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Giovanni Giolitti
Introduzione
Giovanni Giolitti ha dominato la scena politica italiana negli anni che vanno dal 1901 al 1914. L’età giolittiana segna, nella storia dello Stato italiano , l’acme e la conclusione del sistema liberale come era inteso nell’800.
Prima di Giolitti la società italiana era caratterizzata da un’economia scarsamente industrializzata e concentrata , dal suffragio elettorale4 ristretto ed a collegio uninominale , da una vita politica basata su rapporti personali tra ministri , prefetti deputati e grandi elettori. Durante l’età giolittiana si formarono le prime grandi concentrazioni industriali , socialisti e cattolici organizzarono ampie masse di popolo , il suffragio elettorale fu allargato fino a diventare semiuniversale.
Il periodo ad esso successivo -il nostro periodo- è caratterizzato dal suffragio universale , dalla presenza politica delle grandi masse e da una accentrata concentrazione economica. Il periodo precedente all’età giolittiana abbraccia esattamente quarant’anni:dal 1861 al 1901. Durante i primi quindici anni fu al governo la Destra. Dal 1876 al 1896, salvo brevi intervalli, fu al governo la Sinistra, soprattutto tramite Depretis e Crispi.
Anche Giolitti, deputato dal 1887 e Presidente del Consiglio, una prima volta nel 1892-1893, apparteneva alla Sinistra. Nel 1892 il ministero Di Rudini dava le dimissioni , dimissioni causate dal fallimento di quella politica definita del raccoglimento e dell’economia che non furono, però , sufficienti a restaurare il bilancio.
L’8 maggio , Umberto I, per la soluzione della crisi , dopo aver avuto colloqui col Farini e col Bianchieri , Presidente delle due Camere, volle interrogare Francesco Crispi.
Il vecchio statista non nascose al sovrano la gravità della situazione in cui il paese si trovava:
“Maestà , disse, l’Italia è in condizioni peggiori di quel che fu il Piemonte dopo Novara. Il paese ha perduto la coscienza di sé . Gli si è tolto il coraggio , si è avvilito parlando di miserie che non esistono , si è illuso dandogli a credere che con sole economie si poteva pareggiare il bilancio…Non vi è tempo da perdere…Bisogna provvedere subito…Si son perduti quindici mesi e si è tutto disordinato; la Francia ci è nemica più di prima, le altre potenze o ci sono tepide o indifferenti. Noi siamo al di sotto della Spagna …Se non si provvede subito , se si perdono altri mesi ancora senza portare rimedio si nostri mali andremo incontro ad un disastro.”
A ciò Umberto I rispose proponendogli Giovanni Giolitti come persona degna di guidare la nazione e chiedendogli il giudizio. Lo statista diede il seguente giudizio:
“Lo credo incapace di reggere lo Stato. Sarebbe un errore affidargli il governo del paese. Non ha studi, non ha esperienza, non ha arte di governo , conosce appena l’amministrazione…Non faccia nuovi esperimenti, non affidi il dovere a uomini che devono fare il loro noviziato…Bisogna che l’Italia sia meglio governata , che sia forte , potente , uguale a tutte le altre potenze. E per questo bisogna mettersi in mano ad uomini che sappiano restaurare lo Stato, ristabilire il nostro prestigio all’estero.”
Il re non seguì i consigli del Crispi ed affidò l’incarico di costituire il nuovo ministero a Giovani Giolitti che, nato a Mondovì nel 1842, nel 1870 -1871 era stato segretario particolare di Quintino Sella , dal 1873 al 1876 aveva coadiuvato il Minghettti come ispettore generale delle Imposte, poi era stato direttore generale del Ministero delle Finanze e segretario generale della Corte dei conti , nel 1882 era stato nominato Consigliere di stato ed eletto deputato nel collegio di Cuneo e nel 1889 aveva ricevuto dal Crispi il portafoglio del Tesoro.
Ricevuto l’incarico il I maggio; Giolitti compose il nuovo ministero tenendo per se la Presidenza del Consiglio e il portafoglio dell’Interno. Il 25 Maggio Giolitti presentò il nuovo Ministero al Parlamento ed espose il suo programma: sistemazione delle finanze, evitando al paese la necessità di nuovi aggravi ; risorgimento economico del paese, normalizzando la circolazione ; rispetto delle alleanze a scopo di pace. Nonostante l’accoglienza brusca ed umiliante (alla camera L’Imbrianti ripeté una frase di Cesare Balbo :“in tempi minori, a principi minori, minori ministri”) del Parlamento il programma di Giolitti fu accettato. Il ministero di Giolitti cadde , nonostante egli avesse tentato , riuscendovi nelle elezioni del 1892 m di procurarsi una solida maggioranza facendo eleggere, uomini a lui devoti , il 25 novembre 1893 travolto da gravi scandali bancari. Giolitti , con il suo atteggiamento equilibrato , aveva irritato la classe dirigente in quanto era giunto , persino, a proporre in Parlamento una imposta progressiva sul reddito che avrebbe , naturalmente , colpito i ceti più agiati.
Crispi, sfruttando lo stato di allarme creato dalle notizie sui disordini in Sicilia ed in Lunigiana, accusava i socialisti si fomentare rivoluzioni ed il governo Giolitti di debolezza. I seguaci di Crispi non esitarono a coinvolgere nello scandalo della Banca Romana, scandalo provocato da un eccessiva espansione del credito nel campo dell’edilizia e dalle pressioni esercitate da molti esponenti della Finanza su alcuni uomini politici.
Nonostante la gravità dello scandalo nulla poté essere imputato a Giolitti il cui ministero, però venne travolto, nel novembre del 1893.
Alla caduta di Giolitti salì al potere Crispi, quale esponente più qualificato dei grandi proprietari terrieri e della grande borghesia industriale, che nella sua politica del “pugno di ferro” vedevano la migliore difesa delle loro posizioni di dominio. Dal 1896 al 1900 fu di nuovo al governo prevalentemente la Destra e di Sinistra, però, non bisogna pensare a due partiti distinti e contrapposti. In realtà le maggioranze su cui si poggiavano i governi, soprattutto dal 1882, furono composte da elementi eterogenei provenienti si a da Destra che da Sinistra. I governi si qualificavano di Destra o di Sinistra secondo che vi fossero più numerosi ed importanti ministeri provenienti da destra o quelli provenienti da sinistra. Sia la destra che la sinistra erano espressioni di un corpo elettorale ristretto, ma, mentre la Destra tendeva a mantenere immutato il corpo elettorale, la sinistra tendeva ad allargarlo ,come dimostra la riforma elettorale fatta nel 1882 che aumentò gli elettori da circa seicentomila ad oltre due milioni.
Negli anni dal 1861 al 1876 la Destra aveva compiuto l’unità nazionale annettendo Venezia (1866) e Roma(1870), aveva sistemato i rapporti tra stato e chiesa, aveva favorito la costruzione di ferrovie e di altre opere pubbliche sottoponendo i contribuenti, però, ad una dura pressione tributaria basata sulla tassazione indiretta. La migliorata situazione delle finanze dello Stato e la migliorata situazione economica generale aumentarono il malcontento per la politica tributaria e finanziaria della Destra e fecero desiderare un azione di governo meno intransigente nella tutela degli interessi dello Stato e più sollecita nella tutela degli interessi privati.
È cosi che nel 1876 andò al potere la Sinistra col programma di promuovere una maggiore libertà ed una maggiore ricchezza privata. La concorrenza dei grandi extraeuropei, durata fino al 1896 si unì quel malessere attraversato dall’economia industriale, malessere noto come “grande depressione”. Gli anni della “grande depressione” furono quelli in cui al libero scambio successe il protezionismo, quelli in cui le potenze europee si dedicarono all’espansione coloniale, gli anni dell’imperialismo.
Depretis ed i suoi collaboratori finirono con l’abbracciare il protezionismo economico e la politica coloniale a causa della crisi agraria e della dipendenza della nostra economia dal capitale straniero , soprattutto francese, il quale tendeva a favorire le industri del suo paese, frenando la industrializzazione in Italia. Crispi, succeduto a Depretis, continuò la guerra d’Africa, attuò un apolitica di protezionismo e provocò con la Francia una guerra doganale disastrosa per l’agricoltura italiana. A Crispi successe il marchese Di Rudini, capo della destra. La sua politica mirava a liquidare l aberra d’Africa e a riprendere la politica di raccoglimento: Re Umberto nel giugno del 1900 affidò a Saracco, la Presidenza del Consiglio. Vittorio Emanuele III successo al re Umberto, accelerò il passaggio ad un sistema di governo liberale. Nel febbraio 1901 al gabinetto Sarocco, detto di transizione, successe Zanardelli, rappresentante della Sinistra, con la stretta collaborazione di Giolitti. Iniziava così l’età giolittiana, età nata dal bisogno di liquidare la pesante eredità degli anni precedenti dominati dalla guerra in Africa, dalla cattiva situazione economica, dalle agitazioni popolari, dalle tendenze illiberali del governo.
Rapporti di Giolitti con le maggiori forze politiche
Chiesa e Stato appartengono, per Giolitti, a due ordini di valori, a due mondi diversi che debbono incontrarsi e scontrarsi il meno possibile, che debbono vivere ognuno nella propria sfera, secondo una versione attuale della “libera Chiesa in libero Stato”. Lo Stato ideale per Giolitti, è quello in cui l’autorità politica non chiede mai al cittadino quale sia la confessione religiosa, non penetra nell’intimo della sua conoscenza. Papa Leone XIII non revocò mai il “Non expedit”, vale a dire il divieto ai fedeli d partecipare alla vita politica nazionale sia da eletti che da elettori. Avendo avuto però la fortuna di vivere fino a 94 anni, egli fece in tempo a rendersi conto che l’intransigenza non era redditizia. Il sogno di riconquistare il potere temporale era ormai tramontato e non solo perché in Europa non c’era più neanche una nazione pronta a ripristinarlo, ma anche perché nella stessa Italia le nuove generazioni cattoliche, non avendolo mai conosciuto non avevano di esso alcuna nostalgia. Il papa con la famosa enciclica “Rerum Novarum” che gli valse il titolo di “Padre dei lavoratori”, rivendicava l’esenzione dal lavoro per le donne ed i bambini, il riposo festivo, la limitazione degli orari e salari corrispondenti alle esigenze di vita di un lavoratore.
Al principio del secolo si delineava già una “Democrazia Cristiana” che non si considerava più la guardia bianca del Papa e che invece di chiudersi in un rifiuto della politica nazionale, smaniava di parteciparvi.. sin dal primo momento, però, si abbozzarono in essa due tendenze: quella moderata di Filippo Meda che considerava lo Stato un “ peccatore da salvare” e quella estremista di Romolo Murri che considerava lo Stato un ”nemico da distruggere”. In una sua enciclica il Papa sanzionò il nome di “Democrazia Cristiana”, ma non revocò il “Non Expedit” e nel 1903 Meda e Murri liquidarono definitivamente Paganizzi, pochi mesi dopo la morte di Leone XIII. Nelle elezioni del 1904 i cattolici, liberati dal “Non expedit”, contribuirono con tutte le loro forze alla vittoria dei candidati liberali. Dietro questa operazione c’era nettamente la mano di Giolitti che considerava i cattolici una forza che occorreva sottrarre alle tentazioni eversive sollecitandone la collaborazione e dandole il suo posto nella vita politica nazionale. In vista della riforma elettorale del 1912, lo scrutinio di lista con la proporzionale fu sostenuto più dai cattolici che dai socialisti e ciò perché essi, miravano ad uscire dallo Stato subalterno con l’arma della scheda elettorale. La proporzionale, affermò Giolitti, giovava ai partiti di minoranza organizzati e mentre i cattolici erano presenti in tutta Italia, i socialisti lo erano solo in poche regioni. Giolitti era comunque contrario alla proporzionale perché temeva le conseguenze che, poi, determinarono l’assottigliamento del partito liberale.
L’età giolittiana fu il periodo nel qual il partito liberale riuscì ad ottenere l’appoggio dei cattolici senza dover dividere con loro, in quanto partito, la direzione dello stato.
Gioiti fece un accordo con il nuovo Papa PioX, ovvero grazie a questo patto non passa più una legge che ferisca direttamente gli interessi cattolici, non passa la legge sul divorzio né quella sulla precedenza obbligatoria del matrimonio civile su quello religioso, né l’abolizione dell’insegnamento religioso nelle scuole. Non passano però neppure leggi che favoriscono interessi clericali. Non si potrebbe citare. Infatti, un solo atto politico di Giolitti che rappresenti una diminuzione dell’autonomia dello Stato rispetto alla Chiesa. Ogni volta che i cattolici tendono ad alzare la testa Giolitti ristabilisce rapidamente l’equilibrio. Col 1913 si sente che l’aria è cambiata, che l’influenza di Pio X diminuisce in Vaticano, che il potere di Giolitti non è assoluto.
Programma generale di Giolitti
Dopo l’ondata reazionaria dell’ultimo decennio dell’800, con l’aprirsi del nuovo secolo, l’Italia si avviò verso un promettente sviluppo delle sue strutture economiche, politiche e sociali. Profondo interprete delle esigenze del paese fu Giovanni Giolitti che nel primo quindicennio del ‘900 presiedette tre ministeri e si affermò come uomo politico e statista di notevoli capacità. Sotto il segno di Giolitti, l’Italia uscì definitivamente dal lungo periodo di recessione che l’aveva afflitta, fece un grosso balzo in avanti sulla via dell’industrializzazione, pareggiò il bilancio, riportò il suo primo successo militare, la conquista della Libia, diede inizio ad una legislazione sociale ed attuò la più audace di tutte le riforme: il suffragio universale.
Infatti, dalla nazionalizzazione delle ferrovie alla introduzione del suffragio universale, l’opera di Giolitti accompagnò e guidò felicemente il processo di sviluppo della società italiana, la quale superò definitivamente gli aspetti arretrati del secolo precedente, quando una ristretta élite di notabili continuava ad esercitare una influenza determinante, e sembrò avviarsi definitivamente verso l’edificazione di un moderno stato democratico.
L’arte di Giolitti consisteva non nel risolvere i grandi problemi ideologici, ma nel rimpicciolirli per ricondurli a modeste dimensioni.
Il dazio di protezione sul grano, che otteneva alla lunga l’effetto indiretto di aumentare, si apre in misura minore, anche i prezzi degli altri prodotti agricoli, fu l’unico intervento diretto accettato da Giolitti per stimolare l’aumento naturale dei prezzi agricoli e diminuire l’importazione, ebbe il grande vantaggio di rendere più solido il bilancio dello Stato. I liberalismi, come Fortunato ed Rinaudi, biasimavano la politica giolittiana di riforme sociali e di lavori pubblici poiché, per loro, questi erano lussi da paesi ricchi, mentre in un paese povero come l’Italia non bisognava far spese che sottrassero capitali alla produzione.
I conservatori biasimavano la tendenza di Giolitti a far aumentare i salari poiché, per loro, in un paese povero come l’Italia i salari alti scoraggiavano gli imprenditori.
Per Giolitti, invece, proprio perché l’Italia era un paese povero, i lavori pubblici, le riforme sociali, i miglioramenti salariali diventavano elementi fondamentali del progresso economico. Nel corso del suo quarto ministero (1911-1914), Giolitti riuscì ad introdurre il monopolio di Stato sulle assicurazioni sulla vita e, soprattutto, riuscì a varare la riforma elettorale con la quale fu introdotto il suffragio universale maschile. L’introduzione del suffragio universale fu la meta alla quale tese tutta l’opera politica di Giolitti. Lo stesso scriveva:
”Non era più possibile che in uno stato sorto dalla rivoluzione e costituito dai plebisciti n, dopo cinquanta anni dalla sua formazione si continuasse ad escludere dalla vita politica la classe più numerosa della società, la quale dava i suoi figli per la difesa del paese, e sotto forma di imposte indirette concorreva in misura larghissima a sostenere le spese dello Stato”.
A questa considerazione bisogna aggiungersi la profonda convinzione di Giolitti che solo attraverso la massima mobilitazione delle energie di una nazione , mobilitazione che non può essere ottenuta senza il suffragio universale , si poteva raggiungere il progresso della società italiana. La proposta , fatta approvare da Giolitti nel 1912, mentre conservava il diritto di voto a coloro che avessero compito i ventuno anni e sapessero leggere e scrivere, lo estendeva a tutti i cittadini che avessero prestatoli servizio militare ed a tutti coloro che avessero compito i trent’anni d’età.
L’introduzione del suffragio universale (cui fece seguito il patto Gentiloni) può considerarsi il capolavoro politico di Giolitti poiché, grazie ad esso, si ottenne il risultato di allargare notevolmente le basi dello Stato, entro la cui cornice giuridica cominciarono ad essere rappresentate, benché ancora assai inadeguatamente, le grandi masse cattoliche e socialiste.
Naturalmente d’altra parte, il suffragio universale e la tragica esperienza ella prima guerra mondiale che fu la prima vera e propria guerra di massa cui partecipò l’intero popolo italiano, determinarono il tramonto dell’Italia ottocentesca. Poiché fu, appunto, su tale Italia che poté facilmente esercitarsi la genialità politica di Giolitti, la migliore stagione del grande statista si concluse col suo quarto governo, mentre nel quinto ed ultimo che egli presiedette dopo la prima guerra mondiale, la situazione completamente mutata, supera completamente le sue capacità di controllo e di guida. Giolitti aveva scarsa simpatia per gli investimenti all’estero di capitali italiani, base economica dell’imperialismo e questo suo atteggiamento apparve assai chiaro nel 1913 quando il Banco di Roma e la Banca Commerciale cercarono di ottenere dallo Stato aiuti finanziari per le loro operazioni nei Balcani ed in Turchia. Per Giolitti queste operazioni non facevano altro che sottrarre capitali al già povero mercato interno ed implicavano forti passività che poi lo Stato doveva colmare.
L’unica critica che può essere mossa a Giolitti è quella del malcostume sul quale il giolittismo si fondò. Giolitti non fece nulla per eliminare il clientelismo che ammorbava la vita pubblica italiana , anzi se ne servì per raggiungere i suoi scopi. Fu soprattutto il mezzogiorno a fornire a Giolitti quel paio di centinaia di deputati su cui egli basò la sua stabile maggioranza. Fu i Mezzogiorno perché lì, Giolitti poteva mercanteggiare i voti in cambio di favori. Giolitti aveva, per la politica estera, la stessa scarsa vocazione del suo maestro Depretis. Borghese di provincia, non aveva viaggiato non parlava le lingue non conosceva i problemi internazionali e, per di più, egli non voleva entrare in concorrenza con il re, il quale, in fatto di politica estera, si riservava sempre l’ultima parola e non rinunciava a farla pesare.
Non si può dire certo, però, che Giolitti trascurasse la politica estera. Durante il suo ministero del 1911-1914, che coincise con la guerra di Libia e con le guerre balcaniche, questa, infatti diventò una delle sue principali, o addirittura la principale, attività di governo. Tuttavia a parte questi momenti eccezionali, per Giolitti la politica interna aveva la priorità su quella esterna.
Tuttavia, Giolitti, nel settembre del 1911 ritenne giunto il momento di esercitare senz’altro i diritti che l’Italia si era fatta riconoscere sulla Libia. In verità non esistevano grossi motivi di interesse economico che potessero spingere l’Italia sulle coste libiche. Si deve, inoltre, ammettere che l’impresa libica poteva avere per gli italiani quasi il significato di un riscatto degli insuccessi africani del 1896.
Se la Tripolitania fosse stata occupata da un'altra potenza, l’equilibrio mediterraneo sarebbe stato gravemente alterato a danno dell’Italia. L’Italia, più che la Libia, voleva la guerra, o meglio qualcosa che desse agli italiani l’impressione di farne una e di vincerla. Giolitti. Egli non era, certo, favorevole alle guerre e non aveva mai condiviso l’avventurismo di Crispi, ma la popolazione non gli avrebbe mai perdonato di aver perso questa occasione. Se la crisi marocchina e i problemi dell’equilibrio mediterraneo furono il motivo determinante che indusse Giolitti all’impresa libica, l’altro motivo fondamentale va cercato nella preoccupazione di cercare uno sfogo alle dilaganti tendenze nazionalistiche e offrire loro in Africa un diversivo alle aspirazioni, più pericolose, irredentistiche e balcaniche. Su Giolitti, forse, più ancora dei motivi di ordine internazionale influirono quelli di ordine interno. La crisi marocchina aveva improvvisamente dirottato l’attenzione dei nazionalisti dall’Adriatico al mediterraneo e la Tripolitania era diventata di moda.
La caratteristica principale forse dell’impresa libica fu la sua grande popolarità che rese isolata e priva di consensi l’opposizione della maggior parte dei socialisti. L’impresa non presentava gravi difficoltà militari, dato che l’impero turco, dal quale la Libia dipendeva era in sfacelo, ma proprio per la sua situazione di profonda crisi, la Turchia era oggetto delle più attente “cure”da parte di tutti gli stati europei preoccupati di un eventuale sfacelo turco che avrebbe messo in movimento l’intera questione balcanica e tutti i problemi del Medio Oriente. Si trattava perciò di attaccare la Turchia senza colpirla nei suoi centri vitali, senza spostare la guerra oltre la Libia. Dopo un ultimatum della Turchia redatto in termini talmente duri che non potevano essere accettati, il 2 settembre del 1911 la guerra fu dichiarata e nel giro di un solo mese fu possibile al generale Ceneva, occupare i principali punti della costa tripolina e della Pirenaica. Per impedire che le potenze europee potessero intervenire tra i due contendenti ed imporre una pace di compromesso, certamente meno vantaggiosa per l’Italia, il governo italiano volle la promulgazione di un decreto reale che stabiliva l’assoluta sovranità dell’Italia sulla Libia.
La flotta italiana sbarcò truppe a Rodi e nelle isole del Dodecanese e, poco dopo, l’ammiraglio Millo guidò una scorreria della flotta italiana fino ai Dardanelli dimostrando alla Turchia la netta superiorità militare italiana. La pace fu stipulata a Losanna, nell’ottobre del 1912, e con essa l’Italia ottenne il pieno riconoscimento della propria sovranità in Libia, ma si impegnò, a sua volta, a rispettare la libertà religiosa delle popolazioni musulmane. A causa del dissesto economico provocato dalle spese di guerra Giolitti con la sua politica monetaria e tributaria, fece pagare le spese di guerra ai ceti meno abbienti, stimolando il malcontento popolare e le tendenze rivoluzionarie.
Nel marzo del 1914 Giolitti si dimise dal governo lasciando la successione a Salandra, un abile parlamentare conservatore, dotato di alcune delle qualità che avevano fatto la forza di Giolitti, il cui ministero nacque sotto l’alta tutela di Giolitti. Intanto l’Austria aveva rivolto alla Serbia, nel luglio del 1914, un aggressivo ultimatum senza un preventivo accordo con le altre potenza della Triplice Alleanza. Il governo, scelse la neutralità, il 3 agosto del 1914, questo però non impedì che i partiti e gli organi di stampa si pronunciassero sull’atteggiamento che l’Italia avrebbe dovuto assumere nel grande conflitto nel quale era evidente che non si sarebbe operato un semplice riassetto territoriale, ma un effettiva svolta storica che avrebbe inciso su tutte le strutture geografiche e politiche dell’Europa. L’opinione pubblica italiana si divise, gradatamente, nei due opposti campi del neutralismo e dell’interventismo. Fra gli interventisti c’erano, in primo luogo, i repubblicani di ispirazione mazziniana, gli interventisti, gli irredentisti, i social- riformisti, che concepivano l’intervento dell’Italia a fianco dell’Intesa come una presunzione delle lotte per l’indipendenza nazionale e come guerra al militarismo ed all’autoritarismo degli imperi centrali. Giolitti aveva rinunciato di pronunciarsi pubblicamente, proprio questo suo riserbo dimostrò il suo desiderio di neutralità. Egli aveva tratto dalla guerra libica una profonda sfiducia nei comandi militari italiani ed era convinto che l’Italia non fosse in grado di affrontare la severa prova della guerra.
Nel corso del suo quinto ed ultimo ministero, Giolitti pose termine al protettorato sull’Albania, stabilitosi al termine della prima guerra mondiale, e che aveva dato luogo ad una vera e propria insurrezione delle popolazioni locali, conservando all’Italia l’isola di Saseno, importante per il controllo del canale d’Otranto.
Il trasformismo di Giolitti
Il regime giolittiano è stato, giustamente, definito dal Salvemini “un neotrasformismo”. Lo stesso Benedetto Croce, riferendosi al sistema giolittiano, si esprimeva in tal modo:
“ Coloro che sogliono dire alle nuove cose vecchi nomi direbbero che col Giolitti iniziò un nuovo periodo di trasformismo; il che volentieri consentiremmo, per aver noi tolto a questa parola il significato peggiorativo col quale sorse, e perché ogni volta che l’antinomia di conservazione e rivoluzione è superata e si attenua e quasi svanisce, succede appunto un avvicinamento degli estremi ed una trasformazione unificatrice dei loro ideali”.
Già nel 1881 il sella aveva in progetto di formare un ministero di accordo tra gli elementi di destra e quelli di sinistra più temperati. In tal modo egli non voleva far altro che quello che, trenta anni prima aveva fatto Cavour con il “connubio” e che era stato per accadere nel 1873, quando la morte di Rattizzi aveva troncato le trattative per un ministero di larga base, ministero riproposto, nello stesso anno, dal Minghetti. Questa esigenza era una esigenza sentita da molti. Ormai i gruppi, al posto delle denominazioni secondo gli ideali della conservazione e del progresso, si designavano secondo i capi che si ritenevano capaci di formare i ministeri. In tale stato, la parola che dava la coscienza della dissoluzione avvenuta , una parola che parve brutta o addirittura vergognosa, ma che corse sulla bocca di tutti: “trasformismo”.
Nel 1876 la Destra era caduta a sua della sua intrinseca debolezza dovuta alla discordia tra i vari gruppi che la costituivano ed alla sua incapacità di cogliere le reali e concrete necessità del paese. Con le elezioni del 1880 si era costituito il centro-sinistra ; con quelle del 1882 si ebbe la nuova maggioranza di Depretis, quella, appunto, del “trasformismo”, che egli chiamava il “grande nuovo partito nazionale”.
Il trasformismo, la cui consuetudine si estese con l’avvento al potere della Sinistra, consisteva nella pratica di costituire governi con uomini di tutte le provenienze politiche. Il trasformismo contribuì, certamente, ad appiattire la vita parlamentare , a favorire gli accordi di corridoio e le maggioranze improvvisate, con la grave conseguenza di ostacolare la formazione di partiti ben delineati, lo sviluppo di partiti contrapposti tra di loro.
Nel connubio di Giolitti tra Parlamento e Governo cominciò a svilupparsi una articolata dialettica e questo fu possibile grazie alla varietà degli interessi che furono determinati nella vita pubblica del paese.
Le vittorie elettorali, che consentirono a Giolitti di governare l’Italia per dieci anni, egli le ottenne solo grazie ad una sapiente scelta degli uomini e ad una impeccabile tessitura di interessi, puliti o sporchi che fossero. L’abilità di Giolitti consisteva nel dosaggio dei favori da dispensare ai notabili ed alle loro clientele in modo che l’elettore fosse costantemente condizionato. Nel nord, dove il potere non era una industria, era più difficile mercanteggiarlo, ma nel Mezzogiorno, dove l’unica industria era, da sempre, il potere, l’operazione risultava relativamente agevole. Fu soprattutto il Mezzogiorno, infatti, a fornire quel paio di centinaio di deputati sui quali Giolitti basò la propria stabile maggioranza e che appunto per questo vennero chiamati suoi “ascari”.
La vittoria nelle lezioni del 1904 risultò decisiva, non tanto per la consistenza numerica dei sostenitori di Giolitti, ma per il diverso rapporto che egli stabili con essi. Nemmeno il suo maestro, Depretis, era mai riuscito a legarseli in maniera così stretta. Per assicurarsene la fedeltà Giolitti non badava, certo, ai mezzi. Egli lasciò il governo, e da altre persone, ma restò sempre padrone della maggioranza e, quindi, arbitro della situazione. Non è, perciò, improprio parlare del suo decennio come di un vero e proprio “regime”.
Giolitti era un uomo di potere. Egli aveva l’ambizione, la smania del poter, come, del resto, tutti gli uomini politici. Giolitti era intimamente convinto, come egli stesso diceva, che del potere non bisogna andare in cerca, ma aspettare che esso venga a cercarci. Naturalmente egli sapeva creare le condizioni perché ciò avvenisse ed avvenisse nei momenti in cui gli faceva più comodo.
Quando Giolitti , nel marzo 1914, lascia palazzo Braschi non immagina nemmeno che ritornerà solo se anni dopo in una situazione così diversa, così refrattaria ai suoi stessi schemi di governo. Il Vaticano che Giolitti ritroverà all’indomani del conflitto non sarà più la corte silenziosa di Pio X, sarà, invece, la nuova, animosa ed intraprendente corte di Benedetto XV.
I deputati cattolici non saranno più i giolittiani, ma uomini guidati da un sacerdote che vuole una trasformazione strutturale della società italiana, dal “messianico del riformismo”( in tal modo lo definiva Godetti), da Luigi Sturzo.
Ai primi di settembre del 1904 due conflitti fra lavoratori e forza pubblica, uno a Buggerru, in Sardegna, ed uno a Castelluzzo in Sicilia, offrirono ai socialisti rivoluzionari l’occasione per proclamare il primo sciopero generale politico che la nostra storia ricordi; sciopero che non mancò di assumere un carattere di protesta e di condanna dello stesso Stato italiano. A malapena e con molta ripugnanza i ceti conservatori del paese avevano accettato di riconoscere, all’inizio del secolo, la liceità degli scioperi economici e la legalità delle Camere di Lavoro. Migliaia di scioperi agrari ed industriali si erano susseguiti dal 1900 al 1904 quasi ininterrottamente ed avevano rappresentato uno dei veicoli principali di immissione delle masse popolari nello stato liberale. La prospettiva dello sciopero generale per cause esclusivamente politiche, però era del tutto nuova e nessun liberale poteva dirsi preparato ad affrontarla. In realtà l’unico a non perdere la testa fu proprio Giolitti. I 15 settembre Milano era in sciopero generale, i tram non funzionavano, tutti i negozi erano chiusi, le officine sprangate, squadre d’operai, con fascia rossa, giravano in ogni senso la città per imporre l’astensione dal lavoro a tutti quelli che si fossero presentati agli stabilimenti. Poco dopo fu abbandonato il servizio dell’acqua potabile, gli spazzini scomparivano dalle strade, le carrozze e le automobili non potevano più circolare. Filippo Turati si rivolse alla folla, nel comizio pomeridiano, dicendo loro di “stare attenti e di far vedere ai compagni di tutta Italia e al governo che il vostro movimento è un atto di solenne e grandiosa protesta”. Il 17 settembre lo sciopero si diffuse in altre città, e Turati fece un altro discorso dicendo agli operai: “Badate bene: dopo tre o quattro giorni di sciopero, la fame batterà alle vostre porte”. Grandi fischi accolsero le sue parole e da qualche parte gli fu gridato: “Taci amico di Giolitti! Vergognati!”. Lo sciopero terminerà solo il giorno 20.
Fonte: http://www.studenti.it/download/scuole_medie/Giolitti.doc
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