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indice |
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1. Dalla restaurazione alle rivoluzioni del 1848 |
2. L’affermazione della società borghese |
3. L’Italia dopo l’unità |
1815 - 1848 |
1850 - 1870 |
1860 - 1870 |
1.1 Gli stati europei durante la restaurazione |
2.1 Il boom economico 1850-70 |
3.1 La nascita del nuovo stato |
1.2 Il dibattito politico durante la restaurazione |
2.2 La nascita del movimento operaio |
3.2 I problemi della società italiana |
1.3 I primi moti rivoluzionari |
2.3 L’Inghilterra vittoriana |
3.3 I problemi dell’economia italiana |
1.4 La rivoluzione del 1830-31 |
2.4 Francia e Germania dal 1850 al 1870 |
3.4 Verso un modello di paese industriale |
1.5 I liberali italiani dopo la rivoluzione del 1831 |
2.5 Gli imperi dell’Europa orientale |
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1.6 Lo sviluppo industriale e il movimento operaio |
2.6 Gli Stati Uniti verso l’industrializzazione |
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1.7 Le rivoluzioni del 1848 |
2.7 L’Italia dopo la crisi del 1848 |
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1.8 Il 1848 in Italia |
2.8 L’unificazione nazionale italiana |
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1.9 La crisi della rivoluzione in Europa |
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In seguito al congresso di Vienna l’Europa sembrava avere riacquistato l’assetto politico precedente al periodo napoleonico: i vecchi sovrani erano ritornati sui loro legittimi troni e le libertà conquistate dai popoli sull’onda della rivoluzione francese del 1789 erano state totalmente cancellate. Un rigido sistema di polizia e ferree alleanze internazionali furono istituiti dalle monarchie vittoriose perché gli equilibri della Restaurazione fossero garantiti.
Ma non pochi problemi rimasero senza soluzione; soprattutto le aspirazioni nazionalistiche dell’Italia, della Polonia e della Germania, a cui si aggiungevano i fermenti autonomistici delle popolazioni balcaniche, minacciavano questo rigido ritorno al passato.
D’altro canto, nei singoli stati europei, con l’unica eccezione dell’impero austriaco, il ritorno al passato fu meno drastico di quanto apparisse. In Inghilterra e in Francia, infatti, rimasero forme di controllo costituzionale che comunque limitavano l’assolutismo monarchico. Tutte queste contraddizioni mostravano quindi con chiarezza che una pura e semplice restaurazione era impossibile.
Il congresso di Vienna non aveva tenuto in alcuna considerazione le aspirazioni all’indipendenza nazionale che molti popoli europei avevano manifestato. Italiani, tedeschi, polacchi e slavi non potevano certo dirsi soddisfatti delle decisioni prese a Vienna: Queste decisioni li condannavano ad essere divisi e talvolta soggetti a governi stranieri.
Il congresso di Vienna aveva deluso anche quei ceti borghesi, formati da imprenditori, commercianti e intellettuali, che si erano formati ed erano cresciuti durante il periodo napoleonico. Questi ceti avevano fatto proprie alcune idee della rivoluzione francese e avevano aderito al liberalismo. I liberali si opponevano alle monarchie assolute restaurate dal congresso di Vienna e lottavano per ottenere la partecipazione della borghesia al governo.
I movimenti nazionalistici e liberali vennero duramente repressi dai governi autoritari della Restaurazione e furono costretti a organizzarsi in società segrete. La loro presenza politica era ancora debole, ma era il segno che un vasto movimento di opposizione alla Restaurazione aveva incominciato a formarsi.
Negli anni venti del XIX secolo scoppiarono in numerosi stati dell’Europa diversi moti rivoluzionari. In Spagna, nel napoletano e in Piemonte queste insurrezioni avevano l’obiettivo di introdurre delle costituzioni liberali. Dopo una prima fase vittoriosa, tutte queste insurrezioni vennero duramente represse.
Più o meno negli stessi anni altri moti scoppiarono in Grecia e nell’America del Sud. L’obiettivo stavolta era l’indipendenza nazionale. In entrambi i casi la lotta fu coronata da successo.
Al di là della loro riuscita, i moti scoppiati per ottenere la costituzione o l’indipendenza nazionale avevano un punto in comune: erano avvenuti alla periferia del sistema delle grandi potenze. In altre parole, i grandi stati europei non erano stati toccati dalle rivoluzioni. L’Austria si era presa il compito di reprimere molti di questi moti, ma non ne era stata coinvolta. La Francia e l’Inghilterra avevano sostenuto la lotta degli indipendentisti greci, ma questa guerra non le riguardava direttamente. Cosa avrebbe potuto accadere nel momento in cui le rivoluzioni fossero scoppiate in Francia e in Austria?
Nel 1820-21 le rivoluzioni erano scoppiate in aree abbastanza periferiche del sistema internazionale: la Spagna, l’Italia meridionale, la Grecia.
Nel 1830-31, invece, le rivoluzioni scoppiarono nel cuore del sistema internazionale, in Francia, o in punti nevralgici come il Belgio, la Polonia, l’Italia del Nord. In Polonia e in Italia l’esito dei moti fu totalmente negativo; ma in Belgio e soprattutto in Francia le forze liberali e nazionali conseguirono la vittoria. Nel 1830-31, a differenza di dieci anni prima, non fu possibile un puro e semplice ritorno al passato. In Francia, Belgio Grecia, l’assetto europeo stabilito a Vienna era stato superato e governi costituzionali avevano sostituito le vecchie monarchie.
L’unità d’intenti tra le grandi potenze venne meno. Si delinearono così due blocchi: da un lato le potenze liberali, Francia e Inghilterra, dall’altro gli stati assolutistici, Austria, Prussia e Russia.
Questa frattura internazionale favorì notevolmente l’azione delle forze d’opposizione liberale che ora potevano sperare nell’appoggio o nella benevola neutralità di due potenti stati.
In Italia la rivoluzione del 1831 era miseramente fallita. Dopo questa sconfitta il movimento liberale italiano si era dato un nuovo obiettivo politico: l’unità nazionale.
Intorno a questo obiettivo si erano formate due correnti politiche. La prima era quella dei moderati, che pensavano che l’unità d’Italia dovesse essere realizzata dai sovrani e dai ministri. La seconda era quella dei radicali e dei democratici, che sostenevano che l’unità si potesse conseguire solo con la partecipazione e la lotta del popolo. Per circa quindici anni, dal 1830 al 1845, il movimento democratico italiano avviò continui tentativi per far scoppiare una rivoluzione popolare, prima nelle città del Nord, poi nelle campagne del Sud. Uno dopo l’altro tutti questi tentativi terminarono con dei fallimenti.
Ma se i democratici avevano fallito, i moderati non si erano neppure mossi. I loro progetti di unità guidata dal papa o dai Savoia apparivano lontani e confusi.
Il tema dell’unità nazionale si era diffuso nella coscienza di molti italiani, ma la sua realizzazione appariva estremamente difficile.
Gli anni precedenti il 1848 videro uno eccezionale sviluppo economico in Europa. L’Inghilterra era il paese di gran lunga più industrializzato, ma anche in Germania, Austria, Francia e Belgio il processo d’industrializzazione compì notevoli passi avanti, allargandosi poi gradualmente al resto d’Europa. Questa fase di grande espansione era però percorsa da notevoli contraddizioni economiche e sociali.
La maggior contraddizione era interna al sistema stesso: la capacità di sviluppo dell’industrializzazione europea si basava infatti sulla possibilità di pagare poco la forza lavoro; solo in questa maniera gli industriali europei potevano mettersi in concorrenza con la già affermata industria inglese. Ma, conseguentemente, le basse paghe dei lavoratori riducevano le possibilità di consumo.
La situazione arrivò ad un punto critico nel 1846-47, in concomitanza con una crisi agraria. I lavoratori dovevano impiegare tutto il loro reddito per comperare gli alimenti e non potevano più acquistare prodotti industriali. Non riuscendo a vendere i loro prodotti, molte industrie fallirono e aumentò la disoccupazione.
Tra il febbraio e l’aprile del 1848 mezza Europa fu sconvolta da rivoluzioni. In Francia, nell’impero austriaco e in Germania i governi furono rovesciati. Queste tre rivoluzioni però avevano delle caratteristiche e delle motivazioni molto diverse.
In Francia la rivoluzione scoppiò soprattutto per cause sociali ed economiche. Una crisi economica nel 1846-47 creò molto malcontento. La borghesia tolse il suo sostegno alla monarchia e si formò una nuova alleanza tra borghesia e classi lavoratrici. Questa alleanza era abbastanza instabile, ma fu in grado di sostenere per qualche mese un governo repubblicano.
In Austria la rivoluzione scoppiò per rivendicare l’autonomia delle varie nazionalità: ceche, ungheresi e italiane.
In Germania la rivoluzione mirava soprattutto a raggiungere l’unità nazionale, a unificare cioè i molti staterelli in cui era diviso il territorio tedesco.
Dalla Francia, la rivoluzione si estese rapidamente a tutta l’Europa, sostenuta dalle spinte indipendentiste e nazionaliste dei diversi stati.
In Italia, mentre il movimento liberale si espandeva ovunque riuscendo a ottenere le prime riforme istituzionali, insorsero vittoriosamente contro gli austriaci le città di Venezia e Milano, sostenute da un vasto movimento patriottico e nazionale. L’aristocrazia e la borghesia liberale incominciavano a preoccuparsi per la piega radicale che il movimento patriottico stava assumendo; perciò spinsero Carlo Alberto di Savoia a mettersi a capo della rivolta, dichiarando guerra agli austriaci. Era la prima guerra che veniva combattuta per l’indipendenza nazionale. Il suo esito fu completamente negativo: Carlo Alberto fu sconfitto militarmente e i moderati che lo avevano sostenuto vennero letteralmente spazzati via dagli austriaci.
Però era una nuova via che si stava aprendo, diversa da quella delle società segrete o della Giovane Italia. Il 1848 in Italia, come nel resto d’Europa, stava aprendo nuove speranze e nuove prospettive.
Con la caduta della Repubblica Veneta si chiuse un biennio rivoluzionario senza precedenti nella storia dell’Europa postnapoleonica.
In tutta Europa i governi rivoluzionari erano stati abbattuti. Possiamo allora dire che tutte le forze rivoluzionarie erano state sconfitte? Nient’affatto. Erano stati sconfitti i democratici e i radicali, erano stati sconfitti quei ceti popolari che avevano partecipato alla rivoluzione. Ma la borghesia, che aveva guidato la rivoluzione, non era stata veramente sconfitta.
A un’Europa aristocratica, basata sul potere della grande proprietà terriera e dell’alta finanza, se ne era sostituita un’altra, il cui potere era nelle mani della nuova classe borghese.
Questa aveva compiuto la sua rivoluzione: era diventata in quasi tutta Europa la classe dirigente.
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Si era dunque di fronte ad un mondo libero? Da un punto di vista economico certamente sì. Libertà in tutto: di comprare, di vendere, di costruire società e banche, di conquistare nuovi mercati. Si era finalmente realizzata l’aspirazione alla libertà che aveva animato la lunga lotta dei ceti borghesi contro l’immobilismo dei gruppi aristocratici terrieri. Negli stati dove erano ancora presenti, vennero aboliti gli ultimi segni dell’oppressione feudale. In Austria come in Russia venne abolita formalmente la servitù della gleba e lo schiavismo scomparve dalla legislazione di tutti gli stati europei.
Il "mondo nuovo" sognato dai liberali era sotto gli occhi di tutti. Un mondo più ricco, nel quale al dominio dei proprietari di terre, tipico della società preindustriale, si era sostituito quello dei proprietari delle industrie e delle banche. Alle grandi famiglie feudali si erano sostituite le nuove dinastie industriali come quella dei Rothschild dapprima in Germania e, in seguito, in Inghilterra; dei fratelli Mallet e Pereire in Francia; dei Krupp, degli Oppenheimer, degli Ottinger in Germania; dei Carnagie e dei Morgan in America.
La borghesia era diventata ormai a tutti gli effetti la classe dirigente.
La classe operaia si era venuta formando in Inghilterra durante la prima rivoluzione industriale. Dopo il 1850 la classe operaia cominciò a diffondersi anche negli altri paesi europei, assieme e contemporaneamente allo sviluppo delle industrie.
Non si trattava però solo dell’incremento del numero dei lavoratori che ne facevano parte. Allo stesso tempo cresceva anche la consapevolezza e la capacità politica dei lavoratori. Dopo il 1850 vari gruppi di operai cominciarono ad organizzarsi politicamente, a formare società di mutuo soccorso e di assistenza: la classe operaia diventava così, da un punto di vista politico, un movimento organizzato.
Il movimento operaio inizialmente non si identificava col movimento socialista. Progressivamente tuttavia molte organizzazioni operaie aderirono alle teorie ed ai progetti politici del partito socialista. Il socialismo d’altra parte non era un movimento politico unito e compatto. Tra i socialisti alcuni gruppi erano favorevoli a riforme graduali fatte dallo stato, altri ad un superamento del capitalismo, altri addirittura all’abolizione dello stato.
Nella seconda metà dell’Ottocento l’Inghilterra era stata definita la "padrona del mondo". Anche se il suo sistema industriale non era più l’unico esistente, l’Inghilterra continuava ad essere la maggiore potenza economica mondiale. Il primato dell’Inghilterra non si basava più solo sulla produzione industriale, ma anche sugli scambi economici e finanziari.
Le ingenti ricchezze, ricavate durante il periodo della rivoluzione industriale, erano state investite nella formazione del suo immenso impero coloniale, un impero su cui si fondava la prosperità economica dell’intera Inghilterra.
Anche dal un punto di vista politico l’Inghilterra poteva godere del vantaggio di essere la nazione più ricca del mondo. Lo stato, infatti, era in grado di realizzare riforme sociali; le lotte fra capitalisti e salariati erano meno accese rispetto agli altri paesi europei.
Il vantaggio dell’Inghilterra consisteva, insomma, nell’essere arrivata per prima all’industrializzazione.
Il congresso di Vienna, nel 1814, era stato un trionfo per l’Austria e la Russia; la Germania non era riuscita a realizzare le sue speranze di unificazione nazionale; al contrario la Francia era riuscita a ridurre al minimo i danni derivanti dalla sconfitta subita da Napoleone I.
All’indomani della conclusione del congresso di Vienna dunque la Germania e la Francia avevano un ruolo di secondo piano rispetto a quello di Austria e Russia.
Nel giro di mezzo secolo la situazione si rovesciò completamente. La Germania riuscì a realizzare l’unificazione nazionale e dimostrò di avere l’esercito più potente di tutto il continente europeo. La Francia sotto il regno di Napoleone III, raggiunse una notevole prosperità e un ruolo prioritario come potenza economica. E’ vero che, nello scontro diretto con la Germania, Napoleone III subì una durissima sconfitta, ma fu un unico episodio isolato.
A questo punto Francia e Germania erano le due maggiori potenze del continente ed erano divise da una profonda rivalità.
Nel 1814 Russia e Austria erano uscite da dominatrici dal congresso di Vienna. Dopo mezzo secolo esse subirono delle dure sconfitte: l’Austria perse i domini italiani e il predominio sulla Germania; la Russia cercò di espandersi nei Balcani, ma dovette subire il veto di Francia e Inghilterra.
A cosa era dovuto il declino dell’Austria e della Russia? Principalmente a un fatto: a differenza dei paesi dell’Europa occidentale, l’Austria e la Russia non avevano avviato grandi processi di industrializzazione e la loro economia era rimasta molto arretrata.
L’arretratezza economica si collegava alla debolezza della borghesia, una borghesia debole non era in grado di imporre il cambiamento dello stato.
Russia e Austria avevano così uno stato assolutista, una società arretrata, un’economia debole. Tutto questo spiega il loro declino anche politico fra le grandi potenze.
Verso la metà dell’Ottocento gli Stati Uniti cominciarono a diventare una potenza industriale. Era un fenomeno che negli stessi anni avveniva anche in alcuni stati europei, come la Francia e la Germania.
Negli Stati Uniti però solo la via dell’industrializzazione fu più agevole che in Europa, perché era facilitata da alcune condizioni naturali e da alcune vicende storiche. Gli Stati Uniti erano un paese molto ricco di risorse naturali, come minerali e fonti energetiche. La terra era inoltre abbondantissima e forniva una produzione agricola superiore ai bisogni del paese. Anche la manodopera era piuttosto abbondante: negli Stati Uniti approdava infatti un’emigrazione composta in prevalenza da persone in età lavorativa.
La guerra di secessione fu lo scontro militare fra la parte industriale e la parte agricola del paese. La vittoria del Nord portò alla liberazione degli schiavi e quindi a una radicale trasformazione dell’economia statunitense. Gli ex schiavi costituivano infatti un’enorme massa di manodopera che si staccò dal mondo agricolo e si rese disponibile a lavorare nell’industria. La lunga conservazione dello schiavismo e la sua improvvisa abolizione favorirono così lo sviluppo delle industrie negli Stati Uniti.
In Italia i sostenitori dell’unificazione nazionale nel 1848-49 avevano subito una durissima sconfitta. Era fallito il tentativo dei moderati, che avevano sostenuto Carlo Alberto; ed erano caduti anche i governi rivoluzionari di Roma, Firenze e Venezia.
Occorse quasi un decennio perché il movimento nazionale riprendesse nuova vitalità. I moderati trovarono un leader, Cavour. Egli seppe vedere la complessità della situazione italiana e quindi la necessità di sostenere l’economia, di favorire la borghesia, ma anche di conquistare l’appoggio delle grandi potenze, creando una situazione internazionale favorevole all’unificazione italiana.
Intanto avvennero nuovi tentativi insurrezionali che, però solo, fallirono tutti.
I democratici e i rivoluzionari allora capirono che un’insurrezione non poteva scoppiare solo sul tema dell’unità nazionale: il popolo dei contadini e dei lavoratori si sarebbe mosso solo con la prospettiva di cambiare le proprie condizioni di vita.
Il problema dell’unificazione nazionale italiana si era posto già all’indomani del congresso di Vienna. Per quasi quarant’anni si erano susseguiti i tentativi di espellere gli austriaci dalla penisola e di unificare i sette stati italiani.
Si era pensato ad una confederazione guidata dal papa, a una confederazione con a capo i Savoia, a un regno unitario dei Savoia, a una repubblica unitaria, a una federazione di repubbliche. Alla fine, in poco più di un anno, tra il 1859 e il 1860, l’unità d’Italia si era realizzata.
All’unificazione avevano contribuito in molti, dentro e fuori Italia. Avevano contribuito Napoleone III portando l’esercito francese in Lombardia, gli inglesi dando il loro assenso, i Savoia e l’esercito piemontese combattendo per espandere il regno di Sardegna, Cavour con il suo lavoro diplomatico e politico, i liberali piemontesi e lombardi sostenendo il difficile progetto di Cavour, le popolazioni dell’Italia centrale chiedendo l’annessione al Piemonte, i democratici e Garibaldi organizzando la spedizione dei Mille, i contadini del meridione combattendo a fianco di Garibaldi per abbattere lo stato borbonico. Ciascuno di loro aveva combattuto avendo in mente un progetto particolare, ciascuno pensava a un’Italia diversa.
Ai plebisciti che dovevano sancire l’annessione dei vecchi stati al nuovo regno unitario avevano partecipato quasi tre milioni e mezzo di elettori. Questo dato indicava come fosse diffusa l’aspirazione ad una più vasta partecipazione politica e come fosse sentita l’esigenza di un profondo rinnovamento, soprattutto sociale. Ma allargare il suffragio e consentire anche ai ceti popolari di esprimere la propria volontà politica era un rischio troppo grosso per quella ristretta oligarchia che aveva saldamente governato il processo di unificazione nazionale e che temeva i cambiamenti sociali e politici.
Il nuovo stato nacque quindi facendo leva su una limitatissima base sociale, che escludeva dai diritti politici la stragrande maggioranza della popolazione italiana e si serviva di uomini politici prevalentemente di origine piemontese. Si affermò così quella continuità istituzionale, e potremmo dire fisica, tra il vecchio regno sabaudo e il nuovo stato, che tanto stava a cuore al re e ai moderati.
Ma, come aveva scritto Carlo Cattaneo, uno dei capi del movimento democratico lombardo, quando il potere è accentrato "la libertà non può nascere o non può vivere" e "la libertà non è più che un nome: tutto si fa come tra padroni e servi".
"Costituire l’Italia, fondere insieme gli elementi diversi di cui si compone, armonizzare il Nord con il Sud, offre tante difficoltà quante una guerra contro l’Austria e la lotta con Roma." Così scriveva Camillo Benso conte di Cavour poco prima della sua morte.
In effetti unificare realmente il Sud al Nord costò di fatto una guerra. Non ci riferiamo all’impresa dei Mille, ma al lungo conflitto (1861-64) che oppose l’esercito regolare italiano a bande di contadini ribelli che erano presenti soprattutto nell’entroterra campano, lucano e pugliese. Questi contadini ribelli si organizzarono in bande non certo per il desiderio di un ritorno al passato ma spinti dall’insensibilità della nuova classe politica alla loro fame e miseria.
Il nuovo stato italiano, dopo gli entusiasmi collettivi della guerra garibaldina e dei plebisciti, era apparso ai contadini poveri del Sud come un organismo estraneo.
L’unificazione politica ebbe un importante risvolto economico: essa fu determinante per la formazione di un mercato nazionale.
Questo processo fu voluto dalla borghesia imprenditoriale del Nord e costituì un fattore di progresso per l’economia italiana.
Esso tuttavia ebbe anche degli effetti molto negativi. L’industria italiana restò concentrata nel Nord, mentre il Sud si sviluppava con molta lentezza. Veniva a formarsi così la questione meridionale, cioè la frattura fra il Nord industrializzato e il Meridione economicamente arretrato.
Per pagare i debiti dello stato, per costruire ferrovie, strade e ospedali vennero aumentate le imposte sui consumi e quindi vennero danneggiati i ceti più poveri.
L’unificazione italiana ebbe i suoi costi e a pagarli furono il Meridione e i ceti popolari.
Negli anni settanta i grandi ideali del Risorgimento si allontanavano nel ricordo, mentre andavano scomparendo i maggiori protagonisti dell’unità nazionale. Mazzini morì nel 1872, Vittorio Emanuele II, a cui successe il figlio Umberto, morì nel 1878, Garibaldi morì a Caprera nel 1882.
A metà degli anni settanta il governo del regno d’Italia passò dalla Destra alla Sinistra. A questo punto i problemi non erano più quelli dell’unità nazionale e della lotta all’Austria: anzi con l’Austria si firmò un’alleanza. Il problema non era neppure quello di formare il mercato nazionale: semmai il mercato nazionale andava aiutato a crescere e svilupparsi, favorendo i consumi dei ceti popolari.
I problemi del Risorgimento erano finiti, cominciavano quelli di un moderno paese industriale.
Nota Il presente teso è raggiungibile in formato html al seguente indirizzo: http://web.quipo.it/flenghi/1815-1870/indice.htm
Fonte: http://www.webalice.it/r.flenghi/1815-1870/download/1815_1870.doc
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Autore del testo: non indicato nel documento di origine
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