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MIRACOLO ECONOMICO ITALIANO
(1953-1963). Insieme delle trasformazioni economiche e sociali realizzate in Italia grazie alla espansione e alla integrazione economica in Europa, al rinnovamento del sistema produttivo, alla disponibilità di nuove fonti di energia (metano e idrocarburi in val Padana), alla trasformazione dell'industria dell'acciaio, ma anche al basso costo del lavoro che permise alle imprese italiane una forte competitività sui mercati internazionali. Tra il 1953 e il 1960, la produzione industriale (metalmeccanica e petrolchimica) fu più che raddoppiata, la produttività operaia aumentò più del 50 per cento, mentre i salari reali nell'industria diminuirono da 100 a 99,4; l'esportazione ebbe un incremento notevole, con un mutamento dei beni esportati: dai prodotti tessili e alimentari a elettrodomestici, strumenti di precisione, o prodotti in plastica. La crescita dell'industria elettrodomestica e della produzione automobilistica, dominata dalla Fiat, caratterizzarono il "miracolo"; l'enfasi sui beni di consumo privati non trovò tuttavia un corrispettivo sviluppo dei beni di consumo pubblici e la corsa al benessere rimase incentrata su scelte e strategie individuali e familiari. Il "miracolo" causò cambiamenti radicali nella composizione di classe e provocò un rimescolamento senza precedenti della popolazione italiana, accentuando lo squilibrio tra nord e sud.
<http://www.storiaxxisecolo.it/larepubblica/repubblicaboom.htm>, 15 Giugno 2011
Il miracolo economico italiano
a cura di Lorenzo Calandri
Negli anni del boom economico (dal 1958 al 1963), la “società Italiana con(obbe) in un brevissimo volgere di anni una rottura davvero grande con il passato: nel modo di produrre, di pensare e di sognare, di vivere il presente e di progettare il futuro. È messa in movimento in ogni sua parte …”[1].
Il contesto nazionale era in grande trasformazione: ancora alla fine del 1962 le particolarità della nazione italiana facevano sì che la penisola continuasse ad essere vittima di aspetti tipici del sottosviluppo affiancati nel medesimo tempo ad altri estremamente avanzati che la ponevano allo stesso piano dei paesi di più antica industrializzazione. Gli eventi del luglio torinese si manifestarono non solo nella fase calante di questa grande trasformazione che a volte viene definita impropriamente “miracolo italiano”,[2] ma anche nel momento in cui emersero chiaramente tutte la contraddizioni del boom: gli squilibri e le stridenti continuità con il passato, il disagio e le nuove esigenze di una società in movimento. Esplose così nel Paese, all’inizio del nuovo decennio una nuova conflittualità per forme e protagonisti[3], e la “rivolta di Piazza Statuto” ne rappresentò uno degli esempi più discussi.
[1] G.Crainz, Storia del miracolo italiano,Culture, identità, trasformazioni fra anni cinquanta e sessanta, Roma, Donzelli Editore, 1998, p. VII.
[2]M. Salvati, Economia e politica in Italia dal dopo guerra ad oggi, Milano, Garzanti, 1984, pp. 13-19.
[3] P. Ginsborg, Storia d’Italia dal dopo guerra ad oggi. Società e Politica, Torino, Einaudi, 1989, p. 295.
1. Il boom economico
Come ha ricordato Giulio Sapelli la fase di più elevata crescita del nostro sistema economico inizia con il 1958 e finisce nel 1963. Due sono le direttrici lungo le quali si realizza una così rapida trasformazione dell’assetto economico del paese:
· lo spostamento della forza lavoro dal settore agricolo a quello industriale;
· il passaggio ad un’economia legata alle dinamiche dei mercati europei dove le esportazioni divengono prevalenti. [1]
L’industria italiana, in questo frangente di sviluppo, divenne indiscutibilmente il settore trainante, mentre l’agricoltura stava arretrando sensibilmente.[2] Infatti, se nel 1951 l’agricoltura aveva contribuito al PIL del settore privato per il 23,5% e nel 1963 per il 15,7%, l’industria, negli stessi anni, era passata dal 33,7% al 43,5%, il terziario dal 42,8% al 40,5%. Il numero degli occupati per settore evidenzia lo spostamento verso il nuovo settore divenuto trainante: nel 1961 gli occupati dell’industria erano il 38% del totale della popolazione attiva mentre quelli del terziario costituivano il 32%. I lavoratori nel settore agricolo erano invece passati dal 42% dal 1951 al 30% della forza lavoro nel 1961[3].
L’esportazione svolse il ruolo trainante nell’espansione con un incremento del 14,55% annuo; questa via sembrò già decisa con la liberalizzazione dei mercati e nel 1957 si firmò il Trattato di Roma (la percentuale di merci che l’Italia destinò alla CEE sul totale nazionale del prodotto crebbe dal 23% del 1953 al 29,8% del 1960[4]). Queste furono le principali linee seguite dallo sviluppo economico; ad esse andrebbero aggiunte, secondo la visione di Salvati della lunga crescita che attraversò l’Italia dal 1948 al 1963, altre quattro linee direttrici decise dal Governo molti anni prima e che influenzarono (spesso in modo negativo) anche il “boom”:
· l’edilizia popolare
· l’avvio di numerose opere pubbliche
· la riforma dell’agricoltura
· l’aiuto alle regioni del Sud tramite la “Cassa del Mezzogiorno”[5]
Alcuni indicatori possono ben evidenziare il perché questa trasformazione, che non coinvolse solo l’Italia ma fu diffusa in tutto l’Occidente industrializzato, venne definita “miracolo economico”: la media di crescita del nostro paese dal 1958 al 1963 raggiunse il 6,3%; percentuale mai più raggiunta sino ad oggi dal nostro paese, inoltre, nel medesimo periodo, la produzione industriale risultò più che raddoppiata con alla testa l’industria metalmeccanica e petrolchimica[6]. Il reddito per abitante raddoppiò quasi passando da 577 dollari USA nel 1952 a 970 nel 1963;[7] anche la disoccupazione scese in modo inaspettato sotto la soglia, detta “frizionale”, del 3% nel 1962, segnando così in pratica il raggiungimento della piena occupazione[8].
Grazie al poderoso e inusitato sviluppo l’Italia riuscì in pochi anni a ridurre il divario storico con i paesi a più vecchia industrializzazione come l’Inghilterra e la Francia. La fabbricazione di autoveicoli dal 1959 al 1963 quintuplicò, salendo da 148 mila a 760 mila unità. In questo periodo, i frigoriferi passarono da 370 mila a un milione e mezzo, i televisori, che nel 1954 non erano più di 88 mila, salirono a 643 mila. L’aspetto che colpisce di questi ultimi dati non è legato soltanto al fatto che si manifestarono in un paese arrivato all’appuntamento con lo sviluppo in una condizioni di arretratezza diffusa, [9] ma anche al fatto che furono il risultato di un processo estremamente rapido. Per indicare l’evidente miglioramento della qualità della vita di un italiano medio, può essere interessante sottolineare che tra la fine degli anni ’50 e l’inizio del nuovo decennio il consumo degli elettrodomestici (televisori e frigoriferi) crebbe di circa il 40%.[10] Lo sviluppo fu caratterizzato anche dalla diffusione delle auto, che passarono dal milione del 1956 ai cinque e mezzo del 1965, e delle autostrade, grazie alla campagna di opere pubbliche avviata dallo Stato indirizzate ad ampliare il chilometraggio autostradale. Inoltre, grazie al progredire del settore dell’edilizia e delle cooperative edili (che edificarono abitazioni e vani a ritmi intensi), anche la costruzione e il mercato delle case di proprietà registrarono un sensibile progresso[11].
Tutti questi aspetti, se da una parte ebbero una sicura valenza positiva e di crescita per il paese, dall’altra portarono con sé degli effetti talvolta tanto negativi da offuscare ogni possibile aspetto favorevole.
2. Segni e squilibri del sistema
Uno sviluppo così repentino in un paese ricco di ritardi e contraddizioni di vecchia data non poté non generare (ed ereditare) una serie di “distorsioni”: innanzi tutto la diffusione del benessere per i cittadini era in netto ritardo rispetto alla velocità del progresso tecnologico. Il “miracolo economico” si affermò in un sistema dove dominavano le libere forze del mercato e le cui peculiarità sembravano essere il già menzionato mutamento merceologico dell’offerta dei mezzi di trasporto e degli elettrodomestici, la progressione costante dei salari, l’intensificazione della combattività operaia, un’impennata dei consumi privati[1] e le migrazioni interne. Ciascuno di questi fenomeni da un lato generò forti scompensi e rotture, dall’altro produsse bisogni a cui il sistema non era in grado di sopperire (ad esempio per ciò che riguardava la domanda aggiuntiva di abitazioni, scuole, ospedali).[2]
Questi fenomeni di “distorsione”, secondo le tesi di Sapelli e Salvati, sono riconducibili ad alcuni problemi strutturali dell’Italia a partire dal dopoguerra: il dualismo della struttura produttiva industriale ed il permanere della “questione meridionale”[3]. Secondo Sapelli, in Italia c’era una situazione di netta differenziazione (appunto dualistica) dello sviluppo economico tra i settori dinamici ad alto tasso di innovazione orientati quasi esclusivamente all’esportazione (industrie automobilistiche, chimiche e siderurgiche) e settori arretrati e tradizionali destinati a soddisfare la domanda interna (settore tessile, alimentare ed edile). I vari settori produttivi avevano beneficiato in modo del tutto diverso dell’influsso dei vantaggi offerti dalla favorevole congiuntura economica: l’aumento della produttività, l’allargamento delle economie di scala, la redistribuzione delle risorse e l’apertura verso i circuiti di scambio internazionale. Così aumentò in modo sensibile la distanza tra grande e media industria (principali beneficiari degli aiuti statali e delle varie economie esterne) e la piccola impresa espulsa dai settori chiave della produzione e gravata di maggiori costi di finanziamento del ciclo produttivo e di inserimento nei commerci extralocali. Le conseguenze di questo dualismo si resero evidenti sia nel regime d’occupazione che nelle forme di lavoro e nella distribuzione del reddito[4].
Nel mercato del lavoro si assisteva ad un notevole aumento di produttività unitamente a bassi incrementi occupazionali nei settori più avanzati e dinamici, mentre quelli più arretrati assorbivano gran parte della disoccupazione, promuovendo bassi incrementi di produttività e rilevanti incrementi occupazionali[5]. Una delle principali attrattive dei rami più sviluppati fu sicuramente la possibilità di offrire un monte salari superiore a quello delle altre industrie e a volte anche una serie di facilitazioni per i suoi addetti.[6] Ma Graziani fa notare come, seppure i salari nell’industria trainante crescessero più di ogni altro, uno dei segreti del boom economico fu il fatto che in rapporto all’“accumulazione” di capitale ottenuta con l’aumento della produzione e della produttività operaia (aumentata di oltre un terzo), i salari reali nell’industria diminuirono[7]. Il boom economico aveva permesso un elevato tasso dei profitti, questi, a loro volta, favorirono un incremento degli investimenti pubblici e privati. Tale incremento produsse in Italia accese discussioni, anche a livello politico, sull’utilizzo di questi investimenti: vi era chi sosteneva che gli imprenditori ne avessero fatto un uso principalmente qualitativo, ossia finalizzato alla modernizzazione degli impianti ed all’aumento della produttività. Altri, in particolare la sinistra, ritenevano che gli imprenditori non avessero usato tali investimenti per ampliare la base del sistema bensì per aumentare i loro stessi profitti[8].
Negli anni di questo “inusitato sviluppo” l’agricoltura e la piccola industria, insieme all’edilizia e al piccolo commercio, svolsero un ruolo di “polmone della disoccupazione”:[9] furono cioè un serbatoio di manodopera sottoccupata e sottoremunerata, caratterizzata dagli elevati indici di occupazione precaria e bassi livelli salariali e sindacali. E’ possibile affermare che all’espansione di settori trainanti corrispose una continua proliferazione dei settori più o meno arretrati, si creò così una frammentazione sociale ed economica del paese destinata ad aggravarsi[10]. Il problema della distorsione dei consumi derivò in parte dallo stesso dualismo dell’economia italiana di quel periodo: i settori più dinamici e forti (come il petrolchimico che nacque tra gli anni Cinquanta e Sessanta e che ebbe tra i suoi principali esponenti la Montecatini, la Sir e la Edison) tendevano a modellare la propria produzione sulla falsa riga di quella estera. Questo aspetto spiega, secondo G. Crainz, perché in un paese caratterizzato da un incremento assai modesto del consumo interno e del reddito procapite fossero diffusi modelli e strutture di beni di consumo tipici di un economia più moderna[11]. Inoltre vi fu anche un aspetto legato al fatto che l’intervento pubblico fu spesso limitato alla costruzione di infrastrutture funzionali sopratutto alle esigenze di espansione dei nuovi mercati e del padronato imprenditoriale più forte: ciò fu una delle cause della diffusa arretratezza dei servizi pubblici essenziali come la sanità e la scuola[12]. Sapelli ha fatto notare come il problema non risiedesse nella grande diffusione dei consumi (comunque favorita da un incremento generalizzato dei redditi in una condizione di assenza dell’inflazione), ma nella composizione e nella tipologia dell’offerta che escludeva i beni fondamentali ed i sevizi. Inoltre, i prezzi svolsero un ruolo discriminate: i prodotti di consumo meno cari erano proprio quelli superflui, mentre quelli economicamente più dispendiosi erano quelli ritenuti basilari come i trasporti pubblici o i libri.
Parlando degli squilibri del “sistema Italia” non si può dimenticare una grande disfunzione costituita dall’arretratezza del Mezzogiorno. Il meridione italiano era arrivato all’appuntamento con il boom avendo un’economia ancora prevalentemente agricola dove gli occupati in questo settore rappresentavano il 40% del totale dei lavoratori contro il 30% della media nazionale nel 1960 (se si escludono alcune limitate zone, la maggior parte della superficie agricola era ancora occupata da una cultura di tipo estensivo). Il latifondo era la forma di gestione predominante e la pressione demografica continuava a mantenersi elevata; lo sviluppo industriale era completamente insufficiente e basato soprattutto sulle piccole imprese a carattere semiartigianale[13]. Con il “miracolo” nel paese si ampliò maggiormente la differenza di sviluppo delle diverse zone. Le strategie dell’imprenditoria nazionale, tentando un’integrazione nel tessuto economico dei paesi più avanzati, contribuirono ad ampliare questa forbice; infatti le esigenze di competitività e di agganciamento agli standard produttivi internazionali avevano portato ad una concentrazione degli investimenti verso i distretti industriali del Nord, che già presentavano uno sviluppo piuttosto avanzato. In quest’ottica uno spostamento di capitali verso il Sud avrebbe significato disperdere tecnologie e risorse[14]. Il Meridione, nel boom economico, era destinato ad avere una funzione subordinata e funzionale agli interessi dell’economia del Nord[15]. Nonostante la condizione di diffusa e radicata arretratezza nelle terre del Mezzogiorno costituisse per l’economia italiana un ostacolo difficilmente integrabile dal sistema “consumista-fordita”[16], essa comunque presentava una serie di indiscutibili vantaggi.
Tra questi vantaggi possiamo annoverare il ruolo di riserva di manodopera rappresentato dalle campagne meridionali per un Nord che, tendendo verso la “piena occupazione”, esigeva nuove risorse di manodopera[17]; inoltre, l’assenza effettiva di un’industrializzazione nel meridione costituiva una garanzia per i grandi gruppi economici del Nord, contro ogni possibile concorrenza interna. Ma, come detto, la situazione meridionale per altri aspetti costituiva anche un ostacolo allo sviluppo dell’industria settentrionale che, proprio per il modello economico che aveva deciso di seguire, doveva necessariamente espandere il proprio mercato interno anche in quelle zone in cui persistevano forme di autoconsumo e bassissimi redditi. Lo stesso settore agricolo, a causa dei suoi bassi livelli di produttività e incapacità di potere rispondere alle nuove richieste di un’economia sempre più internazionale, non permetteva a molti prodotti italiani di essere competitivi. Come visto, il governo italiano, decidendo di avvallare un modello di sviluppo “consumista-fordista”, si fece promotore di una politica di “intervento” al fine di porre rimedio ai problemi del Sud. Il governo agì attraverso due vie principali: la Riforma agraria e la Cassa per il Mezzogiorno[18]. In particolar modo, le aspettative di industrializzazione del Sud furono legate alle iniziative della Cassa (creata nel 1950): l’Istituto aveva il compito di promuovere e sviluppare, attraverso agevolazioni fiscali e incentivi economici, la crescita di un settore industriale efficiente e autopropulsivo. I primi tentativi di creare un’occupazione diffusa puntavano da un lato al coinvolgimento delle piccole-medie imprese e dall’altro alla creazione di quelle opere infrastrutturali che avrebbero dovuto funzionare da volano per l’economia[19]. Con l’arrivo del boom economico il governo decise di cambiare rotta e di porre rimedio ai limiti della sua azione relativa alla prima metà del decennio (come ad esempio l’eccessiva dispersione dei fondi, l’eccesso di centralizzazione nella gestione della Cassa e l’eccessivo privilegio dato allo sviluppo della agricoltura rispetto a quello dell’industria[20]). Graziani sottolinea come fosse ormai palese che questa forma di intervento, basata su criteri più umanitari che propulsivi, rappresentasse uno spreco e non servisse per un effettivo decollo dell’industria; come avrebbe avuto a dire la famosa economista inglese Vera Lutz: “le strade costruite dalla Cassa per il Mezzogiorno servivano oramai agli abitanti… soltanto per abbandonare per sempre i loro paesi di origine”. Il governo considerò ragionevole porre termine alla politica di carattere umanitario per avviarne una nuova più aderente alla situazione reale, quella del “miracolo economico”. Due furono i criteri ispiratori di tale politica:
· sotto il profilo settoriale si decise di realizzare una svolta in favore dell’industrializzazione. Tale scelta comportò non solo uno spostamento di fondi verso quel settore, ma anche un nuovo orientamento nella politica delle opere pubbliche fatte in modo che risultassero completamente funzionali allo sviluppo dei nuovi insediamenti industriali. Tuttavia la nuova politica industriale venne concepita nel quadro dell’ipotesi in base alla quale la crisi endemica della disoccupazione del Sud potesse trovare una risoluzione solo al di fuori dai suoi confini. Si pensò infatti che lo sviluppo industriale avrebbe dovuto svolgere anzitutto la funzione di accrescere l’efficienza del sistema produttivo meridionale, attraverso l’aumento del reddito e della produttività del lavoro[21]. Non sembrò essenziale che l’industrializzazione dovesse risolvere anche il problema della disoccupazione. Inoltre, come ha sottolineato E. Scalfari nel libro “Razza padrona”, nella nuova campagna di industrializzazione del Sud le imprese a capitale pubblico (come ad esempio l’ENI di Enrico Mattei) ebbero un ruolo dominante e rappresentarono lo strumento favorito dalla Stato[22].
· Sotto il profilo territoriale, gli interventi prevedevano la creazione di un insieme di “aree e di nuclei di sviluppo industriale” che avrebbe dovuto porre fine agli sprechi e alle dispersioni del primo periodo. L’evento che sanzionò e tradusse in pratica questa svolta fu l’emanazione della legge 643 del luglio 1957 che intendeva disciplinare l’istituzione delle aree e dei nuclei di sviluppo industriale. “All’obbligo…per le amministrazioni dello stato di riservare a imprese meridionali il 30% delle forniture e lavorazioni loro occorrenti….si aggiunse l’obbligo per le amministrazioni statali di riservare al Mezzogiorno il 40% dei propri investimenti. Si stabilì inoltre che le imprese a partecipazione statale dovessero ubicare nel Mezzogiorno una quota minima, pari al 60%, dei nuovi impianti che comunque dovevano essere ubicati nel Mezzogiorno non meno del 40% del totale degli investimenti eseguiti”[23].
L’impegno profuso e le somme investite nell’iniziativa furono elevatissime ma non riuscirono ad intaccare la cause dell’arretratezza della società. Uno dei limiti degli obbiettivi delle politiche di intervento statale nel Sud fu quello di voler ottenere un elevamento appena sopra la soglia di sussistenza della popolazione meridionale ma le esigenze della nuova moderna società dei consumi erano molto superiori e tale condizione non avrebbe certo potuto fermare l’emorragia di popolazione[24]. Inoltre il governo, nella gestione della Cassa, si era dimostrato troppo subalterno alle esigenze dei grandi monopoli privati; infatti, i finanziamenti concessi al Sud per la costruzione di infrastrutture ed altri edifici, che giungevano in gran parte dal Nord del paese, spesso finivano alle ditte fornitrici e alle imprese di costruzioni settentrionali che svolgevano i lavori, inoltre la maggior parte dei prodotti delle nuove industrie meridionali non erano destinati al mercato interno ma a quello del Nord o a quello europeo.[25] Il fallimento dell’intervento straordinario coincise con quello delle sue principali istituzioni: la Riforma agraria e la Cassa per il Mezzogiorno. Per quello che riguarda in modo particolare l’insuccesso della Cassa, si può affermare che questa non fu capace di tradurre in pratica uno dei suoi compiti più importanti, ossia quello di riuscire ad essere uno strumento capace di spezzare l’immobilismo dell’economia meridionale finendo spesso per sostituirsi semplicemente alla gestione ordinaria anziché aggiungersi ad essa. Inoltre, gli investimenti realizzati nel settore industriale non riuscirono a dare i risultati sperati a causa di scelte strategiche errate, per di più, spesso, alle grandi aziende locali, per diverse motivazioni, non interessava promuovere lo sviluppo locale.
[1] M. Salvati, Economia e politica in Italia dal dopo guerra ad oggi, Milano, Garzanti, 1984, pp. 61-63: in realtà lo sblocco e lo sviluppo dei consumi privati giunsero solo nella “terza fase” del boom economico e in prossimità della già menzionata crisi del 1963.
[2] S. Lanaro, Storia dell’Italia, p. 224.
[3] G. Sapelli, L’Italia inafferrabile. Conflitti, sviluppo, dissociazione dagli anni cinquanta ad oggi, Venezia, Marsilio, 1989, p. 24. Su questo tema nacquero numerose discussioni ed in particolar modo tra chi, come V. Lutz di orientamento prevalentemente di destra, attribuiva gli squilibri ed il dualismo industriale alla presenza del sindacato e alla mancanza di concorrenza perfetta, e chi, da posizioni di sinistra accusava la mancanza di un’adeguata programmazione politica. Secondo Graziani, questi gruppi di fenomeni furono il prodotto di un meccanismo unitario che produsse allo stesso tempo sviluppo e squilibri.
[4] G. Sapelli, L’Italia inafferrabile. Conflitti, sviluppo, dissociazione dagli anni cinquanta ad oggi, Venezia, Marsilio, 1989, pp. 23-24.
[5] A. Graziani, L‘economia Italiana dal 1945 ad oggi, Bologna, Il Mulino, 1972, pp. 55-60.
[6] Forse uno degli esempi più classici è appunto quello della FIAT.
[7] Ivi. P. 61-67 e in A.Graziani, Mercato e relazioni internazionali, in Valerio Castronovo, L’Italia Contemporanea 1945-1975, Torino, Einaudi, 1976, p. 322 Questo aspetto fa capire come l’accumulazione da parte delle grandi industrie fosse stata enorme e come in realtà gli operai non si fossero avvalsi a pieno di tutte le opportunità che il “miracolo” aveva portato.
[8] G. Carli, Intervista sul capitalismo italiano, Rom-Bari, Laterza, 1997, p.5.
[9] M. Salvati, Economia e politica in Italia dal dopo guerra ad oggi.
[10] V. Castronovo, Economia e classi sociali, in V. Castronovo, L’Italia Contemporanea 1945-1975, Torino, Einaudi, 1976, pp. 16-20. Le stesse grandi industrie erano orientate a investire su ciò che poteva aumentare la produttività e non su ciò che avrebbe potuto generare un allargamento dell’occupazione globale, così molta della forza lavoro che premeva sul mercato fini per indirizzarsi verso le occupazioni più tradizionali o nel pubblico impiego: questo aspetto è importante perché spiega come al proliferare dei settori più avanzati corrispondesse una diffusione dei settori più retrogradi, con effetti distorsivi sui rapporti tra le classi e sulla struttura sociale.
[11] G.Crainz, Storia del miracolo italiano,Culture, identità, trasformazioni fra anni cinquanta e sessanta, cit. p. 132-142 e in G. Sapelli, L’Italia inafferrabile. Conflitti, sviluppo, dissociazione dagli anni cinquanta ad oggi, Venezia, Marsilio, 1989, p. 25. L’evidenza di questa “distorsione” dei consumi appare evidente se si considera che in un paese dove la dieta delle famiglie era ancora quella dei paesi sottosviluppati e le quote maggiori dei redditi erano rivolte all’alimentazione, vi era però una larghissima diffusione dei “beni superflui”.
[12] Ivi. p. 26.
[13] P. Ginsborg, Storia d’Italia dal dopo guerra ad oggi. Società e Politica, cit. p. 320 . Ginsborg definisce spaventosi i dati sull’occupazione: nel 1951, sul totale della popolazione, la forza-lavoro attiva era il 37,55%; ciò sta a significare che su una popolazione totale di 17 milioni e mezzo circa lavoravano 6 milioni e mezzo di persone, nel 1961, in pieno boom, la percentuale del tasso di attività era sceso a 34,2 % con una leggera diminuzione del tasso ed un aumento della popolazione di quasi un milione. Dalla Tab. 1.6 presente nel saggio di Sylos Labini, Saggio sulle classi sociali, si nota che nel Sud la popolazione attiva era rimasta pressoché identica dal 1881 al 1971 mentre la popolazione totale era in continuo aumento abbassando così progressivamente la percentuale del tasso di attività.
[14] Tutte queste discussioni e motivazioni (costi eccessivi, pericolo del decentramento decisionale, mancanza di infrastrutture) furono una delle cause per cui il più importante polo industriale italiano, la FIAT, si espanse per ultimo, tra le grandi industrie, nelle zone meridionali. In, Grande impresa e mezzogiorno.
[15] M. Salvati, Economia e politica in Italia dal dopo guerra ad oggi, cit e Palladio, Dalla ricostruzione alla crisi del centrismo” Vol. I, Parte II, in M. e P. Pallante, Dal centro sinistra all’autunno caldo, Zanichelli, Bologna, 1975.
[16] Ivi. Il ciclo “consumista-fordista”, in cui Italia era entrata, si basava su due pilastri principali costituiti dagli alti consumi e dalla larga diffusione di tutti quei prodotti propri di una società opulenta. La presenza di questa società opulenta, sul falsa riga del modello americano, era necessaria perché proprio per le sue caratteristiche era in grado di sorreggere e rigenerare questo tipo di mercato.
[17] In questo senso l’immigrazione meridionale rappresentava un immenso serbatoio di manodopera a basso costo.
[18] A. Graziani, L’economia Italiana dal 1945 ad oggi, p. 68. Un’ulteriore spinta ad affrontare i problemi del Sud venne dai movimenti di ribellione scoppiati in quelle terre e il consenso elettorale soprattutto tra i braccianti.
[19] Ivi e in M. Salvati, Economia e politica in Italia dal dopo guerra ad oggi, cit pp. 53- 56.
[20] ivi. p. 68. Le opere pubbliche che l’intervento della Cassa aveva creato finivano spesso per risultare inutilizzate, così come molti degli insediamenti rurali che si era tentato di stimolare. Inoltre la popolazione che non emigrò, abbandonò le zone centrali per spostarsi lungo le coste, congestionandole.
[21] A. Graziani, L‘economia Italiana dal 1945 ad oggi, p. 70. Per queste ragioni le nuove industrie del Sud assunsero prevalentemente la forma di grandi impianti, ad elevata intensità di capitali e con scarso assorbimento di manodopera.
[22] Ivi. p. 73. Secondo l’opinione di Graziani, da questa politica di industrializzazione, con la creazione dei Consorzi e altri organi nella gestione dei fondi nel Sud, non nacque, come alcuni sostennero, un nuova borghesia industriale ma ne uscì rafforzata e consolidata la così detta borghesia di stato di cui Enrico Mattei era un esponente.
[23] A. Graziani, L’economia Italiana dal 1945 ad oggi, p. 72.
[24] Il governo riteneva che l’emigrazione nelle zone più avanzate potesse esser un modo per alzare il tenore di vita di molti meridionali.
[25] Palladio, Dalla ricostruzione alla crisi del centrismo” Vol. I, Parte II, in M. e P. Pallante, Dal centro sinistra all’autunno caldo, Zanichelli, Bologna, 1975.
[1] A questo aspetto, inoltre, si potrebbe sommare la crescita del commercio mondiale cui, progressivamente, l’Italia stava entrando a far parte.
[2] G. Sapelli, L’Italia inafferrabile. Conflitti, sviluppo, dissociazione dagli anni cinquanta ad oggi, Venezia, Marsilio, 1989, p 15 e in Michele Salvati, Economia e politica in Italia dal dopo guerra ad oggi, Milano, Garzanti, 1984, pp. 81-84.
[3]G. Sapelli, L’Italia inafferrabile. cit e in Paul Ginsborg, Storia d’Italia dal dopo guerra ad oggi. Società e Politica, Torino, Einaudi, 1989, Tav. 39.
[4] P. Ginsborg, Storia d’Italia dal dopo guerra ad oggi. Società e Politica, cit. p. 289 e A. Augusto Graziani, L’economia Italiana dal 1945 ad oggi, Bologna, Il Mulino, 1972, p. 25. Graziani ricorda che l’Italia usciva dalla guerra in una condizione economica molto debole a causa della scarsezza estrema di materie prime, ciò faceva sì che queste dovessero essere importate. Ma il pagamento delle materie prime importate si sarebbe potuto effettuare soltanto con un aumento delle esportazioni che a sua volta avrebbe mandato in positivo il segno della bilancia commerciale. Ma la povertà di partenza in cui l’economia italiana si trovava rendeva di per sé impossibile quest’ultima risoluzione, non permettendo al paese di uscire da quello che Salvati ha definito “circolo vizioso”. Solo un aiuto finanziario esterno e un’apertura ai mercati, non obbligatoriamente europei, avrebbe potuto rompere il meccanismo e avviare un “circolo virtuoso”: questo, secondo Graziani, fu uno dei motivi per cui l’Italia decise di uscire dalle “secche” cercando di dar vita ad un’economia aperta.
[5] M. Salvati, Economia e politica in Italia dal dopo guerra ad oggi.
[6] P. Ginsborg, Storia d’Italia dal dopo guerra ad oggi. Società e Politica, cit. p. 289.
[7] G. Sapelli, L’Italia inafferrabile. Conflitti, sviluppo, dissociazione dagli anni cinquanta ad oggi, Venezia, Marsilio, 1989, p. 17.
[8] A. Graziani, L’economia italiana dal 1945 ad oggi, Bologna, Il Mulino, 1972 e in Michele Salvati, Economia e politica in Italia dal dopo guerra ad oggi,cit. pp. 61-62. Il ’62 faceva parte di quella che Salvati ha definito la “terza fase” del boom economico che ebbe fine con la crisi soprattutto di carattere interno del 1963. In quest’annata, secondo l’autore, si assistette ad un fatto tanto nuovo quanto importante cioè il rovesciamento dei tradizionali rapporti di forza tra imprese e sindacati a favore dei secondi; si ruppe “l’equilibrio della sottoccupazione” che aveva retto i rapporti scio-politici del paese sino ad quel memento.
[9] G.Crainz, Storia del miracolo italiano,Culture, identità, trasformazioni fra anni cinquanta e sessanta. Verso la metà del decennio procedente l’Italia non poteva certo essere definita un paese opulento, infatti il più delle famiglie aveva un reddito inferiore a quello degli altri paesi industrializzati (un quinto di quello tedesco) e la maggior parte di questo era utilizzato per gli alimenti. Inoltre circa un quarto delle case italiane era prive di acqua, luce, gas e bagni, cioè di quelli che negli altri paesi erano ritenuti come servizi base.
[10] Ivi. Infatti la diffusione della televisione fu più veloce di quella dell’auto e portò con sé importanti trasformazioni sociali: innanzi tutto permise alle campagne e al chiuso mondo rurale di uscire dal loro tradizionale isolamento, poi il suo dilagare favorì indubbiamente un’unificazione culturale e un primo apprendimento dell’italiano in zone dove esso era scarsamente conosciuto.
[11] Ivi. Nella diffusione della casa giocò inoltre un ruolo determinante la crescente “fame di case” generata dal sogno della casa di proprietà, che il “miracolo” aveva reso avverabile per molti italiani.
3. La crisi del 1963
Con il 1962 si registrò un’inversione di quella che sino ad allora era stata la tendenza del “miracolo economico”: i primi segnali di un’imminente crisi economica furono sufficienti a incrinare la fiducia che aveva pervaso la società in questi anni.[1]
Gli effetti principali di questa inaspettata crisi economica furono: l’incremento passivo della bilancia commerciale, l’arresto del ritmo di crescita della produttività ed il riaffacciarsi dell’inflazione con un parallelo aumento dei prezzi. Le cause di questa depressione possono essere ravvisate in una determinata politica padronale appoggiata in parte da quella del governo che aveva deciso nel ’63 per una “stretta creditizia”. Questa manovra restrittiva, paragonabile per rigidità a quella del 1947 di L. Einaudi, venne ritenuta l’unico intervento possibile per arginare la ripresa dell’inflazione in Italia.
Ma come si arrivò a una tale condizione dopo anni di stasi inflazionistica, fluidità monetaria e crescita dei profitti?
I primi anni sessanta, come visto, si contraddistinsero per un aumento dei salari, che nel 1962 erano cresciuti più della produzione[2] e della forza contrattuale dei Sindacati (che si espresse nelle ore di lavoro perse per sciopero nel triennio 1960-1962 che aumentarono in modo sensibile). La reazione degli industriali a queste conquiste operaie “fu un tentativo di recuperare, attraverso un aumento generalizzato dei prezzi, quanto si era perduto nel corso delle lotte salariali”[3]. Se i prezzi sino ad allora erano stati stabili, con crescita regolare del 3-4% l’anno, negli anni ‘61-‘62 questi aumentarono velocemente. Diversi fattori contribuirono allo svilupparsi dell’inflazione: essa era legata sia a fattori congiunturali che a squilibri strutturali. Anzitutto, gli stessi imprenditori, messi sotto pressione dall’aumento dei salari e dalla corrosione dei profitti, cercarono di difendere i propri introiti agendo sui prezzi di vendita. Infatti, le grandi imprese, a causa di questi problemi, ridussero la propria possibilità di autofinanziamento e le piccole imprese videro entrare in crisi il proprio bilancio. Le aziende avevano la possibilità di ammortizzare i danni ricorrendo ad un aumento dei costi delle merci indirizzate al mercato interno, questa manovra era resa possibile dal fatto che in quegli anni la domanda globale (quindi anche i consumi privati) era in forte crescita[4]. Ma, se a livello nazionale questo “gioco al rialzo” era praticabile, in campo internazionale non lo era poiché uno dei segreti della forte crescita delle esportazioni dei prodotti italiani era stato quello dei bassi costi. Così il padronato si trovò stretto tra due vincoli: la necessità di dover alzare i prezzi per sopperire agli incrementi salariali e l’obbligo di contenere i costi dei prodotti per poter esser ancora competitivo sul mercato internazionale. Questa situazione comportò una compressione dei profitti delle industrie[5]. In questa situazione avvenne “quello che doveva avvenire” ha affermato Graziani, ossia un aumento del passivo della bilancia commerciale sino ad allora in equilibrio[6] e la stretta creditizia apparve come l’unica via di uscita praticabile[7]. La depressione venne innescata dalle autorità monetarie per bloccare l’aumento dei salari, ripristinare un livello più elevato dei profitti e per arrestare l’espansione della produzione; tuttavia essa generò anche una violenta caduta degli investimenti, seguita da un crollo dell’occupazione ed una caduta della domanda di beni di consumo. Dopo dodici anni di crescita ininterrotta l’economia italiana era entrata in crisi. La situazione sarebbe potuta essere peggiore se non vi fossero state alcune compensazioni:
· l’aumento veloce delle esportazioni, reso possibile dal fatto che, mentre l’Italia attraversava un periodo di depressione, gli altri paesi si trovavano ancora in una fase di congiuntura elevata;
· l’aumento dei salari che, nonostante la depressione, progrediva e in modo più diversificato rispetto agli anni precedenti (nei quali erano state soprattutto le attività industriali a beneficiarne);
· l’aumento della propensione al consumo, per cui gli investimenti, nonostante il loro livello ridotto, davano luogo a una domanda globale crescente[8].
Secondo l’analisi di Graziani, in accordo con quella di Castronovo, questa depressione (che non fu limitata esclusivamente al 1963 poiché i segni significativi di ripresa si avranno soltanto alla fine del decennio) non venne affrontata seriamente dalle autorità, anzi essi ritengono che la crisi “sia stata lasciata andare consapevolmente…con lo scopo, non solo di ridurre la combattività sindacale con la disoccupazione (cosa che in effetti avvenne), ma anche e sopratutto di consentire all’industria di effettuare una ristrutturazione tecnologica e finanziaria. Infatti…in questi anni la vera risposta del capitale agli aumenti di salario fu una reazione di carattere tecnologico volta a realizzare cospicui aumenti di produttività”[9].
Per Valerio Castronovo, l’ascesa dei prezzi e le tendenze inflazionistiche erano causate non solo da fenomeni congiunturali ma anche da elementi e squilibri di carattere strutturale: la strozzatura nell’offerta dei servizi, le inefficienze del sistema di distribuzione ed il perdurare della speculazione nell’edilizia e nel modo finanziario[10]. Questa situazione provocò pesanti ripercussioni anche all’assetto sociale del paese: la ripresa delle lotte sindacali e l’esplodere della conflittualità sociale e di piazza avevano messo in evidenza gli squilibri che il “miracolo” non era stato in grado di appianare[11].
[1] V. Castronovo, Economia e classi sociali, in V. Castronovo, L’Italia Contemporanea 1945-1975, Torino, Einaudi, 1976, pp 28. Il boom aveva generato un grande ottimismo attorno ad un modello di sviluppo che sembrava da una parte garantire un costante allargamento del benessere e dall’altra una perdurante pacifica collaborazione tra le parti sociali.
[2] A questa conquista se ne affiancarono altre per il mondo del lavoro e per il sindacato. Questo era favorito dal raggiungimento della piena occupazione che accresceva la forza contrattuale dei lavoratori nel confronto con il padronato: tali conquiste permisero a loro volta ai lavoratori di riuscire ad ottenere, dopo anni di stasi, miglioramenti salariali e anche normativi.
[3] A. Graziani, L’economia Italiana dal 1945 ad oggi, p.79.
[4] A. Graziani, L’economia Italiana dal 1945 ad oggi, p. 80. Il livello degli investimenti nel Nord e nel Sud in questi anni era molto aumentato. Inoltre l’aumento degli investimenti unito ad un accresciuta propensione ai consumi, a sua volta facilitata dalla crescita salariale, favorì un innalzamento della domanda globale incentivando l’aumento dei prezzi.
[5] Venne proposto il rimedio della svalutazione della lira che però non fu accettato dalle autorità finanziarie.
[6]Ufficialmente le cause della crisi inflazionistica in cui l’Italia si trovava nel 1963 vennero attribuite all’azione degli speculatori.
[7] A. Graziani, L’economia Italiana dal 1945 ad oggi, pp. 81-82.
[8] V. Castronovo, Economia e classi sociali, in V. Castronovo, L’Italia Contemporanea 1945-1975, Torino, Einaudi, 1976, pp.28-30. L’intensificazione dell’incremento della domanda interna, di fronte ad un rallentamento della crescita dell’offerta interna, si ripercosse sulle esportazioni e sulla bilancia dei pagamenti.
[9] A. Graziani, L’economia Italiana dal 1945 ad oggi, p.85.
[10] V. Castronovo, Economia e classi sociali, pp. 28-30. Queste storture erano da imputare ancora agli squilibri territoriali italiani tra Nord e Sud ed alla endemica arretratezza dell’agricoltura, soprattutto nel meridione.
[11] G. Crainz, Storia del miracolo italiano,Culture, identità, trasformazioni fra anni cinquanta e sessanta. Come esempio di squilibrio, possiamo ricordare la violenta contraddizione tra il permanere di rapporti di lavoro arretrati, come la sproporzione tra produzione e salari reali, e le nuove possibilità offerte dal boom.
4. Il boom economico e il Centro-Sinistra
Nella Democrazia Cristiana una delle prime personalità politiche ad essersi reso conto che il boom economico aveva prodotto e stava producendo delle trasformazioni nella società italiana fu il successore di Degasperi, Amintore Fanfani (che a capo della corrente di sinistra della DC “iniziativa democratica” aveva favorito un rinnovamento dei quadri del partito)[1]. L’ipostesi di una possibile apertura a sinistra si manifestò già nel 1956 con la salita alla presidenza del consiglio dello stesso Fanfani, ma prima che i progetti e programmi si traducessero in pratica sarebbero dovuti passare sette anni di travagli e crisi non solo politiche[2]. Sino al 1962 l’opposizione a questa formula di governo provenne da più parti: dagli ambienti ecclesiastici, ed in particolare dalla Chiesa, dagli Stati Uniti anche dopo l’elezione del presidente J. F. Kennedy e anche da parte delle forze italiane più conservatrici[3] (nelle campagne come nell’imprenditoria industriale) che avevano come principale referente politico proprio la DC oltre al PLI e che temevano l’eventualità di un governo troppo riformista.
Le discussioni e i fermenti attorno al Centro–Sinistra si fecero più intensi con l’arrivo degli anni sessanta, quando ormai ci si sarebbe aspettati uno spostamento a sinistra della politica nazionale si assistette ad uno sbandamento a destra con il governo Tambroni. In realtà, il Fernando Tambroni (scelto dal presidente della repubblica Gronchi quale uomo adatto per traghettare il traballante governo centrista ad una apertura verso i socialisti di Nenni) venne presentato come un uomo di sinistra benché avesse compiuto nel passato alcune dubbie iniziative di ordine pubblico. L’orientamento del nuovo capo del governo lo si comprese chiaramente dopo il suo discorso al parlamento che gli valse i favori della destra del Movimento Sociale Italiano. Ma i veri problemi nacquero all’indomani del voto alla Camera, dove l’appoggio decisivo a Tambroni venne dai neofascisti. Dopo le sue dimissioni ed un tentativo di governo di Fanfani, Tambroni, sostenuto dalla stessa maggioranza, tornò ad occupare la carica di capo del governo e, dopo aver avuto conferma della buona accoglienza degli ambienti finanziari e industriali, decise di tagliare tutti i canali di comunicazione con la sinistra[4]. Sarà il suo consenso dato al partito neofascista per un congresso che si sarebbe dovuto tenere a Genova a far scatenare nel Paese una serie di agitazioni e proteste che lo indurranno a dimettersi nel luglio dello stesso anno. La scintilla che fece precipitare al situazione fu proprio il congresso del MSI nella città ligure, medaglia d’oro della Resistenza (già alla fine di giugno Sandro Pertini ad un incontro pubblico dichiarerà che quel congresso non si sarebbe dovuto fare). Malgrado al presidente del Consiglio fossero giunte numerose richieste di spostamento le sue intenzioni sembravano essere quelle di voler ricercare uno scontro frontale. A Genova il 30 giugno durante una manifestazione di ex-partigiani, giovani e operai ci fu uno scontro tra la Celere, che aveva caricato la folla, ed i dimostranti che riuscirono ad avere la meglio. In successione, si ebbero scontri sempre più violenti a Roma a porta San Paolo e poi, dopo la disposizione dello stesso Tambroni che aveva autorizzato le forze dell’ordine a sparare sui dimostranti, si registrarono scontri a Reggio Emilia con cinque morti, a Catania e Licata con altri tre manifestanti morti[5]. Gli appelli alla calma giunsero da più parti politiche mentre Tambroni continuò a parlare di un ipotetico pericolo di un “complotto comunista” sino a che trovatosi solo senza possibilità di poter contare su nessun tipo di alleanza si dimise. Questa crisi interna giovò alla sinistra che seppe percepire queste spinte nuove che venivano da giovani e operai e andavano in direzione di una forte richiesta di cambiamento.
Tranfaglia ha fatto notare che il caso Tambroni fu un tentativo fallito di “destabilizzazione” inteso a generare un’esigenza di ritorno all’ordine, di qualsiasi ordine e a qualunque costo.[6] Ma questo momento difficile per la storia e l’esistenza della nostra democrazia spinse le forze di governo, ed in particolare la DC, ad un impegno più deciso nei confronti del Centro-Sinistra: “Come nel 1901 il gabinetto Zanardelli-Giolitti era nato in seguito allo sciopero generale di Genova, così il centro-sinistra nacque in seguito alle manifestazioni, anche violente, del popolo genovese contro il MSI, autorizzato proditoriamente da Tambroni a tenere il suo congresso nella città ligure…. e come nel 1901, le manifestazioni popolari furono decisive perché si incontrarono con una tendenza nel Parlamento favorevole ad aprire un nuovo corso politico orientato a sinistra”[7] (G. Carocci).
Il Centro-Sinistra, l’incontro storico tra cattolici e socialisti, nacque grazie al prevalere nella DC della corrente guidata dal giovane professore A. Moro che si era dimostrato intenzionato ad affrontare i problemi posti dallo sviluppo utilizzando la piena disponibilità offerta dal PSI. Gli anni che vanno dal 1962 al 1968 furono connotati in modo sensibile da questo esperimento politico e rappresentarono una grande occasione per far seguire alla prima fase della trasformazione economico-sociale del paese, compiuta negli anni cinquanta, un ulteriore passo in avanti. In questi anni vennero consolidati da una parte i progressi raggiunti sul piano economico e di modernizzazione e dall’altra lo Stato stesso nelle sue strutture istituzionali e nella pubblica amministrazione[8]. In realtà, soltanto il governo Fanfani (che del PSI avrà l’appoggio esterno) dal 1962 al 1963 si dimostrò veramente intenzionato a mantenere fede ai programmi[9] e a realizzare alcuni importanti successi, mentre già nel 1963 il secondo governo di Centro-Sinistra, presieduto da Aldo Moro e definito “governo organico di centro-sinistra” (poiché prevedeva la partecipazione diretta dei socialisti), seguì un programma riformatore molto annacquato. Tra i principali e importanti successi che il governo Fanfani riuscì ad ottenere possono essere ricordati l’istituzione della scuola media unica, con l’innalzamento dell’obbligo scolastico a 14 anni, la nazionalizzazione dell’energia elettrica e l’istituzione di una Commissione Parlamentare Anti-mafia[10]. Malgrado queste riforme che intaccarono alcuni degli aspetti più vecchi e consolidati della società italiana, il governo del Centro-Sinistra è stato definito come “il governo delle occasioni mancate” a causa della pochezza della sua politica, evidenziata dalle forti aspettative, dalle speranze e dagli ambiziosi programmi che lo avevano accompagnato. Come disse in seguito Franco Gaeta “la politica di centro-sinistra doveva essere la politica delle riforme ma le riforme furono per la maggior parte pensate, programmate, furono minacciate, furono tutto meno che realizzate”[11].
Le ragioni del fallimento del Centro-Sinistra risiedevano in gran parte nelle corpose resistenze e opposizioni alla sua politica che avevano accomunato settori ampi del corpo sociale e apparati dello Stato; tali resistenze nascevano da interessi consolidati di gruppi e ceti e al tempo stesso da culture e orizzonti mentali radicati[12]. Secondo Crainz, per capire l’efficacia e la lunga durata di queste resistenze bisogna richiamarsi alla natura e ai connotati del blocco sociale che si era consolidato attorno alla DC (ed ai collanti ideologici di quel blocco): solo in questo modo si possono capire il grande ritardo con cui l’esperienza riformatrice prese il via e l’immediato innesco di controtendenze che rapidamente portarono al suo svuotamento[13]. Inoltre, il Centro-Sinistra ebbe la “sfortuna”[14] di giungere in un momento di crisi economica per il paese e di questo venne incolpata la politica definita “avventuriera” del governo da parte degli ambienti più conservatori della società come la Confindustria. Le prime riforme, quali quella sulla nazionalizzazione dell’energia elettrica e “l’imposta cedolare” sui redditi dei titoli azionari, generarono nel paese timori e paure che portarono nell’ambiente finanziario ad una massiccia esportazione dei capitali all’estero. Tale comportamento andò ad acuire la crisi del ’63 giustificando così una politica di restrizione della produzione interna[15].
L’allarmismo che si diffuse tra i ceti medi e l’approssimarsi delle elezioni politiche previste per la primavera politica del 1963 spinsero la DC a ridimensionare gli obbiettivi ed ad operare dei “colpi di freno” nella politica riformatrice del Centro-Sinistra: l’istituzione delle Regioni, la riforma tributaria e la riforma urbanistica.[16]
G. Tamburano ha definito l’“affossamento” della proposta di riforma urbanistica, del democristiano Fiorentino Sullo una delle pagine più tristi della storia del Centro-Sinistra: questa legge sarebbe andata a colpire interessi consolidati e speculativi che avevano potuto trarre ingenti profitti e dilagare nelle più grandi città della penisola con il boom delle costruzioni che si era manifestato negli anni del “Miracolo”[17]. La DC, nella paura di perder voti a favore dell’opposizione e nella foga di recuperane parte, in polemica con il PSI, giunse divisa alle elezioni che si svolsero il 28 aprile ’63. I risultati delle elezioni decretarono un buon aumento dei favori per il PCI[18] e per la prima volta un calo per la Democrazia Cristiana che scese sotto il 40% delle preferenze; anche al PSI l’essersi presentato solo all’appuntamento elettorale non portò fortuna. La DC ed il suo leader Moro credettero che la cosa migliore fosse quella di dare continuità al Centro-Sinistra ma la carica riformatrice nel nuovo governo era pressoché sparita, i colpi di freno e le frequenti opposizioni in seno al più grande partito del Pese avevano finito con lo svuotare dall’interno gli interventi del governo. Alcuni storici concordano nel ritenere che il Centro-Sinistra aveva smosso in Italia vecchi equilibri politici e sociali, aveva attuato, almeno parzialmente, la parte più innovatrice della Costituzione repubblicana, riguardante i diritti dei cittadini, riformato alcuni aspetti della vecchia arretratezza ma non era riuscito a realizzare le riforme fondamentali sulla struttura dello Stato, sul funzionamento dei servizi assistenziali, sulla giustizia fiscale e sul divario tra Nord e Sud[19]. Il fallimento dell’esperienza del Centro-Sinistra giunse, dopo il 1963, in concomitanza con un altro momento oscuro della storia della Repubblica che fu il tentativo di golpe, nel 1964, del generale dei Carabinieri De Lorenzo. Nicola Tranfaglia ha formulato un’ipotesi secondo la quale il centro-sinistra avrebbe messo in crisi, nei suoi primi anni di vita, un vecchio assetto di potere politico-militare-poliziesco ereditato immutato dal regime fascista e dalla guerra ed un’arretrata struttura economico-sociale, senza però avere avuto poi la forza di portarne a termine la distruzione sostituendovi un nuovo equilibrio di forze e poteri ma, nello stesso tempo, suscitando la paura e la volontà di reazione di apparati statali e parti del ceto politico di governo gravemente minacciati dal progetto riformatore[20]. Il “tentato golpe” del 1964 avrebbe quindi rappresentato un primo tentativo delle forze più conservatrici della politica italiana (che avevano appunto nel Generale De Lorenzo il proprio braccio armato) di “normalizzare” l’attività riformatrice del governo[21].
[1] N. Tranfaglia, L’Italia democratica. Profilo del primo cinquantennio 1943-1994, p. 34-35: tra gli obbiettivi di Fanfani vi era anche la necessità di coresponsabilizzare il movimento operaio nella gestione riformista e dividere la preoccupante opposizione di sinistra.
[2] N. Tranfaglia, Dalla crisi del centrismo al “compromesso storico”; In La trasformazione dell’Italia. Sviluppi e squilibri in Storia dell’Italia repubblicana, vol. II, Torino, Einaudi, 1995, pp. 8-50.
[3] J. LaPalombara e G. Pizio Ammassari, L’intervento elettorale della Confindustria, in (a cura di) M. Dogan e O. Maria Petracca, Partiti politici e strutture sociali in Italia, Milano, Edizioni Comunità, 1968, pp. 247- 275.
[4]G. Tamburano, Storia e critica del centro sinistra, Milano, Feltrinelli, 1971, pp. 50-60. Tambroni decise inoltre di aumentare la sua popolarità adottando misure demagocihe come il ribasso del prezzo della benzina.
[5] N. Tranfaglia, Dalla crisi del centrismo al “compromesso storico”, cit. pp. 40-45.
[6] N. Tranfaglia, Dalla crisi del centrismo al “compromesso storico”, p. 46. Nenni giudicò questo evento come il tentativo di creare uno scontro Stato-piazza che generasse disordine e il conseguente mito dell’ordine da salvare.
[7] G. Carocci, Storia d’Italia dall’Unità ad oggi, Milano, Feltrinelli, 1975, p 353.
[8] N. Tranfaglia, Dalla crisi del centrismo al “compromesso storico”, p. 50.
[9] G. Tamburano, Storia e critica del centro sinistra, Milano, Feltrinelli, 1971.
[10] G.Crainz, Storia del miracolo italiano,Culture, identità, trasformazioni fra anni cinquanta e sessanta. Inoltre, non possono essere dimenticate alcune misure che iniziarono ad eliminare sperequazioni e pregiudizi arcaici come ad esempio la possibilità data alle donne di poter accedere a tutte le professioni e impieghi pubblici, la legge contro la censura (la legislazione vigente era diventata il simbolo di una cultura che univa moralismo cattolico a discriminazioni ideologiche) che abolì quella teatrale e ridimensionò quella del cinema che pochi anni prima aveva colpito anche un film importante come “La dolce vita” di Fellini.
[11] Citazione presente in N.Tranfaglia, L’Italia democratica. Profilo del primo cinquantennio 1943-1994, p. 38.
[12] Inoltre le pressioni giunte dagli Stati Uniti e dalla Chiesa avevano avuto un ruolo importante.
[13] G.Crainz, Storia del miracolo italiano, Culture, identità, trasformazioni fra anni cinquanta e sessanta, pp. 201-203.
[14] N. Tranfaglia, Dalla crisi del centrismo al “compromesso storico”, cit. p. 36.
Sempre secondo Tranfaglia, “l’anno che si era aperto con grande speranze di cambiamento suscitate dal primo governo Fanfani, raffreddate poi dall’elezione di Segni alla presidenza della Repubblica, che nell’estate aveva registrato la ripresa degli scioperi degli operai alla Fiat fino all’episodio di piazza Statuto… , si chiu(se) in un clima avvelenato di polemiche e incertezze all’interno della coalizione di centro sinistra che ora mai (era) costretta a prepararsi a un nuovo e difficile scontro elettorale”.
[15] A. Graziani, L’economia Italiana dal 1945 ad oggi, p. 85. Le esportazioni di valuta all’estero avvenivano nei modi più vari ma secondo Graziani le autorità competenti come la Banca d’Italia di Carli non vigilarono attentamente sul sistema bancario comportandosi in modo eccessivamente permissivo nei confronti degli spostamenti di denaro all’estero.
[16] G. Crainz, Storia del miracolo italiano, Culture, identità, trasformazioni fra anni cinquanta e sessanta. Il “Miracolo” aveva reso l’evasione fiscale un problema enorme e insopportabile come ha notato S. Lanaro nel suo libro L’Italia nuova, Torino, Einaudi, 1988, ma la vicinanza delle elezioni spinse la parte conservatrice della DC a manifestare forti opposizioni tanto da ottenere che la temuta riforma venisse rimandata.
[17] G. Tamburano, Storia e critica del centro sinistra, Milano, Feltrinelli, 1971; in G. Crainz, Storia del miracolo italiano, Culture, identità, trasformazioni fra anni cinquanta e sessanta.
[18] Come ha notato G. F. Ciuarro, Movimenti migratori e scelte politiche, in M. Dogan e O. Maria Petracca, Partiti politici e strutture sociali in Italia, Milano, Edizioni Comunità, 1968, pp. 275-353 il PCI ottenne il suo successo in tutto il Paese ma in modo particolarmente consistente nei quartieri degli immigrati delle città industriali del Nord e tra gli operai immigrati in Europa. In generale, il successo del PCI era dovuto ai mutamenti delle classi sociali e alle trasformazioni degli anni del “boom”.
[19]N. Tranfaglia, L’Italia democratica. Profilo del primo cinquantennio 1943-1994, p. 39. Il Centro-Sinistranon solo non riuscì a correggere alcune sperequazioni tipiche della società ma in alcuni casi, come ha ricordato Crainz, a vecchie forme di degenerazione se ne sommavano di nuove come accadde per il PSI nenniano, ritenuto il più convinto assertore delle riforme, che iniziò con l’isolare le sue personalità più riformiste e forse utopiste come R. Lombardi, per poi cedere su alcune posizioni fondamentali del proprio programma riformatore al fine di conservare la posizione di potere. Quindi, l’ingresso del PSI nel governo non corresse ma accolse alcune storture del funzionamento delle istituzioni come per la nomina dei sottosegretari che sino ad allora era stata connessa a pratiche clientelari e che il PSI accettò. Inoltre, il PSI non riuscì, come aveva programmato, a rinnovare i metodi di funzionamento degli enti pubblici e questo fu un suo grave limite che inficiò alla base ogni teoria di programmazione, così il permanere di questo limite ostacolò non solo le grosse trasformazioni ma anche le piccole.
[20] N. Tranfaglia, Dalla crisi del centrismo al “compromesso storico”, cit. p.90.
[21] Ivi. pp. 73-75.
Fonte: http://www.cucinapadovana.it/as2011_2012_lezioni/documenti/storia_5/anni_60/miracolo_economico_italiano.doc
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