Fascismo in Italia riassunto

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Fascismo in Italia riassunto

Lo Stato sociale in Italia dal fascismo al secondo dopoguerra
          
Le legislazioni dell’Ottocento non sono in grado di superare una contraddizione di fondo, poiché al dovere dello Stato di rispondere ai bisogni, in sostituzione delle antiche forme della solidarietà, non corrisponde ancora, se non in casi particolari, un diritto soggettivo del cittadino all’assistenza. Nel corso del secolo si cerca un diverso equilibrio, con i gruppi dirigenti che mantengono il controllo pubblico sulle istituzioni di beneficenza, ma favoriscono al tempo stesso impostazioni basate, da una parte, su una politica sociale fatta di sussidi e ricoveri e, dall’altra, sul mutuo soccorso.
L’Ottocento conosce anche un notevole incremento di opere assistenziali, con istituti di grandi dimensioni e spesso di notevole specializzazione medica e pedagogica, frutto della rinnovata coscienza religiosa e della nascente filantropia laica, unite nel tentativo di contenere gli elevati costi del “progresso” da tante parti celebrato . Diverse ispirazioni animano una vasta gamma di iniziative, in una prospettiva costruita dal basso e che è in grado di intervenire sulla politica. Sul finire del secolo, non a caso, sono introdotte le prime norme legislative di un certo rilievo in campo infortunistico, previdenziale, mutualistico-sanitario, di tutela della maternità e dell’infanzia, coniugando, sia pure fra gravi difficoltà e tensioni, le scelte dei governi e le richieste dei movimenti d’ispirazione socialista e democratico-cristiana. Lo stesso magistero pontificio, a partire da Leone XIII, incoraggia questa prospettiva, pur prendendo le difese del ruolo peculiare dei corpi intermedi e dell’associazionismo.
L’evoluzione legislativa della fine del XIX e dell’inizio del XX secolo costituisce indubbiamente il punto d’arrivo dell’azione pubblica nel settore dell’assistenza e in molti casi gli Stati, dopo l’esempio della Germania bismarckiana, si orientano in questo senso. Al tempo stesso la rete delle opere pie e degli istituti di beneficenza – ereditata dalla tradizione, ma ancora ricca di iniziative e di risorse – è quasi ovunque inserita all’interno di un nuovo sistema pubblico-statale, come avviene in Italia con la riforma voluta da Crispi nel 1890, che trasforma le opere pie in “Istituzioni pubbliche di beneficenza”, ponendole sotto il controllo dello Stato, e definisce meglio il ruolo delle Congregazioni di carità di nomina comunale.
L’incipiente formazione di una società di massa impone comunque il passaggio a una fase ulteriore, caratterizzata dall’estensione dell’assistenza sociale sulla base di un diritto dei singoli e dalla specifica tutela – infortunistica, sanitaria, previdenziale – dei lavoratori e in prospettiva delle loro famiglie. Oltre le polemiche sui caratteri e i limiti dell’intervento dello Stato, è questa l’evoluzione del caso italiano: da una parte la legge Crispi segna il passaggio all’assistenza di diritto e dall’altra, con la fine del XIX secolo e soprattutto con l’età giolittiana, si può parlare di una “legislazione sociale” e di importanti traguardi in materia, dall’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni del 1898 a quella di maternità del 1910, con l’assicurazione volontaria di vecchiaia e di malattia per diverse categorie di lavoratori. Si evidenzia, in questi anni, una dialettica destinata a durare a lungo all’interno del sistema sociale italiano, fra un interventismo statale per così dire necessario – reso tale dalle stesse condizioni di un paese nel quale il decollo industriale s’inseriva in un tessuto profondamente segnato dall’arretratezza – e una richiesta di Welfare che sempre più giungeva dalla società civile e trovava un riscontro nel movimento socialista e in quello cattolico .
Se in periferia si registrano significative esperienze nell’àmbito di un governo municipale che faceva sentire la sua presenza in numerose iniziative assistenziali e sanitarie, sul piano nazionale si rafforzava anche un intervento di tipo generale. La guerra rende più acuta la necessità di una protezione sociale che costituisca un almeno parziale contraccambio degli enormi sacrifici richiesti alla popolazione, a quelle “masse” che, sul fronte dei combattimenti e sul fronte interno, uscivano da un secolare isolamento per diventare partecipi della vita della collettività. Le conseguenze non tardano a farsi sentire: il 1917 vede l’estensione dell’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni al settore agricolo, mentre nel 1919 viene sancito l’obbligo pensionistico per i lavoratori dipendenti fra i 15 e i 65 anni e, in posizione d’avanguardia rispetto a molti paesi, si rende obbligatoria l’assicurazione per la disoccupazione relativamente ai salariati delle imprese industriali.
Il 1917 è l’anno dell’istituzione della commissione parlamentare per lo studio dell’“assicurazione obbligatoria contro le malattie”, con il compito di elaborare, anche sulla base delle proposte formulate da tutte le forze politiche, una complessiva riforma dell’assistenza e della previdenza. Il progetto elaborato dalla commissione si colloca davvero alle soglie della sicurezza sociale, tentando, come recita lo schema del disegno di legge nell’ipotesi “massima” raccomandata dai commissari, di trasformare “l’organizzazione sanitaria e la beneficenza pubblica in più moderni sistemi di prevenzione e di cura”. Si suggeriva infatti di creare un’assicurazione “globale” contro la vecchiaia, l’invalidità e l’infortunio, la malattia, la disoccupazione, nonché per la maternità e l’“allevamento dei bambini”, in favore di tutti i lavoratori, dipendenti e no, e dei loro familiari, attraverso un diverso assetto imperniato – sul piano nazionale, provinciale e locale – su istituti pubblici di carattere al tempo stesso assistenziale e previdenziale, comprendenti anche le strutture sanitarie.
Se non si arriva a questa definizione d’insieme, nel primo dopoguerra si apre comunque una diversa prospettiva, all’interno della quale la politica sociale diviene un elemento fondamentale dell’azione pubblica, degli enti locali e dello Stato, così come dei sindacati e dei partiti. Una concezione residuale di assistenza è in realtà superata da una scelta di natura istituzionale e in un certo senso universalistica, che non può non avere quali destinatari, oltre ai soggetti più deboli e ai poveri di sempre, anche i lavoratori – con le loro famiglie – ormai inseriti a pieno titolo, dopo i risultati elettorali del 1919, nella vita nazionale.
Il fallimento di un progetto di così ampio respiro – sostenuto fra l’altro da un vasto consenso che va da molti settori del mondo liberale e democratico ai popolari e ai socialisti riformisti – è piuttosto da ricercare nella crisi della mediazione politica che si evidenzia negli anni cruciali del primo dopoguerra. A mancare è soprattutto una sintesi come quella tentata dal senatore Mario Abbiate, ministro del Lavoro con Francesco Saverio Nitti . Pesano, come d’altra parte nel caso emblematico della caduta di Nitti, le incertezze dei sostenitori di questi nuovi orientamenti e quelle del socialismo massimalista, con il mito della rivoluzione che frena le riforme possibili e apre la strada alla reazione. Nel campo della politica sociale, dai massimalisti sono avanzate richieste tanto radicali quanto improponibili, mentre sul fronte conservatore si coglie l’occasione per ridiscutere traguardi già acquisiti. Insieme al fallimento della democrazia, vi è anche quello del “compromesso categoriale” che, estendendo l’area della protezione sociale, avrebbe consentito una “strategia di compromesso fra classi lavoratrici e ceti medi” e dunque uno sviluppo del sistema più esteso ed equilibrato .
Le conseguenze non tardano a farsi sentire, soprattutto nel primo periodo liberista del governo Mussolini, quando si blocca il varo dell’assicurazione generale di malattia e si adottano misure restrittive nei confronti dei lavoratori agricoli. Certo non si può – ma la contraddizione è solo apparente – ridurre il ruolo dello Stato, che con il decreto del 30 dicembre 1923 assume l’assistenza fra i suoi compiti primari, mutando non a caso la denominazione di “Istituzioni pubbliche di beneficenza” della legge del 1890 in quella di “Istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza” (Ipab), in un quadro di accentuato controllo burocratico, dopo che, da una parte, erano già state soppresse le Commissioni provinciali e il Consiglio superiore dell’assistenza e della beneficenza pubblica voluti da Giolitti nel 1904 e, dall’altra, era stato attribuito al governo il potere di sciogliere le amministrazioni delle singole istituzioni. Una successiva legge del 1928 conferma gli aumentati poteri dello Stato sulle opere pie e rende le Congregazioni di carità di nomina esclusivamente statale, in un quadro che vede la fine delle amministrazioni elettive a livello locale.
Anche alla luce di tale impostazione si può comprendere lo sviluppo successivo, quando il regime avrebbe fatto sua una scelta di chiaro segno interventista, a partire dalla Carta del lavorodel 1927 e soprattutto dopo la grande crisi del 1929 . Dopo il 1927 la spesa statale destinata ai fini sociali va sensibilmente aumentando, in linea con l’evoluzione europea dopo la prima guerra mondiale. Si passa infatti dal 3,9 per cento nel 1922 al 5,5 per cento nel 1927 e al 14,4 per cento nel 1941, mentre il grado di copertura dell’assicurazione relativa alla disoccupazione passa “dal 12 per cento al 19 per cento della forza lavoro tra il 1920 e il 1925, per salire al 37 per cento nel 1940 (una cifra inferiore solo a quella della Germania, della Gran Bretagna e della Norvegia); nel caso della copertura contro le malattie”, l’estensione appare ancora più marcata, in rapporto a una situazione ancora più difficile, “portandosi da circa il 6 per cento del 1920-1925 al 47 per cento del 1940 (una cifra non altissima in media europea, ma pari a quella della Francia e della Svezia)” .
Se dal mondo del lavoro si passa a quello della povertà e quindi dell’assistenza il quadro è però destinato a cambiare, riproponendosi modalità d’intervento in genere tradizionali e paternaliste. Di fronte alla gravità della crisi economica e soprattutto dell’occupazione, il Partito nazionale fascista, al quale sono ormai preclusi molti e fra i più significativi campi di azione politica, dimostra un’accentuata tendenza a legittimarsi come strumento di politica sociale o, per meglio dire e nonostante le intenzioni, assistenziale e benefica, rispondendo a quei bisogni che la pur crescente copertura previdenziale e mutualistica non era in grado di affrontare e che comunque avevano una forte incidenza in termini d’immagine nell’opinione pubblica.  
La situazione degli anni trenta, particolarmente della prima metà del decennio, è di grave disagio per molti strati sociali, a giudicare dal tipo d’interventi effettuati, quasi tutti in natura o consistenti in buoni per il vitto e per l’alloggio, interventi che da occasionali diventano permanenti, andando oltre l’emergenza “invernale” e diventando il terreno privilegiato dell’opera del Partito e delle sue organizzazioni. In tal modo da un’azione limitata svolta dai “gruppi rionali” fin dagli anni venti – consistente soprattutto nell’assistenza a bambini poveri, con la distribuzione di pacchi-dono natalizi e l’invio a colonie estive – si giunge a organizzare una vasta rete di soccorsi, gestiti, a partire dal 1931, dall’Ente opere assistenziali (Eoa), struttura del Partito che finisce per appoggiarsi, sul piano operativo, alle amministrazioni locali e alle stesse Congregazioni di carità.
Le scelte successive avrebbero rafforzato ancora questo elemento, superando il sistema basato sull’Eoa per gli inevitabili conflitti cui dava luogo con le Congregazioni di carità e con i Comuni: l’Ente comunale di assistenza (Eca), istituito nel 1937 in sostituzione della Congregazione di carità, assorbe anche i compiti che erano stati dell’Eoa, ma nel  Comitato di amministrazione, presieduto dal podestà, siedono un rappresentante del Partito, uno del Fascio femminile e otto delle associazioni sindacali nominati dal prefetto. Si afferma più chiaramente il ruolo assistenziale dello Stato, grazie anche alla possibilità del concorso al bilancio dell’Eca da parte del Ministero dell’Interno sulla base di un’“addizionale” introdotta l’anno precedente, ma il nuovo organismo nasce in una prospettiva di centralismo burocratico e politicizzazione locale, mentre di comunale non resta che l’àmbito. Gli Eca mantengono un carattere innegabilmente residuale, mentre le grandi scelte sui temi dell’assistenza in caso di malattia, della previdenza, della politica familiare si caratterizzano in modo frammentario e ugualmente svincolato da un disegno di sicurezza sociale qual era stato abbozzato nel dopoguerra. Se il regime si qualifica tanto per uno statalismo marcato quanto per una dispersione degli interventi, si approfondisce la separazione fra il poveroe il lavoratore che, all’interno dello stesso sistema, restano inseriti in due diversi circuiti assistenziali.
La vicenda che si riferisce all’assicurazione obbligatoria di malattia è non a caso emblematica. La XXVI dichiarazione della “Carta del lavoro” afferma che “la previdenza è un’alta manifestazione del principio di collaborazione”, mentre “lo Stato, mediante gli organi corporativi e le associazioni professionali, procurerà di coordinare e unificare quanto più possibile il sistema e gli istituti di previdenza”, prospettando in tal modo le assicurazioni contro le malattie professionali e la tubercolosi come un “avviamento” alla futura assicurazione generale: viene anche stabilito d’inserire nei contratti di lavoro “la costituzione di casse mutue per malattia con contributo dei datori di lavoro e dei prestatori d’opera, da amministrarsi da rappresentanti degli uni e degli altri, sotto la vigilanza degli organi corporativi” . In realtà, il provvedimento complessivo non viene emanato, mentre negli anni seguenti si assiste alla nascita di un numero assai elevato di casse mutue – aziendali, interaziendali, locali, di categoria – che diventano causa d’interminabili controversie. A tutto ciò si pone solo in parte riparo con la creazione successiva dell’Istituto nazionale per l’assicurazione contro le malattie.
In maniera analoga, nel quadro dell’accentuato interventismo seguito alla crisi del 1929, lo Stato istituisce l’Istituto nazionale fascista per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e si assume il coordinamento amministrativo della gestione delle diverse forme assicurative e pensionistiche (per l’invalidità e la vecchiaia, la disoccupazione, la tubercolosi, la maternità) con l’Istituto nazionale fascista della previdenza sociale . A sua volta segnata da un connotato accentratore e settoriale è la politica familiare, con le apposite strutture per l’assistenza materna e infantile coordinate da un ente specializzato, l’Opera nazionale maternità e infanzia (Onmi), nell’azione della quale s’inseriscono non pochi elementi e contenuti propagandistici e ideologici; a essa occorre aggiungere la scelta degli “assegni familiari”, che peraltro interessa una dinamica salariale da tempo bloccata .
La vicenda dell’Onmi riassume in sé tutti gli aspetti della politica sociale del regime, con una dilatazione degl’interventi che risente vistosamente delle ambiguità di fondo. Un progetto assai ambizioso – con il coordinamento di tutte le iniziative esistenti, soprattutto di competenza provinciale – trova un riscontro più modesto nell’attività dei Comitati di patronato, che si occupano, spesso in modo paternalistico e frammentario, dei singoli assistiti e dei provvedimenti a loro indirizzati. Queste sono le indicazioni: “Il patrono deve curare l’assistito con le norme del buon padre di famiglia e perciò deve seguirlo diligentemente ed attentamente anche dopo il provvedimento preso. Le funzioni del patrono possono quindi riassumersi in assistenziali, di vigilanza, di propaganda igienica ed educativa per lo sviluppo fisico e morale delle generazioni che debbono costituire la forza della Nazione” .         
Più tangibili appaiono i risultati conseguiti da quelle realizzazioni di tipo nuovo che uniscono l’assistenza sanitaria a compiti educativi e di prevenzione, pur limitate per via della carenza di risorse. Si tratta dei Centri di assistenza materna e infantile variamente operanti sul territorio, che offrono il servizio di un ambulatorio ostetrico e di un consultorio pediatrico, con un nido d’infanzia e una mensa per madri bisognose, cui si aggiungono visite domiciliari e consulenze mediche. La propaganda coltiva con molta enfasi l’immagine della “Casa della madre e del fanciullo”, lasciando in secondo piano gli argomenti legati a temi demografici; s’insiste piuttosto sull’opera delle assistenti sanitarie, sulla distribuzione di latte artificiale, farine, medicinali, sui nidi e le mense, sul “segretariato sociale” chiamato anche a occuparsi del rispetto, da parte delle aziende, delle norme in favore delle “madri operaie”, attività che coinvolgono un gran numero di madri e di bambini. La collaborazione del clero viene calorosamente sollecitata e non manca l’approvazione da parte dell’autorità ecclesiastica, che pur insiste con forza sul carattere necessariamente morale e religioso dell’assistenza all’infanzia e alla famiglia. L’Onmi e l’Eca, cui si aggiungono gli interventi istituzionali dei Comuni e delle Province, costituiscono il momento centrale di un’assistenza chiamata a interpretare un indirizzo politico ma con esiti assai diversi.
I problemi si rivelano anche maggiori in campo sanitario. Con gli ospedali interagiscono infatti soggetti diversi – mutue, amministrazioni comunali, strutture sanitarie dipendenti dagli enti locali o dagli istituti assicurativi – portati spesso a inevitabili contrasti. E gli ospedali, in particolare, finiscono per trovarsi in una situazione di crisi permanente, costretti ancora entro la tradizionale normativa sulle opere pie – con una diversificazione che si sarebbe delineata solo con le “Norme” del 1938 – che li obbliga a dipendere per i rimborsi ora dai Comuni ora dagli enti mutualistici, rimborsi ai quali si aggiunge solo la risorsa dei malati ammessi a pagamento.
Lo sforzo compiuto dal regime nel corso degli anni trenta – in analogia a quanto avviene nei principali paesi occidentali – incontra molteplici difficoltà, accresciute dalla mancanza di un libero confronto politico e da tutti i limiti che una modernizzazione corporativa porta con sé. Pur nell’aumento della spesa sociale, non è dunque possibile superare il contrasto fra un’assistenza di tipo fortemente residuale e un complesso mutualistico e assicurativo imperniato invece sul mondo della produzione.       
Molto vasto rimane il campo dei bisogni scoperti, di fronte ai quali, fra età liberale e ventennio fascista, la “carità” di sempre non solo continua ma aumenta in misura notevole i propri interventi e il proprio peso. Già negli anni delle polemiche contro la riforma crispina, e quasi ignorando i tratti più ideologici di essa, le opere del cattolicesimo sociale s’inseriscono in quella rete di attività caritative che continua a segnare in profondità il tessuto del paese, mentre la presenza delle congregazioni religiose si era stabilmente affermata all’interno degli ospedali, degli ospizi, degli istituti per l’infanzia. Né si può dimenticare la nascita di numerose istituzioni di matrice laica e democratica, spesso legate al socialismo nascente o al primo femminismo, che svolgono un’azione di grande rilievo e non di rado anticipatrice di nuove modalità d’intervento, in una concorrenza con le realtà cattoliche che ha in genere il risultato di aumentare l’offerta dei servizi. Tra la fine dell’Ottocento e il primo dopoguerra si consolidano del resto le maggiori istituzioni assistenziali, soprattutto di ricovero, di natura religiosa o privata, che diventano un elemento peculiare dell’assistenza in Italia. I settori più interessati sono quelli colpiti in modo più pesante dalla modernizzazione economica e dalla stessa crisi del 1929, relativamente agli anziani, ai malati cronici, ai disabili, ai minori in difficoltà.
La contraddizione della politica sociale del fascismo è legata alla difficoltà di pensare un’azione sociale che non coincida con un assorbimento nella vita dello Stato, una partecipazione delle masse che non sia irreggimentazione, un coinvolgimento della società civile al di fuori degli schemi del regime. Emblematico appare, in questo senso, il ruolo dell’Opera nazionale dopolavoro, per il riscontro quantitativo assai rilevante e per l’indubbio successo in termini non solo propagandistici ma anche di effettivo consenso, nel quadro di nuovi metodi e orari di lavoro in grado di assicurare maggiore tempo libero. Ma tutto questo viene ottenuto rinunciando a un’eccessiva politicizzazione, limitata per lo più a celebrazioni e ricorrenze, e non ostacolando le diffuse forme di Welfare aziendale, in una sorta di normalità associativa in altri contesti negata. Un sistema di sicurezza sociale, fascista o meno, resta lontano e comunque affidato alla diffusione della previdenza e della copertura mutualistica, al di là della giustizia sociale corporativa teorizzata da Bottai .
Si tratta anche dei temi affrontati da papa Pio XI nell’enciclica Quadragesimo anno del 1931 e da un ampio dibattito che si svolge all’interno del mondo cattolico, con un particolare contributo di Fanfani, in cui la critica all’individualismo economico e al capitalismo porta a un apprezzamento della politica corporativa del regime, per poi approdare a indirizzi diversi e alla scelta della sicurezza sociale . È la prospettiva del Welfare State, maturata all’interno del “socialismo cristiano” inglese fra anni trenta e quaranta, poi oggetto della proposta politica e sociale contenuta nel rapporto Beveridge del 1942 e al tempo stesso elemento di distinzione delle democrazie dai totalitarismi. Un obiettivo, questo, sottolineato proprio per evidenziare durante la guerra “il contrasto con gli Stati autoritari di Hitler e di Stalin” . Il tema della sicurezza sociale, che riprende le proposte del presidente Roosevelt e il Social Security Act approvato dal Congresso degli Stati Uniti nel 1935, è del resto presente nella Carta Atlantica del 1941 e nelle Raccomandazioni di Filadelfia adottate nella XXVI Sessionedella Conferenza internazionale dell’Organizzazione internazionale del lavoro nel 1944 .
Nella linea del piano Beveridge si muovono le prime formulazioni dei Comitati di liberazione nazionale e dei partiti d’ispirazione socialista e democratico-cristiana, anticipatrici, in più di un caso, delle linee fondamentali di quella che sarebbe stata, dopo un trentennio, la riforma sanitaria . Per i cattolici la sicurezza sociale è presente già nelle formulazioni in materia del Codice di Camaldoli del 1943 e nelle prime elaborazioni programmatiche della Democrazia Cristiana, dopo che con le Idee ricostruttive della Democrazia cristiana di De Gasperi la giustizia sociale viene legata alla democrazia politica .
Per quanto riguarda però le politiche sociali, forse la vastità degli obiettivi in rapporto alla situazione è tra le cause di una mancata riforma del sistema in una prospettiva universalistica, secondo i princìpi della sicurezza sociale – che la Commissione per la riforma della previdenza sociale istituita nel 1947 presso il Ministero del Lavoro e presieduta dal senatore D’Aragona mette appunto al centro della riflessione – in vista finalmente di un superamento dell’impostazione mutualistica e del riconoscimento di un positivo diritto all’assistenza non in astratto, ma nella garanzia di un’effettiva libertà dal bisogno. Una prospettiva di questo genere urta subito contro quelle che vengono definite le “possibilità redistributrici dell’economia nazionale”, secondo le stesse conclusioni della Commissione, evidenziando una contraddizione fra un largo consenso, sul piano teorico, al modello universalistico e una tendenza alla conservazione dell’esistente, sia pure con taluni adattamenti .
La Costituzione repubblicana non prefigura – né avrebbe potuto farlo, pur nell’ormai chiara affermazione di un diritto del cittadino all’assistenza – un modello univoco di organizzazione dei servizi sociali che risponda a questa mutata concezione. L’articolo 38 della Costituzione italiana, frutto di una lunga discussione e di una non facile mediazione fra le diverse posizioni dei partiti, appare comunque inequivocabile sul piano delle affermazioni di principio e del riconoscimento dei diritti sociali intesi quali diritti della persona . La battaglia per la sicurezza sociale continua in realtà sul piano politico, con il sostegno della cultura d’ispirazione socialista e di quella d’ispirazione cattolica, trovando un riscontro nello stesso impegno, unanime e generoso, di ricostruzione del paese. Se è vero che la divisione sempre più netta fra due blocchi politici rappresenta un ulteriore ostacolo ai cambiamenti e un motivo per conservare i vecchi apparati, escludendo dal confronto il mondo comunista, non di meno in questo ambito continua ad avere il suo peso un’elaborazione ideale e progettuale, decisiva ai fini della costruzione di una cittadinanza repubblicana di cui gli stessi comunisti sono partecipi e protagonisti . Il riformismo socialdemocratico – da cui non è lontano quello socialcomunista, soprattutto nell’affronto delle questioni specifiche – e  il cattolicesimo democratico trovano qui, dal canto loro, l’occasione per una proposta di segno innovatore sempre più ostacolata dall’asprezza dello scontro fra i partiti.
Emblematico è il caso di quel laboratorio politico-sociale che si costituisce intorno alla figura di Ezio Vigorelli – esponente di primo piano della socialdemocrazia, ma in costante rapporto con il partito di Nenni, presidente dell’Eca milanese negli anni della ricostruzione, deputato e presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla miseria costituita nel 1951, poi ministro del Lavoro e della Previdenza sociale – e anche all’“Associazione nazionale fra gli enti di assistenza”, con i suoi importanti convegni di studio e la rivista “Solidarietà umana” . Da questa realtà parte una proposta anticipatrice dello stesso Welfare State, in rapporto ai limiti della situazione italiana ma senza rinunciare, come sottolinea Giuseppe Saragat, a un’offensiva contro la miseria degna della nuova Italia .
Se l’obiettiva considerazione che “da noi” – come si era visto durante i lavori della Commissione D’Aragona – il piano Beveridge “non è proponibile, almeno per ora, a causa delle profonde differenze spirituali tra il nostro Paese e la Gran Bretagna, dell’insufficienza dei nostri mezzi finanziari, della mancanza in Italia di una adeguata attrezzatura e funzionalità tecnica degli Istituti assicurativi”, è impossibile attenuare il riconoscimento che “non tutti i diritti hanno origini contrattuali e non tutti si concretano in obbligazioni reciproche di contraenti. Nella convivenza umana, prima assai che nella legge, esistono diritti naturali, che si acquisiscono con la nascita e sono propri di ogni uomo: e – primo fra tutti – il diritto alla vita, bene supremo che la società deve difendere in tutti i suoi membri”. Diritti di cittadinanza, diritti di natura che il piano è chiamato a interpretare e realizzare. Procedere per gradi è necessario per non compromettere in partenza la realizzazione del Welfare State; di qui l’autonomia da riservare alla strutture sanitarie, pur nell’unità sostanziale di un sistema destinato a risolvere l’assistenza nella previdenza e sicurezza sociale .
Un nuovo Ministero della Sicurezza sociale – che riprende comunque una precedente proposta avanzata da socialisti e comunisti – avrebbe dovuto sostituire, modificandone profondamente la fisionomia, il Ministero dell’Assistenza postbellica, assorbendo le competenze in proposito degli altri dicasteri e avvalendosi di organismi di coordinamento regionali e provinciali, nonché, a livello comunale, degli stessi Eca, nei quali era possibile vedere, superando i limiti della legge istitutiva del 1937, il “primo nucleo” della futura organizzazione . Ma queste “elementari riforme”, come egli le definisce, hanno anche un altro scopo, quello di “impegnare lo Stato e il Parlamento in una lotta per la liberazione di tutti gli uomini da ogni arbitrio e da ogni soggezione”, nella consapevolezza che “la liberazione dal bisogno è la premessa e la condizione per il consolidamento di tutte le libertà” .
Certo la posizione di Vigorelli non va intesa come l’espressione di un consenso generalizzato al piano Beveridge, sul quale vengono avanzate non poche riserve, fin dalle osservazioni formulate da Ernesto Rossi già nel 1946 con il suo Abolire la miseria, osservazioni che vogliono mettere in luce non pochi aspetti problematici di un’operazione di così vasta portata, anche in tema di rapporti fra libertà personale e controllo sociale . Anche in una prospettiva assai più incline a comprendere le ragioni del pianocome quella di Luigi Einaudi, si mette in luce il carattere quanto meno problematico delle determinazione del minimo, elemento essenziale della proposta britannica . Del resto, come subito si poteva rilevare, riserve in nome della libertà economica vengono proposte dai liberali e in nome dell’autoorganizzazione sociale dai repubblicani, mentre all’interno della sinistra socialista e comunista ne emergono altre, proprio nei confronti di quella che pur sempre poteva essere considerata una razionalizzazione del sistema capitalistico . 
Di fronte a un’urgenza irrinunciabile dal punto di vista etico prima ancora che da quello politico non sono tuttavia, almeno per Vigorelli, possibili distinzioni. La Commissione parlamentare d’inchiesta sulla miseria da lui presieduta nei primi anni cinquanta – con la vicepresidenza di Lodovico Montini, che aveva svolto l’importante opera di coordinamento degli aiuti alleati del dopoguerra – afferma esplicitamente l’obiettivo “della eliminazione della miseria”, se non della povertà intesa come una “limitazione del reddito personale a livelli insufficienti, in relazione al tenore di vita medio prevalente”. Ma soprattutto essa vuole “contribuire al trapasso, già del resto in atto, dalla concezione paternalistica della «beneficenza» pubblica e dell’assistenza alla nuova concezione organica, fondata sui capisaldi che impongono ora, anche al nostro Paese – come a tutti i Paesi civili della terra – l’adozione di un sistema di sicurezza sociale” .
L’idea della sicurezza sociale era stata fatta propria dal mondo cattolico fra gli anni quaranta e i primi anni cinquanta, quasi trovando in essa la sintesi, nonostante una varietà di accenti che si sarebbe poi fatta sentire, fra giustizia e carità evangelica. “Poveri ne avete sempre con voi” : il non dimenticato incipit dei Colloqui sui poveri di Fanfani indica la strada di un  rinnovato impegno dei credenti sulle “vie cristiane” della sicurezza sociale, all’interno di una proposta di ampio respiro, alla quale si uniscono le riflessioni di Giorgio La Pira del 1950 contenute ne L’attesa della povera gente , con un diretto richiamo alle posizioni di Beveridge . Si tratta di una prospettiva non solo largamente condivisa, ma anche autorevolmente sostenuta in occasione della XXIII Settimana sociale dei cattolici italiani del 1949, in cui viene messa a tema la carità in relazione alla sicurezza sociale proprio come una risposta a una diffusa esigenza di giustizia . Un elemento che costituisce il filo conduttore per i relatori bolognesi, impegnati ad approfondire, come avrebbe sottolineato monsignor Pavan nelle Conclusioni, gli “aspetti umani più profondi” della sicurezza sociale . La riflessione dei cattolici italiani coglie subito le indicazioni della Settimana sociale: anche se non mancano valutazioni più critiche, l’attuazione  della sicurezza sociale resta un punto di riferimento.
Diversa è la situazione concreta degli anni cinquanta: prevale per ora, forse inevitabilmente, l’idea di un sistema previdenziale e sanitario su base occupazionale. Sia nel campo della mutualità sanitaria sia in quello pensionistico, vi è comunque un aumento a macchia d’olio delle coperture assicurative e delle categorie protette, raggiungendo la quasi totalità della popolazione attiva e gran parte delle famiglie, anche se con quelle inevitabili sperequazioni dei trattamenti destinate a pesare negativamente più tardi . In altri settori, peraltro, gli interventi appaiono non solo consistenti ma anche di grande efficacia, come nel caso della politica della casa . Di grande importanza resta l’attività svolta dagli Eca soprattutto nei centri urbani (come non ricordare la presidenza dell’Eca milanese da parte di Vigorelli o di quello fiorentino da parte di La Pira?), a cui si aggiunge l’opera delle stesse amministrazioni comunali, che colmano in effetti non poche lacune, con un impegno degli amministratori che s’inserisce nel quadro di forte mobilitazione di tutte le risorse civiche che accompagna la ricostruzione italiana .
Al tempo stesso continua a svilupparsi la rete delle istituzioni autonome che anzi si accresce ulteriormente, soprattutto in risposta alle emergenze postbelliche, com’era emerso dai lavori della Commissione parlamentare d’inchiesta. Questo pone, com’è ovvio, non pochi problemi in vista di una trasformazione dal carattere pubblicistico e almeno in parte centralizzato, con una forte esigenza di coordinamento, ma viene incontro a bisogni altrimenti destinati a rimanere scoperti, trovando anche in questo caso una forte rispondenza nell’operato degli amministratori e di tutti coloro che offrono un contributo volontario di coinvolgimento personale o di aiuto economico.
Si tratta delle numerose attività svolte dalla Pontificia Opera di Assistenza e delle iniziative sorte in varie diocesi, che spesso diventano, non senza polemiche, un interlocutore delle amministrazioni comunali nel campo dei servizi alla persona, come del resto accade per numerose opere d’ispirazione cattolica da sempre operanti sul piano locale, intorno alle parrocchie, alle comunità religiose, ai tradizionali gruppi caritativi, che già si erano consolidate negli anni trenta e che anche in questo caso si legano a un forte senso di solidarietà collettiva che la ripresa postbellica non può che rafforzare. Ma vi è anche una molteplicità di nuove iniziative nei più diversi settori, a livello locale e nazionale, soprattutto in risposta alle inedite esigenze che il conflitto mondiale aveva suscitato, coinvolgendo in modo drammatico la popolazione civile, con conseguenze destinate a durare nel tempo. Per fare un esempio particolarmente significativo, nell’Italia della ricostruzione una realtà come la Pro Juventutedi don Carlo Gnocchi ottiene un’autentica leadership nell’assistenza prima ai mutilatini di guerra e in seguito ai piccoli poliomielitici .
L’adozione di un sistema universalistico viene comunque rinviata, mentre le istituzioni tradizionali conoscono un inevitabile momento di difficoltà quando è ormai incipiente la stagione delle riforme del sistema di protezione sociale, per portare a compimento quel modello di Welfare State che era stato appunto visto come il necessario punto d’arrivo dell’evoluzione dell’assistenza e della sanità. Un passo in avanti in questa direzione, assai più che una soluzione di compromesso, è il Piano presentato da Vigorelli nel 1957 , che l’anno successivo, nella discussione sul bilancio del Ministero del Lavoro, avrebbe ricordato la necessità di questa “grande rivoluzione pacifica dei nostri tempi” . È la crisi politica del 1959, con il ritorno alla Presidenza del Consiglio di Antonio Segni, a segnare un arretramento rispetto al precedente governo Fanfani, almeno fino alla nuova stagione del centro-sinistra.
In questa prospettiva, di una via socialdemocratica al Welfare State lucidamente tracciata ma destinata a realizzarsi in un quadro differente, si chiude un decennio, quello degli anni cinquanta, con la novità di una democrazia del benessere, imprevedibile nei suoi esiti anche in campo sociale . Non a caso è proprio il differimento di un modello di Welfare universalistico che conduce ad alcune riflessioni destinate a segnare in profondità i decenni successivi, mutando sensibilmente, per esempio, la considerazione delle istituzioni tradizionali, sempre più viste come strumento di controllo sociale se non di repressione della marginalità e della devianza. Nel medesimo periodo il giudizio sugli sviluppi del sistema di protezione sociale in Italia si traduce in una critica sempre più decisa al modello assistenziale nel suo insieme: il “lungo tempo democristiano” diviene, in tale visione, il punto d’arrivo di una tendenza arroccata a difesa d’interessi privati e di categoria, ostacolo al pieno dispiegamento di un’iniziativa pubblico-statale in grado di creare condizioni di effettiva eguaglianza . Ed è quanto ci si attende dalle riforme della sanità e dell’assistenza, programmaticamente destinate a incidere in profondità sulla rete delle istituzioni esistenti sul territorio.
La sensibilità complessiva sta ormai mutando proprio quando si giunge a una prima, ancorché parziale, realizzazione dello Stato sociale sul presupposto dell’universalismo. Si propone già, infatti, il dibattito sulla “crisi” del modello di Welfare, crisi non soltanto di natura finanziaria se non fiscale ma altresì legata, da un lato, all’emergere di valori e povertà immateriali e, dall’altro, di risposte segnate dall’azione volontaria, nel quadro di una rinnovata sensibilità civile ed ecclesiale . L’evoluzione legislativa e istituzionale degli anni sessanta e settanta appare caratterizzata in un certo senso dall’accentuarsi delle precedenti posizioni, senza quasi avvertire una crisi incipiente che avrebbe implicato un ripensamento complessivo dei rapporti fra Stato e società .
Una profonda trasformazione del sistema è comunque all’ordine del giorno con i primi governi dell’apertura a sinistra presieduti non a caso, dopo la crisi politica del biennio 1959-1960, dallo stesso Fanfani. La Democrazia Cristiana, con il convegno di San Pellegrino del 1961, fa ormai propria una prospettiva riformatrice legata all’intervento pubblico . L’attuazione pratica dei princìpi della sicurezza sociale è al centro dei programmi di governo, in maniera ancora più netta dopo la Nota aggiuntiva di Ugo La Malfa del 1962 e il Rapporto del Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro dell’anno successivo, con i documenti di programmazione di Antonio Giolitti e di Giovanni Pieraccini, ormai con i governi di centro-sinistra organico presieduti da Aldo Moro. Il consenso dei sindacati è l’altro decisivo elemento di un giudizio largamente condiviso e che reclama un vasto cambiamento del settore assistenziale . Si tratta di progetti forse troppo ambiziosi e destinati a scontrarsi subito con la perdurante varietà degli interventi e la molteplicità delle istituzioni mutualistiche e assistenziali , anche perché non sempre in grado di rapportarsi positivamente alla realtà esistente, valorizzando per esempio quei modelli di Welfare civico che pure erano in primo piano in molte amministrazioni di centro-sinistra, a iniziare da quella milanese.
In ogni caso, ed è un altro aspetto da rilevare, non si raggiunge subito il risultato universalistico auspicato soprattutto dai socialisti, anche se non si può sottovalutare il cambiamento di prospettiva che le scelte del centro-sinistra implicano. Verso la fine del decennio si arriva comunque alla legge ospedaliera del 1968, su iniziativa del ministro socialista Mariotti, indispensabile premessa della riforma sanitaria realizzata nel 1978, insieme all’attuazione dell’ordinamento regionale che apre anche la strada alle riforme dell’assistenza del biennio 1977-1978 .
In ambito cattolico si registra in generale una grande vivacità associativa, alla quale fa riscontro un analogo impegno da parte della sinistra, in un contesto di forte mobilitazione studentesca e operaia. Nel campo in particolare degli istituti di cura e di accoglienza operanti sul territorio, l’iniziativa delle amministrazioni locali e degli Eca – come pure di fondazioni di natura privata o religiosa, di patronati legati al sindacato, di gruppi di volontariato che vanno dalle Misericordie a realtà del tutto inedite – non solo resta in primo piano ma acquista un rilievo ancora maggiore. Si tratta forse, come in quegli anni non ci si stancava di ripetere, di un ostacolo sul cammino dell’universalismo, anche per il grande numero degli istituti e la varietà delle loro tipologie, ma non di meno di una risorsa che forse poteva essere meglio utilizzata nel passaggio dal vecchio al nuovo, lungo quella linea, più avanti maturata, che all’universalismo del servizio è in grado di affiancare il pluralismo dei soggetti chiamati a intervenire sul campo.    
In ogni caso a partire dagli anni sessanta si osserva, da un lato, una precisazione delle finalità sociali degli istituti pubblici e privati e, dall’altro, un processo di specializzazione, pedagogica nel caso dei minori e sanitaria in quello degli anziani. Questo porta tuttavia a conseguenze diverse. Da un lato il rinnovamento dell’assistenza ai minori conduce a una profonda trasformazione delle strutture, che si riconvertono in realtà di accoglienza di piccole dimensioni, qualora non se ne decida la chiusura; dall’altro quelle per anziani diventano “istituti geriatrici” con un’accentuata componente sanitaria, mentre si aprono i primi centri residenziali specializzati. Una linea, quest’ultima, adottata anche per l’assistenza ai disabili, soprattutto nei casi di maggiore gravità, mentre per gli altri inizia a proporsi una legislazione che avvia un processo di inserimento .
Si diffonde in generale una tendenza contraria al ricovero e a ogni forma di istituzionalizzazione, ben al di là di questi specifici casi, che se da una parte ha contribuito al rinnovamento di molte pratiche assistenziali, dall’altra non è stata esente da un approccio polemico e spesso di scarsa utilità per la vita degli istituti, considerati da molti un ostacolo alla realizzazione dei diritti di cittadinanza all’interno del nuovo Stato sociale. Anche se presto la sensibilità collettiva torna a valutarne positivamente il ruolo, di fronte ai mutamenti sociali e alle risposte sempre più adeguate dal punto di vista medico e scientifico offerte proprio a partire da quegli anni, si produce un’indubbia separazione fra le strutture esistenti e il disegno complessivo delle riforme, ormai in fase di attuazione.
La sfida più importante riguarda il rapporto con la società locale, in una prospettiva in grado di valorizzare quelle energie che proprio la stagione dei grandi mutamenti politici fra anni sessanta e settanta contribuisce a liberare e che trova nell’attuazione dell’ordinamento regionale il suo punto di riferimento. I cambiamenti in campo sanitario – dalla legge ospedaliera del 1968 alla riforma del 1978, dopo lo scioglimento dei grandi enti mutualistici – rispondono però in modo inadeguato a questa esigenza, decentrando sì la gestione ma a organismi almeno in parte legati, fin dalla loro costituzione, a logiche d’interessi locali e non soltanto a una libera partecipazione dei cittadini. L’universalismo resta comunque un traguardo raggiunto solo parzialmente, se si considera che le leggi pensionistiche del 1968 e quindi del 1969 riflettono una scelta occupazionale, carica di implicazioni per il futuro , e che la riforma dell’assistenza, settore pur sempre regolato dalla legge Crispi del 1890, conosce una quasi immediata battuta d’arresto. Il decreto del 1977, per l’attuazione della legge sull’ordinamento regionale del 1975 con il conseguente trasferimento di competenze dallo Stato alle Regioni e agli enti locali, va incontro a una parziale dichiarazione d’incostituzionalità; ed esso avrebbe comportato una devoluzione ai Comuni non solo degli Eca, come appunto avviene, ma anche di molte Ipab di cui la legge Crispi, sia pure in un quadro pubblicistico, aveva comunque tutelato l’autonomia .
Nel decennio successivo si palesa la crisi del modello di Welfare, legata in primo luogo all’impossibilità di far fronte ad aspettative crescenti ma pure correlata a un eccesso di interferenze politiche, mentre si fa strada una diffusa esigenza di rendere gli interventi terapeutici, assistenziali, riabilitativi più attenti alla dimensione personale. In questa prospettiva non stupisce il grande rilievo che acquista il volontariato, sia con una serie di iniziative autonome – in particolare di fronte alle nuove povertà – sia con un’azione condotta all’interno delle strutture di cura e di ricovero. Per la Chiesa cattolica il tema del rapporto fra evangelizzazione e testimonianza della carità viene messo al centro dell’azione pastorale, con un’importante ruolo di promozione svolto dalla Caritas nazionale e da quelle diocesane .
Alcune Regioni, di vario orientamento politico, avviano una politica che favorisce la collaborazione di diversi soggetti nell’attività assistenziale, con un primo riconoscimento di quello che viene definito terzo settore . La Corte costituzionale, nel 1988, sancisce l’illegittimità parziale del primo articolo della legge Crispi, rendendo possibile per molte istituzioni l’acquisizione di una personalità giuridica di diritto privato pur rimanendo all’interno del sistema pubblico, delineando una nuova cornice istituzionale. Il legislatore statale e regionale, fin dai primi anni novanta, inizia a ridisegnare il sistema sociale, a partire dalle modifiche introdotte nella legislazione sanitaria e a più riprese in quella pensionistica. Per quanto riguarda il settore assistenziale, si registra l’ulteriore apertura a una realtà sociale in mutamento, accompagnata dal tentativo di superarne il carattere ancora per molti versi limitato e non sempre in relazione con esigenze di carattere generale. La legge sul volontariato del 1991, quella del medesimo anno sulla cooperazione sociale, la legge quadro sulla disabilità del 1992, il decreto legislativo sulle Organizzazioni non lucrative di utilità sociale del 1997, la legge sulle associazioni di promozione sociale del 2000 e soprattutto la legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali del novembre 2000, seguita dal decreto legislativo sul riordino delle istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza del maggio 2001, costituiscono altrettante tappe di un percorso culminato negli ultimi due provvedimenti .
Superato l’impianto accentratore della legge Crispi, le istituzioni in questione possono trasformarsi in aziende pubbliche di servizi alla persona oppure in associazioni o fondazioni di diritto privato; ma quello che più conta è il quadro finalmente unitario e al tempo stesso pluralistico degli interventi, mentre si definisce un coordinamento in cui gli enti locali sono messi in grado di svolgere il loro effettivo ruolo. Un’incognita sarebbe venuta dalla riforma del Titolo V della Costituzione del 2001, con il possibile rischio di dar vita a “sistemi regionali di assistenza radicalmente diversificati”. Ma la legge quadro del 2000 riserva allo Stato la definizione del “livello essenziale delle prestazioni sociali”, vincolando le legislazioni regionali a garantire risposte socialmente adeguate e uniformi, nella natura degli interventi, per tutti i cittadini italiani .
Oggi si assiste comunque a un ulteriore e forse più profondo cambiamento del Welfare State, un modello che ha rappresentato una “chiave di legittimazione dello Stato moderno” prima ancora che strumento di redistribuzione del reddito o di azione preventiva nei confronti del socialismo grazie a una progressiva estensione dei diritti di cittadinanza – soprattutto di fronte al prelievo fiscale – e  che continua a rimanere un fattore di equità . Ed è inevitabile ripensare – di fronte a sfide e urgenze diverse – ai suoi fondamenti, non solo sul piano finanziario ma forse più ancora su quello etico-politico, oltre il paradigma assicurativo del modello bismarckiano imperniato sul lavoro e quello egualitario di una sicurezza sociale riferita esclusivamente a una cittadinanza nazionale .
Le vie d’uscita sono differenti. Da una parte si può scegliere una sempre maggiore introduzione di elementi di mercato, diminuendo inevitabilmente le tutele soprattutto nei confronti dei soggetti più deboli e finendo per riproporre un rapporto bipolare fra cittadini e pubblici poteri se non fra clienti e fornitori di prestazioni. Ma è possibile, dall’altra, aprire l’orizzonte nel senso della solidarietà e della sussidiarietà, mettendo la persona al centro di una rete d’interventi senza indebolire quelle che restano indispensabili garanzie, nella prospettiva di una Welfare Community oggi non a caso al centro delle discussioni e delle proposte politiche. La valorizzazione delle forme di socialità che emergono dal basso rappresenta un contributo essenziale per la formazione di una cittadinanza condivisa, anche di fronte ai problemi posti dall’immigrazione e dal rapporto con le diverse culture. Nell’effettivo riconoscimento dei diritti sociali, si tratta di proseguire una lunga esperienza di attenzione alla persona e di costruzione della comunità.

Cfr. F. Della Peruta, Società e classi popolari nell’Italia dell’Ottocento, Milano, Franco Angeli, 2005.

Sull’evoluzione legislativa e istituzionale qui richiamata si vedano A. Cherubini, Storia della previdenza sociale in Italia (1860-1960), Roma, Editori Riuniti, 1977 e A. Cherubini, I. Piva, Dalla libertà all’obbligo. La previdenza sociale fra Giolitti e Mussolini, Milano, Franco Angeli, 1998.

Si veda F. Quaranta, Mario Abbiate e il suo progetto globale di assicurazioni sociali (1917-1919). Un primo tentativo di riordino del sistema previdenziale italiano, in “Rivista degli infortuni e delle malattie professionali”,  XCII, 2005, n. 3, pp. 449-470.

M. Ferrera, Modelli di solidarietà. Politica e riforme sociali nelle democrazie, Bologna, Il Mulino, 1993, pp. 226-228.

Per un quadro generale si vedano, in una vasta bibliografia, D. Preti, La modernizzazione corporativa (1922-1940). Economia, salute pubblica, istituzioni e professioni sanitarie, Milano, Franco Angeli, 1987; F. Girotti, Welfare State. Storia, modelli e critica, Roma, Carocci, 1998; F. Bertini, Il fascismo dalle assicurazioni per i lavoratori allo Stato sociale, in Lo Stato fascista, a cura di M. Palla, Firenze, La Nuova Italia, 2001, pp. 177-313.

M. Ferrera, Il Welfare State in Italia. Sviluppo e crisi in prospettiva comparata, Bologna, Il Mulino, 1984, p. 35.

Cfr. G. Silei, Lo Stato Sociale in Italia. Storia e documenti. Vol. I. Dall’Unità al fascismo (1861-1943), Manduria-Bari-Roma, Piero Lacaita Editore, 2003, pp. 369-374.

Cfr. C. Giorgi, La previdenza del regime. Storia dell’Inps durante il fascismo, Bologna, Il Mulino, 2004.

Su questi aspetti si veda ora Stato e infanzia nell’Italia contemporanea. Origini, sviluppo e fine dell’Onmi 1925-1975, a cura di M. Minesso, Bologna, Il Mulino, 2007, pp. 31-227.

S. Fabbri, Prefazione, in Guida pratica delle istituzioni di protezione ed assistenza della maternità e dell’infanzia in Provincia di Milano, [Milano, 1929], pp. 3-5.

G. Bottai, Giustizia sociale corporativa, in “Critica Fascista”, n. 20, 15 ottobre 1934, pp. 381-383.

Cfr. M. Bocci, Oltre lo Stato liberale. Ipotesi su politica e società nel dibattito cattolico tra fascismo e democrazia, Roma, Bulzoni Editore, 1999.

G. Ritter, Storia dello Stato sociale. Con un capitolo finale di Lorenzo Gaeta e Antonio Viscomi. Prefazione di Paolo Pombeni, Roma-Bari, Laterza, 1999, p. 12.

Cfr. F. Mazzini, Il sistema previdenziale in Italia fra riforma e conservazione: gli anni della Costituente, in Amministrazione pubblica e istituzioni finanziarie tra Assemblea costituente e politica della ricostruzione, a cura di A. Orsi Battaglini, Bologna, Il Mulino, 1980, pp. 447-553.

Cfr. P. Donati, I servizi sociali in Italia: analisi degli obiettivi e orientamenti di politica sociale, in Welfare State: problemi e alternative, a cura di G. Rossi e P. Donati, Milano, Franco Angeli, 19853, pp. 323-363 e, per lo sviluppo del sistema sanitario, G. Cosmacini, Storia della medicina e della sanità nell’Italia contemporanea, Roma-Bari, Laterza, 1994.

Cfr. P. Scoppola, La proposta politica di De Gasperi, Bologna, Il Mulino, 1977,  pp. 66-95 e in particolare pp. 73-74

Cfr. G. Silei, Lo Stato Sociale in Italia. Storia e documenti. Vol. II. Dalla caduta del fascismo ad oggi (1943-2004), Manduria-Bari-Roma, 2004, pp. 113-123.

Cfr. P. Olivelli, La Costituzione e la sicurezza sociale, Milano, Giuffrè, 1988. Si vedano ancheA. Salini, L’ordinamento dell’assistenza nei lavori dell’Assemblea Costituente, in “Bollettino dell’Archivio per la storia del movimento sociale cattolico in Italia”, XXXVIII, 2003, n. 2, pp. 241-266 e F. Tanzilli, Il compromesso ambiguo: l’assistenza nel dibattito costituente, tra intervento pubblico e iniziativa privata, in “Annali di Storia moderna e contemporanea”, XII, 2006, pp. 219-245.

Cfr. A. Ventrone, La cittadinanza repubblicana. Come cattolici e comunisti hanno costruito la democrazia italiana (1943-1948), Bologna, Il Mulino, 20082.

Cfr. M. Granata, Politiche e imprese assistenziali nel dopoguerra: Ezio Vigorelli e l’Ente comunale di assistenza di Milano (1945-1957), in “Bollettino dell’Archivio per la storia del movimento sociale cattolico in Italia”, XXXVIII, 2003, n. 2, pp. 166-216 e M. Paniga, Welfare ambrosiano. Storia, cultura e politiche dell’Eca di Milano (1937-1978), Milano, Franco Angeli, 2012.

G. Saragat, Prefazione, in E. Vigorelli, L’offensiva contro la miseria. Idee e esperienze per un piano di sicurezza sociale, Milano, Mondadori, 1948, pp. 5-6.

E. Vigorelli, L’offensiva contro la miseria…, cit., pp. 17-25.

Ivi, pp. 63-69.

Ivi, p. 109.

Si veda E. Rossi, Abolire la miseria, a cura di P. Sylos Labini, Roma-Bari, Laterza, 1977.

Si veda L. Einaudi, Lezioni di politica sociale, Torino, Einaudi, 1975.

Cfr. E. Cabibbo, I partiti politici e la previdenza sociale in Italia, in “Infortuni e malattie professionali”, XXXI, 1945, pp. 13-48.

Sul tema degli aiuti internazionali si veda in particolare V. Saba, La figura e l’opera di Lodovico Montini: teoria e pratica del cattolicesimo sociale italiano alla prova delle nuove assistenze americane, in L’Amministrazione per gli aiuti internazionali. La ricostruzione dell’Italia tra dinamiche internazionali e attività assistenziali, a cura di A. Ciampani, Milano, Franco Angeli, 2002, pp. 23-45.

Cfr. P. Braghin, Introduzione, in Inchiesta sulla miseria in Italia (1951-1952). Materiali della Commissione parlamentare, a cura di P. Braghin, Torino, Einaudi, 1978, p. 5; sull’Inchiesta cfr. G. Fiocco, L’Italia prima del miracolo economico. L’Inchiesta parlamentare sulla miseria, 1951-1954, Manduria-Bari-Roma, Piero Lacaita Editore, 2005.

A. Fanfani, Colloqui sui poveri, Milano, Vita e Pensiero, 19505, p. 1.

Cfr. G. La Pira, L’attesa della povera gente. Introduzione di V. Citterich, Firenze 1978 (già L’attesa della povera gente, in “Cronache sociali”, 15 aprile 1950, n. 1, pp. 2-6, e Difesa della povera gente, 1° luglio 1950, n. 5-6, pp. 1-9).

Si veda L’attesa della povera gente. Giorgio La Pira e la cultura economica anglosassone, a cura di P. Roggi. Introduzione di Giulio Conticelli, Firenze-Milano, Giunti, 2005.

Per gli atti si veda Settimana sociale dei cattolici italiani-XXIII, La sicurezza sociale, Bologna 24-29 settembre 1949, a cura dell’I.C.A.S., [Roma], Edizioni dell’Ateneo, [1950].

P. Pavan, La sicurezza sociale come mezzo di valorizzazione della persona umana. Conclusioni, in Settimana sociale…, cit., pp. 249-261 e in particolare p. 249.

Si veda in particolare M. Ferrera, V. Fargion, M. Jessoula, Alle radici del welfare all’italiana. Origini e futuro di un modello sociale squilibrato, Venezia, Marsilio, 2012.

Si veda almeno Fanfani e la casa. Gli anni Cinquanta e il modello italiano di Welfare State, il piano INA-Casa, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2002.

Per due esempi di Welfare civico cfr. S. Agnoletto, Capacità di “government” pubblica e politiche di “welfare” a livello locale: l’Amministrazione comunale di Milano negli anni Cinquanta e Sessanta, in “Bollettino dell’Archivio per la storia del movimento sociale cattolico in Italia”, XLI, 2006, n. 2, pp. 181-220 e Id., Un modello di Welfare locale. Storia dei servizi sociali a Firenze: dalla nascita delle regioni alla società della salute. Presentazione di Graziano Cioni. Prefazione di Emanuele Ranci Ortigosa, Milano, Franco Angeli, 2005.

Cfr. E. Bressan, Don Carlo Gnocchi. Una vita al servizio degli ultimi. Prefazione di Mons. Angelo Bazzari, Milano, Mondadori, 2009.

Cfr. A. Cherubini, Storia della previdenza sociale…, cit., pp. 375-380. Sulla posizione di Vigorelli cfr. E. Landoni, Il laboratorio delle riforme. Milano dal centrismo al centro-sinistra, Manduria-Bari-Roma, Piero Lacaita Editore, 2007.

Cit. in A. Cherubini, Storia della previdenza sociale…, cit., pp. 377-379.

Cfr. P. Pombeni, La democrazia del benessere. Riflessioni preliminari sui parametri delle legittimazione politica nell’Europa del secondo dopoguerra, in “Contemporanea”, IV, 2001, 1, pp. 19-45.

Cfr. A. Cherubini, Storia della previdenza sociale in Italia…, cit., pp. 351-417.

Cfr. R. Cipriani, Carità e trasformazioni sociali, in La nazione cattolica. Chiesa e società in Italia dal 1958 a oggi, a cura di M. Impagliazzo, Milano, Guerini e Associati, 2004, pp. 439-456.

Si veda U. De Siervo, Il problema dell’assistenza fra Stato e società, in Stato e Chiesa di fronte al problema dell’assistenza, Roma, CISO-EDIMEZ, 1982, pp. 397-413.

Cfr. A. Ferrari, La cultura riformatrice. Uomini, tecniche, filosofie di fronte allo sviluppo (1945-1968), Roma, Studium, 1995, pp. 315-333.

Cfr. M. Ferrera, Modelli di solidarietà…, cit., pp. 246-272. Sulle posizioni della sinistra d’ispirazione comunista che, sia pure in posizione critica nei confronti della maggioranza di centro-sinistra, fa sua la prospettiva delle sicurezza sociale anche in rapporto all’auspicata riforma sanitaria, cfr. F. Bonini, L’ordinamento e il dibattito sull’assistenza (1945-1968). Le posizioni della sinistra, in “Bollettino dell’Archivio per la storia del movimento sociale cattolico in Italia”, XXXIX, 2004, n. 3, pp. 255-266.

Si veda soprattutto A. Cova, La sicurezza sociale nella programmazione economica, in “Bollettino dell’Archivio per la storia del movimento sociale cattolico in Italia”, XL, 2005, n. 3, pp. 253-280.

Si veda, per un riferimento al dibattito e all’evoluzione legislativa, G. Giumelli, Il servizio sanitario nazionale. Dalla tutela al diritto alla salute, vol. I, Abano Terme, Francisci Editore, 1982; e per una valutazione complessiva G. Cosmacini, Storia della medicina e della sanità nell’Italia contemporanea…, cit., pp. 253-276.

Per gli opportuni richiami si vedano V. A. Sironi, Oltre la disabilità. Storia della riabilitazione in medicina, Bari, Edizioni B. A. Graphis, 2002 e M. Schianchi, Storia della disabilità. Dal castigo degli dèi alla crisi del welfare, Roma, Carocci, 2012.

Su questo cfr. M. Ferrera, Modelli di solidarietà…, cit., pp.  252-272 e G. Gozzini, Povertà e Stato sociale: una proposta interpretativa in chiave di path dependance, in Povertà e innovazioni istituzionali in Italia. Dal Medioevo a oggi, a cura di V. Zamagni, Bologna, Il Mulino, 2000, pp. 587-610.

Cfr. F. Villa, Lezioni di politica sociale, Milano, Vita e Pensiero, 2003, pp. 54-55.

Cfr. R. Cipriani, Carità e trasformazioni sociali, cit., pp. 454-456.

Cfr. Terzo settore, mondi vitali e capitale sociale, a cura di P. Donati e I. Colozzi, Milano, Franco Angeli, 2007.

Cfr. P. Cavaleri, Continuità e innovazione nell’ordinamento giuridico dell’assistenza in Italia, in “Bollettino dell’Archivio per la storia del movimento sociale cattolico in Italia”, XXXIX, 2004, n. 3, pp. 245-254, anche per  tutti i riferimenti bibliografici e normativi.

Ivi, pp. 252-253.

P. Pombeni, Prefazione, in G. Ritter, Storia dello Stato sociale…, cit., pp. IX-XVI e in particolare p. IX.

Cfr. P. Rosanvallon, La nuova questione sociale. Ripensare lo Stato assistenziale. Prefazione di Ugo Ascoli, Roma, Edizioni Lavoro, 1997.

 

Fonte: http://docentiold.unimc.it/docenti/edoardo-bressan/2013/11586/lo-stato-sociale-in-italia-dal-fascismo-al-secondo/at_download/Lo%20Stato%20sociale%20in%20Italia.docx

Sito web da visitare: http://docentiold.unimc.it

Autore del testo: Edoardo Bressan

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