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L'emigrazione italiana negli Stati Uniti di Maddalena Tirabassi
(dal CD-ROM “Percorsi interculturali” allegato a D.Rigallo, D. Sasso, “Parole di Babele”, Loescher)
1. Caratteristiche dell'emigrazione italiana
Sono quasi quattro milioni gli italiani che fra il 1880 e il 1915 approdano negli Stati Uniti ‑ su un totale di emigrati italiani che scelsero mete transoceaniche di 9 milioni circa. Occorre precisare che queste cifre non tengono conto dei rientri che rappresentarono un fenomeno massiccio: circa la metà degli emigrati rimpatriò e, nel periodo 1900-1914, il numero dei rientri si aggirò tra il 50 e il 60 per cento. Quasi il 70 per cento di essi proveniva dalle province meridionali, e per tutti l'impatto con il nuovo mondo si rivelava difficile fin dai primi istanti: ammassati negli edifici di Ellis Island, o di qualche altro porto come Boston, Baltimora o New Orleans gli immigrati, dopo settimane di viaggio, affrontavano l'esame, a carattere medico e amministrativo, dal cui esito dipendeva la possibilità di mettere piede sul suolo americano. La severità dei controlli fece ribattezzare l'isola della baia di New York come l' «Isola delle lacrime».
Il boom dell'emigrazione negli Stati Uniti fu dovuto a una serie di circostanze su cui è impossibile soffermarsi nel dettaglio e che mi limiterò a elencare. Per quello che riguarda l'Italia, e quindi i fattori di espulsione (push), sono stati sottolineati il processo di differenziazione economico sociale che si svolse parallelamente allo sviluppo dei rapporti di produzione capitalistica; la crisi della piccola proprietà e delle aziende montane, il declino dell'artigianato e delle manifatture rurali e, naturalmente, la crisi agraria.
D'altro canto negli Stati Uniti lo sviluppo capitalistico dagli anni Ottanta dell'Ottocento alla Prima guerra mondiale ebbe come obiettivo la massima immigrazione. Un'altra contingenza favorevole all'emigrazione italiana negli Stati Uniti fu data dal fatto che l'Italia si inserì nelle correnti migratorie internazionali quando i costi dei viaggi toccarono il minimo storico. Navi che trasportavano merci dall'America all'Europa, facevano il viaggio di ritorno con un carico di emigranti. Lo sviluppo dei trasporti transoceanici rese l'America più vicina del nord Europa.
Le modalità dell'emigrazione e dell'insediamento sono forse più interessanti da nostro punto di vista. Assieme ai primi emigranti, i cosiddetti pionieri, uomini soli che si recavano in America a cercar fortuna, si sviluppò il fenomeno della catena migratoria. Essa seguiva linee familiari, campanilistiche, regionali e professionali. L'importanza di quest'ultima è stata recentemente messa in evidenza da studi tra cui quelli sugli emigrati biellesi nel mondo patrocinati dalla Fondazione Sella e da una studiosa statunitense, Donna Gabaccia che ha studiato l'emigrazione da un paese di tradizione socialista in Sicilia, Sambuca negli Stati Uniti. Operai e artigiani, che si dirigevano a nei grandi cantieri edili o ferroviari americani, richiamati questa volta dal mestiere.
Nell'altro caso, parenti, amici e compaesani raggiungevano i primi emigrati, grazie alle notizie che ricevevano attraverso le lettere, inviate dall'America. Le lettere contenenti notizie più o meno attendibili, come è stato dimostrato da alcuni storici che si sono occupati del fenomeno, fungevano spesso da veicolo principale di propaganda all'emigrazione nel paese. Lette da parenti e amici, a volte nella piazza del villaggio, servirono e attirare in America milioni di italiani. Spesso contenevano i biglietti per il viaggio dei congiunti (prepaids). È stato calcolato che il dal 50 al 60 per cento degli emigrati negli anni Novanta partì con un biglietto prepagato, che rappresentò quindi uno dei principali strumenti del finanziamento dell'espatrio. I primi a emigrare erano stati i piccolissimi proprietari che avevano venduto tutto per finanziarsi il viaggio. Un'altra forma di finanziamento del biglietto transoceanico era costituita dal credito. E qui entriamo nel campo dello sfruttamento degli emigranti.
Per i primi immigrati episodi di sfruttamento da parte degli agenti dell'emigrazione, che li reclutavano per il passaggio marittimo, e dei 'padroni', connazionali e spesso compaesani, sono all'ordine del giorno, sotto forma di quote da versare per la casa e per il lavoro trovato. Gli agenti, di solito stranieri, e i sub agenti italiani -- rappresentati dalla piccola borghesia usurai, sindaci, preti, notai, impiegati comunali -- cercavano di avvantaggiarsi dell'ignoranza degli immigrati. Esigevano percentuali sul biglietto per l'America, anche quando come nel caso dell'America Latina esso era gratuito, convocavano gli emigranti sulle banchine dei porti una settimana prima per poterli sfruttare attraverso osti complici e cambiavalute. Lo stesso Einaudi denunciò episodi di gruppi di immigrati abbandonati in aperta campagna dagli agenti. A questo proposito basta ricordare il bel racconto di Sciascia «Il lungo viaggio» in Il Mare colore del vino in cui gli emigranti vennero fatti salire su una nave con destinazione americana e poi sbarcati sulla costa siciliana dopo aver circumnavigato l'isola per diversi giorni.
Una volta giunti in America le cose non miglioravano. Da una inchiesta del 1897 a Chicago risultò che il 22 per cento degli immigrati lavorava per un padrone. Ciò implicava il versamento di una quota del salario e l'obbligo di acquistare le merci in uno spaccio da lui indicato (che aumentava i prezzi del 60 per cento). Nella New York di fine secolo c'erano 2000 boss che agivano spesso in combutta coi banchieri che spesso garantivano per gli immigrati senza lavoro non sarebbero stati a carico dello stato.
Il collocamento degli immigrati era anch'esso nelle mani di privati. Ciò dette adito al diffondersi del padrone system e dei boss, italiani già da tempo residenti negli Stati Uniti che basandosi sull'ignoranza della lingua e del funzionamento della società statunitense sfruttavano i propri connazionali, esigendo quote dei salari per i lavorio che loro procacciavano, tenendoli in uno stato di continua soggezione facendoli lavorare saltuariamente.
2. Le condizioni di vita
La migrazione a catena portò alla costituzione delle little italies nelle principali città statunitensi, interi quartieri abitati da italiani nelle cui strade la lingua ufficiale erano i vari dialetti del pesi di provenienza, con negozi in cui si vendevano prodotti di importazione italiani. Spesso quartieri una volta residenziali si svuotarono per lasciare il posto ai tenements, definiti come, secondo la descrizione della Immigrant Commission nel 1900: edifici di cinque o sei piani, a volte sette, lunghi poco più di sette metri e larghi trenta con uno spazio libero di tre metri sul retro, per dare luce e arie alle stanze su quel lato. Ogni piano è generalmente diviso in quattro appartamenti, essendoci sette stanze su ogni lato dell'ingresso, che si estendono sulla strada verso il retro. Delle 14 stanze su ogni piano solo quattro ricevono luce ed aria diretta dalla strada o dal piccolo cortile sul retro «Generalmente lungo le pareti laterali dell'edificio vi è quello che viene chiamato «condotto dell'aria» cioè un'incavatura della parete profonda 70 centimetri e lunga da 15 a 18 metri e alta quanto l'edificio.» Questi condotto funzionano come trasmettitori di rumori, odori e malattie e quando scoppia un incendio diventano una cappa infiammabile rendendo spesso difficile salvare l'edificio dalla distruzione» .
New York era la città con più tenements degli Stati Uniti: nel 1909, secondo i dati della stessa commissione c'erano 102.897 tenements houses con una popolazione di 3.775.343. Oltre il 79 per cento della popolazione di New York abitava in tenements.
I numerosi enti assistenziali, pubblici e privati che si occupavano degli immigrati dedicarono molta attenzione alle condizioni di vita nei tenements e nei quartieri degli immigrati. Attraverso le loro testimonianze è possibile conoscere non solo quali furono le principali difficoltà incontrate dagli immigrati nel loro impatto con la vita cittadina, ma anche le «abitudini» degli immigrati italiani che disturbavano gli americani. Queste ultime si potrebbero far risalire alla cultura premoderna degli italiani.
Gli enti assistenziali innanzitutto si occuparono della tutela della salute. Nel 1912 era stato creato il Children's Bureau, su proposta di Lilian Wald, per tutelare il benessere dei bambini negli Stati Uniti. Come molte organizzazioni sorte in questi anni, andò presto ad occuparsi dei bambini degli immigrati, le fasce allora più povere della società. Iniziò con uno studio sulla mortalità infantile, proseguì la sua attività con la pubblicazione di numerosi opuscoli sulla salute prenatale, la legislazione sul lavoro minorile; svolse una campagna per la registrazione delle nascite, per la scolarizzazione.
Nei manuali sulla salute e l'allevamento dei bambini venivano fornite informazioni per le madri immigrate costrette a vivere nei tenements in condizioni igieniche precarie. I manuali offrono un'idea dei problemi: si parte dalla questione della ventilazione della casa, cercando di sfatare la credenza che l'aria e le correnti siano pericolo per la vita dei bambini, si passa poi alle informazioni dietetiche, all'abbigliamento, al sonno, per prendere in considerazione gli aspetti dell'educazione, del gioco e delle attività sportive. Ma la scientific motherhood, con prescrizioni precise rispetto a tutte le funzioni materne era spesso in aperto contrasto con le abitudini delle immigrate, che guardavano con diffidenza le assistenti sociali che entravano nelle loro case e davano consigli su tutto, dall'allattamento all'abbigliamento, spesso scontrandosi con le norme anch'esse codificate dettate dalla cultura delle immigrate.
Per superare queste diffidenze, gli International Institutes, fondati dalla Young Women's Christian Association nel 1912 per assistere le donne immigrate, organizzarono corsi di economia domestica al fine di insegnare alle madri di famiglia a fare la spesa, a cucinare col gas, a preparare cibi adeguati per i bimbi piccoli utilizzando questi manuali. Attraverso una fitta rete di club le assistenti degli istituti, spesso appartenenti al gruppo etnico di cui si occupavano e che parlavano la lingua delle immigrate, cercarono di orientarle anche nell'arredamento della casa, perché imparassero a riutilizzare vecchi mobili e non si facessero sfruttare dai commercianti locali, perché non appesantissero l'arredamento con oggetti e tendaggi che poi era difficile mantenere puliti. Le condizioni igieniche sono anche qui tenute in principale considerazione.
La salute è forse il campo in cui intervennero con maggior incisività gli assistenti sociali dell'epoca «se vai in ospedale muori» era la credenza diffusa tra gli immigrati italiani e, fino agli anni Trenta le nascite avvenivano a casa, con levatrici italiane. Tra le famiglie italiane di cui si occuparono gli istituti si riscontra, assieme a un'altissima diffidenza nei confronti dei medici e degli ospedali, molta superstizione e ignoranza. Le assistenti sociali dovevano intervenire spesso per spiegare le più banali norme igieniche: tener lontani, quando le condizioni abitative lo permettevano, i bambini malati di tubercolosi o di sifilide da quelli sani, o convincere una donna al terzo mese di gravidanza, malata di polmonite a non bere pozioni a base di canfora. Altre madri che ritenevano i figli malati a causa del malocchio furono convinte a portare i figli dal medico.
L'emigrazione in America sembrò acuire i problemi di salute a causa delle abitazioni malsane, ma la modernizzazione in questo campo si attuò rapidamente. La mortalità infantile, che era altissima nelle famiglie italiane, 120 morti su mille nati nel 1918, calò a 54 nel 1932 adeguandosi al tasso delle americane bianche (Si veda la Tabella allegata). I tassi di fertilità calarono altrettanto drasticamente.
3. Differenze culturali
L'altro importante elemento di mutamento dovuto all'emigrazione in un paese industriale avanzato è costituito dall'arrivo in una società in cui andava affermandosi il consumismo con tutto ciò che esso implicava: produzione in serie, industria della moda, grandi magazzini, riproduzioni. Lo spostamento dalla campagna alla città volle dire per tutte le classi, uno spostamento dalla casa, come centro di vita sociale, alle strade della città coi loro grandi magazzini, cinema, luoghi di ritrovo pubblici. Il tempo libero è organizzato, spesso si paga come il cinema, o le sale da ballo. I riformatori dell'epoca tentano di sopperire alle carenze delle città: è dei primi anni del secolo la costituzione di parchi e di playground per offrire un'alternativa al cinema, al saloon, alla sala da ballo e alla strada.
Ma per gli immigrati il passaggio dalla campagna alla città significava anche spostarsi da un'ottica di risparmio ad una di spreco, di consumo. Il fascino esercitato dalla società dei consumi specialmente sulle giovani generazioni e sulle donne in particolare creò contrasti generazionali all'interno della famiglia. In molti casi le ragazze erano disposte a tutto pur di poter acquistare capi di abbigliamento nei grandi magazzini. L'abbigliamento divenne il segno più visibile dell'americanizzazione.
Ma forse l'elemento che più tocca la famiglia immigrata è la concezione di famiglia moderna che trovano adottata negli Stati Uniti, una concezione della famiglia, divisa per fasce di età e per sesso, i cui singoli membri sono mossi da ottiche individualistiche e non più familistiche, al cui interno i bambini sono considerati degli individui con esigenze particolari dovute alla loro età e non più adulti in miniatura. Da una società patriarcale si passa ad una società child centered. La scuola e l'educazione impartita attraverso di essa anche ai figli degli immigrati si muove in questa ottica: sviluppare il senso di indipendenza e di autonomia nei bambini, liberandoli dai vincoli della famiglia etnica. In America dal 1904 la scuola era obbligatoria per i bambini fino a dodici anni, anche se i figli degli immigrati italiani erano il gruppo con la minor frequenza scolastica, di solito si limitavano a mandare i bambini i primi anni perché familiarizzassero con l'inglese.
La scuola è spesso il primo luogo in cui i figli degli immigrati si rendono conto di essere diversi e cominciano a vergognarsi di essere italiani. In un'inchiesta dell'epoca, la scuola venne denunciata come principale responsabile dei problemi dei bambini stranieri a causa dell'impreparazione degli insegnanti, che non si preoccupavano nemmeno di pronunciare correttamente i nomi dei loro allievi di origine straniera, dei contrasti coi bambini di altri gruppi etnici, che li chiamavano con epiteti. I figli degli immigrati, grazie alla scuola sono spesso gli unici a parlare inglese in famiglia, si vedono i mutamenti profondi apportati alla cultura d'origine degli immigrati e lo sviluppo delle divisioni generazionali all'interno della famiglia immigrata. In America, è stato notato sono i figli a insegnare ai genitori, il mondo si è rovesciato.
4. La seconda generazione e le donne
Le prime generazioni di donne spesso rifiutano tutto ciò che è 'americano', in primo luogo la lingua inglese. Se costrette a lavorare lo fanno a casa accettando lavoro a domicilio mediato da connazionali o prendendo pensionati del proprio paese d'origine. Poi viene la città che esse temono e cercano di evitare il più possibile chiudendosi nel quartiere italiano e frequentando i negozi gestiti da connazionali. Anche nell'abbigliamento esse tendono a mantenere le tradizioni del paese d'origine, i vestiti neri, gli scialli.
La drammaticità delle posizioni delle madri è data dall'incapacità di mediare tra la società esterna, che non conoscono, e i loro figli. I conflitti generazionali vengono acuiti dall'esperienza migratoria, perché i figli hanno un modello esterno molto forte e nessuno strumento familiare per farvi fronte. Le madri si sentono spesso oggetto di vergogna da parte dei figli, che sono attratti da tutto ciò che è americano, invece che di rispetto come nel paese d'origine.
In un rapporto dell'epoca si legge:
Ciò che è più straordinario è che le ragazze amano l'America. Le madri venute tardi qui, rimpiangono l'Italia, ma le giovani amano l'America. Già vengono qui con la conoscenza dell'importanza che ha la donna nella società americana. Le meridionali del popolo sentono per la prima volta qui che la donna è un animale altrettanto di valore quanto l'uomo e per quanto l'uomo meridionale si senta sempre padrone di casa, è tale l'istintivo terrore del poliziotto che appena gli dice: Si Sicuti ti dugno trublu, egli è pronto a cedere scettro e corona. Ma non è la ragione che qui gli uomini diventano un po’ meno intollerabili che fa amare così l'America alle donne. Le donne qui, malgrado la terribile schiavitù dell'opificio, hanno l'illusione di essere libere, e davvero acquistano l'indipendenza economica. Qui portano il cappello e nella media vestono come al loro paese non vestiva la figlia del sindaco... Quando lavorano han sempre i soldi per i candies e l'ice cream e per il nastro e per i fake jewellry. A loro non importa se per un anno intero non vedono il sole un prato verde e un cespuglio fiorito. La miseria non ha dato il tempo di sviluppare quel pochino di poesia che tutti abbiamo nel nascere. Qui sono young ladies, signorine. Nelle misere campagne della Sicilia, della Calabria, della Basilicata si sa cos'è una contadina povera.
I rapporti più difficili si sviluppano tra madri e figlie a causa della nuova posizione in cui quest'ultime si trovano in America. La loro uscita da casa è favorita sia dalla scuola che dal lavoro. Lavorano nelle fabbriche di abbigliamento, di scatole, caramelle, fiori. Anche se il lavoro non è di per sé emancipatorio perché non vi corrisponde un'aumentata libertà di movimento la richiesta di una parte del salario per usufruire dei beni di consumo, dagli abiti agli svaghi, le porta fuori dall'ottica familistica e a mettere in discussione la finora incontrastata autorità paterna. Il lavoro di per se non costituisce una conquista per le giovani immigrate italiane. L'atteggiamento del gruppo etnico nei confronti delle donne era che esso «fosse un male necessario indotto dalle condizioni di vita americane che non alterò in nessun modo la loro posizione di dipendenza» dall'autorità familiare. Infatti non era consentito alle giovani donne di disporre nemmeno in piccola parte del denaro guadagnato nè di usufruire di alcune elementari libertà, se non di lavorare. Ciò era causa di molteplici discussioni nelle famiglie. Il caso di una ragazza napoletana fuggita di casa, a causa dei maltrattamenti subiti, che si rivolse ad una segretaria degli International Institutes è abbastanza significativo in questo senso. Era la sola a guadagnare in famiglia, ciononostante non aveva il permesso di uscire da sola e, avendo disubbidito, era stata picchiata dal padre. La madre dichiarò all'assistente sociale che non poteva difendere la figlia poiché temeva il marito «che aveva idee antiquate per quello che riguardava la sua autorità in casa». Un altra giovane donna si lamentò con un'assistente per la scarsa libertà di cui disponeva: «Mamma è dolce e tenera con mia sorella e con me...Riceviamo molto affetto, ma ogni nostro passo è controllato... Ho lavorato tre anni in una fabbrica tessile. Guadagno bene e se avessi gli stessi diritti delle ragazze americane so che potrei dare a mia madre i soldi per il mio mantenimento ed avere abbastanza denaro per vestirmi bene e per divertirmi. Ma devo consegnare tutto il mio salario a mio padre ogni giorno di paga. Lui dice che è per me, per la mia dote. Non vedo a cosa mi serva una dote. I ragazzi che conosco non si spettano di sposare nessuno per denaro».
Il principale terreno in cui si verificava lo scontro culturale tra vecchio e nuovo mondo era costituito dai rapporti delle figlie coi coetanei maschi e più in generale sulle scelte matrimoniali. Negli Stati Uniti si era ormai affermata per tutte le classi la concezione del matrimonio egalitario moderno, che implicava la libera scelta del coniuge e quindi il matrimonio per amore. Tra gli immigrati vigevano ancora i vecchi codici, che imponevano alle donne una scelta fatta dai genitori all'interno degli stretti recinti del gruppo etnico, spesso di quelli del campanile. Le ragazze come emerge da molte testimonianze, rivendicavano il diritto di scegliere sì un connazionale, ma più americanizzato, di poterlo vedere al di fuori dell'ambito familiare, di poter frequentare ragazzi senza essere costrette a sposarli, non vogliono la dote, vogliono uscire coi ragazzi senza fidanzarsi.
Nel primo caso citato la ragazza si lamentava di non poter portare in casa il ragazzo con cui usciva «perché temeva che il padre chiedesse al ragazzo che intenzioni aveva mentre lei voleva solo divertirsi come tutti i giovani in America e non sposarlo». Un'altra ragazza dichiarò all'assistente: «Non voglio sposare un italiano, sono troppo bossy, voglio sposare un americanizzato».
Gli americani nativi non nascondevano il loro disgusto per questa nuova ondata di arrivi, e anche gli altri gruppi con cui essi venivano a contatto negli affollati quartieri abitati dagli immigrati, irlandesi, tedeschi e scandinavi, tolleravano malvolentieri le abitudini rurali dei contadini italiani. «Oh gli irlandesi e i siciliani non vanno d'accordo! Stavano sempre a litigare - ricorda in una famosa autobiografia un'emigrante lombarda - la siciliana al piano di sotto mette la salsa di pomodoro a cuocere al sole - tutto il cortile coperto di quelle tavole per la salsa di pomodoro; e l'irlandese al piano di sopra stende i panni con una carta in mezzo perché il filo non sporchi la camicetta bianca, pulita. Quando toglie le mollette la carta, a volte le federe di cuscino finiscono nella salsa. Allora si infuriano entrambe e cominciano a litigare».
5. I pregiudizi
Gli italiani del Meridione erano accusati di essere sporchi, di mantenere un basso livello di vita, di essere rumorosi e di praticare rituali religiosi primitivi. Anche gi italiani del nord condividevano il giudizio negativo: «Quelli del nord Italia si ritenevano superiori a quelli dell'Italia meridionale, mentre quelli delle regioni meridionali si ritenevano migliori dei siciliani». Le altre nazionalità si allontanavano dai quartieri all'arrivo degli italiani, denominati di regola con epiteti come «dago» e «wop», che suonavano quasi amichevoli rispetto alla definizione di «pesti importate dall'Europa» datane da un periodico nel 1894.
I calabresi e i siciliani che approdavano alle città statunitensi, da una Commissione parlamentare istituita nel 1911 per analizzare il fenomeno della nuova immigrazione, venivano individuati e descritti come coloro che davano un contributo fondamentale alla crescita del fenomeno della delinquenza nelle città americane. La violenza nei ghetti italiani era vera, ma essa era dipinta come un prodotto di importazione, connaturato alla cultura e alla tradizione dei nuovi arrivati come l'abitudine a cibarsi di pasta al pomodoro: «Abbiamo all'incirca in questa citta trentamila italiani, quasi tutti provenienti dalle vecchie privince napoletane, dove, fino a poco tempo fa, il brigantaggio era l'industria nazionale. - Si leggeva sul «New York Times» il 1° gennaio 1894 - Non è strano che questi briganti portino con se un attaccamento per le loro attività originarie».
Altri caratteri completavano il quadro dell'indesiderabilità dei nuovi venuti. Il principale fra essi era la scarsa intelligenza, che con l'insufficiente forza fisica faceva temere che la loro presenza finisse con il corrompere i tratti originari fisici e psichici degli americani. Antropologi e sociologi dal canto loro tentavano di dimostrare i rischi di modificazione degenerativa che il popolo americano correva a causa dell'integrazione con razze la cui inferiorità era dimostrata dai comportamenti non meno che dall'indagine scientifica.
Come abbiamo visto sono proprio la cultura premoderna o contadina degli immigrati che più colpisce in senso negativo 'gli americani': un'apparente noncuranza nei confronti delle più elementari norme igieniche, la trascuratezza nei confronti dell'istruzione dei figli, la condizione di palese subordinazione della donna nella famiglia.
Fonte: http://www.tes.mi.it/sir2itastoriaweb/viaggi/migrazione/emigrazione/lezione1/DOC%203.doc
Sito web da visitare: http://www.tes.mi.it
Autore del testo: sopra indicato nel documento di origine
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