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Il passaggio all’Euro e la rivalutazione monetaria ex legge 342/2000:
alcune considerazioni
Editor Matteo SantiH
Quando, alla fine del 1998, furono emanate e di conseguenza interpretate le regole per la transizione all’Euro come moneta di conto delle aziende appartenenti all’Unione Europea, passaggio che trova le proprie fonti giuridiche principali nei regolamenti comunitari n. 1103/97, 974/98, e 975/98 e nel D.Lgs. 213/98 , appariva già chiaro ai commentatori che le aziende italiane avrebbero dovuto fronteggiare, nei confronti dei concorrenti europei, gli effetti negativi dell’inflazione subita negli anni precedenti alla formazione della Unione Europea Monetaria e pertanto le differenza tra i cambi intra UEM negli anni precedenti e quelli definiti al momento della fissazione dei tassi irrevocabili di conversione (ossia il 31 Dicembre 1998).
Infatti, nel periodo tra la fine degli anni ‘80 e gli anni ‘90, il divario dell’aumento dei prezzi al consumo rispetto ai principali paesi appartenenti all’Unione Europea (soprattutto Francia, Germania e Belgio) subito dal sistema economico italiano è stato elevato .
Per entrare e rimanere nell’Unione Europea Monetaria i paesi europei erano e sono tenuti a rispettare i parametri contenuti nel Trattato di Maastricht, il quale fissa, oltre ai requisiti istituzionali , i seguenti criteri di convergenza economica:
- stabilità dei prezzi: nella media dell’anno precedente all’esame, l’inflazione sui prezzi al consumo non doveva superare di 1,5 punti percentuali la media dei tre paesi membri ad inflazione più bassa;
- sostenibilità della posizione finanziaria pubblica, giudicata attraverso i seguenti parametri:
a) il rapporto tra il deficit pubblico e il PIL non deve superare la soglia del 3%;
b) il rapporto tra il debito pubblico e il PIL non deve superare la soglia del 60%.
L’unico parametro non raggiunto dall’Italia, ma anche da altri paesi aderenti, è il rapporto tra debito pubblico e PIL; tale criterio, come sopra ricordato, era stato inizialmente fissato al 60%; purtuttavia, non essendo stato possibile rispettare il limite da parte di alcuni paesi aderenti, è stato trasformato in un obiettivo da raggiungere entro l'anno 2003.
Sono paesi aderenti, oltre all’Italia, la Germania, il Belgio, il Lussemburgo, la Spagna, la Francia, l’Irlanda, l’Olanda, L’Austria, il Portogallo e la Finlandia; l’Inghilterra e la Danimarca, pur avendo raggiunto i parametri per l’ammissione, hanno deciso di non entrare nell’Unione monetaria, mentre la Grecia, che era stata inizialmente esclusa non avendo ottenuto nel 1998 nessuno dei valori minimi dei parametri di adesione, è successivamente rientrata per cui partecipa a tutti gli effetti alla Unione Europea Monetaria.
I regolamenti europei ed il decreto nazionale disciplinano, a volte anche in contrasto con i principi contabili nazionali ed internazionali , le modalità operative di conversione delle poste monetarie, dei crediti e debiti in valuta e la ridenominazione in Euro del capitale sociale, mentre relativamente alla conversione delle poste non monetarie, quali le immobilizzazioni materiali, immateriali e finanziarie, né i regolamenti comunitari né il decreto legislativo riportano alcuna norma specifica. La regola generale prevede pertanto che la conversione debba avvenire applicando il tasso fisso di conversione al valore emergente dalla contabilità, senza evidenziare alcuna differenza di cambio ; ciò vale naturalmente sia per il valore storico delle immobilizzazioni sia per il relativo fondo di ammortamento.
La mancanza di una specifica regolamentazione causa una serie di problemi competitivi alle aziende italiane le quali, nei confronti delle loro concorrenti appartenenti all’area UEM, hanno subito nel tempo tassi di inflazione molto maggiori. E’ infatti la comparazione con le altre valute europee a creare una certa difficoltà competitiva e non l’inflazione in se stessa, come spiegheremo nel prosieguo del lavoro.
Di conseguenza, essendo comunque valido il criterio generale di valutazione delle immobilizzazioni al costo storico e risalendo le ultime rivalutazioni non onerose dal punto di vista fiscale al 1983 (cosiddetta legge Visentini bis), le aziende italiane si troveranno, nei confronti dei loro competitors europei ad affrontare i problemi legati ad una “relativa” sottovalutazione dei valori dell’attivo patrimoniale da cui derivano minori ammortamenti, e di conseguenza la possibilità che quote di utili, che in relazione alle altre aziende europee sono soltanto “fittizi”, vengano evidenziati e subiscano le pretese dei soci e dello Stato-fisco. Da tutto ciò, in termini finanziari, deriva una minore possibilità di autofinanziamento “reale” dell’azienda.
Come esempio si veda la situazione di due aziende, una italiana ed una tedesca, le quali, nel 1994, hanno acquistato una immobilizzazione del tutto equivalente in termini di costo e vita utile (il bene strumentale è ammortizzabile in 10 anni).
Il costo storico di acquisto è uguale, nel 1994, a Lire 3.000.000 per la società italiana e a 4000 DM per la società tedesca (al tasso di allora di 750 lire per 1 marco tedesco vi è quindi perfetta equivalenza).
Nel 1999, nell’ipotesi di ammortamento a quote costanti, si ottiene:
- il tasso irrevocabile EURO/LIRA porta ad ammortamenti di 300.000 Lire/1936,27 = 154, 94 Euro
- il tasso irrevocabile EURO/MARCO porta ad ammortamenti di 400 DM/1,95583 = 204.52 Euro
A parità di fatturato e di costo di produzione, espressi in Euro, si ottiene pertanto:
|
azienda italiana |
|
azienda tedesca |
FATTURATO |
510,73 |
|
510,73 |
COSTI DI PRODUZIONE |
331,97 |
|
331,97 |
AMMORTAMENTO |
154, 94 |
|
204,52 |
UTILE OPERATIVO |
23,82 |
|
- 25,76 |
IMPOSTE SUL REDDITO |
circa 12 Euro |
|
nulla |
RISULTATO NETTO |
circa 11,82 |
|
- 25,76 |
Il net cash di gestione corrente, determinato sinteticamente, è pertanto uguale a circa 166 Euro per la società italiana e a 178,76 Euro per la società tedesca . Alla luce di questo esempio appariva auspicabile che venisse proposto, da parte del legislatore italiano, un intervento di rivalutazione, non fiscalmente onerosa, che permettesse alle aziende italiane di affrontare alla pari il nuovo quadro competitivo europeo. Nel prosieguo del lavoro verificheremo come tale rivalutazione sia infine stata concessa con la legge 342/2000, osservando fin d’ora che non si tratta di una rivalutazione fiscalmente non onerosa e che i suoi obiettivi e le sue metodologie non sono in linea con le leggi di rivalutazione monetaria.
Un altro esempio può essere utile per estendere la problematica alle partecipazioni, anch’esse incluse nella possibilità di rivalutazione dalla legge 342/2000 a condizione che si possano considerare come partecipazioni di collegamento o di controllo ai sensi dell’art. 2359 del codice civile e qualora risultino iscritte in bilancio come immobilizzazioni :
- se una società francese e una società italiana avessero investito in quote azionarie di una società tedesca un milione di marchi nel Gennaio 1991 (quando il cambio era di 754 lire per un marco tedesco e di 221 lire italiane per un franco francese e pertanto il rapporto marco/franco era di 3,41) ci saremmo trovati nella situazione iniziale in cui la società italiana iscriveva a bilancio partecipazioni per 754 milioni di lire e la società francese 3,41 milioni di franchi.
Al momento dell’introduzione dell’Euro (i cambi fissi irrevocabili stabiliti a fine 1998 di Euro con Lira e di Euro con Franco sono rispettivamente di 1936,27 e 6,55957); pertanto il valore della partecipazione è di 389.408,50 Euro per la società italiana e di 519.851,14 Euro per la società francese. Ipotizziamo ora che nell’anno 2000 le due società abbiano venduto la partecipazione ad un valore di 600.000 Euro:
- la società italiana realizza una plusvalenza di 210.591,50 Euro
- la società francese invece realizza un risultato positivo derivante dalla cessione pari a Euro 80.148,86, cioè poco più di un terzo di quello realizzato dall’azienda italiana. Se si considera che le plusvalenze costituiscono reddito imponibile ai fini del calcolo delle imposte, si apprezza immediatamente la differenza competitiva di cui vogliamo rendere testimonianza.
Occorre ora soffermarci, seppur molto sinteticamente e rinviando agli altri contributi dell’odierno convegno per gli opportuni approfondimenti, quali siano le tipologie di immobilizzazioni coinvolte dalla possibilità di rivalutazione e quali possano essere i costi (ed i vantaggi) di tale operazione.
La legge 21/11/2000 n.342 disciplina la rivalutazione volontaria dei beni aziendali che costituiscono immobilizzazioni e come tali sono presenti nel bilancio chiuso il 31/12/1999. Tale rivalutazione consente di dare maggiore valore fiscale (pari al massimo al valore di mercato) alle immobilizzazioni in previsione di una dismissione e permette comunque di effettuare maggiori ammortamenti fiscalmente deducibili; inoltre, il saldo attivo di rivalutazione permette di conseguire la agevolazione fiscale ai fini DIT.
Il quadro normativo di riferimento sono gli artt. 10-16 della Legge 342 del 21/11/2000, la Circolare del Ministero delle Finanze del 16 novembre 2000 n.207/E, il comunicato stampa del Ministero delle Finanze del 6/12/2000, la circolare Assonime del 27/02/2001 n.13, e il decreto attuativo ancora in corso di pubblicazione .
I beni rivalutabili si possono dividere in tre categorie:
- immobilizzazioni materiali
- immobilizzazioni immateriali: sono suscettibili di rivalutazione esclusivamente i beni immateriali tutelati giuridicamente, che esprimano cioè diritti assoluti o relativi verso terzi; è escluso il valore di avviamento in quanto espressione qualitativa dell’azienda.
- partecipazioni in società controllate e collegate ai sensi dell’art.2359 c.c. che risultino iscritte a bilancio tra le immobilizzazioni finanziarie.
Possono essere inclusi i beni di valore inferiore al milione che comunque vanno ricompresi nel concetto di categorie omogenee di cui si dirà in seguito .
I beni rivalutabili sono esclusivamente quelli risultanti dal bilancio chiuso al 31/12/1999; per i beni in leasing si considerano soltanto quelli già riscattati alla data di cui sopra.
Il limite alla rivalutazione dei beni è di due tipi:
- economico: il valore non può essere superiore al valore effettivamente attribuibile al bene in termini di consistenza e di capacità produttiva ossia in termini di effettiva utilizzazione economica;
- di mercato: il valore non deve essere superiore al valore corrente, secondo le quotazioni di mercato.
Per controllare che a seguito della rivalutazione il valore del bene rientri nei limiti occorre verificare che il valore netto contabile dopo la rivalutazione, aumentato della maggiore quota d’ammortamento stanziata a seguito della rivalutazione stessa, non superi il valore di mercato o il valore economico.
La rivalutazione deve necessariamente essere effettuata rispettando le categorie omogenee e non già per singolo bene.
Il decreto attuativo, all’art. 4, prevede l’applicazione di un “unico criterio” a ciascuna categoria omogenea: si deve cioè usare un parametro di riferimento uniforme per tutti i beni appartenenti ad una determinata categoria omogenea; una prima interpretazione del decreto attuativo fa ritenere che le aziende debbano optare, per tutti i beni appartenenti a ciascuna categoria omogenea, o per il valore economico dato “dalla consistenza, dalla capacità produttiva, dall’effettiva possibilità di economica utilizzazione nell’impresa” o per il valore di mercato definito come “valore corrente o corrispondente alle quotazioni rilevate in mercati regolamentati italiani ed esteri”. In tal modo si ribadisce ulteriormente che la legge non ha come obiettivo il mero riadeguamento dei valori alla perdita di potere d’acquisto della moneta ma si propone come vera e propria rivalutazione economica .
Meglio sarebbe stato, per sopperire al problema da noi affrontato del passaggio dell’intero gruppo delle aziende europee alla moneta unica, introdurre in Italia una rivalutazione per conguaglio monetario, anche non facoltativa, e soprattutto fiscalmente gratuita (con i vincoli, abituali in questi casi, alla distribuzione delle riserve per conguaglio monetario) .
Tornando al decreto attuativo, le categorie omogenee indicate sono le seguenti:
Beni materiali ammortizzabili |
Per anno di acquisizione e coefficiente d’ammortamento |
Beni immateriali |
Distinte per ciascun bene |
Beni immobili |
- Aree fabbricabili aventi la stessa destinazione urbanistica |
Beni mobili registrati |
- Veicoli |
Azioni e quote |
Per soggetto che ha effettuato l’emissione e se aventi le medesime caratteristiche |
Relativamente agli adempimenti contabili, i contribuenti in contabilità ordinaria devono riportare la rivalutazione nell’inventario e nella nota integrativa relativa al bilancio in cui viene eseguita la rivalutazione.
L’importo del saldo attivo di rivalutazione al netto dell’imposta sostitutiva è rilevante ai fini DIT come variazione in aumento del capitale investito a partire dall'esercizio in cui è imputato a capitale o accantonato a riserva.
Sul maggiore valore iscritto a bilancio l’imposta sostitutiva viene così applicata:
- 19% sui beni ammortizzabili;
- 15% sui beni non ammortizzabili.
Il versamento può essere fatto o in una unica soluzione o ratealmente con un massimo di tre rate annuali di pari importo. Per le rate successive alla prima vanno calcolati gli interessi al tasso annuale del 6% .
In estrema sintesi la convenienza dell’operazione può essere evidenziata nei seguenti aspetti:
- utilizzo per il calcolo della DIT;
- maggiori ammortamenti deducibili;
- minore plusvalenza tassata in caso di cessione;
- maggior valore su cui calcolare il limite delle spese di manutenzione e riparazione previste dall’art. 67 del TUIR.
Prima di effettuare la rivalutazione il soggetto economico dell’impresa valuterà con grande attenzione la convenienza economica dell’operazione che dipende da molte variabili, non ultima l’intenzione di cedere il bene in tempi brevi .
Un ultima annotazione riguarda la possibilità di rivalutare le immobilizzazioni materiali ammortizzabili che siano state prodotte internamente all’azienda in esercizi precedenti al 2000. Nella legge non è prevista espressamente questa possibilità ma non è neppure esclusa ed è pertanto da ritenersi applicabile. Occorre ricordare che al momento della capitalizzazione del valore della produzione interna il suo costo pieno industriale di produzione (così come individuato dalla migliore dottrina, in relazione alle indicazioni dell’art. 2426 del codice civile) deve essere confrontato con il valore che l’immobilizzazione è in grado di recuperare in maniera indiretta, attraverso i ricavi di vendita dei prodotti, lasciando un margine di utile soddisfacente (e deve inoltre essere confrontato anche con il suo valore di mercato al momento dell’inizio dell’utilizzazione). Se il bene non dimostra una capacità di utilizzazione economica o un valore di mercato uguale al suo costo di produzione, deve essere capitalizzato tale minor valore .
Occorre considerare anche che molte aziende utilizzano valori correnti dei consumi di materie prime e degli ammortamenti per le determinazioni di contabilità analitica che quindi ricadono sui risultati del sistema contabile in termini di costo di produzione; in tal caso il valore della produzione interna deve essere ricondotto al costo consuntivo effettivo di produzione nella prescelta configurazione di costo pieno industriale, ricordando che le finalità della contabilità analitica e di quella generale possono essere anche molto diverse tra loro: la prima ha come scopo l’ottenimento di valori ai fini di prendere decisioni gestionali e di effettuare il controllo direzionale ed operativo (e in tal senso si apprezza l’utilizzo di valori standard e/o correnti all’interno del sistema contabile), la seconda ha lo scopo principale di determinare il reddito di periodo ed il connesso capitale di funzionamento, mediante la stima delle "operazioni in corso", con l'ovvia conseguenza che deve riferirsi necessariamente a valori consuntivi.
Opere citate e consultate
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Bastia P., Effetto Euro, la “strategia amministrativa”, in Amministrazione e Finanza Oro, n. 3/1998.
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Matacena A. - Pasi F., Il rendiconto finanziario: metodiche di costruzione, contenuti e scopi, Clueb, Bologna, 1995.
Matacena A., Il Bilancio d’esercizio, Clueb, Bologna, 1993.
Piazza M. - Rizzardi R. - Roscini Vitali F., Guida all’EURO, Il Sole 24 Ore Norme e tributi, Milano 1998.
Santi M., Euro: aspetti contabili e conseguenze sui bilanci d’esercizio, su Revisione Contabile, n. 27-1999.
Santi M., L’Euro nella pubblica amministrazione: vincoli , minacce e opportunità, relazione al convegno “l’Euro e la PA, in corso di stampa.
Sorarù M. - Gallo S. - Giacomini S., Euro ed Enti Locali: cosa cambia, Maggioli , Rimini, 1999.
Terzani S., Introduzione al bilancio d’esercizio, Cedam, Padova 1995.
Tieghi M., Il Bilancio d’esercizio: teoria e prassi, Clueb, Bologna, 1992.
Occorre considerare anche il Documento di orientamento della Commissione Europea approvato il 20/6/1997 sugli aspetti contabili dell’introduzione dell’Euro ed il principio contabile sull’introduzione dell’Euro della Commissione congiunta per i principi contabili dei Ragionieri e Dottori Commercialisti pubblicata l’11 Dicembre 1998 (il principio contabile ha seguito il Documento di lavoro sull’introduzione dell’Euro pubblicato precedentemente).
Per una attenta analisi di tutti i dati storici che hanno portato alla definizione dei tassi d’inflazione di riferimento per l’ingresso nell’Unione Europea Monetaria, si possono consultare le banche dati dell’Eurostat, al sito Internet www.europa.eu.int/comm/eurostat/Public
Tra i quali ricordiamo il principale: la disponibilità della banca centrale del paese aderente ad integrarsi funzionalmente e perfettamente nel sistema delle banche centrali europee.
Ci riferiamo in particolare alla possibilità di rateizzare gli utili su cambi e le perdite su cambi in valuta intra UEM secondo il metodo forfetario previsto dall’art. 18 del D.Lgs 213/98. Tale metodo, che imputa al conto economico dell’anno 1998 e dei tre successivi un quarto delle perdite e degli utili, purché tale modalità venga adottata per tutti i crediti e i debiti in valuta, è in contrasto evidente con il principio di competenza e viene pertanto sconsigliato dalla Commissione per i principi contabili; per approfondimenti si vedano: U. Bocchino, L’Euro, l’impresa ed il Bilancio d’esercizio: problematiche gestionali, operative, contabili e civilistiche, Il Sole 24 Ore Libri, 1998; R. Di Pietra, Euro e conversione monetaria: una rassegna delle vigenti norme contabili, in Rivista Italiana di Ragioneria e di Economia Aziendale, Luglio-Agosto 1998; P. Lizza, L’Euro: una sfida per le imprese, in Rivista Italiana di Ragioneria e di Economia Aziendale, Maggio-Giugno 1998.; M. Santi, Euro: aspetti contabili e conseguenze sui bilanci d’esercizio, su Revisione Contabile, n. 27-1999.
Le regole fissate per gli arrotondamenti prevedono che vengano arrotondati gli importi monetari “finali” esito delle operazioni (il Regolamento 1103/97 art. 5 li definisce “importi da pagare e/o contabilizzare” per distinguerli dai calcoli intermedi) prevedendo due distinte ipotesi a seconda che la conversione sia da Lire a Euro o da Euro a Lire; per la tematica che ci interessa ora occorre ricordare le regole per gli arrotondamenti nella conversione da moneta nazionale ad Euro: il risultato ottenuto deve essere arrotondato al cent più vicino, unità divisionale minima dell’Euro. Si noti che la norma prevede che, “se l’applicazione del tasso di conversione dà un risultato che si pone a metà, la somma viene arrotondata per eccesso”; pertanto per tutti gli arrotondamenti di un valore monetario espresso in Euro, se il risultato cade a metà, e termina con 5, si arrotonda per eccesso all’unità superiore (pertanto i risultati delle conversioni che terminano con 5 millesimi vengono arrotondati al centesimo superiore). Tale disposizione richiede una particolare attenzione in quanto in Italia si è spesso usato arrotondare per difetto, e cioè all’unità inferiore, il risultato che termina con 5 (questa modalità di arrotondamento è, ad esempio, quella prevista dalle istruzioni ministeriali per la compilazione del Modello Unico delle dichiarazioni dei redditi). Per chiarire il metodo presentiamo alcuni esempi di conversione Lira/Euro:
1.500 Lire / 1.936,27 = 0,7746853 si arrotonda a 0,76 Euro
2.000 Lire / 1.936,27 = 1,0329137 si arrotonda a 1,03 Euro
3.400 Lire / 1.936,27 = 1,7559534 si arrotonda a 1,76 Euro
Per le modalità di calcolo del net cash, sia analiticamente attraverso il metodo del foglio di lavoro, sia sinteticamente, si vedano A. Matacena - F. Pasi, Il rendiconto finanziario: metodiche di costruzione, contenuti e scopi, Clueb, Bologna, 1995.
L’esempio è suggerito da M. Piazza - R. Rizzardi - F. Roscini Vitali, Guida all’EURO, Il Sole 24 Ore Norme e tributi, Milano 1998, pag. 58.
I tassi di conversione sono stati adottati con riferimento ad un Euro espresso in ciascuna delle monete nazionali (art. 4 comma 1 del Reg. CE n.1103/97) e sono costituiti da sei cifre significative (ad esempio, per il Marco Tedesco le sei cifre significative sono 1,95583 mentre per la Sterlina Irlandese 0,787564). Il tasso non può mai essere arrotondato o troncato durante l’operazione di conversione (comma 2), mentre si devono arrotondare, secondo le precise regole analizzate precedentemente, i risultati numerici delle conversioni. Non si possono utilizzare inoltre, in nessun caso, i tassi inversi derivati dai tassi di conversione al fine di non alterare l’esito delle operazioni di conversione. Pertanto per convertire gli importi monetari da Lira ad Euro occorre dividere l’ammontare in Lire per 1936,27 e poi arrotondare il risultato al centesimo di Euro più vicino. Al contrario, per convertire un importo da Euro a Lire, occorre moltiplicarlo per 1936,27; non è consentito quindi utilizzare la divisione per 0,000516456 (tasso inverso = 1/1936,27) in quanto le regole previste per gli arrotondamenti possono condurre a risultati non perfettamente coincidenti.
I soggetti interessati sono:
- Spa, sapa, srl, società cooperative e società di mutua assicurazione residenti in Italia;
- Enti pubblici e privati residenti in Italia;
- Società ed enti non residenti in Italia;
- Imprese individuali, snc, sas ed equiparate, anche in contabilità semplificata;
- Persone fisiche non residenti in Italia che vi esercitano attività commerciali con una stabile organizzazione.
Si precisa che non possono rivalutare i beni coloro che determinano il reddito forfetariamente e comunque qualora le società cooperative che usufruiscono di esenzioni d’imposta vogliano procedere alla rivalutazione devono in ogni modo pagare l’imposta sostitutiva.
La previsione esplicita dei beni di valore inferiore ad un milione e pertanto soggetti fiscalmente ad ammortamento integrale nell’esercizio, ha creato numerosi difficoltà di interpretazione, per risolvere le quali si auspica che un ulteriore chiarimento venga fornito dal Ministero competente, si veda G. Ferranti, Beni minimi, incrementi rebus, su Il sole 24 ore del 1 Maggio 2001.
Per esaminare analiticamente le critiche a questa legge di rivalutazione dal punto di vista economico aziendale e sulle conseguenze che tale rivalutazione ha sui valori di bilancio nonché sulla natura corretta della riserva che si origina si veda il contributo “Le riserve di rivalutazione” del Prof. Capodaglio, pubblicato in questa raccolta. Si veda anche G. Capodaglio, Autofinanziamento investimenti e variazione dei prezzi, Clueb Bologna, 1988; G. Ceriani, L’integrità economica del capitale in condizioni aziendali perturbate, in “Studi in onore di Ubaldo de Dominicis”, LINT, Trieste, 1990.
Ci riferiamo naturalmente alla legge n.73 del 1983 (Visentini bis) la quale era fiscalmente gratuita e poneva vincoli molto rigidi all’utilizzo del saldo attivo di rivalutazione, che, se distribuito, rientrava nella determinazione del reddito imponibile. Si noti anche che la successiva legge di rivalutazione 408 del 1990, fiscalmente onerosa e facoltativa, non ha ottenuto i risultati sperati dal legislatore proprio in quanto onerosa e perché poneva dei vincoli legati alle categorie omogenee, in misura simile a quelli della legge di cui stiamo discutendo. Per una disamina delle principali leggi di rivalutazione susseguitesi nel tempo si veda S.Terzani, Introduzione al bilancio d’esercizio, Cedam, Padova 1995.
La scelta sulla modalità di versamento deve essere fatta sulla dichiarazione dei redditi e nei termini previsti dai versamenti in sede di Modello Unico.
Per alcuni interessanti esempi di valutazione economica comparata sull’opportunità o meno di effettuare la rivalutazione dei cespiti aziendali, si veda il contributo a questo Convegno del Dott. Nini.
Ci riferiamo evidentemente ad una contabilità analitica tenuta con il sistema duplice contabile o bilanciante. Si vedano, sul tema in oggetto, C. Campanini, Lezioni di ragioneria generale ed applicata, Clueb Bologna, 1992; G. Capodaglio, Le valutazioni aziendali ordinarie: le immobilizzazioni, volume primo, Clueb, 1997.
Valorizzando quindi gli scarichi del magazzino materie prime con metodi quali il “costo dell’ultima partita” o il N.I.F.O. (next in - first -out) o utilizzando valori standard, in questo caso anche per gli altri fattori produttivi.
Fonte: http://ea2000.unipv.it/paper/santi/copia%20di%208%20santi.doc
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