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A partire dal delitto Matteotti (1924) il Fascismo avvertì la necessità di assicurarsi, oltre al potere coercitivo, un consenso molto vasto fra le masse, condizionando la stampa e l’opinione pubblica. Una delle vie attraverso le quali tentò di raggiungere lo scopo fu il totale controllo dell’educazione e dell’insegnamento scolastico.
La stampa fu sottoposta ad un controllo sempre maggiore fino a subire la completa fascistizzazione a partire dagli anni ‘30. In questo processo acquisì un’importanza sempre più decisiva l’Ufficio Stampa del Presidente del Consiglio (poi Capo del governo): esso controllava e “distribuiva” le notizie da pubblicare. E’ il periodo delle veline con cui il regime dettava in maniera analitica e quotidiana le notizie. Il Duce in persona controllava i comunicati dello Stato e dava le disposizioni alla stampa, le quali si estendevano fino a comprendere direttive sulle fotografie, sullo stile, sui caratteri e sull’impaginazione.
Il controllo della stampa non era però sufficiente. L’Italia era un paese in cui i giornali erano poco diffusi e non raggiungevano le grandi masse. Il regime allora si occupò anche della propaganda, del cinema, del teatro, del turismo e del tempo libero. Nel 1937 venne istituito il Ministero per la cultura popolare che aveva il compito di coordinare ed organizzare tutte le attività rivolte a creare il consenso. In questo modo lo Stato totalitario arrivava ad occuparsi di tutti gli aspetti della vita del popolo: non solo dettava le notizie, manipolava l’informazione e gestiva il sapere ma regolava il tempo libero, organizzava i momenti di incontro, inquadrava il vivere quotidiano in scadenze il più precise possibili. Il tutto all’ombra della costante, crescente ed infine ingombrante celebrazione del Duce e del “culto littorio”. La politica raggiunse una elevata spettacolarizzazione, creando un efficace sistema di miti, suggestioni e liturgie con l’utilizzo di tecniche moderne.
Ma il controllo dell’informazione e le grandi adunate non bastavano, si dovevano apprendere i valori fondamentali per il fascismo fin dai primi anni. L’idea di Mussolini era di impadronirsi del cittadino a sei anni e restituirlo alla famiglia a sedici. In questa frase è racchiuso il senso della politica educativa del fascismo. Attraverso le associazioni giovanili e la scuola lo Stato totalitario, esercitando un severo controllo, faceva una colossale opera di inquadramento e convincimento delle masse. Soprattutto per quanto riguarda i bambini ci fu un notevole sforzo affinché nel loro immaginario entrasse una nuova concezione dello Stato, della società e del potere. Nati in epoca fascista o poco prima essi dovevano diventare fascisti perfetti. Non a caso un motto mussoliniano diceva libro e moschetto, fascista perfetto: infatti fu proprio attraverso l’inquadramento paramilitare e l’istruzione di base (elementare e media) che il regime tentò di rendere efficace la sua pedagogia di massa. Scopo principale era di radicare nei cittadini la fede nel Duce, il servizio dello Stato, i valori di unità nazionale.
Più in particolare, le pubblicazioni per bambini sono esemplari per certi aspetti: nei libri di letture il Duce diventava un guerriero a cavallo (ricordando così i soldatini di piombo, vicini all’immaginario dei bimbi), un cavaliere fiabesco e, addirittura, acquisiva poteri miracolosi (moltiplicava i pani e i pesci e trasformava gli italiani, come si legge in una didascalia). Gli elementi su cui si insisteva erano la molteplicità del Duce, l’aspetto paterno, l’idea di forza e coraggio, il patriottismo. Per quei ragazzini la figura del Duce finiva per perdere ogni valore puramente politico o istituzionale e veniva ad assomigliare sempre più ad un personaggio mitico, fiabesco, quasi non reale. Il grande padre, il Capo del popolo, si preoccupava di tutto: era rassicurante, forte, fiero e al bambino (futuro cittadino) non restava che fidarsi ed obbedire.
Aspetto non meno significativo è la tecnica di persuasione certamente non casuale che il regime usava. Come in altri momenti di propaganda il Duce si servì di esperti collaboratori, di pedagogisti e di conoscitori della psicologia infantile e di massa per agire sugli aspetti manipolabili dell’immaginario dei bambini. Il loro mondo veniva studiato ed adattato alla figura del Duce, riconoscibile in un fiero soldatino, in un antico guerriero romano, in un cavaliere fiabesco, in un padre severo ma protettivo e così via.
In una società che negli anni ‘30 stava diventando pienamente una società di massa il fascismo cercò di avvolgere tutto tra le braccia dello Stato: esso diventava il regolatore della vita pubblica e privata, la fonte suprema ed assoluta di ogni sapere e conoscenza. Questo obiettivo però non era di facile realizzazione, lo sforzo del regime fu notevole ma non sempre raggiunse i risultati sperati e quanto gli italiani furono condizionati è questione non facile da stabilire. Quello che appare evidente, invece, è che il fascismo si spinse troppo oltre nel tentativo di eliminare ogni forma di pensiero critico o solamente al di fuori del suo controllo. Il mito si ingigantì talmente tanto che, in seguito anche ai fatti accaduti a partire dal 1939, iniziò a decadere e con lui andarono sparendo pure le fortune personali di Mussolini.
Si è detto che la formazione e il controllo del consenso si attuarono anche con l’insegnamento scolastico: per capire in che direzione si mosse la pedagogia-propaganda del fascismo si può fare riferimento a Educazione fascista (1939), un testo di fondamenti dottrinali e dissertazioni per i candidati ai concorsi magistrali. Il ruolo del protagonista dell’educazione è di Mussolini, la cui vita è definita tout court un’opera grandiosa di educazione della presente generazione mentre la sua azione costituisce...il trattato più vivo ed efficace della moderna pedagogia; il primo caposaldo educativo è posto: il Duce educa e la sua vita ne è il migliore esempio. Di seguito sono enunciati gli obiettivi della pedagogia fascista, volti a formare un cittadino che sa di dovere per tutta la sua vita potenziare e difendere lo Stato, un cittadino-soldato, pronto ugualmente a brandire la vanga e il moschetto. Sono qui presenti due temi essenziali per la propaganda: il ruralismo (la vanga) e il militarismo (il moschetto), concetti che si trovano spesso insieme (é l’aratro che traccia il solco ma è la spada che lo difende ) e che sono la base della stessa ideologia fascista. Il regime considerò sempre l’Italia fondata sui valori del mondo contadino, anche quando faceva l’elogio della modernità. Dalle campagne proveniva l’esaltazione della famiglia, la cultura patriarcale e sempre dalla campagna era giunto il grosso dell’esercito nella Grande Guerra dalle cui macerie nacque il fascismo. A fare da corollario a questi obiettivi c’erano la gerarchia e la disciplina.
Fine ultimo dell’educazione fascista era di portare a compimento l’opera lasciata a metà dal Risorgimento, cioè fare gli italiani. Ecco un altro elemento fondante della nuova pedagogia: creare uno spirito di unità ed identità nazionale che, unito al concetto di cittadino-soldato, persegua l’ideale educativo del Risorgimento, così come fu espresso da Cuoco e Cattaneo. Si trova espresso in queste righe un tema che interessò vastamente la propaganda, cioè la continuità ideale e storica con il Risorgimento.
Ma come si deve comportare in quest’ottica la scuola italiana? Essa deve educare il carattere degli italiani e i maestri hanno un compito importante, tanto da essere definiti dal Duce (egli stesso maestro) come apostoli, sacerdoti e uomini che hanno delle responsabilità tremende ed ineffabili: di lavorare sul cervello, sulla coscienza, sugli animi. Il maestro viene a ricoprire un ruolo che è qualcosa di più, che è una missione: il fascismo aveva capito il ruolo che la scuola stava assumendo nello Stato moderno, ruolo sostanzialmente inteso come diffusore di una cultura e di una storia nazionali e il maestro era colui attraverso il quale questo insegnamento trovava applicazione pratica. I principi che dovevano guidare l’insegnante erano chiaramente espressi: serietà nelle discipline e nei sistemi; aderenza alla vita storica dello Stato; carattere formativo, altamente etico, del fatto educativo, e perciò ripudio di ogni concezione liberale. La cultura doveva essere poi impartita non come modo d’essere ma come modo d’agire. Il fascismo non faceva mistero di voler formare un popolo dinamico, pronto all’azione, come esigevano i tempi moderni, e proprio la scuola doveva cominciare questa operazione.
Il carattere più evidente dell’impostazione fin qui delineata è il totalitarismo pedagogico di cui si fa portatore lo Stato. Nel testo si parla esplicitamente di concetto unitario dell’educazione che significava un allargamento dei compiti educativi che non dovevano solo dare un’istruzione e delle abilità ma anche e soprattutto dovevano formare l’italiano nuovo e creare una gerarchia di valori e responsabilità. Tutte le attività dello Stato totalitario erano pertanto educative e la scuola doveva agire in particolare per attivare nel cittadino il rispetto e la venerazione dello Stato. Si teorizzava così un potere che educasse al culto di se stesso e una scuola che non fosse nulla di più che un momento di questa educazione totale: per il regime anche la propaganda fatta con i manifesti, con le scritte murali, con i giornali ed i cinegiornali era un momento particolare dell’educazione del cittadino. La scuola fascista non serviva a formare individui che potessero affrontare liberamente la società ma era uno strumento come tanti altri di fabbricazione di nuove coscienze per uno Stato nuovo, profondamente diverso da quello liberale, ritenuto ormai appartenente al passato.
Come lo Stato anche l’educazione liberale apparteneva al passato; i suoi principi universalistici erano astratti, lontani dalla realtà. L’educazione fascista invece era nazionale, riferita cioè ai caratteri specifici dello spirito di un popolo (in questo caso italiano) e pertanto legata ai problemi reali di una nazione. Il ruolo che l’educazione doveva svolgere era funzionale ai problemi dello Stato e infatti nella seconda metà degli anni ‘30 essa, per poter essere pienamente educazione, doveva essere “imperiale”. Doveva cioè contribuire al successo italiano nella conquista del suo impero e aiutare a far fronte, creando una coscienza adatta, al periodo di autarchia economica che si stava aprendo. Esponendo queste considerazioni il libro mette chiaramente in risalto un aspetto importante: la subordinazione dell’educazione alla linea politica del governo, sia all’interno che all’estero.
Fin qui si è parlato di un controllo e di un uso autoritario dell’istruzione e non è stato possibile neanche accennare a qualche forma di libertà. A questo proposito gli autori definiscono in maniera risoluta i termini della questione. Fedeli ad un’impostazione idealistica chiariscono subito che libertà ed autorità non sono in antitesi fra loro ma sono due aspetti empirici dell’unica realtà che è lo spirito. La libertà per manifestarsi concretamente deve darsi una disciplina, una normalizzazione e da questo processo nasce l’autorità. In sostanza non può esserci libertà senza autorità. Il problema è così risolto e si giustifica anche la necessità di un regime autoritario, totalitario e totalizzante che trova la sua rappresentazione nello Stato etico concepito da Hegel e filtrato attraverso l’esperienza filosofica personale di Giovanni Gentile, che fu uno dei massimi teorici dell’ideologia del regime.
Meritano attenzione ancora due aspetti: la glorificazione di Mussolini e della sua retorica e il ruolo della storia nell’educazione.
Per quanto riguarda il primo si sprecano elogi e riconoscenze a colui che è, tra le altre cose, anche il fondatore dello stile fascista. La retorica di Mussolini è un elemento centrale nella costruzione del suo mito e del consenso delle masse. Attraverso le parole, che egli considerava “magiche”, convinceva, intimoriva, motivava, ipnotizzava. Spesso vuoti di effettivo contenuto i suoi discorsi toccavano le corde dell’irrazionale e dell’emotività raggiungendo lo scopo prefissato: ottenere l’appoggio di chi ascoltava. La scuola dunque doveva tenere ben presente lo stile di Mussolini se voleva essere veramente incisiva. La lode fatta alla prosa del Duce non è solo un’esaltazione del Capo, ma è anche la proposta di uno “strumento”di comunicazione dal sicuro effetto. Per descriverla non si fa economia di aggettivi: essa è antiretorica e antidemagogica , chiara, netta, sincera, onesta, eloquente, aderente in modo lineare al pensiero e all’azione di cui è interprete, vigorosa, contenutistica, romana e, tanto per non sbagliarsi, semplicemente mussoliniana. Aggettivi come “romana” e “mussoliniana” rappresentano bene l’esagerazione quasi comica verso cui il regime si stava spostando nella sua autocelebrazione.
Il discorso sulla retorica si basa su tre concetti portanti: l’azione, la volontà, la lotta. Il Duce aveva più volte affermato di voler infondere uno spirito nuovo negli italiani, voleva renderli attivi, dinamici, volenterosi e laboriosi. Tutta la scuola doveva partecipare a questo progetto.
Elemento importante nell’educazione del cittadino è l’insegnamento della storia. Il primo problema a tale riguardo è l’interpretazione dei fatti: il fascismo aveva una sua visione della storia, che definiva non partigiana ma tesa a valorizzare gli elementi virtuosi del popolo italiano nei secoli. La storia doveva contribuire a formare il carattere del nuovo cittadino e il maestro doveva far capire all’alunno le ragioni ideali della nostra grandezza antica e presente. Bisognava imparare una storia dello Stato che potesse far comprendere il momento presente. La funzione che la storia veniva a svolgere era, per così dire, attiva. Doveva essere vista in funzione dei fatti presenti, doveva servire a spiegare e giustificare il fascismo, doveva propagandare quei valori che avevano fatto grande il popolo italiano e che ora rivivevano nel regime. Inoltre come storia unitaria e nazionale doveva formare un senso di appartenenza collettiva alla nazione e allo Stato (che erano un tutt’uno), una “italianizzazione”di masse ancora divise da regionalismi e dialetti. Il modo migliore per farla capire ai bambini, affinché potesse essere efficace, era quello di una rievocazione fantastica degli avvenimenti (una specie di storia-poema), oppure per episodi staccati o per biografie. Infatti le caratteristiche più evidenti che si presentano leggendo i testi scolastici sono proprio lo stile da fiaba con cui vengono narrati gli eventi e il risalto dato a singoli personaggi storici, celebrati come martiri o come eroi.
In conclusione si può sintetizzare in alcuni punti l’idea di educazione fascista. L’elemento centrale era la volontà di creare una scuola che non fosse informativa ma formativa, che contribuisse cioè a formare la coscienza, gli ideali, il carattere dei cittadini. In questo modo l’educazione era un momento del progetto più vasto di formazione del consenso che riguardava tutti gli aspetti della vita pubblica e privata. Come ogni attività dello Stato essa era controllata e diretta anche nei minimi particolari: il regime si preoccupava di indicare titoli di letture adatte, materiali didattici, impostazioni di insegnamento. Prerogativa assoluta per fare i maestri era essere fascisti; essi dovevano limitarsi ad assecondare le direttive del regime e quanto più inculcavano obbedienza e servizio del governo tanto più facevano un buon lavoro.Valori predominanti erano gli ideali di nazionalità e di unità, la disciplina e il rispetto per l’autorità, il timore e il rispetto dello Stato e del Duce. In particolare Mussolini, presentato in tutte le maniere, assoluto ispiratore dell’educazione fascista, era la figura intorno a cui ruotava il mito del fascismo. Si può dire che venisse rappresentato come la sintesi delle migliori qualità italiane e dei valori fondamentali dello spirito del popolo: la sua vita e le sue parole erano un eccellente esempio per qualunque cosa si spiegasse.
In definitiva l’educazione e la scuola nel ventennio erano subordinate ai fini del regime.Soprattutto negli anni ‘30, in cui si accentuò il carattere bellicista del fascismo, esse dovevano creare il soldato-cittadino in cui si fondevano qualità morali ed abilità militari. Anche la scuola era mobilitata per contribuire a realizzare le mire espansionistiche di Mussolini. Con il militarismo altro pilastro portante era l’insieme di valori rurali e ciò si spiega semplicemente perché nonostante lo sviluppo industriale che si ebbe in quegli anni l’Italia rimase un paese prevalentemente agricolo, soprattutto per quanto riguardava la mentalità diffusa tra le classi subalterne delle campagne. La stessa ideologia fascista era intrisa di concetti e riferimenti derivati dal mondo delle campagne.
La pedagogia fascista usava il concetto di “educazione unitaria” per giustificare il fatto che tutto doveva avvenire entro lo Stato e che nulla al di fuori di esso era possibile. A partire dal 1925 e dal 1926 il potere aveva speso infinite risorse nel culto di se stesso e di certi valori e tutto, scuola compresa, era servito come mezzo di propaganda per autocelebrarsi: per tanto, anche se può sembrare riduttivo, credo che non si possa capire il ruolo dell’educazione e della scuola fascista se non si tiene conto in maniera particolare proprio del concetto di propaganda.
La propaganda nei libri del fascismo
Usando come guida Educazione fascista vediamo come si concretizzava nei testi educativi la politica propagandistica e di ricerca del consenso del regime.
Il primo testo qui preso in esame è Il Primo libro del fascista (1939), una sorta di manuale di base, un “catechismo” in cui si insegnano le fondamentali nozioni riguardo allo Stato e alla società fascista. Il libro è dedicato (imposto) a tutti coloro che devono diventare buoni italiani e dunque buoni fascisti. L’apprendimento dei fondamenti del fascismo è un “rito di passaggio” necessario per essere un buon italiano; non sono importanti l’età o particolari attitudini ma l’assimilazione dei dogmi della nuova religione civile per entrare a pieno diritto nella società; in termini pratici l’iscrizione al partito o al sindacato fascista dava parecchi vantaggi.
All’inizio trova spazio una breve cronologia dell’ “era” fascista - fatta iniziare con la fondazione del “Popolo d’Italia” da parte del Duce (1914) - tutta rivolta a celebrare i fasti del nuovo regime. A partire dall’intervento, fino al ruolo pacificatore postbellico e all’impresa d’Etiopia viene descritto un lungo percorso attraverso le vittorie, sia interne che estere, del Duce. Il tono è enfatico e, seppur ridotta a poche righe, questa cronologia è un buon esempio della retorica e della manipolazione del passato operata dal regime. In queste pagine - secondo uno schema che si vedrà approfonditamente più avanti -la storia non è conoscenza del passato ma celebrazione del presente, non è critica oggettiva ma esaltazione mitica di caratteri, idee, atteggiamenti utili alla “religione” dello Stato fascista.
Il manuale vero e proprio si apre con una prima sezione dedicata al Duce. La posizione di precedenza indica come tutto fosse incentrato sul culto personale di Mussolini. Nella retorica fascista tutto dipendeva da lui e funzionava grazie a lui:l’alto numero di cariche (Capo del governo, Capo della milizia, primo maresciallo dell’impero etc.) che si attribuì sono un chiaro indice della molteplicità e della polivalenza del Duce. Egli vedeva, sentiva e disponeva tutto per tutti. In effetti più che il culto per il fascismo fu il culto per il “Capo” che contribuì maggiormente a creare il consenso. Il desiderio di una guida, di un condottiero, unito con le paure e le incertezze del dopoguerra giocarono un ruolo importante nell’accettazione del fascismo, sicuramente più dei programmi e degli indirizzi politici. Fedele a questa enfatica celebrazione, con stile essenziale e preciso - in forma di domanda e risposta, sistema usato per tutto il libro - si spiega chi è Mussolini, cosa fa, che incarichi ha. In queste pagine si accentua il ruolo di rinnovatore e di rappresentante non di una fazione ma dell’intera nazione. Gli altri argomenti toccati dal libro sono la rivoluzione fascista, il partito, la milizia, il regime, lo Stato corporativo e la difesa della razza. In tutti questi capitoli non si perdono mai di vista due elementi centrali: il Duce come unica fonte di potere e lo Stato come organo totalitario ed unificante all’interno del quale è unicamente possibile la vita pubblica e privata.
Lo stile non è enfatico e celebrativo, ma conciso, nozionistico e imperioso. In queste pagine non si tratta tanto di raccontare ai ragazzi, quanto di inculcare nella loro mente i fondamenti del “credo” fascista. Frasi semplici che sono le definizioni ufficiali del regime, frasi facili da imparare a memoria. In un sistema che a partire dai 6 anni prevedeva l’inquadramento in associazioni, gruppi, etc.. era fondamentale che tutti conoscessero le stesse cose e allo stesso modo. Questo libro non si presenta come un tentativo di propaganda più o meno nascosto ma comunque sempre con l’apparenza di raccontare la verità, ma è semplicemente un’imposizione. E’ l’imposizione di un sapere, di una conoscenza che fin dai primi anni di vita va insegnata; ha tutte le caratteristiche di una verità rivelata ed è per questo che credo che il paragone con il catechismo sia efficace. Il culto di un potere che si è trasformato in religione laica (proprio a questo proposito il Papa aveva spesso ammonito Mussolini), con un officiante di riti e folle partecipanti, aveva bisogno che i suoi fondamenti venissero insegnati nel modo più confacente ad una religione, cioè con un catechismo (laico). Quando lo Stato, il governo, i politici e il potere, diventano istituzioni sacre e religiose è dannosa qualunque forma di conoscenza che si distingua, che sia critica. Il cittadino di domani deve, dai primi anni di vita, provare stima, riconoscenza, timore e venerazione verso lo Stato, ed il primo passo in questa direzione è apprendere delle verità presentate come assolute ed indiscutibili in una età formante per l’individuo. Fu lo stesso regime ad insistere sul binomio religione-fascismo. Infatti in un opuscolo dal titolo Fascismo e religione, già nel 1923, si legge, a proposito dei caduti nella Marcia su Roma: ...un popolo, o meglio una milizia che affronta la morte per un comandamento, che accetta la vita nel suo purissimo concetto di missione e l’offre in sacrificio, ha veramente quel senso del mistero che è motivo fondamentale della religione ed afferma verità che non discendono da umani ragionamenti, ma sono dogmi di una fede.
Termini quali “sacrificio”, “missione”, “mistero”, “fede” e “religione” sono usati esplicitamente dal regime nel culto della sua rivoluzione e rimandano apertamente ad una venerazione sacra. Già nel 1923 si vede come la volontà di fare del fascismo un credo religioso fosse forte e nello stesso tempo inevitabile. Quando si chiede totale dedizione, cieca fiducia, disposizione a credere ed obbedire senza riflessione alcuna; quando il consenso è suscitato non con la ragione ma con argomenti che toccano l’irrazionalità e l’emotività, allora è inevitabile che si arrivi ad un culto religioso del potere, basato cioè sulla fede acritica e sull’ubbidienza ai dogmi. L’aspetto religioso del mito fascista era il sintomo di una tendenza che tentava di legare misticismo, progresso, tradizione e modernizzazione in un solo credo nazional-patriottico.
Tutti gli argomenti sono spiegati nella stessa maniera, in modo tecnico benché molto facile da comprendere. Le frasi sono essenziali ed incisive, a tratti diventano autoritarie, espongono precetti e formule, tutto assume l’apparenza di una verità naturale, giusta perché semplicemente e linearmente esposta. Il fatto che fosse un bambino ad imparare queste cose non sembra importante, l’essenziale era che tutto fosse facilmente assimilabile, che si potesse imparare a memoria.
Una ultima sezione riguardava la politica antiebraica. Come è noto, nel 1938 il regime di Mussolini iniziò un movimento di opinione antisemita che si concluse con l’emanazione delle leggi razziali. Escludendo la Germania nazista, dove Hitler aveva fatto dell’antisemitismo un principio costitutivo della sua ideologia, il caso italiano fa parte di un processo più vasto che interessò diversi stati reazionari europei (quali la Polonia, l’Ungheria, la Romania e l’Austria) nell’“anno cruciale” del 1938. Su questo fatto, che non può essere discusso in quanto tale, sono state date diverse interpretazioni. Per alcuni storici, come Renzo De Felice e Meir Michaelis, la normativa antiebraica in Italia fu blanda, un episodio occasionale di razzismo che non ebbe, a livello pratico, grandi conseguenze. Per altri, invece, come Michele Sarfatti, Fabio Levi, David Bidussa, è necessario rendersi conto che essa fu scrupolosamente applicata su tutto il territorio nazionale e servì da premessa alla fase di deportazione nei campi di concentramento che si verificò a partire dal 1943.
Da parte mia, ritengo che cercare di ridimensionare la svolta razzista del regime di Mussolini, magari cercando il confronto quantitativo con la Germania hitleriana, rischi di far passare inosservato il fatto, gravissimo, che nel 1938 il governo Mussolini prese una posizione politica ben precisa, che fece di tutto per mostrarla coerente con la propria ideologia, che questa scelta si mostrò particolarmente decisa e diretta. E ancor più grave fu che la società italiana, gli intellettuali, la chiesa, spesso il popolo, accettarono quella svolta e si diedero da fare per attuarla anche con inaspettata solerzia. Quindi non è una questione di numeri (poco meno di 10.000 i deportati e uccisi in Italia contro i milioni della Germania) ma una questione di volontà politica e coscienza civile.
Il razzismo, sia esso antiebraico o contro qualunque altra minoranza, non si misura con il numero delle vittime che miete, ma è una macchia intollerabile per la coscienza civile di un popolo e un atto criminale quando diventa legge di uno Stato. Le giustificazioni non servono.
Per quanto riguarda l’influenza della Germania sulle decisioni italiane, dai più recenti studi ormai pare chiaro che non fu questa la ragione che spinse il Duce a prendere le decisioni che effettivamente prese. Certo, l’influenza politica ed economica tedesca era un fatto incontestabile, ma le scelte di Mussolini furono un atto autonomo e specificamente italiano.
Le ragioni di questa scelta e della sua ricezione sono molteplici, vanno dall’esistenza di un antisemitismo minoritario ma mai sopito al bisogno di un nemico interno contro cui rinsaldare l’unità intorno alla volontà dello Stato e del fascismo, dalle esigenze imposte dalla nuova dimensione imperiale dell’Italia all’indifferenza che permette di non assumersi mai responsabilità. Ma per maggiore precisione, circa questo argomento, è utile riportare un passo dello storico Mario Isnenghi, tratto dalla “Conclusione” dell’opera I luoghi della memoria, da lui curata. In maniera sintetica ma chiara egli afferma che
il sacrificio degli ebrei fascisti -non pochi-, l’oblio del patriottismo ebraico -eminente e tangibile, dal Risorgimento alla Grande Guerra-, l’inversione provocata in un processo di assimilazione spintosi più avanti che in qualsiasi altro paese europeo, trovano punti di appoggio in un sottofondo preesistente di antisemitismo cattolico a sfondo teologico; nel precedente immediato del razzismo, reso d’attualità dall’espansione dei possedimenti africani e dalla nascita dell’Impero, foriero di recuperi biologico-positivisti e di elaborazioni dottrinarie in chiave antropologica; e più ancora, forse, nel presupposto astratto di assolutizzare una differenza rappresentandosi l’identità separata e contrapposta di un nemico interno quale occasione di reintegrazione attorno alla volontà dello Stato e di mobilitazione complice.
In ogni caso, una politica antisemita ci fu - venne insegnata nelle scuole e nelle organizazioni di partito -, e fu fondata su teorie “scientifiche” che ebbero l’avvallo di illustri studiosi (antropologi, biologi, genetisti, etc...). Il fascismo non era nuovo ad invenzioni o manipolazioni e in breve tempo, attingendo all’esperienza nazista in questo campo, creò tutta una serie di pregiudizi e prove dell’inferiorità ebraica: si parlò allora di sabotaggi ai danni della nazione, di abusi delle libertà concesse, di mancanza di integrazione e così via.
L’effetto che questi testi avevano sui bambini era probabilmente duplice: da una parte davano la sicurezza di trovarsi in una società protetta, ordinata e ben strutturata, dall’altra imponevano l’acquisizione di nozioni che, una volta divenuti adulti, avrebbero ritenuto naturali perché le uniche ascoltate.
La costruzione del consenso non si limitava solo a imporre delle nozioni sul Duce, lo Stato e il fascismo, ma aveva bisogno di un sistema più sottile per indurre a credere in certi valori, per celebrare il regime e costruire dei gloriosi antecedenti. Inevitabilmente si doveva rileggere il passato attraverso gli occhi dell’esperienza fascista e delle esigenze della propaganda. In uno Stato che doveva ancora cementare il proprio sentimento di appartenenza collettiva, il proprio sentimento di unità nazionale era la storia che diventava un elemento centrale nella costruzione di questi valori:la storia diventava testimonianza di una intima, oggettiva e necessaria unità dell’Italia, la storia diventava prova dell’appartenenza degli italiani ad un solo popolo. Date queste premesse non stupisce che il fascismo abbia avuto tanta attenzione verso il passato, lo abbia usato per descrivere l’Italia come potente nazione, per dare valori ed unità agli italiani e per autocelebrarsi. Il regime fascista era ben conscio dell’importanza della memoria storica di una nazione e dell’utilità di manipolarla in base ai propri bisogni: spesso concetti come “patria” o “popolo” potevano giustificare molte azioni, occorreva dunque spiegarli nella giusta maniera. Vediamo allora in particolare come si realizzava la propaganda nei libri scolastici delle elementari sul finire dell’età fascista, quando il progetto di educazione totalitaria del popolo era giunto alle sue espressioni più mature, e soprattutto l’uso che si fece della storia nel processo di educazione di massa del regime. I due testi che prenderò ad esempio nelle pagine seguenti sono Religione, Grammatica e Storia del 1942 e Religione, Storia e Geografia del 1939.
I due libri di scuola si aprono con le preghiere rivolte al Papa, al Re e al Duce. La figura del Capo del governo da ruolo istituzionale, legittimato dal popolo e dalla legge, si eleva al pari delle cariche divine (il Papa) e tradizionali (il Re). Il Duce è indicato come l’uomo della provvidenza, frase con cui lo definì Pio XI, probabilmente non intendendo ciò che gli attribuì la propaganda del regime che usò questa frase, estrapolata dal contesto, per dare una consacrazione etica al fascismo e rendere la sua storia una necessità, appunto voluta dalla Provvidenza, a cui il paese era chiamato a partecipare. In questo modo il potere del Duce non si fonda più su un consenso politico ma è parte di piani e progetti più alti, è parte del destino (tema a cui Mussolini faceva spesso riferimento) della nazione.
Dopo un’apertura di tipo religioso passiamo alle pagine di storia. Il racconto del passato in questi libri si caratterizza distintamente per una rilettura degli avvenimenti storici secondo un criterio di utilità e propaganda:da una parte si fa l’esaltazione di quei momenti o periodi in cui l’Italia è stata grande e potente, dall’altra si sottolineano gli antecedenti e le prove della sua naturale unità.
Come è noto il fascismo rivalutò molto il periodo della Roma imperiale, anzi si prefissò apertamente di riportare la nazione a quei fasti. Il mito della romanità, soprattutto dopo la conquista dell’Etiopia e la proclamazione dell’impero, servì come elemento di identità collettiva e si stabilì una improbabile continuità ideale fra la Roma dei cesari e quella fascista. A dimostrazione di ciò basta vedere gli aggettivi che accompagnano Roma o i riferimenti al suo passato classico: Roma fu grande e gloriosa, ed uscì trionfante da ogni impresa e da ogni pericolo è la frase con cui si aprono le pagine di Religione, storia e Geografia. Più avanti si può ancora leggere storia gloriosa di Roma,“leggi immortali di Roma etc... Molti furono anche gli elementi coreografici ripresi dall’epoca classica e le celebrazioni pubbliche: fra queste ci fu, nel 1937, la “mostra della romanità” in occasione del bimillenario di Augusto. Si recuperò, sempre in ambito scolastico, anche lo studio del latino, lingua che avrebbe contribuito a ravvivare la tradizione imperiale e l’immagine romana e “littoria” del regime.
La narrazione storica - incentrata in generale su uno stile quasi da racconto fiabesco, romanzata, non analitica, non intenta ad analizzare le cause profonde degli avvenimenti - mira apertamente a diffondere certi valori. Il testo è infatti ricco di riferimenti alla virtù del popolo, all’unità - la cui mancanza è causa di fallimenti e debolezza e la cui presenza è generatrice di forza - all’identità nazionale, provata dalla lingua di Dante, segno […] della profonda unità della nostra stirpe già nel XIII secolo.
Lo stile linguistico varia in base al tema trattato. Dove la nostra storia narra di momenti bui e difficili è più dimesso, dove invece deve celebrare ed esaltare diventa retorico, altisonante, ridondante, con aggettivi iperbolici: le conquiste diventano memorabili, l’Italia il sacro suolo della patria, le prove durissime, i colpi formidabili, e così via. Questo stile diventa prioritario nel periodo che va dal Risorgimento all’era fascista, a cui viene lasciato ampio spazio. In effetti si può fare questa distinzione in due parti della storia raccontata ai ragazzi in epoca fascista:1) Il passato più lontano raccontato apparentemente in modo più neutro, mettendo però sempre l’accento su quei particolari eventi che esaltano nazionali e patriottici dell’Italia. 2) Il passato più vicino, a partire dal Risorgimento. Qui si vede una aperta funzione di propaganda e di celebrazione, volta a creare una coscienza ed una memoria storica funzionale al nuovo regime italiano. I caratteri espressivi della propaganda appaiono più marcati: antitesi irriducibili fra loro, uso eccessivo dell’aggettivazione, frasi essenziali, decise, che non ammettono dubbi o possibilità di replica. La storia si dissolve nella celebrazione del Duce come guaritore dei mali italiani e nella giustificazione e legittimazione dell’opera del governo.
In entrambi i manuali le espressioni, le interpretazioni e le considerazioni riferite a questo periodo sono simili. Si ha dunque una chiara idea del controllo dell’educazione che esercitava il fascismo, come faceva in tutti gli altri settori della vita pubblica, sconfinando anche in quella privata. Nulla era lasciato al caso, tutti i milioni di studenti italiani dovevano conoscere lo stesso passato e coltivare gli stessi valori.Gli italiani, senza più retaggi particolaristici, potevano proiettarsi così nella dimensione nazionale e imperiale consona al progetto fascista.
Se l’antica Roma rappresentava, per il fascismo, un passato mitico, il Risorgimento era il passato a cui esso si voleva legare direttamente. Il Duce si presentò spesso come il continuatore della tradizione risorgimentale, dello spirito patriottico che permeò anche la prima guerra mondiale, fu paragonato, anche dalla stampa straniera, in particolare quella americana, a Cavour e Garibaldi.
Il Risorgimento, a cui è dedicato il più alto numero di pagine, viene fatto iniziare con la guerra di successione del 1700-1748. Si assiste ad un fenomeno di dilatazione temporale di un processo storico ben definibile, forse per rendere più notevole lo sforzo italiano in questa impresa o, con maggiore probabilità, per rendere più solida una tradizione di unità che negli anni ‘30 (il regno d’Italia è proclamato nel 1861) non aveva ancora cent’anni. Dal 1700 quindi il libro inizia a narrare le gloriose lotte del popolo italiano per raggiungere l’indipendenza attraverso la celebrazione dei suoi martiri, grandi figure storiche come Pietro Micca, Ciro Menotti, Giuseppe Mazzini, Cavour e Garibaldi. Il Duce è l’ultimo di questi eroi, è colui grazie al quale l’Italia è salvata, è la personalità che piega al suo volere la storia. Mussolini rappresenta la prova che sono la volontà e la forza che determinano gli avvenimenti; la propaganda insisteva molto sul culto della personalità e sul dinamismo, incarnati nel duce: egli è l’espressione del dinamismo grazie al quale una nazione è potente e moderna.
La Rivoluzione Francese, madre dei sistemi liberal-democratici, non è ben vista dal regime.Troppo importante per essere taciuta, viene descritta negativamente, definita un ..così triste spettacolo in cui il popolo si abbandonò agli impulsi dei suoi odi. Senza accennare agli ideali di fratellanza, uguaglianza e libertà, senza essere spiegata approfonditamente, è liquidata in 16 righe, contro le 169 dedicate a Napoleone. L’imperatore francese è presentato come portatore di ordine e quindi di potenza, giacché secondo il fascismo l’ordine e la disciplina erano prerogative assolutamente necessarie per raggiungere la potenza. Il paragone, non esplicito ma intuibile, con l’Italia sembra scontato: al disordine del dopoguerra Mussolini ha contrapposto un governo forte e deciso che ha condotto una giovane nazione a diventare potenza imperiale in pochi anni. Siamo di fronte ad un modo molto sottile di far “passare” certi messaggi: illustrare attraverso la storia la necessità, la legittimità, il vantaggio dell’esperienza fascista e, come sempre, quando si tratta di celebrare arrivano gli aggettivi esagerati, si mitizza il personaggio, si ingigantiscono gli aspetti positivi.
L’epoca risorgimentale viene anch’essa svuotata dei suoi significati liberal-democratici, si insiste solo sull’aspetto patriottico e di liberazione dallo straniero, definizione generica che rimanda al clima di isolamento in cui viveva l’Italia negli anni di pubblicazione del libro. Se da una parte il regime denunciava con orgoglio le sanzioni subite da ben 52 stati, dall’altra non si può non avere una sensazione di tristezza nel pensare al processo di chiusura verso altre culture, altri popoli e verso la modernizzazione dei costumi che la politica del regime adottò. Un’autarchia che non solo economicamente portava i suoi inevitabili danni ma anche culturalmente: nel dopoguerra l’Italia non faticò poco a raggiungere i modelli più moderni delle società occidentali.
Merita poi attenzione il modo in cui si parla delle guerre coloniali. Si tace quasi del tutto il sostanziale fallimento, mettendo in luce gli atti d’eroismo dei soldati italiani ed evidenziando la brutalità degli abissini, definiti selvaggi e barbari. All’argomento si dedicano poche righe, scompaiono i nomi di Crispi e di Giolitti mentre si sottolineano quelli di comandanti e generali, eroi vendicati ora che l’Italia ha finalmente domato i crudeli abissini, fautori della schiavitù e del dispotismo.
Il nascondere certi fatti o certi personaggi, in relazione al loro esito negativo o alle loro idee, era uno dei sistemi con cui agiva la propaganda. L’altro era quello di esaltare oltre misura ciò che era favorevole al regime o a indurre certi valori e certe predisposizioni mentali. Non dire e dire secondo la propria convenienza, queste sembrano le direttive seguite dalla politica culturale e propagandistica del fascismo.
Si arriva così ai primi anni del Novecento, dove protagonista della storia è il fascismo, anzi più precisamente il Duce. Ed è tanto protagonista da indurre due studentesse che hanno un programma di storia per loro troppo vasto a scrivergli: Se anche per un anno (poi ,a contar bene, sarebbe anche meno, una decina di mesi) prendete un po' di fiato e Vi fermate, anche la storia si fermerà. In questa lettera si usa in senso ironico ciò che per la propaganda era invece un’immagine molto importante: Mussolini descritto come l’inarrestabile motore del divenire storico e delle glorie nazionali.
In tutti i testi si individua la genesi del movimento durante l’intervento. Essi iniziano con la fondazione del “Popolo d’Italia” nel novembre 1914, giornale dal quale Mussolini fece una violenta campagna a favore dell’ingresso dell’Italia in guerra. Il regime teneva molto a presentarsi come l’erede della migliore e combattiva tradizione italiana che aveva condotto una guerra vittoriosa contro il nemico di sempre. Non va poi dimenticato che nel fascismo, soprattutto quello delle origini, confluirono molti reduci appartenenti ai reparti degli Arditi.
Nel descrivere la guerra vittoriosa si fa riferimento all’Italia intesa come popolo. Frequente è l’uso della prima persona plurale ( a noi diedero, il nostro intervento”), che dà un forte senso di partecipazione collettiva. In questo senso il regime si impegnò molto, cercando di portare a termine quel processo di italianizzazione iniziato con la prima guerra mondiale. Proprio durante il conflitto grandi masse, perlopiù contadine, fecero la prima grande esperienza collettiva nazionale. Non stupisce dunque che questo evento venga dilatato, fatto rivivere (anche con le celebrazioni pubbliche) come un momento epico e ricco di pathos, soprattutto nei testi per ragazzi. Il mito della guerra aveva ampio spazio nella retorica, la lotta del fascismo era la continuazione del conflitto mondiale. Si scorge fra le righe una mentalità agonistica (si pensi anche al Duce eccellente sportivo) dedita al culto dell’azione, dell’atto eroico, della forza fisica, della lotta e della vittoria. Il mito dell’azione è sorretto dall’uso di espressioni militaresche o di carattere fisico: formidabile, destino, invincibile, vittoria, battaglia.
Altro mito con cui il fascismo tentava di costruire il consenso era la “vittoria mutilata”. Mito perché in realtà l’Italia ottenne quasi tutto ciò che le era stato promesso con il patto di Londra. Cause di questa mutilazione, nella rivisitazione fatta dagli autori, erano due: gli alleati (nel 1941 erano i nemici contro cui fomentare l’odio popolare) e il governo liberale. Il forte legame che il regime voleva mostrare fra la Grande guerra e il movimento fascista è sintetizzato dalla frase, non del tutto documentata e tuttavia oltremodo significativa, con cui Mussolini accolse il mandato di formare il governo dal Re: Maestà! vi porto l’Italia di Vittorio Veneto, riconsacrata dal fascismo.
La propaganda insistette molto sul ruolo di pacificatore nazionale e di garante dell’ordine del fascismo. Per un paese messo in ginocchio da una guerra lunga e logorante, attraversato dai conflitti di classe del “biennio rosso”e dalla crisi economica non fu difficile accettare quel ruolo anche a costo di perdere la possibilità di potersi esprimere liberamente.
Le pagine che si occupano della Marcia su Roma sono un altro buon esempio della mitizzazione della storia. Essa è rappresentata come un’impresa gloriosa, il governo è conquistato con un esercito di camicie nere. Non c’è nemmeno un accenno alla politica di compromesso, alla sottile tattica che il Duce usò nei mesi precedenti l’ottobre del ‘22: gli accordi con esponenti liberali, il tacito consenso degli ambienti monarchici ed industriali, l’indifferenza delle forze dell’ordine. Siamo nuovamente di fronte ad una narrazione del tutto mistificata, si è abbandonata ogni obiettività e si è caduti nel mito. Questo accade ogni volta che si fa più forte l’esigenza di far passare un certo messaggio nell’immaginario del popolo. Il fatto che il fascismo fosse una rivoluzione, per di più permanente, non era in discussione, come non era discutibile il fatto che per trionfare aveva dovuto sostenere una dura lotta contro i nemici suoi e, cosa molto importante, della patria. Per celebrare la rivoluzione fu allestita nel 1932 anche una grande mostra a Roma, in occasione del decennale. In realtà se il fascismo fu rivoluzionario lo fu in altra maniera: si impadronì del potere servendosi dei sistemi di comunicazione e di controllo del XX secolo, in primo luogo di una generale manipolazione dell’opinione pubblica. Questo è l’aspetto forse tra i più innovativi e caratterizzanti dell’esperienza del fascismo.
Nella storia raccontata ai ragazzi la massima celebrazione del fascismo arrivava con la guerra d’Etiopia. Conflitto giusto perché correggeva le ingiustizie ancora una volta nate dalla pace di Versailles e per ragioni di civiltà e di espansione demografica. Giusta, infine, perché rispondeva a provocazioni ed aggressioni da parte degli abissini.
Il regime presentò sempre le sue azioni più decise e violente come giustificate dalla necessità o dalle provocazioni. Evidentemente era importante che l’italiano di domani, lo scolaro di oggi, fosse convinto della fondamentale bontà del governo e della generale ostilità che gli altri paesi ci mostravano. Naturalmente alla chiamata della guerra rispose un popolo che si raccolse intorno al Duce. E’ importante insistere non solo sull’unità fra gli italiani ma anche fra loro e il Duce. L’immagine che ci si presenta è quella di un abbraccio rassicurante fra un padre e i propri figli; e proprio il rapporto patriarcale padre-figli fu al centro dell’azione di convincimento delle masse, insicure e deboli senza una guida decisa ma anche severa, per il loro bene, come potrebbe essere quella di un genitore.
Esaminando ancora il testo si trovano altre immagini care alla propaganda. Molto usata e spesso entrata nella convinzione delle generazioni dell’epoca e di quelle future è quella che vede il fascismo come una spada che taglia tutti i nodi, cioè che con decisione e risolutezza risolve le situazioni più complesse. Il regime giocò molto sull’antitesi decisionismo-parlamentarismo; ancora oggi nel pensare comune trovano spazio opinioni che contrappongono al tanto parlare dei politici azioni pratiche e decise.
Nulla era lasciato al caso e tutto doveva essere usato ai fini della propaganda. Anche la guerra di Spagna fu usata per estremizzare la lotta (e giustificare le leggi contro l’opposizione politica interna) contro il comunismo e per accentuare il ruolo anti-bolscevico che la borghesia italiana aveva affidato ai fasci di combattimento durante il “biennio rosso”.
Ultimo argomento a cui giungono i testi è la grande guerra dell’asse, argomento di assoluta attualità nell’anno in cui è pubblicato Religione, Storia, Grammatica (1942). Ancora una volta la vicenda è presentata come una semplice ma forte antitesi: il giusto e il bene da una parte (Italia e Germania), l’ingiustizia e la malvagità dall’altra (Francia e Inghilterra). I nemici sono descritti con toni fiabeschi come quelli che si sono accaparrati tutte le ricchezze e tutto l’oro della terra, frase che non sarebbe fuori luogo in una favola per bambini che volesse descrivere i possedimenti e i tesori di un malvagio re. L’Italia e la Germania sono poi vittime di un complotto, secondo una linea interpretativa ormai consolidata - anche la sconfitta di Caporetto fu dovuta, secondo gli alti comandi, ad un complotto fra traditori italiani e gli austriaci. Le due potenze dell’Asse avrebbero voluto ottenere ciò che gli aspettava di diritto con la pace ma ciò fu impedito; ancora una volta il conflitto è reso obbligatorio da torti ed angherie subite, e questo succede, casualmente, ad un regime che fa l’apologia della guerra, del militarismo, che vuole otto milioni di baionette e non persone o cittadini. La vittoria, secondo uno stile che non teme smentite, è certa, arriverà al più presto e sarà fulgida e completa perché giusta e santa è la causa delle potenze dell’Asse. La retorica fascista non risparmia aggettivi, come le è consueto, e tende ancora a rassicurare, in anni che ormai segnano la fine del mito mussoliniano, sugli esiti della sua politica e della guerra. Ormai il regime non può più tornare indietro, non è più in grado, soprattutto in un momento difficile come la guerra, di fare una critica.
Alla luce di come si svolsero i fatti e di quale piega presero gli eventi a partire dal 1942, risultano quasi patetiche le definizioni sprecate per i combattenti italiani, soprattutto se riferite alla campagna di Russia, tragico evento che segna ancora oggi la memoria di coloro che vi parteciparono, nel racconto dei quali tutto si trova fuorché espressioni come coperti di gloria, eroici, vittoriosi.
Conclusioni
Appare evidente come l’educazione fosse importante per il regime: l’impressione che si ha leggendo le pagine delle pubblicazioni scolastiche per ragazzi o vedendo esempi tratti da libri di lettura per bambini è di trovarsi di fronte al tentativo di creare una vera e propria pedagogia di massa totalitaria imposta dall’alto. Inoltre i testi del tempo, siamo negli anni conclusivi dell’esperienza fascista, sono pieni dell’eccesso retorico, propagandistico e concettuale ormai raggiunto dal regime. L’intero apparato del consenso appare una pesante massa che si regge su un fragile sostegno, con una mole sproporzionata alle capacità dell’Italia di affrontare un conflitto mondiale. Confrontando i toni enfatici delle pagine dei libri con la situazione reale si ha l’impressione netta della crisi che sotto le sembianze di trionfo, proposte dalla propaganda, investì il paese a partire dall’impresa d’Etiopia: crisi economica, sociale, morale.
Di particolare interesse, per la sua funzione di trasmettitore di valori, è la narrazione storica nei testi scolastici. Ogni società è legata al proprio passato ed ha la necessità di studiarlo, spiegarlo e di interiorizzarlo nella forma di valori o insegnamenti e anche il fascismo, elemento nuovo non solo per la società italiana, aveva bisogno di un passato che lo giustificasse e lo legittimasse.
L’uso che il regime fece della storia non si limitò alla sua autocelebrazione. Il fascismo propose un’idea della storia d’Italia, anche se fantasiosa, legata al mito della romanità, che entrò nelle scuole e si radicò profondamente nei ragazzi, ma soprattutto diede una interpretazione del Risorgimento (spesso un po' rozza) che esaltava tutti gli elementi anti-parlamentari, anti-democratici, autoritari presenti nella storia unitaria contro quelli liberal-democratici. Questa visione trovò terreno fertile nel clima di stanchezza e delusione diffuso in Italia nei confronti del sistema parlamentare, soprattutto contro la sua lentezza e i suoi compromessi. Per il fascismo la crisi di una civiltà, che sentiva ormai imminente, era il fattore mobilitante per costruire un nuovo ordine, e un nuovo ordine doveva rinnovare tutto, anche l’interpretazione del passato.
La storia fu usata per completare l’italianizzazione delle masse e per creare un uomo nuovo, autenticamente fascista. Infatti è quasi ossessionante l’insistenza con cui in queste pagine si diffondono concetti come unità nazionale, popolo, identità collettiva. La figura di Mussolini è addirittura ingombrante, sempre presente nella storia recente. Non a caso negli anni del regime si venne costruendo un vero e proprio mito del Duce, al cui centro stava la sua molteplicità, da giornalista a soldato, da Capo del governo ad atleta e così via. Il mito aveva trovato nel paese una predisposizione, un terreno fertile su cui poteva crescere a dismisura. La figura del Duce serviva per esorcizzare la paura dell’anonimato, dell’uguaglianza. La personalizzazione della politica era un antidoto alla spersonalizzazione riconducibile allo Stato moderno e alla burocrazia.
La scuola era dunque concepita come una fabbrica dove produrre consenso e insegnare il culto del Duce già dai primi anni. Addirittura nello spiegare la matematica gli esempi erano tratti dal mondo fascista. L’alunno era al centro di un totale coinvolgimento, di una opprimente presenza dello Stato che prendeva la forma dei suoi sogni, dei suoi giochi, della sua esperienza.
Sarebbe interessante poter sapere con precisione quanto possano aver condizionato gli scolari le pagine di quei libri, forse molto più efficace era l’azione dei maestri o l’inquadramento nelle organizzazioni giovanili come quella dei Balilla. Credo però che verosimilmente gli effetti della propaganda molto spesso si avvertissero solo in superficie, soprattutto quando la retorica sconfinava così spesso in improbabili esagerazioni. Una testimonianza del sostanziale insuccesso della politica educativa del fascismo si ritrova nelle parole di Luigi Meneghello, nel suo libro di memorie Fiori Italiani:
La religione organizzata e il fascismo avrebbero dovuto essere i due apici del sistema educativo, il doppio cacume, e invece pareva che venissero spazzati sotto i banchi, come se riuscissero un po' imbarazzati [....] Si soffriva semmai per la mancanza di idee e di convinzioni, non già per il tentativo di indottrinarci. I pochi che si provavano facevano ridere, mentre la mancanza di idee non era ridicola, era tragica.
Dunque il risultato finale sembra essere stato una generale mancanza di stimoli e di idee, che ha sicuramente allontanato dall’apprendere ciò che pareva niente di più di una continua, pedissequa e omologata ripetizione.
Resta però indiscutibile il tentativo di condizionamento culturale operato da un regime totalitario ed autoritario che va inquadrato, oltre che dal punto di vista della propria affermazione, nell’ottica del più vasto e generale processo di formazione dei sentimenti nazionali. Come ho cercato di mostrare da questi libri traspare un duplice intento: l’autocelebrazione del fascismo e la creazione di un forte senso di appartenenza all’italianità. Se nel primo caso il risultato può non essere stato soddisfacente, nel secondo invece non si può negare che proprio nel ventennio fascista si è realizzata la nazionalizzazione (certo coatta, autoritaria, aggressiva) delle masse nel quadro dello Stato unitario.
Fonti e Riferimenti bibliografici
I libri analizzati in questo breve saggio sono M. Crapanzano, A. Caro, Educazione fascista. Fondamenti dottrinali e dissertazioni per i candidati ai concorsi magistrali, Casa Eeditrice Nuova Italia, Milano, s.d. (ma dopo1939), opera di due pedagogisti tesa ad esaltare la nuova concezione dell’educazione fascista, specialmente dopo il varo della Carta della Scuola voluta da Bottai nel 1939; altro testo è Il Primo libro del fascista, La Libreria dello Stato, Roma, 1939, volume pensato per il popolo e per i ragazzi, “summa” dell’ideologia della fascismo ad uso delle classi popolari; infine, si sono presi in esame due esempi di testi unici per le scuole elementari, AA.VV., Religione, Storia e Geografia. Libro per la III classe elementare, La Libreria dello Stato, Roma, 1939 e AA.VV., Religione, Grammatica e Storia. Libro per la IV classe elementare, La Libreria dello Stato, Roma, 1942. Tutti questi testi sono caratteristici degli intenti educativi e propagandistici del fascismo più maturo, e rappresentano pertanto le modalità più compiute dell’educazione totalitaria così come era concepita dal regime di Mussolini.
Per quanto riguarda i rimandi bibliografici essenziale sulla scuola del fascismo è il testo di J. Charnitzky, Fascismo e scuola. La politica scolastica del regime (1922-1943), La Nuova Italia, 1996, che completa l’opera del francese M. Ostenc, La scuola italiana durante il fascismo, Laterza, 1981; sugli aspetti più marcatamente pedagogici, i riferimenti sono M. Bellucci e M. Ciliberto, La scuola e la pedagogia del fascismo, Loescher, 1978 ( con antologia di testi ), G. Bertone, I figli d’Italia si chiaman Balilla. Come e cosa insegnava la scuola fascista, Guaraldi, 1975 e G. Biondi e F. Imberciadori, ...voi siete la primavera d’Italia. L’ideologia fascista nel mondo della scuola 1925-43, Paravia, 1982; sulle letture scolastiche, in una prospettiva di lungo periodo, fondamentale è il lavoro di M. Bacigalupi e P. Fossati, Da plebe a popolo. L’educazione popolare nei libri di scuola dall’Unità d’Italia alla repubblica, La Nuova Italia, 1986; tocca un aspetto particolare, ed è sospeso tra la ricostruzione critica a il ricordo personale, L. faenza, Il ruralismo nei testi unici di A. S. Novaro, G. Deledda, R. F. Davanzati, Alfa edizioni, 1975; in merito alle letture scolastiche nel periodo fascista e, più in generale all’editoria per i ragazzi, mi permetto di segnalare, rispettivamente, i miei lavori Letture scolastiche e regime fascista (1925-1943). Un primo approccio tematico, Le Stelle, 2001, e Educare con le parole. Letture e scritture scolastiche tra fascismo e Repubblica, di prossima pubblicazione, e A. Scotto di Luzio, L’appropriazione imperfetta. Editori, biblioteche e libri per ragazzi durante il fascismo, Il Mulino, 1996; sui rapporti tra il fascismo e i giovani, importante è C. Betti, L’opera nazionale balilla e l’educazione fascista, La Nuova Italia, 1984; sul tema dell’organizzazione del consenso si veda, almeno, il datato ma sempre fondamentale Ph. V. Cannistraro, La fabbrica del consenso: fascismo e mass media, Laterza, 1975; su Il primo libro del fascista e sugli altri “catechismi” di regime, è preziosa la ristampa anastatica, accompagnata da un saggio introduttivo, a cura di C. Galeotti Credere, obbedire, combattere. I catechismi del fascismo, Stampa Alternativa, 1996; sul linguaggio del fascismo, utili almeno le seguenti indicazioni, E. Golino, Parola di duce. Il linguaggio totalitario del fascismo, Rizzoli, 1994, e AA. VV., Parlare fascista. Lingua del fascismo, politica linguistica del fascismo, numero monografico di “Movimento operaio e socialista”, 1/1984; sul culto del Duce e sulle rappresentazioni di Mussolini nelle tante biografie a lui dedicate, il riferimento d’obbligo è a E. Gentile, Il culto del littorio, Laterza, 1994 e a L. Passerini, Mussolini immaginario, Laterza, 1991; infine, per un inquadramento complessivo dell’ideologia fascista, si veda P. G. Zunino, L’ideologia del fascismo. Miti, credenze e valori nella stabilizzazione del regime, il Mulino, 1985.
Fonte: http://www.liceograssi.gov.it/%5Bmateriale-vecchio%5D/storia%20del%20novecento/didattica/educazione%20e%20fascismo/davide%20montino.doc
Sito web da visitare: http://www.liceograssi.gov.it/
Autore del testo: D.MONTINO
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