Illuminismo giuridico riassunto

Illuminismo giuridico riassunto

 

 

 

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Illuminismo giuridico riassunto

DIRITTO E POLITICA NELLA CULTURA DELL’EUROPA DEI LUMI

L’Illuminismo giuridico

Capitolo I
Il tribunale della ragione

Secondo il Filangieri l’illuminismo giuridico è l’insieme di due elementi, non considerati singolarmente, ma come coppia: “la legislazione”, cioè il diritto, e “coloro che pensano”, cioè le élites intellettuali del secolo XVIII. 
Alla domanda “che cos’è l’illuminismo?” Kant rispondeva: “sapere aude”. Kant intende l’illuminismo come uscita dell’uomo da una “minorità”, che non è mancanza di ragione, ma mancanza di coraggio di servirsene senza una guida superiore all’uomo stesso.
Con l’illuminismo viene a radicarsi l’idea che a “coloro che pensano”, cioè a un’élite di filosofi, spetti il compito di guidare filantropicamente l’umanità verso la liberazione, vista come libertà di pensiero. E’ “l’elitismo pedagogico”che potrebbe però capovolgersi negativamente: con la pretesa di educare le masse dall’alto, si potrebbe anche manipolare l’opinione pubblica. E’ questa l’ambiguità  dell’illuminismo: un volto umanisticamente nobile e un volto pericolosamente oscuro.
Secondo un’ampia ala dell’illuminismo  le capacità della ragione umana sono contenute entro i  limiti dell’esperienza, per cui tutto ciò che trascende il mondo sensibile direttamente osservabile è fuori dalle possibilità di conoscenza dell’uomo. Tuttavia i poteri della ragione sono grandi nello studio sperimentale della natura e l’uomo deve riappropriarsene, liberandosi, però, prima dalla soggezione acritica alle credenze e ai dogmi che hanno fondamento non nella ragione, ma nella illusoria autorità di una tradizione o di una rivelazione. Dunque: “Primato della ragione sulla tradizione e sulla Rivelazione” e quindi tolleranza religiosa, libertà di coscienza e di opinione.
Il vero bersaglio dell’illuminismo non è quindi la storia bensì la tradizione, vista come vecchio bagaglio di opinioni ricevute senza un controllo critico da parte della ragione.
La cultura illuministica progetta così un nuovo mondo: potenziare le facoltà morali dell’uomo considerato “creatura perfettibile”  e rigenerarlo.
Le armi decisive a questo scopo sono le opere dei phisolophes.
La forza di tutto il movimento è l’idea di progresso, cioè la convinzione che l’umanità possa progredire verso forme più elevate di benessere e di incivilimento, dunque verso la felicità. Progresso  non affidato ad una Provvidenza, bensì ad una progettazione razionale guidata dall’uomo e ispirata al principio di utilità.: il bene e il male coincidono con ciò che utile o nocivo alla società.
A tal fine occorre uno spirito di riforma. Occorre una rifondazione dell’ordinamento in cui si vive e riformare, cambiare radicalmente il vecchio assetto  dalle fondamenta, anche a costo di demolirlo. 
Ecco dunque l’idea illuministica della laicizzazione-razionalizzazione dello Stato, cioè di negazione alla persona del sovrano delle legittimazioni sacrali conferitegli dalla tradizione del vecchio assolutismo dinastico. E’ la nuova concezione dell’assolutismo: secondo gli illuministi il potere del sovrano è ora fondato sulla delega che per contratto (il contratto sociale) i consociati hanno conferito al monarca, servitore dello Stato, affinché questi assicuri il bene dei sudditi.
Ed è in questa ottica che matura l’idea di una riduzione del potere ecclesiastico e della razionalizzazione della stessa religione. La religione non è più il “sapere rivelato”, ma un complesso di principi universali conformi alla natura, cioè una religione “civile”.
L’illuminismo, dice il Cavanna, non si identifica in un sistema filosofico, ma in un modo di ragionare. Poiché di fronte al giudizio della ragione è  sempre il diritto in prima linea, circolano nei vari salotti di conversazione, nelle logge massoniche, nei circoli culturali attivi nelle città europee quelle opinioni critiche, quelle ideologie innovative, quelle teorie riformiste relative al diritto che noi chiamiamo illuminismo giuridico.
Problematico ora risulta trovare una formula unitaria per indicare una serie di caratteri essenziali di quello che abbiamo denominato illuminismo giuridico.
Mario Cattaneo individua nell’illuminismo, in cui scorge le influenze del  giusnaturalismo, due  fondamenti costanti: il postulato “razionalistico” e quello “volontaristico”. In base al primo l’illuminismo afferma il principio di un diritto naturale-razionale, costituito da un complesso di princìpi universali di giustizia (visti come diritti della persona umana). Con  il secondo postulato si ha la nozione illuministica del diritto: il diritto positivo altro non è che la traduzione storica dei diritti naturali individuali, che consiste in una manifestazione della volontà, non arbitraria, ma ispirata a ragione, che è quella del legislatore statuale. La legge sarà non interpretabile, ma, in base all’esigenza di certezza del diritto, sarà applicabile dal giudice solo in modo letterale .
Altri studiosi, tra cui il Tarello, vedono, invece, nell’illuminismo giuridico differenti politiche del diritto, variamente atteggiate a seconda delle specificità nazionali, anziché caratteri di omogeneità.
Il Tarello, per esempio, distingue,  all’origine, almeno due illuminismi giuridici. Quello germanico dove le idee dei lumi ispirano subito un assolutismo illuminato e quello francese dove,  invece, le idee illuministiche appaiono inizialmente “ di opposizione” e non tradotte in pronti interventi pratici dalla monarchia, in breve non producono un assolutismo illuminato.
Le due idee differiscono, ma sicuramente hanno un reciproco valore compensativo.

Vi sono alcuni ambienti europei, come la piccola Lombardia austriaca del secondo Settecento, dove nasce una sorta di “summa” delle idee degli illuministi francesi. Di essa si impadronisce il potere assoluto, che la rende funzionale alla propria politica.
Accolte entusiasticamente le idee riformiste dei philosophes francesi,  a casa dei fratelli Verri, a Milano,  nasce un salotto di conversazione, l’Accademia dei pugni, e viene fondato il giornale satirico Il Caffè. Sono giovani e, considerandosi un’ “élite pensante”, pensano di essere capaci di formare un’opinione pubblica intorno alle nozioni di giustizia e bene comune. Uno di essi, Cesare Beccarla, rielaborando le teorie giusnaturalistiche e utilitaristiche, con il suo libro “Dei delitti e delle pene”, del 1764, diviene il manifesto nel quale tutto l’illuminismo europeo si rivolge. In primo luogo influenza i primi destinatari delle sue idee: i sovrani austriaci. Questi monarchi non possono non essere d’accordo sulla necessità di sottomettere l’intero corpo sociale ad un’unica giurisdizione, ad un’unica legge. Ciò eliminerà per sempre le prerogative del ceto togato, l’autorità della Chiesa nelle aree del diritto canonico, i privilegi di foro degli ecclesiastici, i privilegi della nobiltà feudale sulle masse contadine. Idee però, è bene precisarlo, accolte con valenza statualistica, nel senso che, quando le riforme sono effettivamente varate, esse appaiono concepite secondo uno schema pianificato esclusivamente dal sovrano, che determina “lui” contenuti  e limiti della libertà dei sudditi.
Del resto il Codice Giuseppino era un capolavoro di tale politica del diritto. Leggiamo: “Ogni suddito aspetta dal Sovrano protezione e sicurezza. E’ il Sovrano che deve determinare chiaramente li Diritti dei sudditi, e dare alle loro azioni la direzione più conforme al bene pubblico, e privato”.
Il monarca assoluto quindi non aveva bisogno dei philosophes.
Così Cesare Beccarla si vide recapitare il severissimo codice penale Giuseppino a lavoro finito, già confezionato e tradotto in lingua italiana “affinché lo leggesse e dicesse se per caso abbisognasse di qualche eventuale ritocco di dettaglio”.
“Era questo l’assolutismo illuminato”.
E’ “l’etica del servizio”: se il popolo delega al sovrano il compito di assicurare i diritti di ciascuno ed il bene comune, al sovrano spetta un potere incondizionato per l’adempimento di tale compito. Un potere controbilanciato da un obbligo altrettanto ferreo: emanare leggi certe intorno ai diritti dei singoli e al bene della società, che una volta emanate devono essere rispettate non solo dal giudice, ma dal sovrano stesso.
Il despota illuminato ha dunque tutti i diritti  e tutti i doveri.
E’ lui l’interprete della Ragione: pretende di rendere felici i suoi sudditi, ma allo stesso tempo dice loro “come” devono essere felici.
Si può concludere dicendo che i despoti illuminati “pensano con le parole dei philosophes, ma senza conferire loro lo stesso significato”.

Capitolo II
Antropologia e diritto nell’illuminismo

Vediamo ora attraverso quali percorsi mentali gli illuministi si sono accostati al “fenomeno diritto”. Il punto di partenza va identificato nell’idea fondamentale della cultura dei lumi: la centralità della politica e delle ideologie politiche nella vita delle società.

  • La politica è il laboratorio principale in cui si realizzano i valori, tra i quali il primo è quello della giustizia, che coincidere anche con la maggiore felicità pubblica ed individuale  possibile.
  • Il bene comune è il fine etico che la politica deve realizzare attraverso il diritto, che è il modo di organizzazione razionale dell’ esistenza associata: non può esserci, tra gli uomini, giustizia senza diritto. Diceva Beccarla che ogni buona legislazione è l’arte di condurre gli uomini al massimo di felicità o al minimo di infelicità possibile.
  • La politica è potere, ma  deve essere l’opinione pubblica ad attribuirgli questo potere, questo monopolio del diritto. E’ l’opinione ciò che procura al legislatore il consenso ad agire da parte del supremo legittimatore delle scelte politiche: il popolo, o se si vuole, la società civile.
  • Sono gli intellettuali i costruttori dell’opinione pubblica. Sono essi gli elaboratori delle ideologie di sostegno al potere e, allo stesso tempo, i programmatori della gestione del diritto. Ricordiamo a tal proposito la frase del Filangieri: “La legislazione è oggi questo oggetto comune di coloro che pensano”. Secondo gli illuministi esiste una stretta minoranza pensante che ha una duplice funzione: indicare al sovrano gli obiettivi benefici e i mezzi giuridici per raggiungerli; educare il popolo a capire l’essenza della felicità perseguita dalla legge.

Una minoranza colta che esercita il pensiero ed il controllo dei processi educativi: questo è ciò che viene definito elitismo pedagogico.

  • Questo presuppone l’infantilizzazione delle masse: esse sono ritenute incapaci di compiere da sole scelte razionali, per cui devono essere abituate alla libertà da coloro che pensano (luogo comune dell’idea illuministica, soprattutto francese). “Alla fine - dice Votaire - gli uomini pensanti governano gli altri. Quello francese – aggiunge – sarà sempre un popolo ignorante e debole, che ha bisogno di essere guidato dagli uomini illuminati”. Non vede, bisogna precisarlo però, grandi miglioramenti. P. Verri vede nel comportamento del popolo quello del bambino. Per lui l’imperativo è scoglionire la moltitudine.
  • Educare il popolo presuppone la perfettibilità del genere umano e la sua capacità di progressiva elevazione morale, una volta fatto oggetto di opportuno trattamento pedagogico. Non è ottimismo verso la natura umana bensì verso l’educazione.
  • Un uomo così modificabile può apparire un essere passivo e manipolabile, privo della libertà come qualità innata. Gli illuministi risolvono così in termine riduttivo il problema della libertà dell’uomo. Essi reinterpretano le dottrine del giusnaturalismo, secondo le quali di innato, nella natura dell’uomo, non c’è la libertà, ma se mai una predisposizione ad essere educato alla felicità: educato dallo Stato,creatore di giustizia.

L’illuminismo tedesco, invece, accoglie l’idea del contratto sociale al quale necessariamente deve essere collegata l’idea della libertà degli individui. Stesso discorso farà, come vedremo, Rousseau: l’uomo non è essere passivo, ma attivo ed intelligente.
Voltaire, invece, molto meno ottimista di Rousseau, risolve in modo diverso il problema del-     l’ immortalità dell’anima: Dio ha solo creato l’universo. Ha creato gli animali  e l’uomo, ma si è poi disinteressato delle loro scelte morali, abbandonandoli al loro destino (è la concezione del deismo).
Voltaire, in tutti i modi, ritiene una follia privare le masse del timore del sacro, reputandolo indispensabile per l’ordine sociale. Le masse, infatti, credendo in un’anima immortale, in un Dio vendicatore dei deboli, si reputano libere. Bisogna soltanto, aggiunge, impedire ai preti di abusare di questa dottrina. E’ chiaro che, secondo Voltaire, la libertà è una chimera assurda.
Più in là si spingono, sul filo di un risoluto materialismo ateo, altri famosi illuministi francesi, come Diderot,  D’ Holbach o Helvétius.
Secondo Diderot la parola libertà non ha senso, mentre per D’Holbach l’uomo non è mai libero, ma guidato nei suoi passi da tutto ciò che egli ritiene per sé vantaggioso.
Helvetius, infine, vede l’uomo guidato dalle sue passioni e dall’amore di sé. L’uomo è come l’animale, ha solo il tatto e la parola in più. Il legislatore, pertanto, per formare gli uomini, deve conoscere i fili che muovono gli esseri umani e saper sfruttare gli interessi personali a beneficio dell’interesse pubblico.
Come si vede dunque, “l’uomo è un essere passivo che può essere sfruttato e lo si può educare facendogli credere di essere libero, inducendolo a comportarsi socialmente come se fosse naturalmente virtuoso”.

  • Dottrine antropologiche meno riduttive, troviamo, oltre che in Rousseau e negli ambienti dell’illuminismo tedesco ed austriaco di cui abbiamo già accennato, anche nell’illuminismo lombardo.

Alessandro Verri si scaglia contro l’ateismo troppo manifesto negli illuministi francesi, mentre il fratello Pietro vede l’uomo che, se pur  non nasce libero, può appropriarsi di quella libertà in cui risiede la sua dignità e la facoltà di essere padrone di sé stesso. “E’ il diritto positivo, applicato da un saggio legislatore, che determina i comportamenti degli uomini. Essi saranno buoni o malvagi a misura della sapiente creazione delle leggi”.
Secondo Pietro, inoltre, “il deismo anticristiano degli illuministi francesi minaccia la società”, per cui la religione è sempre uno strumento indispensabile per garantire la morale in una società.
Beccaria afferma che non vi è libertà quando le leggi permettono che in alcuni eventi “l’uomo cessi di essere persona e diventi cosa”. Come si nota, per i tre lombardi vale la formula felicità uguale giustizia. Giustizia vista come legalità del diritto e del processo penale.

  • Se è pur vero che l’antropologia dei nostri illuministi ha conferito una nobile identità all’ambiente lombardo, è pur vero che la concezione dell’elitismo pedagogico resta dominante anche per loro.

Ma, dice il Cavanna, bisogna ammettere che la pedagogia giuridica della felicità, la perfezione delle virtù umane attraverso la legge, l’ingegneria sociale praticata da un’élite privilegiata di moralisti, hanno rappresentato sì un mito, ma anche la più grande illusione dell’illuminismo.
L’illuminismo non si è mai arreso di fronte a queste velleità pedagogiche. Lo vedremo, infatti, con i vari grandi illuministi alla corte dei vari sovrani europei. Cadranno in disgrazia presso di loro e solo allora, mortificati,  si renderanno conto delle loro velleitarie idee. I sovrani corteggiano gli illuministi in nome della Ragione, ma con la riserva mentale di pilotarli. Kant  ricorda una risposta di Federico II a Helvetius: “ragionate quanto volete e su tutto ciò che volete, ma ubbidite”.

Fin qui i percorsi mentali, coi quali gli illuministi si sono accostati al “fenomeno diritto”.
Nel pensiero dell’illuminismo, dunque, la legge può funzionare come strumento infallibile di rigenerazione sociale, ma può avvenire solo a condizione che il legislatore conosca i bisogni essenziali e la natura dell’uomo, rapportandovi le proprie norme per perfezionarlo o addirittura trasformarlo in vista del bene comune. E’ dunque l’antropologia presupposta dal legislatore il punto decisivo.
Ma qual è la natura dell’uomo?

  • Secondo i materialisti (Diderot, D’Holbach, Helvétius) l’uomo non è libero, ma agisce sotto le sue pulsioni. Il legislatore deve saper far funzionare queste pulsioni egoistiche come “socialmente utili”. Così, l’uomo sarà manipolato e contribuirà, a sua insaputa, al bene comune.
  • Per gli illuministi lombardi l’uomo non nasce libero, ma è capace di libertà grazie alla virtù innata della perfettibilità. Sarà il saggio legislatore ad elevarlo. La prerogativa dell’uomo è dunque la vocazione alla libertà.
  • Secondo la corrente Wolffiana, a cui appartengono gli illuministi d’area germanica, la natura dell’uomo è il fondamento di un razionale sistema di libertà e di obblighi innati che corrispondono a inderogabile leggi naturali. Tutti i diritti dell’uomo derivano dalla natura; non c’è contraddizione tra legge naturale e Rivelazione cristiana; in virtù di un contratto sociale il sovrano guiderà i suoi sudditi verso la felicità.
  • I fisiocratici si avvicinano alla concezione wolffiana. Le leggi, devono obbedire ad un razionale ordine naturale. La legislazione positiva, se vuole produrre benessere e felicità, deve rispettare e ricalcare una necessitante razionalità giuridica naturale.

Per i fisiocratici l’uomo dello stato di natura è l’individuo che possiede beni per il proprio vantaggio. Entrando nella società civile, o “stato di giustizia”, come loro chiamano, il possesso individuale dell’uomo diventa libero esercizio di “un diritto di proprietà legalmente tutelato”.

  • Oltre Manica (filone anglo-scozzese, da ricordare Bernard de Mandeville ed il filosofo economista Adam Smith) l’uomo è considerato una figura essenzialmente egocentrica, che si muove sotto passioni, che il saggio legislatore può bilanciare con l’interesse pubblico.

Pur nel suo egoismo, però, l’uomo partecipa alle passioni, alle gioie e d alle sofferenze altrui, immaginandole come proprie e sa di potersi attendere queste reazioni da parte di ognuno. Si creano così delle relazioni, rapporti fra soggetti attori e soggetti spettatori, con un alterno scambio di ruoli, dove, per esigenza d’identità, sono favorite le passioni socialmente approvabili e scoraggiate quelle riprovevoli. Il risultato è che l’intera società viene ad essere munita di un spontaneo, benefico potere di auto-equilibrio e autodisciplina.

  • Contro il diritto di proprietà, allo stesso modo, si schiera il filosofo Morelly. Egli intende far ritornare l’uomo alla sua naturale felicità originaria sopprimendo l’artificiale istituzione della proprietà ed istituendo un’organizzazione della società civile, del lavoro, dell’educazione e dell’assistenza pubblica radicalmente egualitaria.
  • Per Voltaire gli uomini nascono liberi e sanno distinguere il bene dal male, il giusto dall’ingiusto. Lo stato di natura, commenta, è formato dalla libertà e dalla proprietà.

Condannando il diritto positivo come un caos di leggi contraddittorie e illiberali, sente la necessità di un saggio legislatore (un monarca illuminato amico della libertà)  che promulghi un diritto semplice, chiaro e ragionevole, come appunto il diritto naturale.

  • Rousseau, invece, come vedremo, sarà contrario alla concezione dell’illuminismo illuminato. L’uomo, dice, ha bisogno del “Contratto sociale”, poiché allo stato di natura era un bruto isolato e libero ed ha bisogno di cambiare per esistere. Chi deve essere preposto all’organizzazione normativa deve conoscere la natura originale dell’uomo per poterla cambiare. Il legislatore trasforma l’uomo da libero selvaggio a libero cittadino.
  • Il pensiero di Condorcet, matematico, filosofo, uomo politico, in senso ideologico e cronologico l’ultimo degli illuministi, costituisce la summa dei moduli mentali dei diversi filoni del razionalismo illuministico. Egli vede nel “patto sociale” l’elemento che ha posto fine allo stato di natura ed ha creato lo stato civile. Gli uomini, cioè, si sono associati per conservare i loro diritti naturali: sicurezza della loro persona e della famiglia, la libertà e la proprietà. Anche per lui “la conoscenza della natura umana è condizione fondamentale di una benefica legislazione”.

Ora possiamo trarre qualche deduzione conclusiva.
A partire dalla metà del secolo XVIII si fa attiva un’élite di intellettuali, rappresentata un po’ in tutta Europa, soprattutto addensata nei dintorni di Parigi. Questi filosofi hanno l’ambizione di “illuminare il potere politico” e nello stesso tempo di creare il pubblico consenso.
Se alcuni predicano la dottrina del Contratto sociale, quale atto di cessazione dello stato di natura, di fondazione dello Stato e delega del potere politico a un sovrano, tutti ritengono che il fondamentale strumento costruttivo per realizzare il bene degli uomini in società (la giustizia cioè) sia il diritto.
E’ la religione della legge e la gigantizzazione della figura del legislatore.
Tutti gli illuministi si orientano secondo queste prospettive di partenza:

  • occorre una riforma giuridica, economica e istituzionale della società;
  • l’obiettivo è quello del bene comune;
  • la legge è indispensabile per raggiungere tale fine;
  • la legge deve fondarsi su presupposti antropologici (conoscenza della natura umana) per realizzare il bene comune, anche se su questo abbiamo notato una divaricazione di correnti.

I pilastri francesi dell’Illuminismo giuridico

 

Montesquieu

Nato da nobilissima famiglia nel 1689, Montesquieu pubblica nel 1748, anonima, a Ginevra, la sua opera più importante e monumentale: L'esprit des lois (Lo spirito delle leggi), un lavoro tra i maggiori della storia del pensiero politico, vera e propria enciclopedia del sapere politico e giuridico del Settecento.
Esprimere idee nuove non era facile in quel secolo. Montesquieu non era certo un rivoluzionano, eppure la sua critica dei pericoli dispotici della monarchia assoluta gli aveva già provocato dei nemici, tanto che la seconda grande opera, le Considerazioni sulle cause della grandezza e della decadenza dei Romani, non poté essere pubblicata in Francia. Qui la grandeur di Roma derivava dalla moderazione della Repubblica, la décadence dall'arbitrio e dal dispotismo dell'Impero.
Le persecuzioni contro L'esprit des lois, non mancarono, ma il successo fu grandioso. In pochi anni si ebbero in Europa, non meno di venti edizioni dell'opera, che fu tradotta in tutte le principali lingue del continente (anche in Italia, nel 1777, per opera dell'illuminista napoletano Antonio Genovesi). I sovrani del Settecento, soprattutto Caterina di Russia, si ispirarono a lui per le loro riforme «illuminate». Fu meno apprezzato fu proprio in patria (Voltaire e Condorcet lo criticarono).
La novità dello Spirito delle leggi è in quella parola «esprit» del titolo, con la quale Montesquieu vuole indicare un nuovo modo di affrontare il problema.
Egli parte dalla relatività delle leggi: il regime politico, i costumi, il clima, la religione, il commercio influenzano e modificano la formulazione delle leggi. Le leggi pertanto sono sempre in rapporto imprescindibile di dipendenza con questi fattori. Lo spirito delle leggi è appunto l’insieme dei rapporti fra la legge stessa e queste variabili.
Diverse sono le cose lecite e proibite nei diversi Paesi e nello stesso Paese in epoche diverse. “Il diritto” - dice Montesquieu – varia da società a società, ed è un caso raro che le leggi di una nazione possano convenire ad un’altra”.
Ben più della formulazione scritta (il «codice») conta dunque lo «spirito», ossia quel complesso di cause, radicate nel costume di un popolo, che inducono gli uomini a definire i valori e le finalità delle leggi scritte. Montesquieu cerca, così, di dimostrare come le istituzioni e le leggi dei vari popoli non costituiscono qualcosa di casuale e arbitrario, ma sono strettamente condizionate dalla natura dei popoli stessi, dai loro costumi, dalla loro religione, ecc.
Le leggi” -dice Montesqueiu- sono i rapporti necessari che derivano dalla natura delle cose”. Le leggi sono, cioè, le regole che determinano i rapporti fra tutti gli esseri secondo una necessità naturale, una logica della natura. Come tali, essi sono quei rapporti: norme derivanti dalla conformazione biologica e psicologica dell’uomo (e non di norme razionali). Il Cavanna dice che quello di Montesquieu è un giusnaturalismo di tipo empirico: “naturalistico” e non razionalistico.
Montesquieu nel libro XIX, analizza i generi di poteri, e traccia la costituzione fondamentale di un governo, e nell'esporla tocca il suo apice, rendendo accessibili i temi fondamentali della libertà politica, e quindi i tre tipi di governo degli uomini: la repubblica, la monarchia e il dispotismo.
Il governo repubblicano è quello in cui il popolo, nel suo complesso o soltanto parte di esso, detiene il potere sovrano; il monarchico quello in cui uno solo governa, ma attraverso leggi fisse e stabilite; mentre nel governo dispotico un solo individuo, senza leggi né regole, trascina tutto secondo la sua volontà o i suoi capricci. Quest'ultimo governo, non retto dalle leggi ma dalla forza e dall'arbitrio illimitato di un singolo, é considerato da Montesquieu un ordinamento contraddittorio: dovrebbe garantire la sicurezza e la pace dei sudditi a prezzo della loro libertà, ma la tranquillità e la sicurezza sono incompatibili col terrore, che è il principio su cui si fonda il suo potere.
Al polo opposto del dispotismo è la repubblica, cioè la forma di governo in cui il popolo è al tempo stesso monarca e suddito. L'essenza di questo governo è che il popolo fa le leggi e elegge i magistrati, detenendo sia la sovranità legislativa che quella esecutiva.
La forma che sta in mezzo è la monarchia regolata, la monarchia costituzionale, in cui Montesquieu vede contemperate le caratteristiche positive sia del regime monarchico assoluto, che di quello repubblicano (forma di governo rappresentata dall'Inghilterra). La tesi fondamentale è che può dirsi libera solo quella costituzione in cui nessun governante possa abusare del potere a lui confidato.
L'unica garanzia contro tale abuso è che "il potere arresti il potere", cioè la divisione dei poteri: il legislativo, l'esecutivo e il giudiziario (i tre poteri fondamentali) debbono essere affidati a mani diverse, in modo che ciascuno di essi possa impedire all'altro di esorbitare dai suoi limiti convertendosi in abuso dispotico. La riunione di questi poteri nelle stesse mani, siano esse quelle del popolo o del despota, annullerebbe la libertà perchè annullerebbe quella "bilancia dei poteri" che costituisce l'unica salvaguardia o "garanzia" costituzionale in cui risiede la libertà effettiva. Una sovranità indivisibile e illimitata è sempre tirannica". Ne deriva che i tre poteri di fare le leggi, di eseguirle e di giudicare i delitti non possono appartenere a un solo uomo o a una sola classe sociale. Essi debbono essere distinti, come avviene nel sistema inglese: al re l'esecutivo e il blocco del legislativo (veto); alle Camere (quella ereditaria dei nobili e quella elettiva del popolo) il legislativo, a una magistratura scelta dal popolo il giudiziario. Solo la separazione è garanzia di libertà.
Le leggi, dice Montesquieu, devono essere chiare, concise e semplici.
Le leggi penali, poi, devono essere “buone”: umanità delle pene e del processo penale. E’ il requisito necessario ai fini della libertà. I comportamenti vietati e le pene che li puniscono devono essere assolutamente anticipatamente indicati, e indicati con una legge applicabile dal giudice: è la certezza del diritto. Leggi certe e buone dunque. Le leggi inutili, quelle che comminano pene crudeli, non proporzionate, sono tiranniche.
Nel processo penale Montesquieu indica alcune garanzie processuali: insufficienza di un solo testimone, maggiore acquisizione delle prove, insomma più diritti della difesa.
Montesquieu auspica inoltre un controllo al potere dello Stato, in vista della libertà dei cittadini, assicurata dal diritto (bisogna dire che Montesuieu non vede lo Stato come potenziale nemico della libertà dei cittadini).
Certamente Montesquieu teorizza i presupposti tecnico-politici dell’idea di codificazione, ma il filosofo, in ossequio all’idea della irriducibile relatività e variabilità del diritto, vede il codice come ostacolo all’affermarsi di tale idea.

L’enciclopedia

L' Enciclopedia o Dizionario ragionato delle scienze, delle arti e dei mestieri è una vasta enciclopedia pubblicata nel XVIII secolo, in lingua francese, da un consistente gruppo di intellettuali sotto la direzione di Diderot e D'Alembert. Essa rappresenta un importante punto di arrivo di un lungo percorso teso a creare un “compendio universale del sapere”, nonché il primo prototipo di larga diffusione e successo delle moderne enciclopedie, al quale guarderanno e si ispireranno nella struttura quelle successive.
La sua introduzione, il Discorso Preliminare, è un'importante esposizione degli ideali del- l'Illuminismo, nel quale viene altresì esplicitato l'intento dell'opera di incidere profondamente sul “modo di pensare” e sulla cultura del tempo. Viene fatto il punto degli straordinari progressi conseguiti dal pensiero umano, il punto delle nuove conoscenze tecniche, scientifiche e filosofiche, da mettere a disposizione di un pubblico mediamente colto: è in risalto cosa può fare il progresso
L’Enciclopedia è un’opera simbolo, lo strumento di lotta e di propaganda della Ragione illuministica, di coloro che pensano e che vi hanno contribuito coi loro scritti al fine di illuminare l’umanità rimasta prigioniera dell’ignoranza e della superstizione. 

Voltaire

Voltaire, è sicuramente l'autore che meglio rappresenta i caratteri, gli ideali e i limiti dell'illuminismo francese. In lui convivono il filosofo, lo storico, il politico, il poeta e il romanziere.
Nato a Parigi nel 1694, egli fu esponente di quell'agiata borghesia francese che si avviava ad assumere un ruolo di primo piano nella vita economica e culturale del paese.
Durante la sua lunga vita non gli mancarono onori e incarichi prestigiosi.
Attraverso gli uffici di madame de Pompadour, favorita di Luigi XV, fu nominato storiografo e poeta di corte. In stretti rapporti epistolari con il futuro re di Prussia, Federico II il Grande, quando i suoi rapporti con la corte francese si guastarono del tutto, si trasferì a Berlino presso il suo nuovo protettore, ormai asceso al trono. L'amicizia tra Voltaire e Federico II è emblematica dei rapporti che la prima generazione di illuministi cercò di intrattenere con il potere politico: l'idea generale era quella di riformare il tutto per avere una società più giusta, nella quale dominasse la ragione e si cercasse il bene per l'uomo; si cercò quindi di riformare partendo dall'alto, ossia cercando alleanze con   i  sovrani.   I filosofi speravano di avere udienza presso i potenti, coinvolgerli nei programmi razionalistici e promuovere attraverso di essi, dall'alto la riforma della società: tutto ciò diede luogo alle esperienze dell'assolutismo illuminato. Ma le speranze riposte in Federico II rimasero deluse.
Di derivazione inglese è il deismo di Voltaire, avversario di ogni religione rivelata (schiacciate l’infame era il suo pungente motto contro la Chiesa cattolica) quanto di ogni forma di ateismo: l'esistenza di Dio, causa e ordinatore del mondo, è razionalmente dimostrabile, mentre va al di là di ogni conoscenza umana la definizione dell'essenza e degli attributi divini. Secondo Voltaire, Dio é il motore immobile, il garante dell'ordine nell'universo; ma la provvidenza di Dio si limita a garantire l'ordine e la necessità delle leggi naturali e non investe le vicende umane.
 Sicuramente il tratto più caratteristico dell'opera di Voltaire è la polemica religiosa, politica e sociale che contraddistingue soprattutto l'ultimo periodo della sua vita. La concezione deistica di Voltaire viene ora apertamente finalizzata alla critica del cristianesimo, inteso come fonte di intolleranza e di guerra e, quindi ostacolo allo sviluppo storico dell'umanità: una religione come  quella cristiana impedisce all'uomo di servirsi della propria ragione imponendogli di compiere assurdi atti di fede. V. dice che la religione (qualunque) è socialmente utile, e la credulità delle masse è comprensibile, mentre è il fanatismo clericale, persecutorio, integralista ad essere “infame”.
Analogamente, in ambito politico, Voltaire difende il diritto d’ogni cittadino alla libertà civile e politica (in primo luogo alla libera espressione delle proprie idee), in contrapposizione a un assolutismo dal quale egli non si attendeva ormai più alcuna collaborazione. I diversi aspetti della polemica illuministica di Voltaire trovano quindi il loro centro unificatore nella difesa della tolleranza come valore imprescindibile per garantire pace, giustizia e progresso civile.
Per Voltaire, libertà è riconoscere a ciascuno il diritto di professare le proprie convinzioni religiose.
Un contributo estremamente rilevante al pensiero illuministico è dato da Voltaire anche sul terreno della riflessione storica. Per il filosofo la storia consiste in un graduale processo d’incivilimento, di civilisation, dell'umanità, a partire dalla condizione selvaggia fino   alle   quattro   grandi   espressioni   della   civiltà   umana: l'Atene   di Pericle,   la Roma   di Cesare e Augusto, la Firenze dei Medici e la Francia di Luigi XIV. Il progresso non è quindi qualcosa di ininterrotto, ma conosce pause e involuzioni, come dimostra il periodo del Medioevo.
Bisogna anche dire che se esiste una tradizione storiografica che associa alla battaglia condotta da Voltaire per la libertà religiosa un suo corrispondente impegno civile a favore dell’eguaglianza, per il Cavanna, invece, ciò rappresenta uno dei tanti miti costruiti intorno alla figura del filosofo.
Secondo il Cavanna, Voltaire si preoccupò di argomentare perlomeno quattro idee perfettamente antiegualitarie: quella della insopprimibile disparità della condizione economica degli individui; quella della naturale diversità genetica e intellettiva delle razze umane; quella dell’inferiorità del popolo ebreo; quella, infine, dell’immaturità delle masse popolari in genere.
A)   Per Voltaire esisteranno sempre poveri e ricchi: chi nasce povero andrà sempre più abbruttendosi per il suo lavoro, senza rendersene conto. Quando se ne accorgerà ci saranno le guerre, ma queste guerre finiranno sempre con l’asservimento del popolo, perché i potenti hanno il denaro. L’eguaglianza è pertanto “naturale nel diritto”, ma “chimerico in fatto”.

  • Il secondo punto rappresenta un rospo da inghiottire per chi fa dell’illuminismo un momento di battaglia universalistica per l’emancipazione dell’umanità. La razza nera è considerata inferiore.
  • Notevole in Voltaire l’antisemitismo. Per Voltaire il giudizio sugli ebrei è questo: un popolo ignorante, barbaro, avaro ed intollerante verso tutti gli altri popoli.
  • Questo quarto punto rispecchia il pensiero illuminista sulle masse: il popolo deve essere guidato, non istruito, perché esso non è degno di questo. Solo un piccolo gruppo di uomini sono illuminati. I “paysan” sono zotici che vivono in capanne coi loro animali e le loro femmine….

Vediamo ora Voltaire nel campo del diritto ed in quello della giustizia.
Intanto, egli parte dal presupposto che esiste una giustizia naturale, razionale e universale, che si contrappone, come una morale congenita valida per tutti gli uomini, alle leggi positive. Dappertutto il furto, la violenza, l’omicidio, la cospirazione contro la patria, sono delitti evidenti, puniti sempre, anche se in modo diverso. Le leggi umane, insieme alle tante consuetudini, abbondanti, confuse, mal fatte e contraddittorie, spesso si allontanano da questa intuizione del giusto e dell’ingiusto. Ci sono 144 coutumes in Francia che hanno forza di legge, e queste leggi sono quasi tutte diverse.
Sono dunque la frammentazione del diritto e la diversità delle giurisprudenze che colpiscono Voltaire, il quale   auspica una soluzione simultaneamente distruttiva e costruttiva: fare tabula rasa del vecchio regime giuridico e sostituirlo in blocco con un diritto nuovo.
Un diritto nuovo dove ogni legge deve essere chiara, coerente e precisa un modello di certezza del diritto=libertà con diversi punti essenziali: a) supremazia della legge su consuetudine, dottrina e giurisprudenza; b) necessaria chiarezza; c) tassativo divieto di interpretazione extra-letterale.
Voltaire parlò di codice soprattutto a proposito della parte dell’ordinamento positivo che a suo giudizio più abbisognava di essere rifatta: il diritto penale e processuale penale.
Secondo Voltaire il nuovo diritto non può essere promulgato che dal sovrano illuminato: è la dottrina dell’assolutismo illuminato. La legge del sovrano filosofo non può che essere giusta e certa e, nel suo agire, il sovrano, guidato dall’élite pensante, rende felici e liberi i suoi sudditi.
Voltaire ritiene che sia più utile alla società contemplare una pena mite e proporzionata ad un delitto e che il processo penale sia fondato sulle basi del principio di legalità.
Come si può notare Voltaire aderisce quasi totalmente alle tesi di Montesquieu e di Beccaria.
Nella repressione penale, inoltre, il filosofo considera i delitti contro la religione peccati e non reati, da lasciare alla giustizia divina e, pertanto, da depenalizzare.
Per ciò che concerne la procedura penale, Voltaire afferma che il regime probatorio della vigente Ordonnance criminelle, promulgata da Luigi XIV, sia da abolire in quanto può mandare sul patibolo una persona anche solo in base a congetture o a “mezze prove”.
E’ contrario alla tortura in generale, ammessa solo in casi eccezionali, per delitti efferati, per estorcere il nome dei complici (Beccaria, invece, è contrario in ogni caso).Sulla questione della pena di morte, infine, Voltaire ne auspica una massiccia riduzione, da sostituire con i lavori forzati.

J. Jacques Rousseau

Se Voltaire è il rappresentante della formula politica dell’assolutismo illuminato, J. J. Rousseau, invece,  personifica il più radicale ripudio di quella formula, e se è facile escludere l’immagine dell’antidemocratico Voltaire, cortigiano dei re, quale ispiratore della Rivoluzione, più problematico è valutare l’uso che la Rivoluzione fece delle pagine del Rousseau.
Robespierre per primo si riconobbe in Rousseau, di cui fece l’elogio nella famosa orazione sul culto dell’Ente supremo del 7 maggio 1794.
Sicuramente ritroviamo nella Rivoluzione alcune idee di fondo di Rousseau, come il generico egualitarismo, il primato della legge, il concetto della sovranità popolare, la definizione stessa di legge quale “espressione della volontà generale”, e soprattutto la vocazione alla rigenerazione dell’individuo e alla ricostruzione da capo della società, così come parimenti possiamo affermare che il Contratto sociale è il “libro della legge” della Rivoluzione stessa. Bisogna dire, però, che Rousseau non aveva previsto né la Rivoluzione, né il terrore, né possiamo dichiararlo attivatore della Rivoluzione per il suo innato orrore per la violenza. Possiamo dunque affermare che “la parola di Rousseau non ha determinato la Rivoluzione, ma ha suscitato il sentimento che conferiva all’avvenimento il suo senso maestoso”.

 “L' uomo é nato libero e ovunque é in catene: con questa amara considerazione inizia il Contratto Sociale. Il problema era piuttosto quello di trovare una forma di contratto sociale, mediante la quale gli uomini , pur entrando necessariamente e giustamente nella società civile e godendo della sicurezza che essa offre , conservassero l'eguaglianza che caratterizza lo stato naturale e non entrassero in uno stato caratterizzato dalla disuguaglianza e dai soprusi. Importante è dunque la formula del contratto sociale, che Rousseau definisce nei seguenti termini.
Nel patto sociale ciascun individuo deve cedere tutto sé stesso e tutti i suoi diritti, ma il destinatario di questa alienazione non è un singolo individuo (un " terzo"), bensì il corpo politico nella sua interezza: ciascuno cede tutti i suoi diritti individuali per poi riprenderli come collettività.
Il contratto in Rousseau è il momento in cui gli individui, consapevoli e liberi,  costruiscono la società attraverso un patto di associazione e non di sottomissione, perché ognuno nel cedere alla comunità la propria sovranità diviene automaticamente sovrano di sé stesso.
Un atto costitutivo della comunità che avviene sul piano di un’assoluta uguaglianza.
Volontà sovrana e unitaria: nella formula di Rousseau sovrano e sudditi, governati e governanti non risultano più contrapposti per la semplice ragione che si identificano. I sudditi diventano cittadini, i cittadini formano quell’insieme indivisibile che è il popolo, il popolo è il nuovo sovrano.
La libertà è dunque lo scopo del contratto, così come l’eguaglianza né è il presupposto. Si tratta della libertà civile, naturalmente, che l’associato riceve in cambio della propria (non più garantita) libertà naturale. La libertà civile ha il vantaggio di essere giuridicamente tutelata dal contratto.  
E’ il bene comune il fine dello Stato nato dal contratto e insieme l’obiettivo unico della volontà generale, nel cui esercizio consiste tipicamente la sovranità. A sua volta la volontà generale si esprime attraverso la legge. Quest’idea della legge come espressione della volontà generale rappresenta la democratizzazione rousseauniana della concezione volontaristica della legge stessa. La legge è diretta e si applica a tutti, senza distinzioni. Il popolo è soggetto, ma allo stesso tempo è autore delle leggi. La legge è sempre giusta ed è garanzia di libertà e di eguaglianza.
Il Cavanna, a questo punto, ci parla dell’ostilità nei confronti della nozione di rappresentanza da parte di Rousseau.
Il filosofo, non fidandosi ciecamente del popolo, che definisce “moltitudine cieca”, per l’iniziativa legislativa ricorre alla figura del sapiente, del “Grande legislatore”.
Una volta che il legislatore ha fatto le leggi, esse devono essere sottoposte ai liberi voti del popolo: è una forma di democrazia referendaria, secondo cui la sovranità, inalienabile e indivisibile, non può essere rappresentata.
I deputati del popolo non sono dunque, né possono essere, i suoi rappresentanti, sono soltanto i suoi commissari; essi non possono concludere nulla in modo definitivo.
Al concetto di rappresentanza della sovranità popolare tramite delegati (tipica dei regimi parlamentari quali l'Inghilterra), egli contrappone dunque una forma di democrazia diretta, in cui i membri del corpo politico assumono le delibere di persona riunendosi in assemblea. Conseguentemente, la proposta politica di Rousseau, pur essendo indirizzata a qualsiasi forma di organizzazione politica, comporta una netta preferenza per gli Stati di piccole dimensioni (dottrina del piccolo Stato), prendendo a modello la piccola repubblica sul tipo della Sparta antica o i cantoni svizzeri, mentre resta chiaramente inapplicabile in una grande nazione moderna come la Francia. 
L’occasione per parlare di codici e del relativo problema del rapporto fra giudice e legge viene offerta a Rousseau dal governo polacco.
Nelle “Considerazioni sul governo della Polonia” il filosofo scrive che “bisogna fare tre codici: uno politico, uno civile ed uno criminale, tutti e tre chiari, brevi e precisi il più possibile”. Aggiunge, inoltre, che devono essere insegnati non solo nelle università, ma anche in tutti i collegi. Quest’insegnamento, così,  attribuisce alla legge codificata una decisiva influenza educativa.
Rispetto alla possibilità di lasciare una certa discrezionalità ai giudici, per gli eventuali casi non contemplati dai codici (classica opinione illuministica in tema di interpretazione), Rousseau, invece, postula la più rigorosa e integrale subordinazione del giudice alla legge.

L’illuminismo italiano

Capitolo I
Lumi lunari

Salvo alcune eccezioni, il pensiero ed i modi di ragionamento degli illuministi italiani sono molto condizionati da quello francesi. Molte idee illuministiche, però, fra cui la polemica antigiurisprudenziale o  la teorizzazione di un diritto certo e non abbisognevole di interpretazione, erano già presenti nella cultura italiana del primo ‘700, che molti storici hanno chiamato preilluminismo. Ricordiamo G. Vico, il napoletano Pietro Giannone ed il modenese L. A. Muratori col suo celebre “Dei difetti della giurisprudenza”. I temi di questi preilluministi saranno ripresi più tardi secondo le formule recepite in Italia dalle lumières francesi.
Per usare un’espressione del Tarello, quello italiano è una variante poco significativa dell’illuminismo giuridico: un illuminismo di riflesso,  fatto di luci riflesse, come quelle  lunari.
I nostri sono lumi solari, invece, nell’ambito del diritto penale, ed il libro-manifesto di Beccaria, tradotto in molte lingue, fa il giro dell’Europa.
Diamo ora uno sguardo agli altri illuministi italiani.

La Napoli della seconda metà del ‘700 rappresenta un vero e proprio polo italiano di irradiazione della cultura illuministica, dove troviamo innanzitutto la figura del moderato Antonio Genovesi. Questi afferma l’esistenza di un immutabile e universale diritto naturale, ma si distacca dalla classica tendenza illuministica francese ammettendo l’inevitabile possibilità da parte del giudice di una interpretazione integrativa ed extra-letterale del diritto civile.
Al Genovesi possiamo accostare F. Mario Pagano, politico e criminalista, che sente la necessità di una codificazione statuale come rimedio all’incertezza ed alla confusione della vigente legislazione.
Un altro illuminista meridionale è Giuseppe Maria Galanti che critica aspramente la situazione patologica del diritto del suo Paese e la sottocultura avvocatesca. Le consuetudini napoletane -dice-sono la vergogna della ragione umana. Tutto è incerto, contraddittorio e arbitrario.

Gaetano Filangieri rappresenta la figura più importante della Napoli dei lumi. Esperto nel campo penale, si sentono in lui le influenze di Montesquieu e Beccaria. Anche se morto giovanissimo (36 anni) si mette in luce per aver celebrato la saggezza del ministro Tanucci (scrive e dedica a lui le sue “Riflessioni politiche”), che è riuscito ad ottenere da Ferdinando IV due dispacci clamorosi e sconvolgenti: i giudici partenopei devono d’ora in poi motivare le loro sentenze ed inoltre si devono attenere alle leggi del Regno e non alle loro opinioni  incerte ed arbitrarie (i dispacci hanno creato la rabbiosa reazione conservatrice degli scandalizzati giudici ed avvocati, e sono abrogati nel 1791).
La sua opera maggiore è “La Scienza della legislazione”. In cinque tomi, l’opera è dedicata nei primi due alle regole generali della scienza legislativa ed alle leggi politiche ed economiche. Il terzo è occupato dalla materia processuale penale e penale, mentre il quarto si interessa della regolamentazione di educazione, costumi e istruzione pubblica. L’opera, pur se incompiuta per la morte precoce dell’autore (il quinto tomo non sarà concluso), ottiene un successo europeo.
L’opera però –afferma il Capanna- manca di una forza inventiva profonda. Ha successo perché in essa sono racchiuse le idee e la compresenza di tante fonti, da Montesquieu a Rousseau, a Beccaria.
Secondo il Filangieri, se si vogliono buone leggi occorre mutare interamente l’ordinamento giuridico tradizionale. E lo si può fare ora che “il grido della ragione e della filosofia è giunto ai sovrani ed ogni cittadino vuole la riforma”. Abbattere la tirannide feudale e delegare al Sovrano (quindi allo Stato) l’amministrazione della giustizia nella sua interezza darà nuova vita al processo penale. In tale processo dovranno esserci le novità garantistiche: l’istituzione di un pubblico ministero che sostenga l’accusa, l’introduzione di una giuria popolare, l’abolizione della tortura. Sono però le sue pagine “penalistiche”, (si sente molto l’influenza del Beccaria), quelle più importanti. “Le leggi, nel punire i delitti, devono impedire che il reo rechi danni alla società e devono distogliere gli altri dall’imitare il suo esempio. Pene, però, proporzionate e minor tormento del reo”. Se il legislatore supera il confine del minimo necessario di severità è un tiranno.
E’ puro illuminismo importato a Napoli:  notiamo la teoria della prevenzione speciale (neutralizzare il delinquente), la prevenzione generale (distogliere gli altri), infine la mitezza e la proporzionalità della pena. A differenza del Beccaria, ammette la funzione del dolo e della colpa (assente nel lombardo): “ il delitto è la violazione della legge, accompagnata dalla volontà di violarla”.
“Chi si macchia del  delitto più grave perde il diritto più prezioso”: è la giustificazione, antibeccariana, della pena di morte nei confronti dell’omicida e del traditore della patria.

A Milano, capitale della Lombardia austriaca, non solo nasce l’opera di Beccaria, ma è organizzato da Pietro Verri un sodalizio di giovani aristocratici che propagandano le idee dei lumi, e allo stesso tempo, ribellandosi a valori autoritari delle proprie famiglie, si schierano contro la mentalità della classe forense  e contro la tradizione culturale dei benpensanti in genere.
Beccaria, Pietro e Alessandro Verri ed altri giovani si riuniscono la sera, a casa del Verri,  a discutere di diritto, economia e politica. Creano il club “Accademia dei pugni” e pubblicano un giornale “Il Caffè”, per richiamare l’attenzione di Vienna.
Il leader è il più anziano, il più ambizioso, Pietro Verri, figlio di Gabriele, il più autorevole magistrato di Milano, che non condivide per nulla le idee dei figli.
Nasce così l’illuminismo lombardo, con i fratelli Verri che suggeriscono al Beccaria il tema da trattare e che lo consigliano ed lo incitano durante tutta la stesura dell’opera.
Di Pietro Verri è opportuno ricordare almeno tre suoi scritti di contenuto strettamente giuridico.

  • L’orazione panegirica sulla giurisprudenza milanese”: scritto da leggersi in chiave ironica, dove il Verri finge di parlare nelle vesti di un magistrato di convinzioni conservatrici (scorgiamo la figura del padre) che strilla contro i lumi francesi;
  •  “Sulla interpretazione delle leggi”, pubblicato sul Caffè, che rappresenta una specie di summa delle ideologie antigiurisprudenziali dell’illuminismo in ordine al problema dei rapporti fra giudice e legge:
  • il principio di partenza è quello della separazione della figura e del compito del legislatore da quelli del giudice;
  • compito esclusivo del sovrano è quello della legislazione; mentre quello del giudice è quello di far eseguire la legge; in altre parole, il legislatore comanda, il giudice fa eseguire il comando;
  • assoluto divieto di interpretazione; il magistrato nelle cause penali non può in nessun caso “interpretare”, cioè nessuno può essere punito per un reato non previsto dalla legge (nullum crimen, nulla poena sine lege); nelle cause civili potrà “integrare” un’eventuale lacuna creando una regola per il singolo, che deve essere subito tolta colla promulgazione di una legge generale, che in avvenire comprenda casi simili;
  • Le osservazioni sulla tortura”, scritto col quale il Verri si scaglia contro il truce uso giudiziario   finalizzato all’estorsione della confessione dell’imputato. Verri intende dimostrare che la tortura non è né utile, né giusta, ma allo stesso tempo si mostra un po’ indulgente verso i giudici, che giustifica per la “purità del fine”(vediamo un Verri alquanto prudente, certamente con la stoffa del combattente, ma non con quella del  martire, dice il Capanna).

Alessandro Verri, invece, è la mente più  giuridica del gruppo, colui il quale “pesa le parole”. Egli dichiara di non guardare con assoluta venerazione le leggi giustinianee ed il diritto romano in generale, perché li vede pieni di contraddizioni ed assurdità (accusa anche glossatori e commentatori), ma allo stesso tempo riconosce nelle “Istituzioni” un testo bene ordinato, mentre  nelle “Pandette” dice che possono trovarsi molte cognizioni per la formazione di un nuovo volume di leggi, cioè un codice, che deve essere redatto in ogni caso. Alessandro giunge alla conclusione che per un “codice perfetto” si può far tesoro di qualche razionale soluzione reperibile nei testi di diritto romano, non in quello comune, che deve essere sostituito.
Per realizzare la riforma, dice, occorre un “filosofo giureconsulto”, perchè non bastano né solo il giureconsulto, né solo il filosofo. Dovrà applicare il codice il giudice, rigorosamente subordinato alla lettera del precetto legislativo e tenuto a motivare le proprie sentenze.   
Capitolo II
Lumi solari

Per comprendere come sia nato il libro del Beccaria è importante capire come si amministra la giustizia penale a Milano e nella Lombardia austriaca in quel tempo.
La giustizia penale è amministrata secondo un modello comune dell’ Europa continentale d’ancien régime. Il diritto comune ha mantenuto il tradizionale carattere sovrastatale, ad opera di ciascun “grande tribunale” ed ha assunto in ciascun paese una sua tipica connotazione nazionale o regionale, derivata dai vari statuti, coutumes, fueros,….Allo stesso modo il diritto penale praticato a  Milano è un diritto comune europeo, con particolari connotati derivanti dall’aggiunta di un “colorante” giuridico locale (coordinamento di tradizioni romaniste con norme specificatamente lombarde).
I giudici, siedono nel supremo tribunale dello Stato lombardo, il senato di Milano,  e provengono tutti dai ranghi privilegiati del patriziato cittadino. Oltre ad essere ottimi giuristi, questi senatori sono stati legittimati dai vari sovrani succedutisi a giudicare in loro nome ed hanno insindacabili poteri. Tengono sul proprio banco, oltre  il Corpus Juris, anche il testo delle Nuove Costituzioni del ducato di Milano, promulgate da Carlo V, e in più quello degli Statuti criminali delle varie città lombarde. Norme vetuste, ma sempre venerabili per il loro contenuto dottrinale e giurisprudenziale.
Norme utilizzabili per mandare un delinquente sulla forca: se non bastano questi testi, il giudice ricorre all’ “arbitrio equitativo” e giudica secondo coscienza.
E’ il primato della giurisprudenza sulla legge.

Cesaria Beccaria nasce a Milano nel 1738, da una famiglia di fresca nobiltà. Nel 1763, nello stesso anno in cui prendono avvio i fogli del Caffè, durante le riunioni dell’Accademia dei pugni, spronato dai fratelli Verri, comincia a documentarsi e a scrivere il libretto “Dei delitti e delle pene”.
Il suo scritto,  suscitando allarme fra i conservatori ed entusiasmo  fra gli intellettuali aperti ai  lumi,
diventa ben presto una sorta di proclama generale dell’illuminismo europeo.
E’invitato a Parigi per ricevere le testimonianze di ammirazione dei sommi pontefici dell’Encyclopédie e delle lumières: Diderot, D’Alembert, D’Holbach, Voltaire, Helvétius.
Ritornato a Milano per nostalgia, i suoi rapporti con Pietro Verri si guastano: l’ambizioso Pietro soffre per essere stato lasciato in ombra dall’amico Cesare.
Rinuncia ad un invito di Caterina II di Russia per potersene stare tranquillo nella sua Milano. Qui morirà, senza clamori, nel 1794, colpito da ictus.

Il libretto si apre con un attacco deciso e frontale al diritto vigente. Le leggi vigenti, per Beccaria, sono ancora alcuni avanzi di quelle giustinianee, anche influenzate dalle consuetudini longobarde, frammiste  a private ed oscure interpretazioni succedutesi nel tempo.
Queste leggi, che sono uno “scolo di secoli più barbari”, sono esaminate in questo libro per quella parte che riguarda il sistema criminale.
Ecco il nero ritratto degli elementi del diritto penale vigente: a) leggi romane come piattaforma di partenza; b) successivi innesti dei riti longobardi; c) voluminose e caotiche interpretazioni dottrinali sviluppatesi su tale massa normativa; d) il dissolversi della figura del legislatore  ed il sostituirsi al testo legislativo delle arbitrarie opinioni private degli interpreti; e) l’incondizionato ossequio dei giudici; f) la sorte dei cittadini affidata alla capricciosa interazione fra dottrina e giurisprudenza; g) il necessario appello ai sovrani ( direttori della pubblica felicità) per richiedere un loro intervento  risanatore.
All’equazione utilitaristica giustizia = utilità sociale, presente nelle prime battute del libro, Beccaria si mostra incline a sostituire il secondo elemento con quello della difesa dei diritti dell’uomo: il binomio di ispirazione utilitaristica si trasforma in binomio di segno umanitario.
Per Beccaria le leggi sono “le condizioni con le quali gli uomini indipendenti e isolati si unirono in società, stanchi di vivere in uno stato di guerra e godere della libertà. Essi sacrificarono una parte di essa per goderne la restante parte in sicurezza e tranquillità”.
L’insieme di tutte le porzioni di libertà liberamente sacrificate rappresenta il “deposito della salute pubblica” (della sicurezza e del bene comune). Ciò ha dato origine alla “sovranità”, poiché è il sovrano il legittimo amministratore di questo deposito.
Il sovrano deve difendere il bene di cui è depositario dagli attacchi di chiunque e grazie a questo potere può “punire” i delitti (possiamo intenderla come difesa sociale).
I delitti commessi sono punibili mediante le pene, che a loro volta sono “i motivi sensibili” stabiliti dal sovrano, che devono scoraggiare gli altri ad infrangere le leggi. Allo scopo di prevenire il crimine, per motivo sensibile si deve intendere non una ammonizione moralizzante da parte dello Stato, bensì la minaccia di uno specifico male di cui l’uomo ha materialmente timore.
Esiste, però, un limite al punire: punire è un diritto che si riduce allo stretto necessario, al “minimo sufficiente” per la difesa sociale. Da ciò si deduce che il diritto penale deve punire solo gli atti che sono “oggettivamente nocivi alla società” ed ogni singola pena deve essere superiore all’offesa “solo di quel tanto” che valga a far apparire svantaggioso il crimine al potenziale delinquente.
Ma qual è la funzione della pena?
La funzione non è retributiva: la pena non è il compenso del male col male, non è castigo fine a sè stesso, non è vendetta (non la pensano così Kant ed Hegel).
Il fine della pena è quello di impedire al reo di far male agli altri consociati ed invogliare gli altri a non commettere uguali crimini (intimidazione dei consociati = prevenzione generale) ed inoltre impedire che il reo ricada nel crimine (neutralizzazione del delinquente = prevenzione speciale).
Beccaria concepisce l’idea della prevenzione penale come realizzabile  a due livelli:

    • mediante la minaccia legislativa della pena;
    • mediante l’inflizione giudiziale della pena stessa (diremmo certezza della pena);

Bisogna dire che in Beccaria non troviamo la concezione della “teoria dell’emenda”, cioè quella che assegna alla pena un compito etico di rieducazione e risocializzazione del colpevole.
Per il lombardo le leggi devono essere chiare e semplici, affinché siano temute dagli uomini.
Un altro mezzo di prevenire i delitti è quello di ricompensare la virtù ed ipotizza un diritto premiale.
La dottrina di Beccaria, che rappresenta un po’ tutto l’illuminismo penale, tende a conciliare l’elemento utilitaristico e quello umanitario, il massimo contenimento della criminalità a vantaggio della società formata dagli uomini onesti e il minimo di afflizione per il reo: “Il diritto penale umano è allo stesso tempo utile” (Bisogna tuttavia chiarire che in Beccaria l’esigenza umanitaria prevale su quella della pura utilità sociale).
Per ciò che concerne il principio di legalità, secondo Beccaria  solo le leggi possono decretare le pene e queste leggi possono essere fatte solo dal legislatore che rappresenta tutta la società unita per un contratto sociale. “Nullum crimen, nulla poena sine lege” dunque. La legge che fissa i reati deve essere fatta dal sovrano e non dai giudici, che devono solo esaminare se un uomo abbia compiuto un’azione contraria alla legge. E’ la separazione del potere legislativo da quello giudiziario. E’ l’esclusione di ogni forma di attività interpretativa: ammette la sola interpretazione letterale della legge, l’accertamento del fatto, la formulazione automatica del giudizio.
I cittadini acquistano sicurezza di loro stessi quando un codice fisso di leggi, che devono essere osservate alla lettera, lascia ai giudici solo l’incombenza di esaminare le loro azioni e giudicarle conformi o meno alla legge scritta.
Per aversi la certezza del diritto, fondamentale pilastro della libertà, è quindi indispensabile la codificazione. La certezza del diritto è pertanto giusta e per ciò stesso utile, in quanto i cittadini possono valutare i vantaggi e soprattutto gli svantaggi che derivano dal delitto.
Il legislatore, secondo Beccaria deve essere un “abile architetto”. Ad una scala di delitti “graduata per gravità” deve corrisponderne una di pene graduata per severità , secondo un rapporto fisso di conformità: è il principio della proporzionalità della pena nel reato, per cui ad ogni crimine la sua  pena ( e solo quella).
Quanto più la pena sarà pronta e vicina al delitto commesso, tanto più sarà giusta e utile.
I tempi brevi risparmiano al reo gli inutili tormenti dell’incertezza. Il carcere è una custodia penosa e deve durare il meno possibile; per lo stesso motivo il processo deve essere finito nel più breve tempo possibile. La pena sarà l’infallibile conseguenza: questo frenerà i delitti, non la crudeltà.
L’uguaglianza della pena: le pene devono essere le stesse per tutti, dal primo all’ultimo cittadino.
Qui c’è da fare una considerazione. Ai tempi di Beccaria il diritto criminale variava a seconda dello status sociale del reo o della persona offesa dal reato: per esempio, gli appartenenti alla nobiltà e al clero usufruivano di giurisdizioni speciali e pene più miti. La repressione criminale si diversificava pure nello stesso luogo, in virtù della condizione sociale dei soggetti.
Per il principio della personalità della pena, chi deve soffrirla deve essere solo colui che ha commesso il reato. Nessuno può essere responsabile per fatto altrui. Questo soprattutto a proposito dell’uso della confisca dei beni del reo, con conseguente rovina economica dei suoi familiari, trascinati all’infamia e alla miseria. E’ una sofferenza ingiusta che può portare a delinquere.
Inoltre ci deve essere la pubblicità della pena.
Esclusa qualsiasi remissione privata del reato, ogni processo deve essere celebrato pubblicamente e potrà essere dunque suscettibile di controllo esterno. Pubblici i giudizi e pubbliche le pene.
Separare il diritto penale dalla morale teologica. E’ la laicità del diritto penale. I reati sono tali non in quanto peccati, ma in quanto puniti dalla legge. La giustizia umana deve giudicare solo le azioni esterne lesive della convivenza sociale. Solo la legge può esprimere un giudizio sulla colpevolezza giuridica dei reati. Depenalizzare pertanto le devianze religiose e i meri peccati: abolire i crimini di lesa maestà divina, come l’eresia o la magia, la bestemmia e le violazioni alla morale sessuale, il tentato suicidio…(in questo campo Beccaria si muove con particolare prudenza).
Umanizzazione del diritto penale, riduzione dell’afflittività delle pene al solo necessario e richiesta della legalità rappresentano, dunque, i motivi di fondo di tutta l’opera del Beccaria.
“Il fine della pena non può essere quello di tormentare e affliggere il reo”, diceva.
Questo perchè nella sua Milano esiste un tipo di diritto penale molto diverso da quello che lui auspica. Un diritto che da spazio a molti “supplicii”e che fa largo uso della pena di morte, eseguita  spesso con impiccagione preceduta, a volte, da tortura processuale e il tutto condito da macabra spettacolarità (trascinamento al patibolo a coda di cavallo, squartamento, esposizione della testa mozza  in una gabbia di ferro,…).
Certamente la pagina più famosa di tutta la sua opera è quella scritta contro l’illegittimità della pena capitale (anche se bisogna dire che Beccaria enuncia l’inviolabilità della vita umana solo alla fine del paragrafo). Vediamo come procede:

  • la pena di morte no ha fondamento nel contratto sociale, pertanto non ha fondamento giuridico (argomento contrattualistico);
  • la pena di morte non è né utile, né necessaria (argomento utilitaristico). Possono esserci solo due ipotesi extra nelle quali la pena di morte può essere “creduta” necessaria:
  • quando l’anarchia ha sopraffatto ogni ordine giuridico, ci troviamo in un’anomala situazione di  guerra civile: non esiste più lo Stato, il contratto sociale è sciolto e l’uccisione del nemico è permessa;
  • la società esiste ancora e le leggi anche, ma la condanna a morte di un cittadino può essere l’unico freno per contenere il crimine.

Bisogna però far attenzione a quel ripetuto “credere” che usa Beccaria, per dissipare i dubbi che ancora oggi possono essere nutriti. Beccaria vuol dire che “si potrebbe credere” alla necessità della pena di morte come deterrente estremo, ma secondo lui in nessun caso la pena di morte è utile  e necessaria in un ordinamento giuridico.

  • la pena di morte viola la sacralità della vita umana (argomento morale). La vita umana è sacra e nessuno ne può disporre.

Beccaria scandisce, inoltre, la massima su cui, a suo avviso, deve basarsi tutto il diritto penale: nessuno può essere dichiarato reo prima della sentenza del giudice.
Condanna il modo inquisitorio di condurre un processo. Condanna la mancanza della presunzione di innocenza dell’imputato; la illimitata preminenza dell’inquisitore sull’inquisito; l’identificazione del magistrato che promuove l’accusa e del magistrato che giudica nella stessa persona. Trova riprovevole che non ci sia alcuna comunicazione dei capi d’accusa all’imputato e nessun contraddittorio nella fase istruttoria, oltre allo scarso peso dato all’avvocato difensore. L’intero meccanismo processuale funziona col sistema delle prove legali e determina automaticamente il convincimento del giudice.
La confessione è ritenuta la regina delle prove. Si potrebbe immaginare che in mancanza di prove l’imputato sarebbe assolto, ma non è così. In mancanza di prove piene “il giudice cerca di acquisire le mezze prove, gli indizi, le presunzioni, che messi uno accanto all’altro possono alla fine costituire una prova piena”.  E’ nell’arbitrio poi del giudice avvalersi o meno di tali mezze prove. Se il giudice ritiene che non ci sia una prova piena può optare o per una pena straordinaria, che è minore di quella prevista dalla legge, o, nei casi di delitti socialmente allarmanti e gravi, cercare di ricavare la prova piena tramite tortura,  per poi condannarlo  alla pena edittale. In quest’ultimo caso la persona cessa di essere tale per diventare “cosa” nelle mani del giudice, il quale cercherà in ogni modo di estorcere l’ammissione di colpa. Beccaria denuncia proprio questo, questo rito centrato sulla confessione.
Secondo il lombardo questa logica processuale deforme deve essere sostituita con il libero convincimento del giudice: un giudice che, affiancato da assessori scelti per sorteggio,  deve “accertare un fatto” nel corso di un “pubblico giudizio”, valutare liberamente le prove, sino ad acquisire una “certezza morale” che lo sorregga nella decisione.
Beccaria, dunque si erge a difensore degli “interessi dell’umanità” e con la sua opera fissa i principi cardine della moderna legislazione penale: “Non vi è libertà ogni qual volta le leggi permettono che in alcuni casi l’uomo cessi di essere persona e diventi cosa”.
Le pagine di Cesare Beccaria esercitano una grande influenza su taluni legislatori di fine Settecento, a cominciare dal granduca di Toscana (e futuro imperatore) Leopoldo d’Asburgo e da suo fratello Giuseppe II.
Il primo grande criminalista di professione che comincia a tecnicizzare le idee di Beccaria sulla giusta pena e sul giusto processo è il milanese Paolo Risi che, nel 1766, traduce molte di quelle idee in rigorosa e limpida trattazione dottrinale. Su tale esempio altri si muoveranno poi altri criminalisti aperti al nuovo.

Per chiudere aggiungerei il pensiero di Pietro Verri sulla tortura.
Sulla questione della tortura interviene anche Pietro Verri, il quale, con una polemica accesa nel suo testo “Osservazioni sulla tortura” demolisce le “ragioni” della tortura, rilevando tra l’altro l’inattendibilità delle confessioni rese tra i tormenti. Pone inoltre l’accento sulla distinzione tra delitto “certo” e delitto “probabile”, svuotando di significato termini come “sospetto”, “indizio”, “semi-prova” e “quasi-prova”, tenuti in gran conto nel diritto dell’epoca. Verri afferma che:

  • i tormenti non sono mezzi per scoprire la verità;
  • la legge non considera i tormenti come un mezzo per scoprire la verità;
  • quand’anche tal metodo fosse conducente alla scoperta della verità, sarebbe intrinsecamente ingiusto.

“Per conoscere che i tormenti non sono un mezzo per iscoprire la verità, comincierò dal fatto. Ogni criminalista, per poco che abbia esercitato questo disgraziato metodo, mi assicurerà che non di rado accade, che de’ rei robusti e determinati soffrono i tormenti senza mai aprir bocca, decisi a morire di spasimo piuttosto che accusare se medesimi. In questi casi, che non sono né rari né immaginati, il tormento è inutile a scoprire la verità. Molte altre volte il tormentato si confessa reo del delitto; ma tutti gli orrori che ho di sopra fatti conoscere e disterrati dalle tenebre del carcere ove giacquero da più d’un secolo, non provan eglino abbastanza che quei molti infelici si dichiararono rei di un delitto impossibile e assurdo, e che conseguentemente il tormento strappò loro di bocca un seguito di menzogne, non mai la verità? Gli autori sono pieni di esempi di altri infelici, che per forza di spasimo accusarono se stessi di un delitto, del quale erano innocenti.
Il fatto dunque ci convince che i tormenti non sono un mezzo per rintracciare la verità, perché alcune volte niente producono, altre volte producono la menzogna."
I principi elaborati nel periodo cui si fa riferimento, trovarono un terreno fertile nell'ambiente dell'assolutismo illuminato di molti stati europei e furono rappresentati in maniera coerente ed organica nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 (Francia).
CODICAZIONE E TENTATIVI DI CODIFICAZIONE DELL’ASSOLUTISMO ILLUMINATO

 

Area russa

Capitolo I
Cultura e politica nella Russia di Caterina II.

Caterina II di Russia, principessa di sangue tedesco ed impregnata di cultura francese, si rivela politicamente “un animale magnificamente riuscito”. Implacabile calcolatrice, a spese degli innumerevoli servi della gleba si è assicurata il tacito appoggio della nobiltà, riuscendo così a regnare per quasi mezzo secolo su un impero immenso.
La fama del suo programmatico disegno, tentativo di ricompilazione unificatrice e riformatrice di tutte le leggi russe, si deve non solo alla sua spiccata personalità, ma anche al fatto che esso costituisce una delle prime clamorose ufficializzazioni delle idee dei lumi.
Il suo progetto, dunque, si presenta molto ambizioso: ricondurre sotto il suo controllo l’intricato e caotico diritto del suo sconfinato impero.
Ad influenzare moltissimo la zarina, che elegge come proprio consulente Diderot, sono le teorie di Montesquieu, ma non sono da meno né la fitta corrispondenza con Voltaire, né la lettura delle pagine di Beccaria.
In questo modo l’illuminismo entra nel tempio russo dell’assolutismo.

Capitolo II
Il progetto di codificazione del 1766-74.

Nel 1766 Caterina convoca in Assemblea Generale 652 deputati, rappresentanti di tutte le province e di tutti i ceti sociali dell’Impero, servi esclusi. A loro è affidato il compito di ricompilare tutto il diritto. Caterina, però, impone direttive ispiratrici e disposizioni precise: ad ogni deputato viene consegnato un testo di “Istruzioni per la redazione di un nuovo codice di leggi”, che potremmo definire un collage delle idee di Montesquieu e di quelle di Beccaria.
In esso sono messe in risalto le idee ispiratirci: potere legislativo nelle mani del sovrano; sottoposizione del giudice alla legge, che deve essere chiara semplice; classificazione dei delitti secondo una gerarchia di beni protetti. Qui notiamo le idee di Montesquieu, mentre allorquando si parla di pene comincia a dominare la figura di Beccaria.
I lavori continuano sino al 1774 per poi insabbiarsi per problemi sopravvenuti (crisi nei rapporti con i turchi e i polacchi).
Occorre dire che le Istruzioni di Caterina II, nonostante il fallimento cui erano destinate in partenza, conservano una loro rilevanza, poiché rappresentano una delle prime ufficiali traduzioni in progetto operativo delle dottrine illuministiche recepite da un sovrano.

 

 

 

 

 

 

Area prussiana

Capitolo I
La politica del diritto di Federico II di Prussica

Federico II ereditò e sviluppò  i risultati di una robusta politica centralizzatrice condotta da suo padre Federico Guglielmo I. La sua politica si identificò nel servizio reso allo Stato, attraverso un “regime personale”, che aveva come fine il bene comune. Come il padre, il colto Federico II conservò la concezione della funzione regale severa e aliena dagli eccessi di ornamento.
Occorre dire che la società prussiana si presentava divisa nei tre “Stati” della nobiltà, della borghesia cittadina e dei contadini, ciascun ceto coi suoi privilegi e un proprio diritto consuetudinario: era uno “Stato di Stati”. Occorre altresì dire che già dal XVI secolo i due Stande dei nobili e dei cittadini si erano organizzati pubblicisticamente, territorio per territorio, in rispettive assemblee rappresentative interlocutrici del sovrano, ove avevano sempre esercitato la propria autonomia. Questa autonomia non scomparve neppure quando Federico II cominciò la sua opera unificatrice, lasciando inalterata la tradizionale bipolarità sovrano/Stande.
Vediamo ora come procedeva la politica legislativa di Federico II, che obbediva al grandioso programma della costruzione di un diritto sostanziale e processuale specificatamente prussiano.
Nel 1746 l’organizzazione dell’opera riformatrice fu affidata, con un’ordinanza, al vecchio cancelliere Samuel Coccejus. Le direttive erano chiare: bisognava eliminare innanzitutto il diritto romano latino, mentre doveva essere preparato un diritto tedesco a base prussiana, il quale doveva fondarsi direttamente sulla ragione naturale e sulle costituzioni del Paese.
Il legislatore, doveva cercare di creare un  corpus legislativo che contenesse, almeno idealmente, tutti i casi, anche se era materialmente impossibile. Ciò avrebbe favorito la pubblica felicità con un “diritto ragionevole”, cioè con poche leggi, chiare, precise, interpretabili alla lettera, miti nella previsione delle pene, escludenti l’uso della tortura e complessivamente ispirate all’equità.
Coccejus si mise subito all’opera partendo dalla riforma della giurisdizione. In un biennio presentava due progetti di legislazione ordinaria e processuale, dove il secondo era un perfezionamento del primo.
Coccejus si rivelò, agli occhi del sovrano, la persona meno adatta a proseguire il suo progetto di riforma. Infatti, mentre Federico II vedeva la ragione come fondamento del diritto tedesco, Coccejus indicava piuttosto nel diritto romano la massima espressione della ragione. Il suo “Project des Corporis Juris Fridericiani”, anche se può essere considerato un successo come riforma processuale, fu invece un sostanziale fallimento come tentativo di codificazione.
Nel 1755 il “Code  Frédéric” (questo il nome con cui è conosciuto in Europa) veniva riposto nel cassetto, mentre fuori di Prussia era un mito.

Capitolo II
L’Allgemeines Landrecht prussiano del 1794

Il fallimento di tale progetto non fece desistere affatto il sovrano prussiano e i suoi successori. Infatti, per dar vita ad un nuovo progetto di codificazione fu nominata una nuova commissione (1780) presieduta dal Cancelliere von Cramer, i cui membri, giuristi di formazione naturalistica wolffiana, si rinnovarono nel corso  degli anni successivi, con il preciso compito di preparare una riforma generale del diritto da sottoporre al giudizio di un’apposita Commissione legislativa, nonché al parere e ai suggerimenti di organi giudiziari e di professori.
Dopo un primo progetto che non giunse alla promulgazione, i lavori della commissione arrivarono a produrre un secondo progetto, l’Allgemeines Landrecht, o semplicemente ALR, (Dir. territoriale gen. per gli Stati del Regno di Prussia), che, pubblicato nel 1794, entrò in vigore nel corso dello stesso anno (rimase in vigore sino al 1900, anno di promulgazione del codice civile tedesco).

L’ALR si struttura in due libri, preceduti da una introduzione dedicata alle “Leggi in generale”.
Il primo libro, che comprende le materie che noi oggi concepiamo come cose attinenti al diritto civile, è dedicato al soggetto di diritto in generale, alle cose, agli atti giuridici, alla proprietà, al possesso, alle servitù, nonché alla disciplina delle obbligazioni e dei contratti, ai modi di acquisto dei diritti tra vivi, agli atti di ultima volontà, alla garanzia e all’estinzione delle obbligazioni, ai diritti reali minori e all’espropriazione.
Il secondo libro, oltre a disciplinare la parte restante del diritto civile (matrimonio, famiglia, successioni) comprende anche una quindicina di titoli relativi all’organizzazione delle classi sociali,
ai rapporti feudali e alle corporazioni interne a ciascuna classe, all’esercito, al clero, a scuole e università, ai diritti e doveri dello Stato nei suoi rapporti coi cittadini e infine al diritto penale, titoli che possiamo definire di contenuto pubblicistico.
La persona, quindi, è considerata “privatisticamente” come individuo singolo in rapporto con altri individui singoli e “pubblicisticamente” come membro di un corpo sociale (della famiglia, della corporazione professionale, del ceto sociale, e infine dello Stato).
Per cui se il primo libro destina le sue norme a un unico soggetto giuridico, titolare di diritti e di obblighi praticamente generali, il secondo, invece, ha un effetto moltiplicante sul primo; infatti quell’unico oggetto si scinde in una molteplicità di soggetti, ciascuno con obblighi e diritti diversificati a seconda della categoria sociale e delle comunità d’appartenenza.

La promulgazione del testo prussiano comporta l’abrogazione in toto del diritto romano comune, dominante in Germania, dai tempi della recezione. Non scompare però il tradizionale dualismo tra ius commune- iura propria, anzi l’ALR si pone esso stesso come diritto comune, sostituendosi al diritto romano nella funzione di normativa sussidiaria  rispetto alle consuetudini provinciali e agli statuti cittadini, che sono “conservati in vigore” con titolo di  precedenza sull’ ALR medesimo.
Possiamo dire dunque che il Landrecht non elimina il particolarismo, anzi lo rafforza.

Una delle affermazioni di principio più rilevanti può essere considerata senz’altro quella secondo cui il bene comune prevale sempre sul bene individuale animato da questo modello ideale (influenza dell’illuminismo giuridico): “Tutti i sudditi sono tenuti sia a cooperare per la realizzazione del benessere collettivo, sia a sacrificare il proprio interesse individuale ed i propri privilegi all’interesse pubblico”.
Questa concezione è anche  complessa in quanto i doveri di cooperazione di ciascuno e i diritti eventualmente comprimibili variano a seconda dello status o corpo sociale (Stand) cui si appartiene.
Possiamo pertanto affermare che l’ideologia che ispira l’ALR non è certamente egualitaria, bensì discriminatoria: essa ricalca il modello tradizionale dell’ancien régime, differenziata per ceti e quindi per tipi distinti di soggetto giuridico.
“Una norma recita che i diritti dell’individuo derivano dalla nascita, dallo stato sociale e dagli atti o circostanze cui le leggi hanno attribuito un effetto determinato”. Qui il legislatore vuol dire che al suddito prussiano fanno capo tre diritti: quelli naturali come uomo; quelli in quanto membro di uno Stand; quelli che gli spettano ex lege, cioè in quanto la legge attribuisce efficacia ad alcuni suoi atti.
E’ il caso, così, di vedere quelli che sono gli Stande o stati o ceti in cui si scompone la società prussiana, in funzione dei quali è strutturato l’ALR.
Sono tre: lo stato dei contadini, quello dei nobili e quello dei cittadini.
Lo stand dei contadini, cui appartengono tutti coloro che praticano attività agricole, si divide a sua volta in quello dei contadini liberi e quello dei contadini servi.
Il contadino è limitato nella libertà di lavoro e di istruzione, nell’esercizio della sua proprietà o nella libertà di circolazione territoriale. Ancora più severi i vincoli che stringono il contadino servo, pur non assoggettabile a schiavitù personale: obbligo per i figli di esercitare il mestiere del padre; divieto di abbandonare il feudo senza il consenso del signore ed eventuale sua riconduzione forzata al feudo stesso; divieto di contrarre matrimonio senza il consenso del signore; assoggettamento a pene detentive e corporali da parte del signore, limitazioni nell’esercizio della patria potestà e di quella maritale; emancipazione dallo stato servile condizionata dal consenso del signore (che trattiene, però, i suoi figli ultraquattordicenni).
Anche l’appartenenza allo Stand dei nobili, cui è affidata la difesa dello Stato, implica eccezioni e modifiche alla disciplina dei vari istituti: c’è il divieto di esercitare professioni non ritenute degne del rango; ci sono privilegi successori e fori privilegiati; ma anche divieto di unirsi in matrimonio con persone di ceto diverso. Diverso e meno contraddistinto da privilegi o restrizioni è lo Stand dei cittadini (o borghesi), quelli che non sono né nobili, né contadini. La categoria dei cittadini è quella più interessata dalle norme di diritto privato del primo libro.
Conformemente alle disposizioni di Federico II il progetto di codice non lascia spazio all’interpretazione da parte del giudice, che deve attenersi alla legge e in casi di  dubbio ermeneutico (cioè di interpretazione di testi antichi) deve richiedere l’interpretazione autentica della Commissione legislativa.
Il testo dell’ALR, invece, una volta entrato in vigore, concede al giudice il ricorso all’ “analogia legis”, cioè la possibilità di rifarsi a casi simili, e all’ “analogia iuris”, cioè ai principi generali del diritto, ricavabili però dalle norme stesse del codice. La stessa Commissione legislativa è soppressa poiché si crede che il  codice,  ormai completo e privo di lacune, possa fare a meno di ogni altra interpretazione dottrinale o giurisprudenziale.

Alla fine del codice ritroviamo i paragrafi che rappresentano il diritto penale (in vig. sino al 1851). Federico II, precedendo Beccaria (che ammirerà molto) e attento alle parole di Montesquieu, già dal 1740 abolisce la tortura giudiziaria in Prussia. Nove anni dopo invoca una riforma umanitaria della repressione penale e si pronuncia per il principio della proporzionalità della pena. Nel 1770 difende la libertà ponendo la colpevolezza a fondamento della punibilità.
Secondo Federico II la pena ha funzione generalpreventiva, specialpreventiva, risocializzatrice, ma non  trascura le misure di prevenzione indiretta del crimine (es. compiti di vigilanza sui sudditi da parte della polizia, controllo di vagabondi, pregiudicati e prostitute, organizzazione di forme di assistenza a beneficio di orfani e disoccupati, responsabilizzazione dei genitori…)
Il testo è introdotto da una parte generale in cui sono delineati i principi su cui si regge la disciplina di repressione di ogni singolo delitto. Nella parte speciale sono delineate tutte le fattispecie di reato.
Occorre subito chiarire che queste norme hanno valore primario rispetto ai diritti provinciali. Allo stesso modo il legislatore prussiano sigilla le sue norme col principio di legalità (nullum crimen, nulla poena sine lege) e non ammette l’analogia, concessa generalmente in ambito civilistico.
Anche la normativa penale dell’ALR, però, può definirsi “cetuale”, cioè diversamente operativo a seconda dello status sociale d’appartenenza del reo, anche se nella parte speciale è spesso richiesto il principio che impone  l’uguaglianza di tutti i sudditi di fronte alla legge Capita di vedere comminate ai poveri pene detentive ed ai ricchi pene pecuniarie; vedere le ingiurie punite in modo grave se intercorse fra nobili o ufficiali dell’esercito e non considerate se tra persone di ceto contadino; diverso è se ad offendere è un servo o un ricco; lo steso duello è ritenuto, al di fuori della nobiltà, un tentato omicidio; agli ebrei, più discriminati, sono destinate sanzioni più severe.
Per i reati più gravi (reati contro lo Stato, o omicidi) è prevista la pena di morte in una sessantina di casi (impiccagione, rogo,decapitazione, a volte preceduti da supplizi e a volte sono, addirittura, inflitte pene corporali al cadavere macchiatosi di suicidio). Non mancano le confische dei beni del reo e carcere o esilio ai suoi figli. L’ALR da dunque vita a quello che noi oggi chiamiamo sistema del doppio binario: pena + misure di sicurezza.

In conclusione l’ALR del 1794 può essere definito un codice semimoderno. Esso nasce da un sovrano che possiamo considerare il grande iniziatore dell’assolutismo illuminato, ma allo stesso tempo  possiamo veder in Federico II un despota che ha cercato di conservare il suo potere, se pensiamo alla prevista rigida distinzione delle classi sociali e dei loro separati diritti.

Per ciò che concerne l’antropologia che ha guidato il legislatore, anche Federico II pensa che il popolo sia da trattare come un bambino; ma non sono “coloro che pensano” gli addetti ad educarlo, bensì lui: il tutore, l’educatore, il padre di tutti i suoi sudditi. Come ogni buon padre egli educa, istruisce, difende, punisce: perché una famiglia funziona e vive felice se a governarla è uno solo.


Area austriaca

Capitolo I
La codificazione del diritto civile

Quando sale al trono d’ Asburgo, la giovane Maria Teresa d’Austria, provvista di notevole fascino e personalità, eredita il doppio titolo di regina della Casa d’Austria e di cattolica imperatrice del Sacro Romano Impero.
Dapprima cauta, obbedendo ad un suo programma riformatore, cerca di ricondurre allo Stato l’intera attività di produzione e di applicazione del diritto. Senza abbandonare la mentalità del sovrano d’ancien régime (il suo lato conservatore del potere) si circonda volontariamente di collaboratori illuminati, ma, essendo molto cattolica, agisce come moderatrice di questi uomini, ispirando il proprio governo ad un compromesso fra le loro radicali idee moderniste e le sue personali e patriarcali idee sulla felicità dei sudditi.
Il programma di modernizzazione prevede innanzitutto la riduzione dell’autonomia degli Stande, centralizzando nella corona le competenze nel campo della politica economica e finanziaria, le funzioni giurisdizionali  e amministrative, la direzione dell’istruzione.
Nel 1748, con un nuovo sistema di imposizione fiscale, senza eccezioni immunitarie, la riscossione dei tributi viene eseguita da funzionari governativi. Un anno dopo viene unificata la moneta.
Quanto alla centralizzazione dell’ordinamento giudiziario, nel 1749 viene istituito un supremo tribunale con competenze di ultimo appello al di sopra di tutte le corti inferiori.
In ambito amministrativo, nel 1766, su consiglio del principe Anton vov Kaunitz, è  creato il Consiglio di Stato, cui sono attribuite funzioni consultive spazianti sull’intera attività di governo ed esercitabili secondo il criterio dell’imparzialità.
Altro grande merito dell’imperatrice è quello di aver creato un insegnamento di Stato: vengono istituite scuole tecnico-professionali, ma anche istituti d’istruzione superiore. La facoltà di Giurisprudenza di Vienna è ristrutturata secondo un “illuminato” piano di studi che da grande spazio al diritto naturale e ben presto diviene il modello per tutte le Facoltà dell’impero asburgico.
L’obbligo scolastico parte dai sei anni, mentre contenuti e metodo di insegnamento sono sottratti ai Gesuiti e posti sotto il controllo statale. L’imperatrice compie personalmente visite d’ispezione nelle scuole: in questo modo governare equivale ad educare.

Governare popoli diversi richiede necessariamente l’unità del diritto con cui governare, a cui  si può giungere attraverso l’accentramento amministrativo e giudiziario e poi, naturalmente, attraverso la codificazione. Per creare una codificazione, nel 1753, Maria Teresa  nomina una “commissione di compilazione”  che deve progettare un testo normativo che contenga una disciplina generale e certa del diritto privato ricavata attingendo al diritto romano comune, ai vari diritti territoriali e al “diritto di ragione”. Questo nuovo diritto dovrà governare la vita e i rapporti privatistici delle popolazioni viventi nei territori ereditari assurgici di lingua tedesca (esclusi pertanto Lombardia,  Paesi Bassi e Ungheria). Questo processo di codificazione, iniziato con lo storico provvedimento teresiano nel 1753,  produrrà uno dei primi e più importanti codici civili europei di filiazione illuministica e di stampo borghese: il Codice Civile Generale austriaco ( ABGB). Il Codice però, fatto e rifatto tante volte, sarà promulgato soltanto nel 1811 da Francesco I d’Asburgo.
Alla prima commissione viene affiancata una seconda con compiti di revisione e nel 1766 il corpo del nuovo diritto privato voluto dall’imperatrice è pronto, per cui il progetto può essere sottoposto all’ esame dl Consiglio di Stato: nasce il Codex Theresianus, scritto non il latino, ma in tedesco volutamente molto discorsivo e non tecnico.
Impostato sulla classica tripartizione giustinianea esso è composto da tre libri, rispettivamente dedicati a persone, cose e obbligazioni. Gli articoli, però,  sono moltissimi (8367) e presenta una mostruosa prolissità, che non agevola la chiarezza complessiva, però, nonostante tutto  l’importanza del Codex Theresianus è davvero notevole e vediamo perché.

Innanzitutto il Codex rappresenta la prima decisione di creare una branca giuridica a sé identificabile e perciò autonomamente codificabile come diritto privato.
Secondo i giuristi teresiani il diritto privato comprende solo persone e  famiglia, cose e diritti reali,obbligazioni con esclusione, come si nota, del diritto feudale, che è classificato di natura pubblicistica. Il diritto di famiglia, staccato dal diritto canonico, invece è il grande incluso.
I compilatori, inoltre, abrogano ogni fonte previdente: il nuovo diritto non è più normativa sussidiaria, ma unica  e generale. Le consuetudini sopravvivono solo nei casi di rinvio espresso.
In nome della certezza del diritto il giudice è sottoposto alla legge stessa. Nei casi dubbiosi dovrà preferire il concetto più consono al diritto naturale, ma dovrà applicare pur sempre una norma del codice.
Il progetto, però,sottoposto ad interminabili discussioni, incontra non solo l’opposizione  del cancelliere von Kaunitz, ma anche dell’ultrariformista figlio dell’imperatrice, Giuseppe II, associato al trono come correggente nel 1765. E’ richiesto un testo più semplice e soprattutto più indipendente dal diritto dal diritto romano e dai diritti territoriali, senza alcuna concessione a particolarismi di status, per cui il destino del Codex è deciso. Ciò induce l’imperatrice a decretare l’abbandono del progetto e a creare, l’anno dopo, una nuova commissione che lavorerà per quattordici anni al progetto, sino alla morte del suo presidente, l’ottimo giurista e burocrate Horten. Una nuova commissione, diretta dal giurista Kees, dopo pochi mesi potrà presentare il risultato del lavoro al nuovo imperatore Giuseppe II: il cosiddetto Codice Giuseppino.

Gli anni (1780-1790) del regno Giuseppino, durante i quali i processi di mutazione delle istituzioni asburgiche  proseguono sulle vie teresiane, con una formidabile accelerazione, si possono definire “gli anni della bufera”.
Giuseppe II a differenza della madre non si cura di trovare sostegno nell’opinione pubblica e non scende  a compromessi con il ceto privilegiato dei nobili, del clero e del ceto forense. Questo fa si che tra i sudditi  nasca il mito retrospettivo di Maria Teresa e dei tempi del suo governo  tollerante.
Giuseppe II vuole governare da solo. Trascorre le giornate  dettando editti, dispacci, istruzioni, in un palazzo reale dove spira aria di  convento, se non di caserma.
Come legislatore, padre, gendarme che controlla tutto, deve annientare il particolarismo politico-sociale e le autonomie dei corpi privilegiati. Occorre creare l’unificazione processuale: un nuovo codice di procedura civile, che ponga termine alla varietà dei tipi di processo nei paesi dell’Impero.
Il 1 maggio 1781 Giuseppe II promulga il famoso  Regolamento Giudiziario Civile ( CGO), che rimarrà in vigore per più di un secolo.
La CGO riporta alla più stretta legalità statuale un processo che prima dipendeva largamente  dall’arbitrio del giudice, che d’ora in poi deve essere rigorosamente subordinato alla legge: è l’aspetto garantistico del nuovo Regolamento.

Mentre continua il percorso verso la codificazione civile e la CGO è appena stata promulgata, Giuseppe II anticipa una sua personale rivoluzione del diritto privato a colpi di editto. Sono sostanzialmente cinque gli interventi legislativi più rilevanti di Giuseppe II:

  • l’Editto di tolleranza (1781), che elimina le tradizionali differenze di trattamento giuridico dovute allo status confessionale;
  • l’Editto matrimoniale (1783), che sottrae il matrimonio al diritto canonico e alla giurisdizione ecclesiastica, laicizzando il sacramento, mentre la figura del sacerdote assume le vesti del funzionario con gli oneri del pubblico ufficiale;
  • l’Editto successorio (1786), che mette ordine nel diritto ereditario, tradizionalmente diverso tra i tre Stande. Il regime giuridico del ceto borghese è eretto a disciplina ordinaria e generale. Viene favorita la libertà di disporre del testamento ed è facilitata la divisione ereditaria;
  • l’Editto sulla Libertà di  Commercio (1786), per sopprimere ogni monopolio commerciale detenuto dalle corporazioni mercantili e favorire, in tal modo, la libera concorrenza e la libera circolazione dei beni;
  • l’Editto sulle terre feudali (1789), che modifica la destinazione giuridica dei fondi tenuti a coltura dai contadini. I contadini ora non sono più assoggettati al dominio del signore ed hanno la possibilità di riscattare il fondo, trasformandolo in proprietà, con regolare atto d’acquisto.

Vediamo ora da vicino il codice civile Giuseppino del 1786.
Nel 1786 la Commissione ha pronto in stesura definitiva il primo dei tre libri del codice civile messo in cantiere (gli altri due , che dovrebbero completare il cosiddetto progetto Horten, sappiamo rimarranno incompiuti). Il testo è dedicato ai principi generali del diritto, al diritto delle persone e a quello di famiglia. Giuseppe II ha fretta e parte col solo primo libro, che sotto il nome di “Codice Giueseppino”, entra in vigore l’anno successivo nei territori ereditari asburgici e in Galizia.
L’anno successivo, una traduzione italiana del codice  è sottoposta  al giudizio del Supremo Tribunale di Giustizia di Milano, in quanto Giuseppe II vuole introdurlo anche in Lombardia; ma poiché l’imperatore morirà due anni dopo (tra l’indifferenza dei sudditi), il tutto finisce nel nulla.
Il codice è ispirato dal razionalismo giusnaturalistico: il sistema razionale di diritti e doveri iscritti nella natura degli uomini è perfettamente riproducibile in diritto positivo grazie all’intervento di un sovrano legislatore, onnipotente, che per contratto sociale deve guidare i suoi sudditi alla “felicità”.
Bisogna anche precisare che le sue riforme rivoluzionarie non sono molto comprese: sono innovazioni imposte con maniere forti e una raffica di leggi non può cambiare una società in un solo decennio.
Occorre anche precisare che l’attività di riforma di Giuseppe II si distingue soprattutto in materia penale. In effetti il codice penale Giuseppino viene considerato comunemente dagli studiosi il più insigne ed autorevole monumento dell’Illuminismo giuridico penalistico. La disciplina penale è considerata come un settore autonomo del diritto, rompendo così con quella tradizione che ha sempre compreso il diritto penale all’interno del diritto comune.
Per eliminare ogni possibile arbitrio del giudice viene vietato espressamente il ricorso all’analogia. Altro sintomo della modernità del codice penale Giuseppino è possibile individuarlo nella tendenza all’ “oggettivismo”, in particolare dove le sanzioni vengono astrattamente determinate senza riguardo alcuno per eventuali differenze di ceto dei trasgressori. Inoltre il codice presenta il suo lato illuministico con la dichiarazione in via generale del “principio della personalità della pena”, che significa esclusione in via di principio della responsabilità penale oggettiva e della “punibilità dell’innocente”.

Il progetto di codificazione completa del diritto civile è proseguita dal successore di Giuseppe II, ovvero Leopoldo II  (1790-1792), suo fratello.
Leopoldo, anch’egli animato da un riformismo risoluto, ma dotato di mente assai più duttile del suo predecessore, ha già incarnato negli anni precedenti lo spirito dell’assolutismo illuminato. Granduca di Toscana ha promulgato la più celebre delle legislazioni ispirate all’illuminismo penale di stampo beccariano: l’umanitaria e liberale Leopoldina del 1786, che ha depenalizzato il reato di lesa maestà ed ha abolito in assoluto la pena di morte.
Altra figura in primo piano è il giurista Carlo Antonio Martini, sostenitore delle teorie wollfiane. Importanti suoi scritti sono divenuti fortunati testi universitari, che si originano dalle lezioni impartite a Leopoldo. Interpretando in modo esemplare il ruolo del “bravo funzionario”, è maestro stimato e riverito e col suo insegnamento forma intere generazioni di giuristi e funzionari asburgici. Già consigliere di Giuseppe II, dal 1790 è chiamato da Leopoldo a presiedere la Commissione Imperiale di Legislazione per la stesura di un nuovo progetto di codice civile, con la rielaborazione dei materiali normativi del Codice Giuseppino  e degli incompiuti secondo e terzo libro.
Nel 1794 (anno di nascita del ALR prussiano) Martini presenta a Francesco I, il nuovo imperatore, il compendio normativo commissionatogli da Leopoldo II: è il cosiddetto Progetto Martini.
Lo schema è quello solito tripartito: nella prima parte troviamo i princìpi generali delle leggi, i diritti delle persone e della famiglia; nella seconda proprietà, altri diritti reali e successioni; nella terza, contratti e aree normative rimanenti e non collocabili nelle prime due parti.
Nel 1796 un provvedimento imperiale dispone che determinate commissioni regionali presentino dei loro giudizi sul Progetto Martini a una superiore Commissione di revisione, delegata a dare un giudizio definitivo sullo stesso. Il parere è favorevole e occorre promulgarlo in via sperimentale almeno in un’area dell’impero. Scelta la provincia della Galizia, l’anno successivo entra in vigore   il Codice Civile Galiziano (WGGB).  Il Progetto Martini è decollato: ora è un codice vigente.
Bisogna subito precisare che il Progetto Martini ed il WGGB sono due cose diverse, in quanto il codice entrato in vigore presenta delle differenze rispetto al Progetto, anzi è un suo perfezionamento, ma ciò non toglie che sia riconosciuta al Martini la piena paternità scientifica.
Il Codice Civile Galiziano mira a rimpiazzare in toto il diritto previdente, che viene abrogato. Si salvano solo alcune consuetudini conformi al dettato del codice.
Le materie disciplinate sono identificate come contenuti specifici del diritto privato, a sua volta definito come “l’insieme delle leggi che stabiliscono i diritti ed i doveri reciproci di ogni cittadino”.
In definitiva il codice accoglie solo norme di diritto privato, che è concepito come ambito giuridico autonomo; in tale diritto ci sono diritti e doveri dei sudditi; i diritti politici sono esclusi e di spettanza al sovrano; le norme penali, quelle processuali e quelle istituenti prerogative e privilegi cetuali sono appartenenti al diritto pubblico.
Si giunge così all’unificazione del soggetto di diritto: borghesi, contadini o nobili, tutti sono sudditi austriaci allo stesso modo.
La figura del suddito-soggetto fa nascere una sorta di teoria generale del diritto:

    • il soggetto giuridico è prima di tutto un uomo, pertanto a lui spettano gli innati diritti naturali;
    • gli uomini si uniscono per natura creando lo Stato che ha lo scopo di perseguire il bene comune;
    • lo Stato garantisce il bene comune, ma i consociati devono osservare le leggi positive;
    • lo Stato garantisce al suo suddito la conservazione alla propria vita, la difesa della persona e dei suoi beni, la tutela dell’onore, la sua proprietà, l’elevazione delle sue capacità fisiche e spirituali. Garantisce inoltre la libertà a contrarre.

Secondo il Martini tutti questi diritti possono essere garantiti solo da un legittimo sovrano, interprete della legge naturale e servitore dello Stato in vista del bene comune.
Secondo una disposizione relativa all’uso del codice da parte del giudice, in caso di oscurità o lacuna della legge, questi, esaurito ogni tentativo di procedimento  analogico, può integrare il testo facendo ricorso ai “princìpi giuridici generali fondamentali e naturali”.
Al Martini non appare pericoloso aprire ai giudici vasti spazi interpretativi, poiché gli crede nella loro professionalità e nella loro devozione alla Corona.
Nel 1801 una Commissione imperiale riunita da Francesco I si occupa di revisionare i contenuti del WGGB e di far giungere al codificazione civile finalmente alla fine.
Dieci anni dopo finalmente Francesco I potrà promulgare il Codice Civile generale per i territori ereditari della monarchia austriaca (ABGB). Un monumento della codificazione che ancor oggi, sia pur con notevoli modifiche, conserva vigenza. In Lombardia è applicato sino al 1859, in Veneto e in Friuli qualche anno in più. In Trentino Alto Adige e In Venezia Giulia sino al 1918. 
Nasce il grande ABGB e nello stesso momento muore tutto il diritto civile  previdente. Dichiara Francesco I: “Sono aboliti il diritto comune fin qui adottato, il Codice Civile del 1786, il Codice Civile promulgato per la  Galizia, ed ogni altra legge o consuetudine relativa agli oggetti di questo Codice civile Generale”. “Tutte le leggi –continua il sovrano- dovranno avere per base i principi generali della giustizia, devono essere pubblicate in modo chiaro ed in lingua. Devono essere raccolte insieme per essere sempre ricordate”.
Nella Commissione hanno lavorato giuristi di elevate capacità, ma chi ha dato l’impronta decisiva è stato Franz von Zeiller, intelligente discepolo di Martini. In tema di diritto, dire Zeiller è dire Kant.
L’etica Kantiana si distacca dalla morale dell’assolutismo illuminato: non l’ispirazione a raggiungere la felicità fonda la vita etica dell’uomo, bensì il principio del “dovere per il dovere”, che impone di  agire bene solo perché si deve agire bene. Inoltre, non la felicità, ma la dignità di persona umana deve essere garantita dal sovrano, e ciò presuppone che alla base di tutto ci sia la libertà. Quella libertà che fa si che l’uomo sia al centro del mondo e in quanto tale sia capace di reprimere gli impulsi istintivi e sia in grado di autodisciplinarsi secondo la massima del dovere per il dovere. La morale guiderà l’uomo nelle sue azioni interne, il diritto in quelle esterne.
La persona umana ha priorità sulla collettività, che è l’insieme di individui liberi, ognuno portatore di una volontà autonoma, ciascuno provvisto di dignità e non riducibile  a mezzo da nessun altro.
“Il diritto”, afferma Kant, “è l’insieme delle condizioni per mezzo delle quali l’arbitrio dell’uno può accordarsi con l’arbitrio di un altro secondo una universale legge di libertà”.
Il pensiero kantiano spiega l’ispirazione garantistica del testo, che, però, si presenta troppo anticipatore rispetto a un ambiente sociale reso vischioso dalle resistenze cetuali.
L’ABGB, che decolla con un’accelerazione che lo porta a sopravanzare il suo tempo, è un codice eccellente. E’, per il suo maggior rigore concettuale e sistematico, migliore del ALR.
E’ composto da soli 1502 paragrafi distribuiti in tre parti. La prima dedicata alle “Leggi in generale”  e al “Diritto delle persone”; la seconda al “Diritto delle cose” ; la terza disciplina la costituzione, modificazione ed estinzione dei rapporti giuridici, cui fa seguire il regime di usucapione e di prescrizione.
I compilatori del ABGB hanno attinto i materiali normativi dal diritto romano, o meglio la tradizione romanistica a suo tempo recepita nei territori dell’impero; il complesso dei diritti territoriali; dal diritto naturale.
L’ ABGB, con le1502 norme fa sembrare preistoria gli 8367 precetti del Codex Theresianus e nella sua sobrietà espressiva eleva le sue norme a un soddisfacente livello di generalità ed astrattezza.

Per ciò che concerne i criteri di interpretazione, il legislatore, dando per scontata la lacunosità del testo, dà la possibilità di ricorrere all’analogia e quindi, ove il dubbio persiste, la facoltà di fare appello ai princìpi del diritto naturale. In tal modo si discosta dall’ALR che concede al giudice solo il ricorso all’analogia. Si distacca anche dal Code Napoléon perché vieta al giudice di rifiutarsi di giudicare adducendo a pretesto la lacunosità del codice, obbligandolo a trarre comunque dal codice la regola per il caso.  Altra differenza dal Code Napoléon: non taglia i ponti con il diritto naturale.

L’ ABGB mette a punto un progetto di modernizzazione della società civile, d’impronta liberal-borghese, in modo del tutto indipendente dal modello napoleonico.
“Ogni uomo ha diritti umani che si conoscono con la sola ragione”; “la schiavitù sull’uomo non è tollerata in questi Stati”; “la diversità di religione non ha influenza sui diritti privati”; “libertà di matrimonio se non ci sono impedimenti”; “ alimenti, educazione e collocamento in proporzione delle loro sostanze ai figli naturali”; “abbandono dell’istituto dell’autorizzazione maritale (la donna coniugata che può dunque amministrare liberamente il proprio patrimonio)”: questo è lo spirito egualitario e liberale del legislatore austriaco, un’impronta liberale davvero troppo avanti nei tempi.
Il matrimonio civile è l’unica forma di vincolo riconosciuta dallo Stato. I parroci nelle loro funzioni di ufficiale di stato civile  sono tenuti alle pubblicazioni, alla celebrazione del rito e alla iscrizione dell’atto nei registri matrimoniali. 
Ciò spinge il legislatore a preoccuparsi della tutela delle minoranze non cattoliche ed ebraiche sparse per l’impero. A loro è concesso lo scioglimento del matrimonio, mentre non è ammesso fra cattolici (la Corona è molto cattolica). Non ammesso, inoltre, il matrimonio fra cristiani e non.  
Per ciò che concerne la proprietà distingue e fa coesistere  un “dominio diretto” e uno “utile”.
“La proprietà è la facoltà di disporre a piacimento ed a esclusione di ogni altro della sostanza e degli utili di una cosa”.
Nell’ambito contrattuale, l’ABGB identifica il contratto con il semplice accordo (qui si allinea col diritto francese).   Per l’effetto dei contratti traslativi di diritti reali, però nega immediata efficacia traslativa al consenso: “la proprietà e tutti i diritti reali in genere si possono acquistare solo per la legittima consegna e ricevimento”; “le cose mobili si trasferiscono in altri con la consegna tradizionale mano in mano (criterio schiettamente romano).
Per il trasferimento di cose immobili occorre il sistema della intavolazione: la trascrizione, cioè, dell’atto nei pubblici registri immobiliari tenuti presso le preture, con efficacia costitutiva fra le parti e opponibilità dell’atto stesso ai terzi.

 

Fonte: http://studiando.altervista.org/UNIVERITY/2anno/ITALIANO%202/Riass%20Storia%20dir%20Italiano%202%20parte%201.doc

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