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Marco Avanzini-Michael Wachtler: Dolomiti – storia di una scoperta
Dinosauri nelle Dolomiti
Il Tridentinosaurus, il più antico rettile delle dolomiti
Nell’estate del 1931, Gualtiero Adami, ingegnere del Regio Genio Civile di Trento e collaboratore del Museo di Scienze Naturali della Venezia Tridentina, raccolse, durante uno dei suoi sopralluoghi tecnici sull’altopiano di Pinè una pietra sulla quale era chiaramente impressa la sagoma di un animale simile ad una lucertola; una diceria, non verificabile, racconta che si trattasse di una pietra destinata ad essere eretta ai lati della strada a mo’ di paracarro. Il reperto venne consegnato al Museo, che consapevole dell’importanza del ritrovamento ne diede pubblica notizia indicando che lo studio sarebbe stato affidato al Professor Giorgio Dal Piaz dell’Università di Padova ed allora Conservatore Onorario dell’istituzione. Fu così che G. Dal Piaz diede risalto ufficiale alla scoperta in una riunione della Società Italiana per il Progresso Scientifico tenutasi a Milano nel settembre dello stesso anno comunicando "la scoperta di un nuovo genere probabile di paleolacertide raccolto nei pressi di Pinè in un sottile letto di tufo compreso entro il porfido permiano”. Dal Piaz aggiungeva che il fossile, ancora in corso di studio, rivestiva una grande importanza sia dal punto di vista paleontologico che da quello paleogeografico. Passano gli anni e del reperto non si da più notizia, sappiamo solo che il 18 maggio 1938 il fossile fu consegnato dal Museo di Storia Naturale della Venezia Tridentina all'Istituto di Geologia dell'Università di Padova, dove è attualmente conservato, in cambio di uno scheletro di Orso speleo proveniente dalla grotta istriana di Pocala.
Nel 1942 Giambattista Dal Piaz cita brevemente il fossile parlando di "un bellissimo rettile lacertifome di habitat sicuramente terrestre” che avrebbe confermato l’ambiente di eruzione subaero per i porfidi della Venezia Tridentina. Nel frattempo, Giorgio Dal Piaz, prepara la Guida del Museo e dell’Istituto di Geologia, Paleontologia e Geologia Applicata dell’Università di Padova, il fossile viene collocato in una delle vetrine a muro della sala W con un cartellino che lo battezza Tridentinosaurus antiquus (nuovo genere, nuova specie GB Dal Piaz). Il fossile però non è ancora stato studiato in dettaglio ed è Piero Leonardi, nel 1959, che, su richiesta dello stesso Giambattista Dal Piaz ne compie lo studio paleontologico. E’ così che il Tridentinosaurus diventa il più famoso tra i vertebrati fossili dell'area dolomitica ed il più antico delle Alpi meridionali. La sua conservazione è del tutto particolare dal momento che non si è preservato solo lo scheletro ma anche traccia delle parti molli del corpo sotto forma di una sagoma scura. Si tratta di un piccolo rettile lungo 25 centimetri, la forma è molto simile a quella di una lucertola con collo lungo e gracile, corpo allungato ed arti muniti di mani e piedi a cinque dita lunghe e sottili.
Il tipo di conservazione non ha permesso finora analisi più approfondite del fossile: i dati raccolti da Leonardi furono tuttavia sufficienti a stabilire che si trattava certamente di un rettile e probabilmente un protosauro. La classificazione è stata fatta per confronto con gruppi di tetrapodi a conformazione generale simile del Permiano e del Carbonifero. Tra i generi noti della famiglia Areoscelidae, tuttavia, nessuno corrisponde per proporzioni del corpo e morfologia generale al fossile di Pinè e per questo Leonardi si trovò d’accordo con Dal Piaz nel considerarlo un genere nuovo. Ancora oggi, a quasi 70 anni dalla scoperta, conservato in un solido armadio del Museo di Padova, il piccolo fossile mantiene inalterato il suo fascino.
Caldi deserti brulicanti di vita
Alla fine del 1800, in una cava di arenaria tra Gleno e Montagna, nei pressi di Egna, F. Glassner raccoglie alcuni frammenti che mostrano strane tracce. Invia i reperti a Ernst Kittl, assistente del Gabinetto di Geologia e Paleontologia del Museo di Vienna. Kittl gli esamina e si rende conto che tra essi c'è l’impronta di un rettile simile a quelle che pochi anni prima erano state scoperte in Turingia; ne da così una sommaria descrizione nel notiziario dell'Osterreische Turist Club del 1891, invitando a mettersi in contatto con lui chiunque sia in possesso di altri dati relativi a quel luogo. Apparentemente il suo appello cade nel vuoto e, solo dopo trent'anni, il paleontologo austriaco, Abel, da una esauriente descrizione scientifica di quell’unica impronta.
Passano gli anni e, nonstante le ricerche sulle Dolomiti diventino sempre più accurate, non v'è più traccia di rettili. Fino al 1946, quando Piero Leonardi si mette sulle tracce della flora permiana segnalata nelle Arenarie di Valgardena da Gümbel nel 1877. In un interessante articolo dell’ingeniere Leo Perwanger, sulla geologia dei dintorni di Redagno, un piccolo paese ai piedi del Corno Bianco e del Corno Nero, apprende che resti vegetali sono conservati in grande abbondanza nelle rocce affioranti nella vicina gola del Bletterbach, scavata nella successione permo-mesozoica. Durante la campagna geologica di quell'estate vi scopre un tronco fossile di notevoli dimensioni. Decide quindi di ritornare l'anno successivo ed inizia a studiare i reperti vegetali conservati presso l'albergo Zirmerhof e descritti da Perwanger nel suo articolo. Nell'aprile 1948, appena sciolta la neve si reca nuovamente nella forra e raccoglie altro materiale. Vi ritorna nel settembre, assieme a Leo Perwanger ed insieme raccolgono altri vegetali, tra i quali Lepidodendron e Walchia, ma nei pressi dell'affioramento che stanno esaminando si accorge che sono presenti anche numerosi frammenti di arenaria che conservano impronte fossili di vertebrati.
Nell'anno successivo ritorna al Bletterbach e colleziona altro materiale che gli permette di pubblicare, nel 1951, un primo studio sull'associazione faunistica. Ma il materiale che la gola restituisca ad ogni primavera è veramente abbondante e molto interessante. Piero Leonardi si rende conto che quel sito conserva probabilmente le tracce di tutti gli animali permiani fino ad allora conosciuti e forse anche qualcosa in più, vale sicuramente la pena approfondire le ricerche e così, negli anni successivi ritorna al Bletterbach, spesso con il Prof Accordi e prosegue le ricerche anno dopo anno coinvolgendo suoi studenti che diverranno conosciuti ricercatori. E' l'inizio di una attenta caccia in tutte le Dolomiti.
Nell'estate 1951, Leonardi si reca alle Cuecenes, sul fianco orientale del Monte Seceda assieme ad Enrico Moroder, di Ortisei. In poco tempo raccolgono molti resti vegetali ed anche, per la prima volta, una bella serie di orme di tetrapodi analoghe a quelle di Redagno. Nel 1955 assieme al suo infaticabile collega Prof. Accordi rinviene una nuova località ad orme permiane lungo la strada tra Pausa e Doladizza, sul fianco sinistro della valle dell'Adige. E l'anno successivo, con i figli, Giuseppe e Giovanni individua un altro affioramento ad impronte permiane nei pressi del Passo di San Pellegrino.
Ma le molte ricerche nelle Dolomiti non lo tengono lontano dal Bletterbach. Nel 1973, il suo entusiasmo per quel luogo coinvolge un gruppo di giovani ricercatori che conducono la prima campagna di ricerca dedicata esclusivamente al recupero di impronte fossili. Le scoperte saranno numerose e le ricerche continueranno per anni fino ai nostri giorni. Le impronte del Bletterbach compariranno sulle più prestigiose riviste scientifiche internazionali e lo stretto cañon diverrà conosciuto in tutto il mondo.
Tra quei giovani ricercatori c'è Umberto Nicosia, ora direttore del Museo di Paleontologia dell'Università la Sapienza di Roma ed anche Giuseppe Leonardi, considerato uno dei padri della moderna icnologia, la scienza che studia le impronte fossili. Giuseppe Leonardi, sacerdote e paleontologo ha tracciato mappe e studiato siti in luoghi remoti ed inaccessibili all'interno delle giungle sudamericane, ha descritto impronte e tracce di ogni periodo geologico ed è stato il primo a concretizzare i dati sulle orme su scala continentale e a uniformare il linguaggio icnologico in otto lingue diverse che parla correntemente.
Personaggi come loro lavorano tutt'oggi in questo sito svelandone pazientemente i segreti. Oggi abbiamo la conferma che, come aveva correttamente intuito Piero Leonardi, l'affioramento di Arenarie di Val Gardena del Bletterbach-Butterloch, può essere considerato il più importante giacimento del mondo per quanto riguarda la varietà e la ricchezza della fauna a tetrapodi del Permiano superiore. Ora sappiamo che l'associazione di tetrapodi delle Arenarie di Val Gardena era composta esclusivamente da rettili raggruppabili in una ventina di forme diverse. Gli animali di maggiori dimensioni testimoniati dalle orme fossili sono i Pareiasauri, che produssero le orme definite Pachypes dolomiticus. Erano animali lunghi circa 3 metri e pesanti più di una tonnellata che si spostavano in mandrie alla ricerca di cibo; i loro arti erano relativamente eretti e sostenevano un corpo massiccio, con un ampio torace ricoperto da pelle coriacea. I crani erano robusti, con espansioni ossee laterali; le loro bocche erano munite di una batteria di denti schiacciati a forma di foglia che suggeriscono una dieta erbivora. Impronte di questo tipo sono state rinvenute in varie località dell'Italia nord-orientale a testimonianza che tali animali dovevano essere piuttosto diffusi e abbondanti nelle vaste pianure del Permiano superiore.
Altri erbivori, lunghi un paio di metri e pesanti fino a 300 chilogrammi, erano i caseidi, animali lenti con il corpo basso sul terreno anche se molto meno massicci e pesanti dei Pareiasauri.
I carnivori dominanti verso la fine del Permiano erano i gorgonopsidi dell'ordine dei terapsidi. Poche impronte isolate testimoniano l'esistenza di questi predatori con corpo agile ed arti che permettevano un'andatura abbastanza rapida col corpo ben sollevato da terra. Quelli presenti al Butterloch erano lunghi poco più di 2 metri e potevano pesare fino a 200 chilogrammi. Nello stesso ambiente erano presenti, seppur meno numerosi, anche primitivi "tecodonti", autori di due orme attribuite alla famiglia Chirotheriidae. Queste ultime sono le più antiche orme chiroteriane conosciute al mondo ed evidenziano la presenza di animali agili e svelti, lunghi fino a tre metri.
Alcune orme delle Arenarie di val Gardena sono attribuibili a cinodonti primitivi (icnogenere Dicynodontipus). Questi erano animali con aspetto quasi da mammifero, lunghi da mezzo metro a poco più di un metro, buoni camminatori con gambe corte ma già piuttosto verticali. I denti specializzati e una buona muscolatura nelle mandibole indicano un'alimentazione carnivora molto efficiente.
Hyloidichnius tirolensis, Paradoxichnium, Rhynchosauroides, Janusichnus, e orme riferibili a Procolophonomorpha, rappresentano piccoli rettili simili a lucertole con una dieta difficilmente determinabile ma certamente piuttosto varia. Per la maggior parte erano animali di piccole dimensioni (Rhynchosauroides ad esempio, raggiungeva i 70 cm); simili a lucertole nella struttura generale, nella forma dei piedi e anche nella dentatura, probabilmente onnivori.
Dagli affioramenti del Butterloch proviene anche una grande lastra in cui sono impresse numerose impronte di piccoli pesci a corpo allungato ricoperto da scaglie di forma romboidale. Probabilmente erano forme evolute di Palaeonisciformes. Il gran numero di pesci rinvenuti su di una superficie di 2 m per 1 m, fa pensare alla fossilizzazione di pozze d'acqua, lasciata dal riflusso di marea, in cui era rimasto intrappolato un banco di pesci. Sulla lastra sono impresse anche parecchie decine di impronte, testimonianza del passaggio di piccoli rettili lacertoidi.
La maggior parte di questi rettili, tra i quali alcuni rettili-mammifero non sopravvissero alle variazioni ambientali che segnarono la fine del Permiano. Alcuni dei superstiti si svilupparono molto lentamente e diedero origine ai mammiferi attuali, la maggior parte fu invece soppiantata dai tecodonti, dai quali si svilupparono successivamente i dinosauri.
Un nome per l´animale ed un nome per le sue impronte
Il settore della paleontologia che si occupa dello studio delle impronte e della loro classificazione è definito icnologia (dal greco ichnos, traccia). Anche le orme degli animali sono infatti soggette alle regole della classificazione (tassonomia) che, inventate per semplificare ed ordinare la vita, molto spesso la rendono al contrario, molto più complicata e piena di parole.Una delle difficoltà di fondo della icnologia è rappresentata dalla grande difficoltà di identificazione dell’organismo autore di una traccia. Fin dall’inizio così, gli studiosi descrivevano icnogeneri ed icnospecie su basi puramente morfologiche separando così la loro classificazione da quella degli organismi che li avevano prodotti. Si andò perciò nel tempo delineando una paratassonomia in cui la classificazione degli icnofossili è rigidamente separata da quella degli organismi che li hanno prodotti.
Solo nei casi ottimali è possibile collegare le tracce fossili agli organismi che le hanno lasciate e allora il nome della traccia corrisponde, almeno in parte al nome del suo autore. Questo si verifica ad esempio per l’impronta Tyrannosauripus (piede di tirannosauro), che richiama immediatamente, pur nella diversità del nome, l’autore dell’impronta. Molto più spesso questi richiami non esistono e così i nomi delle impronte non ci aiutano per nulla a comprendere quale sia stato il loro autore. Chirotherium vuole dire semplicemente mano di animale selvatico (dal greco kheiros e therion), Isochirotherium, forma a dita uguali, Brachichirotherium, forma a dita corte e così via. In alcuni casi il nome delle impronte può addirittura ingenerare equivoci. E’ il caso di Rhyncosauroides, nome di una impronta che implicherebbe una stretta affinità con i rettili rincosauri. Impronte di questo tipo sono infatti state trovate per la prima volta in depositi che contenevano resti scheletrici di questi animali, da qui la loro attribuzione. Oggi tuttavia gli studiosi non sono convinti della affinità delle due forme e quindi le impronte che noi chiamiamo Rhynchosauroides potrebbero non avere nessuna relazione con i rincosauri ed essere state lasciate piuttosto da rettili simili a lucertole come l’attuale Tuatara della Nuova Zelanda. Arrivare a capire quale sia stato l’autore di una impronta risulta per la maggior parte dei casi estremamente difficile. Le impronte definite Chirotherium, scoperte nel 1835 hanno per esempio messo in crisi gli studiosi per un lungo periodo di tempo. Quella che appariva come l’impressione del pollice causò molta confusione tra i paleontologi che ricostruirono l’autore delle impronte come un animale grottesco che camminava incrociando i piedi. Solo all’inizio del nostro secolo, dopo le scoperta di un arcosauro chiamato Euparkeria, che possedeva un piede confrontabile con le impronte Chirotherium, i paleontologi hanno cominciato ad avvicinarsi al probabile aspetto di questi animali. Più tardi, nel 1960, la scoperta di un grosso arcosauro tecodonte, il Ticinosucus, fece comprendere che almeno un largo gruppo di impronte di tipo Chirotherium doveva essere state lasciate da rettili arcosauri tra i quali rauisuchi, etosauri, fitosauri, e ornitosuchi.
Le aree costiere del Triassico inferiore
Ma se le impronte di rettili erano così numerose nei sedimenti sabbiosi delle Arenarie di Val Gardena, perché non potevano esserci anche in sedimenti simili di epoche più recenti? E’ così che le ricerche si estendono anche alla sovrastante Formazione di Werfen nella quale parecchi livelli stratigrafici mostrano gli indizi di ambienti favorevoli alla sopravvivenza di vertebrati terrestri. Nel 1951, Piero Leonardi scopre, nelle arenarie e marne werfeniane alla base nordoccidentale del Monte Piz, in Val Gardena, una impronta a cinque dita probabilmente riferibile ad un rettile pseudosuco, la prima segnalata nel Triassico della Val Gardena. Una seconda impronta proviene dalla Val Travignolo, ma si tratta di tracce di difficile determinazione lasciate probabilmente da rettili di modeste dimensioni.
Ecco dunque che il trucco è svelato, tutte le formazioni che abbiano qualche indizio della presenza di ambienti emersi, sono potenzialmente ricche di testimonianze fossili di vertebrati continentali, e così le ricerche si fanno via via più mirate.
Su basse isole rocciose compaiono gli antenati dei dinosauri
Nelle Dolomiti occidentali è particolarmente diffuso un deposito continentale di ambiente torrentizio-fluviale di età triassica media (Anisico), definito Conglomerato di Richthofen. Da alcune località della Val Pusteria, dove questa formazione affiora con esposizioni talvolta spettacolari, provengono numerose impronte di rettili tetrapodi. Già Othenio Abel professore di paleontologia all’Università di Vienna e particolarmente interessato ai vertebrati preistorici, nel 1926 aveva studiato alcune di queste tracce, trovate da Julius Pia, istituendo la nuova icnospecie Rhynchosauroides tirolicus.
Le ricerche sulla geologia delle Dolomiti di Braies portarono successivamente Brandner sui sedimenti che erano stati descritti da Abel ed a scoprirvi, all’inizio degli anni ’70, nuove spettacolari tracce. In un suo lavoro specifico Brandner descrive una associazione faunistica composta da impronte di rettili simili a lucertole attribuite all'icnospecie Rhynchosauroides tirolicus e da tracce lasciate da tecodonti di medie dimensioni determinati come Chirotherium cf. rex e Brachychirotherium aff. B. parvum.
I tecodonti erano primitivi rettili arcosauri che, comparsi nel Permiano superiore (circa 250 milioni di anni fa), ebbero una rapida evoluzione e diversificazione nel Triassico alla fine del quale si stinsero. La loro storia evolutiva, relativamente breve, fu comunque una storia di successo in quanto da essi si svilupparono gli antenati dei tre principali gruppi successivi di rettili arcosauri: i dinosauri, i rettili volanti (pterosauri) e i coccodrilli. Il loro aspetto era simile a quello degli attuali coccodrilli. A differenza di questi però le loro zampe erano disposte quasi verticalmente sotto il corpo tanto che possono essere considerati i primi veri camminatori terrestri. Il loro tallone non era comunque perfettamente sviluppato e il fulcro per il sistema di leve che permetteva loro di innalzare il piede dal suolo era costituito dal quinto osso metatarsale e dal quinto dito, piuttosto lungo e disposto lateralmente. Erano sia erbivori che carnivori, alcuni vivevano nelle acque dolci, altri erano predatori terrestri e riuscirono a colonizzare nel corso della loro storia evolutiva un grande numero di nicchie ecologiche giungendo a convivere, all'apice del loro cammino, con i loro discendenti dinosauri. Le ricerche condotte in questi ultimi anni nel territorio dolomitico hanno portato alla scoperta, in gran parte per merito di Paolo Mietto dell’Università di Padova e dei suoi collaboratori di faune simili nei sedimenti anisici di molte località. Ora conosciamo associazioni di impronte nelle rocce del Gruppo dello Sciliar, del Monte Cernera, a Livinallongo ed in Val Fiorentina. Recenti rinvenimenti attestano la presenza di impronte di questi rettili anche negli affioramenti di Conglomerato di Richthofen della Valle dell'Adige (Bolzano) e dell'alta Valle di Non. La maggior parte di queste località non sono ancora state studiate in dettaglio, dai primi studi effettuati emerge comunque la presenza di vari tipi di rettili. Quelli apparentemente più numerosi sono, come avevano già notato Abel e Brandner, rettili dalla forma simile alle lucertole, lunghi da pochi decimetri fino a 60-70 cm appartenenti all'icnogenere Rynchosauroides. Questi animali dovevano assomigliare molto alle attuali iguane o ai varani dell’isola di Komodo. Le loro tracce mostrano che avevano dita sottili ed artigliate e che trascinavano, nel loro incedere ondeggiante le lunghe code producendo dei caratteristici solchi.
In numero minore, ma certamente più interessanti sono le tracce di rettili tecodonti. Tra di esse sono stati finora riconosciuti gli icnogeneri Chiroterium, Brachychiroterium, Isochiroterium, Rotodactylus, Synaptichnium.
Le impronte più grandi suggeriscono la presenza di animali lunghi fino a 4-5 metri. Tra essi alcuni grossi predatori possono essere considerati i leoni del loro tempo. Numerosi sono gli animali più piccoli, di lunghezza variabile tra 1 e 2 metri, agili e snelli, la coda lunga e sollevata a bilanciare il peso del corpo. E' presumibile che alcuni di essi fossero carnivori, come ci fanno supporre impronte di zampe con dita sottili e unghie affilate; altri, con zampe più tozze e massicce dovevano essere erbivori. In questi ambienti ai margini di un antico continente, alcune impronte dimostrano che adulti e cuccioli della medesima specie vivevano insieme. Spesso la sabbia ed il fango su cui questi animali camminavano erano così plastici che sul fondo delle impronte sono rimaste le tracce della copertura di scaglie che ricopriva la pelle; dato prezioso per ricostruire l’aspetto di questi animali scomparsi. Ma se le terre emerse erano abbondantemente popolate da vari generi di animali, anche i caldi mari circostanti rappresentavano ambienti adatti ad ospitare vari tipi di rettili acquatici. Dalla Val Pusteria (Dolomiti di Braies) provengono alcuni reperti ossei attribuibili a placodonti della specie Paraplacodus broilii ora conservati presso il Museo di Milano.
I Placodonti comparvero e si estinsero nel Triassico, sopravvivendo per 35 milioni di anni. Questi rettili semiacquatici potevano spostarsi e prosperare sia camminando lungo le coste, sia nuotando nelle contigue acque basse. Entrambi gli ambienti offrivano loro abbondanti risorse alimentari: il cibo preferito era infatti costituito da molluschi e crostacei i cui gusci venivano schiacciati dai larghi denti. Nei generi più antichi, due serie di denti sporgevano dalla mascella e dalla mandibola ed erano utilizzati per staccare i molluschi dalle rocce. I denti posteriori erano larghi ed appiattiti, adatti a triturare il robusto guscio delle loro prede e il palato era ricoperto da grandi denti frantumatori. I Placodonti più primitivi come quelli delle Dolomiti di Braies dovevano avere corpo tozzo, collo corto ed arti disposti lateralmente come quelli di un primitivo rettile di terraferma. Unici strumenti per il nuoto erano le membrane che collegavano le dita delle mani e dei piedi e la lunga coda. Il ventre era rinforzato da una robusta armatura formata da costole ventrali piatte mentre il dorso era caratterizzato da una serie di protuberanze ossee che fornivano protezione all'animale altrimenti inerme.
Il Santuario di Santa Croce,
la finestra su un mondo perduto
L’area posta a monte dell’abitato di San Leonardo in Badia fu oggetto di ricerche geologiche fin dall’inizio del secolo scorso. Gli affioramenti di Santa Croce erano molto probabilmente già conosciuti dagli studiosi locali come il curato Josef Clara, quando Wissman, verso il 1840, li visitò per la prima volta evidenziandone le differenze rispetto agli adiacenti Cassianer Schichten. Anche Klipstein nel "Beiträge zur geologischen Kenntnis der östlichen Alpen” del 1843-45 descrisse fossili provenienti dalla zona di Santa Croce, ma come gli autori precedenti non fu preciso nella provenienza dei materiali descritti. E’ quindi molto probabile che i resti di rettili di San Cassiano studiati da Majer ed inseriti nel suo lavoro provengano proprio dagli Heiligekreuzschiten (Strati di Santa Croce) facilmente raggiungibili anche da San Cassiano. Una precisa descrizione dell’area si avrà con Richthofen che descrisse la successione litologica affiorante lungo il piccolo pendio a monte della casa del sacrestano del santuario. I fossili, a quei tempi venivano raccolti perlopiù nel detrito dove a volte si mescolavano specie provenienti da livelli stratigrafici diversi e questo ingenerava spesso confusioni di correlazione e attribuzione cronologica. Uno studio attento dell’area di Santa Croce si deve alla Gordon che già nel 1893 interpretò attentamente i livelli sedimentari affioranti correlandoli dapprima con le successioni di San Cassiano e Cortina e comprendendoli poi, nel 1927 nel Gruppo di Raibl. Nel 1913, dopo una travagliata storia editoriale, veniva stampata la monografia di Koken, Professore di Mineralogia e Geologia all'Università di Tubinga, sul territorio di Santa Croce e i coevi terreni della Valle d’Ampezzo. L’opera, la cui prima stesura doveva già essere pronta nel 1907, subiva una serie di ritardi causati dalla malattia che colpì il dott. Teller, redattore degli „Abhandlungen“ e dalla morte dell’autore nel novembre del 1912. In questo lavoro si descrive in modo accurato e completo la litostratigrafia dell’area e viene data una precisa definizione di questa unità stratigrafica di cui Koken indica la serie tipo nel pendio sopra il santuario. Per l’autore tedesco gli Heiligekreuzschichten (Strati di Santa Croce) giacciono subito sopra alle marne dei Cassianer Schichten (Strati di San Cassiano) superiori di cui rappresentano la continuazione con il passaggio a condizioni salmastre testimoniate dalla frequenza del bivalve Unionites munsteri. Al tetto i sedimenti sono sostituiti da marne e calcari rossastri a crinoidi. Koken descrive una grande quantità di molluschi e fa notare una straordinaria ricchezza di ostracodi. Segnala anche alcuni resti di vertebrati. Si tratta di tre forme: un pesce cartillagineo (Chondrichtyes), Acrodus sp., un esemplare incompleto di pesce osseo semionotidiforme, Semionotus sp. rinvenuto qualche anno prima dal curato Morlang, ed un postorbitale di ittiosauro (Ichtyoperigia), Mixosaurus sp. Il reperto più importante è però il cranio completo e qualche frammento scheletrico disarticolato di un anfibio cui Koken attribuì il nuovo nome specifico di Metopias (recte Metoposaurus) sanctaecrucis. I metoposauridi erano grossi anfibi labirintodonti con il cranio ed il corpo appiattiti. Si trattava di forme incontestabilmente acquatiche, dalla bocca smisurata ed il corpo massiccio lungo fino a due metri. La loro arcaicità fu probabilmente la causa dell'estinzione perché, una volta entrati in concorrenza con i più agili ed avanzati predatori acquatici come i fitosauri ed i coccodrilli, non riuscirono a sopravvivere al Triassico.
Con il ventesimo secolo cresce l’interesse dei geologi italiani per il Trias delle Dolomiti, ed è proprio la prima pubblicazione italiana su quest’area, frutto di uno studio di Bosellini e Largaiolli (1965) che risolverà il problema degli Strati di Santa Croce. La formazione di San Cassiano affiorante nei pressi del Santuario verrà a includere una successione più vasta di quella considerata da Wissmann e delle Anoplophoraschichten di Koken, comprendendo anche gli intervalli conglomeratici e carboniosi più alti, compresi quelli dai quali proviene il metoposauro di Koken. Tuttavia esistono ancora molti punti oscuri ed i ricercatori delle Università di Padova e Ferrara hanno ripreso a studiare gli affioramenti dell’area del santuario. Si sta così lentamente comprendendo che queste rocce corrispondono ad un antico ambiente lagunare-salmastro al limite tra mare e terra. Probabilmente per questo motivo conservano numerosissimi frammenti scheletrici dei rettili che circa 225 milioni di anni fa popolarono i territori dolomitici. Già nel 1940, Carlo Maviglia raccoglitore appassionato di materiale paleontologico, mostra al Prof. A. Boni una serie di reperti provenienti dalla formazione di San Cassiano. Tra essi Boni scorge quelle che hanno tutta l’aria di essere ossa di vertebrati ed ottiene dal raccoglitore il permesso di studiare il materiale. Tra i reperti la maggior parte sono da attribuire a pesci durofagi dai caratteristici denti a bottoncino come Colobodus bronni, c’è una spina di Hybodus hexagonus, ma ci sono anche due denti di Placodonti Placochelys sp. E’ questa la prima segnalazione della presenza di questo gruppo di rettili nelle rocce carniche delle Dolomiti. È probabile che anche questi reperti provengano dagli Strati di Santa Croce e così le ricerche in quell’area si fanno più attente. Negli ultimi anni sono stati raccolti in questa località numerosi resti di vertebrati in parte descritti in un recente lavoro di F. Bizzarini di Venezia ed Enrico Rottonara di La Villa. Dagli stessi sedimenti descritti da Kochen provengono ad esempio resti di pesci Neopterygi, come Colobodus bronnii, di Chondrychtes come Paleobathes sp., di dipnoi come Ceratodus. Più frequenti risultano i resti isolati di Placodonti, rappresentati per lo più da denti della specie Placochelys sp. che mostrano caratteri più evoluti rispetto a quelli dei loro antenati del Triassico medio trovati nelle Dolomiti di Braies. Nel corso della loro storia evolutiva i placodonti infatti cambiarono aspetto; il corpo si appiattì ed il dorso si rivestì di una pesante corazza costituita da un mosaico di piastre rugose. La coda divenne più corta e gli arti si trasformarono quasi in pinne. Anche la testa si modificò e negli ultimi rappresentanti di questo gruppo i denti sporgenti furono sostituiti da una specie di becco utilizzato per staccare le prede dalle rocce.
Numerosi sono anche i resti di notosauri che possono essere distinti in due forme. La maggiore appartiene alla famiglia Nothosauridae e ad essa è attribuibile un frammento di scapola che reca impressi i segni di un morso infertogli probabilmente da un tecodonte. La forma di dimensioni minori, rappresentata da alcune vertebre può essere attribuita invece al gruppo dei Pachipleurosauridae. I Notosauri erano molto meglio adattati dei Placodonti alla vita nei mari. Erano animali allungati, con teste piccole, colli e code lunghi ed arti simili a pagaie. Alcune specie erano piccole, altre raggiungevano i quattro metri di lunghezza. Il movimento in acqua era legato essenzialmente alla spinta della loro lunga coda che veniva fatta ondeggiare lateralmente. Gli arti erano forse usati per cambiare direzione, come dei timoni, ma erano probabilmente tenuti lungo i lati del corpo gran parte del tempo per ridurne l'attrito in acqua. Il cranio è lungo e leggero con orbite e narici grandi. I denti appuntiti erano ampiamente e regolarmente spaziati tra loro e proiettati in avanti. Essi suggeriscono una dieta a base di pesce che i notosauri potevano afferrare con scatti repentini del loro lungo collo.
Quasi certamente, a differenza dei Placodonti, non potevano spostarsi sulla terraferma. Le loro ossa delle spalle e del bacino mostrano infatti saldature poco robuste che difficilmente potevano sostenere il peso dell'animale al di fuori dell'acqua. All'apice della catena alimentare degli Strati di Santa Croce si trovavano i tecodonti predatori Rauisuchidae di cui si sono rinvenuti numerosi denti e frammenti di placche dermiche dorsali. I rauisuchi erano rettili carnivori quadrupedi. Furono i tipici predatori terrestri del Triassico medio-superiore e potevano muoversi in modo particolarmente efficiente grazie alla disposizione degli arti, verticali al di sotto del corpo. Alcune forme, come quelle rappresentate a Santa Croce avevano sul dorso una doppia fila di piccole piastre ossee.
Nel Carnico: un ambiente costiero popolato da rettili
Nella primavera 1951, in una delle sue escursioni alla ricerca di fossili sull’Ape di Siusi, Enrico Moroder, di Ortisei, rinviene un piccolo frammento osseo. Già l’estate successiva Piero Leonardi si reca, accompagnato dal Moroder nel luogo della scoperta. Con loro è di nuovo il Prof. Accordi ed un gruppo di allieve che stanno conducendo l’annuale campagna geologica. L’affioramento è situato al margine sud-occidentale dell’Alpe di Siusi, non lontano da malga Prosliner, dove un ruscello ha eroso la formazione dei Tufi a Pachicardie. Nei tufi sono abbondanti i fossili marini tra i quali i molluschi Pachicardie dai quali la formazione ha preso il nome, ma nessuna altro reperto osseo emerge dalle ricerche. Leonardi decide così di studiare il frammento rinvenuto da Moroder, che seppur incompleto gli pare sufficiente ad identificare l’animale cui era appartenuto. Si accorge così che il reperto è un osso nasale di un anfibio di considerevoli dimensioni e mostra sconcertanti somiglianze con il cranio di Metoposauro rinvenuto qualche decina di anni prima da Kochen a Santa Croce in sedimenti che tra l’altro hanno più o meno la stessa età. Tuttavia le similitudini non sono perfette, anzi alcuni caratteri dimostrano che gli animali appartengono quasi certamente a specie diverse e attribuisce così il nuovo frammento di cranio a Metoposaurus cf. diagnosticus.
Dagli affioramenti dell'Alpe di Siusi proviene anche un frammento di vertebra di Tanystropheus sp., descritto da Wild nel 1980. Si trattava di un rettile dalla forma curiosa che poteva raggiungere i 6 metri. La lunghezza del suo collo era decisamente maggiore di quella del corpo e della coda. Le sue vertebre cervicali erano solo 10 ma ogni elemento era straordinariamente lungo tanto che all’inizio vennero interpretate come ossa lunghe di arti di un rettile volante. Il corpo era piccolo e piccole erano anche le zampe . Sembra potesse trattarsi di un animale strettamente terrestre nei primi stadi di sviluppo, mentre da adulto si adattava alla vita acquatica vivendo forse sulla battigia dove poteva tuffare in acqua il lungo collo per catturare le sue prede abituali.
Nei pressi del rifugio Dibona, vicino a Cortina D'Ampezzo, nelle rocce appartenenti alla formazione di Raibl (Carnico superiore) è stato trovato un frammento di mandibola con tre piccoli denti tricuspidati. Il reperto appartenente al gruppo dei terapsidi è stato identificato come Cynodontia indet. I cinodonti (denti da cane) furono, tra i terapsidi le forme che ebbero maggior successo. Essi infatti, non solo furono il gruppo che sopravvisse più a lungo, dal Permiano superiore al Giurassico (circa 80 milioni di anni), ma furono anche i diretti antenati dei mammiferi. Per quanto i fossili non ci permettano di asserirlo con sicurezza, probabilmente il corpo di questi rettili era già coperto di peli che li isolavano dall’ambiente e contribuivano a mantenere elevata e costante la temperatura corporea.
Dinosauri sulle ampie piane di marea
Sul Monte Pelmo, il "caregon degli dei” o trono degli dei, come viene indicato nella tradizione popolare è nata la storia dell’alpinismo nelle Dolomiti dopo che l’irlandese John Ball accompagnato da un ignoto valligiano salì la sua vetta più di un secolo fa. La sua massa, isolata dalle cime circostanti rappresenta ancora oggi una delle poche zone montuose dove gli impianti di risalita e le vie di accesso non sono riuscite ad intaccare il paesaggio. Da centinaia di anni le regole di San Vito hanno amministrato queste terre destinandole alle attività silvo-pastorali riuscendo a preservarne l’affascinante integrità.
Nei primi anni ’80 V. Cazzetta, collaboratore del Museo di Selva di Cadore, intravede delle piccole buche allineate su un blocco di roccia adagiato a 2050 metri di quota, alla base dello spigolo SE del Monte Pelmetto. La notizia si diffonde rapidamente ed una foto del masso viene inserita in un libro dedicato ai dinosauri già in stampa come esempio di piste di tetrapodi del Permiano superiore. Nel frattempo, il rinvenimento viene comunicato al Prof. P.Mietto, dell’Istituto di Geologia dell’Università di Padova, e le prime indagini hanno inizio. Il blocco risulta essere costituito in modo inequivocabile di Dolomia Principale triassica e non di calcari di epoca permiana come si era pensato in un primo momento. Sulla sua superficie ampia una sessantina di metri quadri sono visibili un centinaio di orme che Mietto interpreta come orme di dinosauro. E’ il primo grande rinvenimento di tracce di dinosauri sulle Alpi Italiane e l’inizio di una nuova entusiasmante stagione di ricerche.
Le piste del Pelmetto, accuratamente misurate e riprodotte con calchi, risultano appartenere ad animali diversi. La maggior parte sono riferibili a piccoli dinosauri carnivori bipedi, lunghi circa un metro e mezzo e alti circa un metro, con zampe a tre dita lunghe 6-7 centimetri. Probabilmente erano piccoli teropodi primitivi appartenenti al gruppo Ceratosauria. Una pista quadrupede formata da una successione di impronte rotondeggianti con un diametro di una quindicina di centimetri è stata attribuita da Mietto, ad un prosauropode. Si tratterebbe cioè di una pista impressa da un dinosauro quadrupede erbivoro lungo 3-4 metri. Il fatto che le impronte delle zampe anteriori siano visibili solo di tanto in tanto ci conferma che questo dinosauro si poteva sollevare sulle zampe posteriori e camminare come bipede per brevi tratti. Una lunga pista attraversa il masso in diagonale. Le sue orme tridattile, lunghe una dozzina di centimetri sono state probabilmente lasciate da piccoli dinosauri erbivori bipedi appartenenti al gruppo degli ornitischi. Nel corso degli anni, altre orme di dinosauro sono state ritrovate nel ghiaione sottostante ed alcune di esse sono conservate nel Museo di Selva di Cadore.
Di estremo interesse risulta il recente rinvenimento di un'orma di tipo chiroteroide impressa da un rettile tecodonte. Questo rinvenimento conferma l'antichità delle forme dinosauriane del Pelmetto e la coesistenza di dinosauri e rettili tecodonti anche nel Triassico superiore delle Dolomiti. Poco tempo dopo, Fabio Vangelista individua nelle Dolomiti orientali, ai piedi delle Tre Cime di Lavaredo, un altro blocco di Dolomia Principale sul quale risultano chiaramente impresse due grandi impronte associate in pista. Il masso è collocato lungo il sentiero che dal Rifugio Auronzo porta al Rifugio Lavaredo, poche centinaia di metri prima della cappella degli alpini. Sulla sua superficie sono riconoscibili due grandi orme tridattile, lunghe circa 30 centimetri attribuibili all’icnogenere Eubrontes. L'autore delle tracce deve essere considerato un dinosauro carnivoro bipede piuttosto grande appartenente al gruppo dei ceratosauri.
Giuseppe Leonardi scopre nel 1993, una probabile orma a tre dita non molto appuntite di medie dimensioni impressa su una lastra di Dolomia Principale affiorante sull'altopiano del Puez (Dolomiti occidentali), poche centinaia di metri a est della Cima Puez (m 2948). Il suo grado di conservazione rende difficile capire da quale animale si stata lasciata, tuttavia è probabile che anche in questo caso l'autore sia un grosso dinosauro carnivoro bipede. Recentemente è stato individuato nella Dolomia di Dürrenstein (Carnico superiore) affiorante in varie aree delle Dolomiti occidentali un notevole gruppo di impronte e piste ancora in corso di studio ma che è in linea di massima riferibile a tecodonti e probabili dinosauri primitivi.
I dinosauri del Giurassico
Altre impronte attribuibili a grandi dinosauri sono state scoperte, nei terreni giurassici affioranti in varie aree della Piattaforma di Trento. La maggior parte dei siti si localizzano a sud delle Dolomiti ma la formazione rocciosa dei Calcari Grigi, nella quale sono conservate le impronte, è la stessa che affiora anche sulla sommità di molti massicci dolomitici facendoci sospettare che prima o poi anche li verranno trovate le tracce di dinosauri giurassici.
I dinosauri dei Lavini Di Marco
E’ un pomeriggio della primavera del 1990 e Luciano Chemini, appassionato geologo e biologo sta passeggiando tra le aspre rocce dei Lavini, presso Rovereto lungo la Valle dell’Adige. La sua attenzione è attirata da alcune buche con una strana, simmetrica disposizione. I raggi radenti del sole le fanno risaltare in modo particolare quasi fossero passi pietrificati di qualche essere gigantesco. Il giorno seguente Chemini ritorna ai Lavini, scatta alcune foto e le invia al Museo di Scienze Naturali di Trento chiedendosi se potessero realmente essere impronte di dinosauri. Le immagini suscitano curiosità ma anche prudenza....tutto sommato le carte geologiche parlano chiaro, quel territorio, 200 milioni di anni fa era coperto dal mare! Passa quasi un anno e nell’estate del 1991 Michele Lanzinger allora responsabile della sezione di Geologia del Museo si consulta per l’ultima volta con il suo collega Giuseppe Muscio di Udine, fanno un ennesimo sopralluogo ai Lavini e si convincono che l’intuizione di Chemini era corretta, l’ipotesi delle piste diviene certezza, manca solo l’avvallo dell’esperto, che arriva nell’agosto. E’ Giuseppe Leonardi, che partito per il Brasile nel 1974, e divenuto nel frattempo massima autorità mondiale in materia, torna in Italia, arriva ai Lavini, e immediatamente conferma: qui vissero i dinosauri. L’affioramento si rivela fin dalle prime campagne di ricerca di altissimo valore. I dati finora raccolti nel sito durante le ricerche di campagna coordinate da G. Leonardi e P. Mietto, consentono di delineare un quadro complesso sulle conoscenze relative ai dinosauri che popolarono i territori delle attuali Alpi Meridionali.
Le orme e le piste di centinaia di individui carnivori ed erbivori di forme e dimensioni differenti sono impresse su sei livelli stratigrafici compresi in un pacchetto di strati spesso poco più di cinque metri.
Gli affioramenti rocciosi sono riferibili all'inizio del Giurassico (circa 190 milioni di anni fa), e rappresentano quello che rimane, allo stato fossile di una grande piana carbonatica di marea per molti versi paragonabile paesaggisticamente alle attuali coste del Golfo Persico.
La maggior parte delle impronte sono state impresse da dinosauri carnivori dalle orme tridattile (Eubrontes, Anchisauripus, Grallator) attribuibili a forme diverse di ceratosauridi, lunghi da uno a otto metri. I più piccoli, simili al Syntarsus dell’Africa o al Coelophisis dell’America settentrionale, erano probabilmente opportunisti e si cibavano di qualsiasi cosa potesse contenere proteine, i più grossi probabilmente affini al Dilophosaurus americano, anche se certamente non disdegnavano qualche carcassa erano sicuramente in grado di attaccare e predare anche i grandi erbivori. Questi predatori coesistevano con un elevato numero di piccoli e grandi erbivori. I più piccoli tra essi, fabrosauridi bipedi e leggeri (le loro orme si chiamano Anomoepus) non dovevano superare la taglia di un tacchino i più grandi, analoghi agli Iguanodonti del Giurassico superiore, raggiungevano probabilmente i 4-5 metri di lunghezza ed il peso di una tonnellata. Tra essi, un nutrito gruppo di impronte (Parabrontopodus?) testimonia la presenza in quest’area di un consistente gruppo di sauropodi pesanti da una a tre tonnellate e lunghi fino a nove metri. La presenza di questi animali risulta particolarmente significativa in quanto le loro tracce possono essere considerate le più antiche fra quelle finora individuate nel nostro pianeta. Questi grandi sauropodi erano forse dei rappresentanti della famiglia Vulcanodontidae i cui resti scheletrici sono stati rinvenuti nelle rocce giurassiche dell'Africa meridionale, gli unici sauropodi finora conosciuti in tempi così antichi.
Ma il sito dei Lavini di Marco non è importante solo perché ci permette di riconoscere una fauna differenziata. Le sue lastre di roccia grigiastra rappresentano per l’occhio esperto dello studioso una insostituibile fotografia di un mondo lontano 200 milioni di anni fa. Ed è così che dal modo in cui le impronte si associano tra loro e si ripetono si è potuto ricostruire non solo il tipo di dinosauro ma anche il suo modo di camminare, la sua postura, le sue dimensioni, il peso, dalla distanza tra i suoi passi ne sono state desunte le velocità di spostamento e le direzioni preferenziali. Ne sono così emersi aspetti interessanti sul comportamento sociale ed individuale e sulle interazioni tra i vari gruppi.
Particolarmente significativa si è rivelata l’analisi delle relazioni tra i diversi gruppi di animali e l’ambiente che è risultato essere caratterizzato da cicliche variazioni del livello del mare che costringevano gli animali ad adattarsi a sempre diverse condizioni sia nel tempo che nello spazio. Ma le tracce dei dinosauri nelle rocce triassiche e giurassiche dell’area dolomitica hanno aperto anche una grande serie di interrogativi. Le vaste piane di marea che caratterizzavano la regione nel Triassico superiore e nel Giurassico inferiore difficilmente potevano costituire l’ambiente di vita primario di questi animali. Le piane di marea per definizione rappresentano territori instabili, sommersi periodicamente dal mare e nelle quali non si sviluppa certo una rigogliosa vegetazione capace di dare sostentamento a grandi dinosauri erbivori.
Eppure, la frequenza delle evidenze di grandi vertebrati continentali e la loro diversità è indicativa di una non sottovalutabile presenza di terre che dovevano essere ampie e stabili per centinaia di migliaia di anni. Devono inoltre essere esistiti collegamenti con tali aree che permettevano agli animali di colonizzare temporaneamente territori anche molto lontani nei periodi nei quali le piane di marea rimanevano all’asciutto. Ma dove sono, o meglio dove erano collocate queste terre? Quanto grandi erano? Per quanto tempo permisero ai dinosauri di sopravvivere ed irradiarsi nei territori alpini? Questa è la sfida che le loro impronte pietrificate ci lanciano a milioni di anni di distanza, una sfida raccolta dagli studiosi che, come i loro predecessori, estate dopo estate continuano a salire sui massicci dolomitici per svelarne i più intimi segreti.
Fonte: http://www.wachtler.com/upload/getfile/uploadfiles/download/dinosauri_it.doc
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