciò a scricchiolare, ma tutti erano convinti che si trattava di una crisi passeggera e che non vi sarebbe stata nessuna catastrofe. Prima a esserne colpita era l’agricoltura i cui raccolti sovrabbondanti non si riuscivano a vendere e seguivano le crisi nell’industria automobilistica ed edile (crisi di sovrapproduzione) I prezzi si contraevano del 25%, i profitti di altrettanto e le azioni industriali, che nel 1928 si erano gonfiate enormemente, cominciavano a precipitare.
L’esplosione della “bolla speculativa”.
- Una gigantesca crisi di sovrapproduzione investì gli USA quando alla saturazione del mercato interno si aggiunse il calo progressivo della domanda di beni di consumo; anche la domanda dei paesi europei diminuì. Infatti la produzione era talmente aumentata che non trovava più, né in Europa né in America, tanti acquirenti quanti ne sarebbero stati necessari. Le industrie non riuscivano più a vendere e molte di esse fallirono, perché i proprietari non erano più in grado di restituire alle banche i soldi avuti in prestito per potenziare le loro industrie; allo stesso modo gli agricoltori non riuscirono a restituire i prestiti avuti per comprare le macchine agricole che avevano permesso di aumentare la produttività delle terre. Con gli industriali e gli agricoltori fallirono anche numerose banche, che avevano concesso loro denaro in prestito. In particolare le banche furono schiacciate tra l’incudine del mancato rientro dei prestiti e il martello dei depositanti che pretendevano la restituzione dei loro capitali (non bisogna dimenticare che le banche e società che operavano in Borsa non subivano alcuna regolamentazione dal governo).
- L'euforia del mercato finanziario americano non corrispondeva allo stato dell'industria. I crediti erano facili da ottenere, soprattutto quelli ipotecari, ed era stata introdotta una nuova forma di pagamento, quella rateale. Il numero di operatori che speculavano in Borsa era in continuo aumento: i guadagni erano rapidi, basati sulla differenza tra minor prezzo di acquisto e maggior prezzo di vendita. Questo incremento di valore delle azioni trattate in Borsa non corrispondeva ad alcuna ricchezza reale, in quanto lo stato delle industrie era ben diverso. Molti investitori compravano azioni ricorrendo al credito. Si venne così a creare una tipica “bolla speculativa”. Nell’ottobre 1929, avvenne il crollo. L’improvviso crollo dell’economia indusse gli investitori a rivendere al più presto le azioni comperate. In pochi giorni a Wall Street non c’era più nessuno disposto ad acquistare. Il valore dei titoli si ridusse drasticamente, mandando sul lastrico tutti coloro che avevano impegnato i loro risparmi e i loro capitali in operazioni di borsa. Il 24 ottobre il giovedì nero, furono venduti 13 milioni di titoli; il 29 altri 16 milioni. In questo modo la caduta del valore dei titoli fu accelerata ed in pochi giorni vennero distrutti i sogni di ricchezza dei loro possessori. La conseguenza diretta del crollo della borsa fu la caduta dei prezzi agricoli, delle materie prime e, poi (ma in misura minore), dei prodotti industriali e la rapida contrazione del commercio in tutto il mondo, il che non poteva non riflettersi negativamente sul potere d’acquisto degli strati produttivi di tutti i paesi.
- Alla perdita di denaro, in molti casi, si aggiunse quella del posto di lavoro: molte imprese, infatti, furono costrette a chiudere i battenti e a mandare a casa i loro dipendenti. Negli USA, nella fase più acuta della depressione, si contarono circa 13 milioni di disoccupati e si registrarono numerosi suicidi. Nella sola giornata del 24 ottobre, il drammatico "giovedì nero" in cui crollò Wall Street, si tolsero la vita 11 persone. La disoccupazione appare differenziata in ragione dell’età, del sesso e della razza. Riguardo all’età,almeno nell’industria, i giovani ne furono i più colpiti come gli anziani, mentre più stabile restò il tasso di occupazione tra i dipendenti nella piena età lavorativa. La durata dei periodi di disoccupazione è più breve per le donne che per gli uomini in quanto le prime venivano impiegate maggiormente part-time. Dovunque la percentuale di disoccupati è maggiore per i neri che per i bianchi. L’uomo d’affari, che aveva precedentemente prodotto la prosperità, veniva ritenuto responsabile della crisi. La crisi fu aggravata anche dalla politica economica seguita dagli Stati Uniti. Con le loro esportazioni di capitali, avevano contribuito a mantenere in equilibrio la bilancia internazionale dei pagamenti. Scoppiata la crisi, essi non accrebbero questa esportazione di capitali, anzi iniziarono il ritiro dall’estero dei capitali a breve termine. Il ritiro di questa «moneta calda», che già era cominciato nel 1928, si intensificò nel 1930 e nel 1931 e toccò gradualmente livelli mai registrati in passato. Questa tendenza al ritiro dal mercato internazionale, specie europeo, fu rafforzata dalla politica doganale che gli Stati Uniti perseguirono. La tariffa doganale (la famosa Hawley-Smoot) che essi adottarono a partire dal giugno 1930, fu duramente protezionistica.
Le soluzioni intraprese negli USA
L’America per ridurre questa crisi adottò una politica di protezionismo, e terminò di erogare crediti all’estero. In questo modo anche gli altri paesi furono costretti ad adottare le stesse misura degli Usa per difendere la propria bilancia commerciale. Fra il 1929 e il 1932 – anno in cui la crisi raggiunse il culmine – il valore del commercio mondiale si contrasse di oltre il 60% rispetto a tre anni prima. A partire dal 1920 e fino al 1932, vi fu un seguito di presidenti repubblicani che inasprirono il protezionismo, isolando gli USA dal resto del mondo. Come ritorsione da parte degli altri paesi, vi furono ostacoli alla circolazione delle merci americane. Al tempo stesso, i presidenti americani diedero mano libera all'iniziativa privata, riducendo l'intervento statale, e abbassando le tasse. In questo modo, aumentavano le risorse dei privati, inducendoli a una corsa verso i consumi. Di fronte al disastro la reazione dell’opinione pubblica statunitense fu varia, mentre il mondo economico reagì sollecitando misure deflazionistiche atte a tutelare la moneta (quali la riduzione dei consumi privati e tagli severi alla spesa pubblica, anche a quella assistenziale), la reazione del presidente repubblicano, Herbert Hoover, non fu incisiva. Da un lato:
- si oppose inizialmente a rigorose misure deflazionistiche; stimolando la spesa per opere pubbliche; facendo pressione sugli industriali perché non riducessero i salari;
- creò nel 1930 una Grain Stabilization Corporation e una Cotton Stabilization Corporation per sostenere i prezzi sia dei cereali che del cotone, in rapida caduta.
Dall’altro, però:
- -si rifiutò di porre mano a un piano di pubblica assistenza (solo 5 dollari alla settimana per famiglia) preferendo fare affidamento sulla carità privata e sull’azione dei governi locali.
Molte famiglie, senza più assistenza finanziaria, impossibilitate a pagare i mutui, si videro addirittura espropriate della loro casa, mentre altre si trasferivano in località dove speravano di trovare lavoro. Il fallimento delle politiche di Hoover portò alla vittoria del candidato democratico alle elezioni presidenziali del novembre del 1932 di Franklin Delano Roosvelt. Il nuovo presidente si trovò sulle spalle un compito gravosissimo: far uscire il paese da una crisi economica di cui non si vedevano gli sbocchi. Roosevelt aveva fiducia nel popolo e nella democrazia. Egli capì che se un paese ricco e pieno di risorse come gli Usa si trovava in quella profonda depressione ci doveva essere qualcosa di sbagliato nel sistema, qualcosa che bisognava correggere. Quindi preparò un piano per ricostruire l'economia basato su idee completamente nuove per quel tempo. Questo nuovo corso: "New Deal", curò in breve la crisi americana riassorbendo la disoccupazione e rimettendo in moto la macchina produttiva. Per risollevare l'economia bisognava mettere la gente in condizione di fare acquisti. Per fare questo bisognava dare lavoro alle migliaia di disoccupati, quindi Roosvelt diede inizio ad un gigantesco piano di opere pubbliche. Come trovare i soldi? Non certo imponendo nuove tasse ad uno stato oppresso dalla recessione. Così ricorse ad un massiccio indebitamento statale che poi fu ripianato incassando nuove tasse da un'economia risanata e da uno stato ritornato ad essere ricco. Per le grandi opere pubbliche il governo federale spese molti miliardi di dollari in sei anni. Per conservare le ricchezze naturali e i grandi parchi americani diede lavoro a più di 3 milioni di giovani. Inoltre appoggiò nuovi progetti nel campo dell’arte: spettacoli teatrali e concerti.
In agricoltura il governo diede sovvenzioni a 6 milioni di proprietari, evitando in tal modo che abbandonassero le campagne, così i prodotti agricoli furono disponibili per la nuova domanda dei consumatori. Roosvelt favorì la ricostituzione di un forte sindacato di cui riconosceva l'indispensabile ruolo di equilibrio, fissò la settimana lavorativa in 40 ore, stabilì un salario minimo e impedì il lavoro minorile.
Fondamentale fu anche la legislazione sociale a favore dei disoccupati, dei vecchi, degli inabili al lavoro. Furono concesse pensioni per la vecchiaia, assicurazioni per i disoccupati, sussidi per i ciechi, le madri con figli a carico, i bambini handicappati. Roosvelt con i suoi provvedimenti dimostrò che non vi può essere una contrapposizione netta tra gli interessi della produzione e quelli dei lavoratori e dei pensionati: se questi ultimi non possono fare acquisti tutto il resto si ferma. Contrariamente a quanto sostenuto dalle teorie liberiste egli impose un nuovo sistema di controlli sulle attività delle banche, degli speculatori, dei finanzieri, per evitare il ripetersi di quanto era accaduto nel 29. Infine diede luogo ad una riforma fiscale più equa ed efficiente. Il New Deal non fu sufficiente però a far uscire gli Stati Uniti dalla depressione, infatti disoccupazione e stagnazione economica continuarono per tutti gli anni trenta, anche se gli effetti negativi di esse furono mitigati dall’azione del governo. Nel 1937 i disoccupati erano ancora il 10% della popolazione e soltanto con l’ingresso degli Stati Uniti nella seconda guerra mondiale che si determinerà la vera e propria ripresa economica del paese. Tuttavia i benefici del New Deal si fecero sentire in tutto il paese.
La crisi americana del 1929 mise in risalto il nuovo e deciso ruolo dello Stato nell’economia.
Fino ad allora, infatti, i sistemi economici si erano basati su principi del libero mercato. In primo luogo si riteneva che lo Stato dovesse "lasciar fare" ai privati e consentire loro di svolgere qualunque attività economica in libera concorrenza. Si affermava poi che le imprese, per conseguire maggiori guadagni, dovessero mantenere bassi i salari degli operai. Roosevelt, invece, era convinto del contrario. Nella sua ottica, per far guadagnare le industrie era necessario mettere le persone nella condizione di comperare, quindi tenere le retribuzioni sufficientemente alte per accrescere i consumi. Inoltre, se i privati con le loro attività produttive non favorivano lo sviluppo economico e l’occupazione, lo Stato stesso doveva trasformarsi in imprenditore, spendere i propri soldi anche a costo di indebitarsi. Non a caso, negli anni di presidenza Roosevelt il bilancio pubblico americano fece registrare importanti perdite. Il numero dei disoccupati, però, scese di diversi milioni e ciò sembrava confermare l’opinione di un illustre economista del tempo, John Maynard Keynes, autore dell’opera "La teoria generale dell’impiego, dell’interesse e della moneta", secondo cui il bilancio in rosso di uno Stato non è di per se un evento dannoso se è destinato a produrre nel tempo occupazione e risultati positivi. Ciò non vuol dire che l’economia americana stesse per diventare statalista, ma solo che lo Stato stava assumendo una funzione integrativa dell’iniziativa privata in una situazione critica di emergenza.
Fonte: http://digilander.libero.it/arcangelico/disp/crisi29.doc
Sito web da visitare: http://digilander.libero.it/arcangelico
Autore del testo: non indicato nel documento di origine
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