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Il primo dopoguerra in Italia è segnato dall’affermazione del Fascismo.
Le ragioni di un tale successo sono da cercarsi in fattori
Il Fascismo approfitta della situazione per
1. Ascesa del Fascismo
Il Fascismo è caratterizzato dall’applicazione sistematica della violenza alla lotta politica. Esso incarna il mito della rivoluzione come rottura con il passato.
E’ Mussolini – socialista rivoluzionario, imbevuto delle teorie di Sorel, acceso interventista nella Grande Guerra – a condurre le attese rivoluzionarie a concretizzarsi in un disegno totalitario: la rivoluzione fascista conduceva allo Stato totalitario, onnipotente, nuovo idolo in grado di controllare la vita sociale, civile e privata dei cittadini, sottraendo i detentori del potere politico qualsiasi verifica democratica.
Ma il Fascismo non si sarebbe imposto senza appoggi più ampi:
2. Tramonto dello Stato liberale
L’Italia era uscita vittoriosa dalla Prima Guerra Mondiale ma le era mancato il senso della vittoria:
A livello politico alla crisi della classe dirigente liberale fa riscontro il successo dei partiti di massa. Nel 1919 viene fondato il Partito Popolare Italiano, il cui primo segretario è don Luigi Sturzo. I cattolici abbandonano così la linea dell’astensionismo (che mantenevano dal Non expedit di Pio IX, del 1874) e si impegnano in politica. Per garantire l’autonomia del partito, don Sturzo dichiara di ispirarsi apertamente alla dottrina cattolica pur restando un partito aconfessionale. Le gerarchie ecclesiastiche appoggiano comunque il partito cattolico per far fronte alla minaccia socialista.
Parallelamente, aumentano vertiginosamente gli iscritti al PSI all’interno del quale la corrente massimalista prevale su quella riformista. I massimalisti, che fanno capo al giornale di partito “Avanti!”, hanno come obiettivo immediato l’instaurazione di una repubblica socialista fondata sulla dittatura del proletariato. Hanno come modello la rivoluzione bolscevica che però, anziché preparare, attendono come ineluttabile. Per una maggiore coerenza con l’impegno rivoluzionario sono invece i gruppi di estrema sinistra che fanno capo alla rivista “Ordine Nuovo” guidata da Antonio Gramsci (con Palmiro Togliatti) direttamente ispirati ai soviet e decisi a una reale azione rivoluzionaria.
Prospettando una soluzione “alla russa” della crisi sociale in atto nel Paese, le forze socialiste si precludono ogni possibilità di collaborazione con le forze democratico-borghesi.
Nel 1919 la situazione economica era assai negativa: 2 milioni di disoccupati, inflazione, drastica riduzione della produzione agricola. In tutto il mondo del lavoro si diffondono fermenti di rivolta (lotte sociali; scioperi nelle fabbriche, nelle campagne ma anche nelle ferrovie) che spesso sfuggono al controllo sindacale. Si parla molto di rivoluzione.
In questo contesto sorgono i Fasci di Combattimento Italiani (1919), fondati da Mussolini che, se da un lato si proclama antimonarchico, anticlericale, sostenitore della gestione operaia delle fabbriche e della distribuzione delle terre ai contadini, dall’altro supporta la rivendicazione di Fiume e della Dalmazia, la riduzione dello statalismo economico e l’antisocialismo. I Fasci coniugano insomma nazionalismo e antisocialismo (Mussolini stesso era stato espulso dal Psi in quanto interventista alla vigilia della I GM). Lo stile violento e aggressivo dei Fasci si manifesta fin da subito con l’incendio della sede dell’“Avanti!” (1919).
L’Italia era uscita dalla guerra vedendo scomparire il nemico per antonomasia, cioè l’Austria. Tuttavia la sua era una vittoria mutilata. All’indomani dell’armistizio l’Italia aveva infatti due alternative: o rinunciare alla Dalmazia, puntando a un buon rapporto con la neo-nata Jugoslavia, oppure pretendere il rispetto letterale delle clausole del patto di Londra siglato nell’aprile 1915. Alla conferenza di Versailles il presidente Orlando e il ministro degli Esteri Sonnino cercarono di ottenere il massimo possibile, reclamando i territori promessi (Trentino, Friuli, Istria e Dalmazia) con l’aggiunta di Fiume. Wilson, presidente degli Usa, in quanto non firmatario del patto di Londra poté opporsi (per evitare un eccessivo rafforzamento dell’Italia e per rispettare i diritti nazionali della Jugoslavia) a tali richieste, facendo fallire la missione diplomatica italiana e imponendo la rinuncia ai territori balcanici e alla città di Fiume. Orlando si dimise in favore di Nitti.
Nel settembre 1919 Gabriele D’Annunzio (cui si deve l’espressione “vittoria mutilata” riferita all’esito italiano della conferenza di pace della I GM) occupa Fiume alla testa di un gruppo di ex combattenti, di irredentisti ma anche di soldati dell’esercito regolare. Occupata la città, viene proclamata una carta costituzionale che mescola confusamente aspirazioni nazionaliste, spunti social-rivoluzionari (corporazioni) e velleità dannunziane da signorotto cinquecentesco. Tale esperienza politica durerà circa 15 mesi (9/19-12/20)
Di fronte a queste tendenze eversive ed illegali, stava il potenziamento dell’apparato statale provocato dalla guerra. Gli apparati dello Stato erano infatti enormemente cresciuti, sottraendosi al controllo del Parlamento: erano aumentati i poteri del governo (esecutivo) nonché l’autonomia dei corpi dello Stato (esercito e burocrazia).
Questa crisi del sistema parlamentare si aggravò nel dopoguerra perché:
Nelle elezioni del 1919, le prime con il sistema proporzionale a scrutinio di lista (sistema che favorisce i partiti dotati di grande organizzazione nazionale), trionfarono i partiti di massa:
Dopo il 1919 nessuno dei grandi gruppi politici – liberale, popolare, socialista - era in grado di dar vita da solo a una maggioranza di governo e, succeduto Nitti a Orlando, ben 5 governi si succedettero tra il 1919 e il 1922. Data l’opposizione tra PPI e PSI, l’unica alleanza possibile è tra popolari e liberal-democratici.
All’instabilità politica si aggiungeva la crisi economica:
Agli scioperi nel settore privato e pubblico si aggiunsero le agitazioni contadine: alle leghe rosse (che detengono il monopolio della rappresentanza sindacale e mirano al programma massimo della “socializzazione della terra”) si affiancano le leghe bianche (cattoliche, in difesa della piccola proprietà contadina).
La conseguenze della crisi bancaria del 1920-22 furono che:
La voglia di rivincita dei gruppi finanziari derivava dalle effettive conquiste del movimento operaio e sindacale (otto ore lavorative, contratti collettivi periodici, aumenti salariali), tanto che divenne di primaria importanza per gli industriali contrastare gli scioperi e congelare i salari. A tal fine sorse nel 1919 la Confindustria, organizzazione di oltre 6.000 aziende.
Dopo un nuovo sciopero generale (Torino, 1920) guidato dalla sinistra socialista ispirata al giornale “Ordine Nuovo” diretto da Gramsci, si arrivò a uno scontro frontale. L’“Ordine Nuovo” ispirava i consigli di fabbrica che, sul modello dei soviet russi, aspiravano al superamento dei vecchi organismi sindacali e, secondo il principio leninista, incarnavano quell’avanguardia operaia che avrebbe dovuto guidare il proletariato alla rivoluzione. Furono tagli consigli a promuovere nell’autunno 1920 l’occupazione delle fabbriche.
Il “riflusso dell’ondata rossa” – cioè la fine dell’occupazione delle fabbriche del cosiddetto “biennio rosso” 1919-20 – coincise con il tentativo da parte di Giolitti di restaurare gli ordinamenti e l’autorità dello Stato liberale, approfittando della frattura e della crisi del movimento socialista. Tornato al governo nel 1920, Giolitti non utilizzò la forza per sgomberare le fabbriche ma si impose come mediatore (come già avvenuto durante lo sciopero generale del 1904) tra operai e industriali, in modo da non inasprire le tensioni. L’idea di Giolitti era di ricorrere al vecchio metodo trasformista per accontentare le parti in causa e stemperare il conflitto. Alla Confindustria si oppone il più forte sindacato di area CGL, ovvero la FIOM (Federazione italiana operai metallurgici), in concorrenza con i consigli di fabbrica guidati da Gramsci per la gestione della occupazione delle fabbriche. Giolitti scelse si appoggiare la FIOM (seguendo il motto del “divide et impera”) spingendo la Confindustria a un accordo di natura economica e promettendo un disegno di legge per il controllo sindacale delle fabbriche. In tal modo la spinta rivoluzionaria dei consigli di fabbrica fu arginata dagli stessi sindacati i quali rinunciarono all’occupazione delle fabbriche con la speranza di veder realizzato il disegno di legge sul controllo delle fabbriche, promessa giolittiana destina a rimanere tale.
Il movimento dei Consigli di Fabbrica rimase così ben presto isolato alla sola Torino, segnando una frattura tra le dirigenze socialiste e i sindacati da una parte e il gruppo socialista dell’“Ordine Nuovo” dall’altra: i gruppi di estrema sinistra accusavano infatti i dirigenti FIOM di aver svenduto un’opportunità rivoluzionaria per meri accordi sindacali. Da tale frattura nacque il Partito Comunista Italiano (1921) in occasione del congresso socialista di Livorno nel quale la minoranza di estrema sinistra abbandonò il PSI per aderire alle direttive del Comintern (assumendo al denominazione di “partito Comunista” e staccandosi dagli elementi riformisti). Maggior teorico del nuovo partito fu Antonio Gramsci (1891-1937) che nel PCI vedeva l’unico vero partito del proletariato, con funzione liberatrice pari a quella propria dei liberali in epoca risorgimentale.
Nello stesso tempo, Giolitti affrontò la questione di Fiume regolando la questione direttamente con la Jugoslavia tramite il trattato di Rapallo (novembre 1920) con cui l’Italia rinunciò alla Dalmazia e Fiume venne riconosciuta città libera (verrà poi annessa all’Italia nel 1924). Poche cannonate sparate dall’esercito regolare bastarono per mettere in fuga i dannunziani, concludendo così l’occupazione durata circa 15 mesi.
In campo economico e finanziario percorse una strada intermedia: abolì il prezzo politico del pane – che gravava sul bilancio statale – ma colpì i redditi maggiori e i profitti di guerra.
Nel frattempo le squadre d’azione fasciste si erano poste al servizio dei proprietari terrieri che avevano affrontato le rivendicazioni delle organizzazioni sindacali contadine – socialiste e cattoliche - nella Pianura Padana, in Romagna e Toscana. Ben presto l’azione delle squadre si era estesa dalle campagne alle città, finanziata da alcuni gruppi industriali. Con la tacita connivenza dello Stato si instaurò un clima di guerra civile, in cui vennero sconvolte le organizzazioni sindacali, cooperative e mutualistiche, spesso utilizzando anche l’assassinio politico. La strategia di Mussolini era di cavalcare esplicitamente il sentimento anti-socialista affermatosi all’indomani della fine del biennio rosso.
L’atto di nascita del cosiddetto fascismo agrario è segnato dai cosiddetti fatti di palazzo d’Accursio: nel novembre 1920 i fascisti assediarono il palazzo comunale di Bologna per impedire l’insediamento della nuova giunta socialista. I socialisti si difesero sparando sulla folla e uccidendo anche civili innocenti. Questo tragico errore diede l’alibi ai fasci di combattimento per proclamarsi difensori dell’ordine pubblico e ingaggiare un’aspra lotta contro i socialisti, facendo dilagare il fenomeno dello squadrismo in tutto il Centro-Nord d’Italia.
Giolitti sottovalutò il Fascismo: pensava che potesse servire per contenere i fermenti di ribellione socialista e che potesse essere “normalizzato” e “costituzionalizzato”. Questo spiega perché il potee pubblico si rese responsabile di una colpevole tolleranza nei confronti dello squadrismo. Allo stesso tempo Giolitti cercò di indebolire i partiti di massa – popolare e socialista – che non intendevano sostenere un governo dei liberali. Sciolto il Parlamento, Giolitti indisse dunque nuove elezioni nel 1921, dalle quale però emerse un nuovo successo dei popolari e dei socialisti. Questo fallimento della strategia elettorale portò Giolitti alle definitive dimissioni. L’unico fatto nuovo fu che i Fascisti, entrati nel blocco nazionale che comprendeva conservatori, liberali e democratici, conquistarono per la prima volta visibilità pubblica con 35 deputati che significarono una sorta di riconoscimento ufficiale del ruolo politico svolto dal movimento guidato da Mussolini.
Dimessosi Giolitti, si crearono le condizioni per l’avvento del Fascismo: questo appariva ormai come garanzia d’ordine per quanti temevano le lotte sociali e una possibile rivoluzione proletaria e allo stesso tempo si presentava come forza rivoluzionari per dannunziani e nazionalisti che si sentivano traditi dal trattato di Rapallo siglato da Giolitti. Il nuovo presidente del consiglio Ivanoe Bonomi tentò di risolvere le tensioni proponendo un patto di pacificazione a Fascisti e Socialisti. Il patto rientrava nella strategia di Mussolini che mirava alla normalizzazione del movimento fascista, ma incontrò l’opposizione dei ras (capi-squadra locali così chiamati dal nome dei signori feudali etiopici) che, temendo di perdere potere e autonomia, misero in discussione la leadership di Mussolini.
Mussolini sconfessò dunque tale patto (e Bonomi si dimise in favore di Facta) ma in cambio ricevette il consenso dei ras a trasformare il movimento in Partito Fascista (1921). Quindi, rinunciando alle pregiudiziali antimonarchiche e anticlericali per allargare i propri consensi, iniziò a operare sempre più a fondo sui due piani paralleli: la violenza armata e l’azione politica. Mentre la crisi del Psi si consumava con il distacco dei riformisti di Turati e la fondazione del Partito Socialista Unitario (PSU, ottobre 1922), Mussolini decise infine di tentare il colpo di stato: il 28 ottobre 1922 le bande fasciste marciarono su Roma. Il Re Vittorio Emanuele III si rifiutò di proclamare lo stato d’assedio (sia perché insicuro sulla fedeltà dei suoi ufficiali, sia perché speranzoso che Mussolini difendesse la monarchia da possibili rivolte socialiste che, come già successo in Russia nel 1917 allo zar, avrebbero portato all’abbattimento del potere centrale) e chiamò Mussolini a presiedere un nuovo governo, formato da liberali giolittiani, liberali di destra, democratici e popolari. L’illegalità fascista trovava così sanzione legale ad opera della monarchia stessa.
3. Il Fascismo dalla marcia su Roma al delitto Matteotti
Giunto al potere in modo semplice e senza dover usare (ufficialmente) la violenza, il Fascismo si impose senza un programma preciso. I più pensavano che Mussolini avrebbe resistito pochi anni (proprio per questa sua ambiguità e indefinibilità politica), altri invece (Godetti, Sturzo, Gramsci) misero immediatamente in guardia dal rischio che il fascismo potesse trarre forza proprio da quanti si illudevano che fosse qualcosa di momentaneo, mentre riassumeva in sé tutti i mali e i vizi della società italiana.
Sul piano pratico il Fascismo si presentava come garanzia di stabilità sociale; sul piano ideologico affermava la saldatura tra Stato e Nazione, superando così le istituzioni liberali in favore di uno Stato totalitario, monolitico, onnipresente, fondato sul rapporto diretto tra il Duce e il popolo. Mussolini unì, con efficace ambiguità, promesse di normalizzazione moderata e minacce di una seconda ondata rivoluzionaria.
Preso il potere, Mussolini ricorse anche a personale politico che non aveva origini fasciste, come il filosofo idealista Giovanni Gentile, autore nel 1923 della riforma scolastica che tentava di fondere fascismo, hegelismo e pensiero risorgimentale.
Mussolini mostrava così la consapevolezza di non essere sufficientemente forte per governare da solo, ragione per cui formò un governo di coalizione, aiutato anche dal fatto che:
Mussolini rassicurò i ceti conservatori attraverso l’intervento delle squadre d’azione. Tra le diverse scorribande all’insegna della violenza e del terrore, queste squadre nel dicembre 1922 compirono a Torino una spedizione punitiva contro rappresentanti sindacali e operai, lasciando sul terreno una ventina di morti. I capi locali di tali squadre – i ras – vennero inquadrati nella Milizia volontaria per la scurezza nazionale (1923) in modo da essere controllati meglio da Mussolini. Alle violenze illegali di andava così affiancando una azione repressiva legale e paramilitare.
In campo economico e sociale, Mussolini smantellò la legislazione precedente – risalente all’età giolittiana – e impresse
Desideroso di trovare appoggio presso la Chiesa cattolica, Mussolini usò benevolenza (più formale che sostanziale), ad esempio riportando il crocifisso in scuole e ospedali, introducendo l’obbligo dell’insegnamento religioso nelle elementari (riforma Gentile, 1923) nonché dell’esame di Stato (gradito alle scuole cattoliche non statali). Nel frattempo, non si asteneva però dal perseguitare ferocemente i sacerdoti antifascisti. Duplice era l’obiettivo di Mussolini in questo atteggiamento: mostrare che il Partito Popolare era superfluo (e dunque la Chiesa poteva appoggiare quello fascista) e lasciare spazi sufficienti per una violenza mirata e intimidatoria, atta a vincere eventuali resistenze cattoliche.
Proprio in ambito cattolico l’indirizzo antifascista fu affermato con vigore da don Sturzo nel congresso del Partito Popolare dell’aprile 1923, dando l’alibi a Mussolini per espellere dal governo i ministri dello stesso partito. Lo stesso don Sturzo si dimise poco dopo dalla segreteria del Partito Popolare.
Liberatosi così del più forte e scomodo fra gli alleati di governo, con la legge elettorale Acerbo (1923) che concedeva i 2/3 dei seggi al partito di maggioranza relativa (almeno il 25% dei voti), Mussolini pose le basi per eliminare definitivamente la vita democratica.
In vista delle elezioni del 1924 le squadre fasciste intensificarono la loro azione, mentre Mussolini organizzò un listone in cui chiamò a convergere tutti coloro che volevano collaborare “al di fuori e al di sopra e contro i partiti”. Aderirono liberali, nazionalisti, ex-combattenti, monarchici, raccogliendo il 65% dei voti.
Dopo tale esito, il socialista riformista Giacomo Matteotti denunciò in un discorso alla Camera le violenze e le illegalità delle squadre fasciste durante il periodo elettorale. Il 10 giugno 1924 fu prelevato a Roma da una di tali squadre. Il suo cadavere sarà trovato dopo due mesi nella campagna romana.
Scosso per quello che era un palese assassinio politico, il successore di don Sturzo, il popolare De Gasperi, decise di non prendere più parte ai lavori parlamentari, dando vita alla cosiddetta secessione dell’Aventino (giugno 1924) con l’obiettivo di isolare il fascismo.
Mussolini capì però che gli aventiniani non avevano la forza di rovesciarlo e che il re non sarebbe intervenuto. Il 3 gennaio 1925 tenne dunque alla camera un discorso che segnò l’inizio della dittatura fascista in Italia.
4. L’organizzazione dello Stato fascista
Il 3 gennaio 1925 Mussolini esordì assumendosi tutta le responsabilità “morale, politica e storica” per quanto accaduto. Quindi smantellò definitivamente la legislazione liberale, trasformando il governo fascista in regime.
Nel 1925-26 tramite l’approvazione delle leggi fascistissime
Benché lo Statuto Albertino rimanesse formalmente in vita, era svuotato di ogni contenuto liberale e si era ormai affermato lo stato totalitario.
Nel novembre 1926 venne istituito un Tribunale speciale per la difesa dello Stato, persecutore degli antifascisti.
Dopo aver stabilito che nei conflitti di lavoro le controparti esclusive potessero essere solo la Confederazione delle corporazioni fasciste e la Confederazione dell’Industria, nell’aprile 1926 si stabilì per legge il riconoscimento legale controllato delle associazioni sindacali, azione suggellata poi dalla Carta del Lavoro (1927) – che affermava come obiettivo primario lo sviluppo della potenza nazionale, alludendo alla matrice imperialistica della politica estera fascista.
La riforma legislativa dello Stato fascista proseguì con la riforma del codice penale a opera di Alfredo Rocco (1930), rafforzata dal controllo propagandistico dell’opinione pubblica (radio, film, manifestazioni popolari) e dall’inquadramento del popolo (associazioni giovanili, sportive, militari, i Balilla, occasioni di scontro con l’Azione Cattolica in quegli anni).
Fondamentale era l’integrazione del popolo nello Stato fascista, tanto che venne resa obbligatoria la tessera del partito Fascista - considerato ormai come un organo statale - per i lavoratori statali prima e poi di fatto per tutta la cittadinanza. Grande impatto pubblico ebbero le numerose opere pubbliche (bonifica delle Paludi Pontine).
Attenta era poi l’organizzazione del tempo libero al fine di formare una cultura fascista (attività sportive, spettacoli propagandistici e cinematografici a carattere nazionalista). Accanto a tutto questo, funzionava una capillare rete di polizia che collaborava a garantire un consenso ampio e guidato, non certo fondato sul dibattito e sulla libera critica.
Grande adesione al Fascismo si ebbe dal mondo della cultura (Giovanni Gentile). Solo tardivamente alcuni scienziati presero le distanze dalle teorie razziste del Fascismo. Alcuni intellettuali abbandonarono il Paese (Enrico Fermi, il fisico emigrato negli Usa nel 1938). Nel 1932 il Fascismo impose un giuramento di fedeltà al regime ai docenti universitari e solo 12 non aderirono, complice il fatto che anche la stessa Università cattolica di Milano vedeva nel Fascismo il superamento del liberalismo, il nemico “storico” della Chiesa.
Dura opposizione si ebbe però da Benedetto Croce, che nel 1925 redasse un Manifesto degli intellettuali antifascisti in risposta al manifesto degli intellettuali fascisti redatto da Gentile nell’aprile dello stesso anno.
Dura fu la reazione del regime, che si liberò dei suoi oppositori (Godetti), o li costrinse all’esilio (Nenni, Sturzo, Togliatti, Turati) o li incarcerò (Pertini, Gramsci). E proprio questa reazione rese sempre più consapevole il mondo intellettuale dei vizi e del male che albergavano nell’ideologia e nel regime fascisti.
In senso economico, dopo il 1925 il Fascismo fu tutto impegnato a rafforzare la lira con politica nuovamente protezionista, riducendo i salari, con conseguente rallentamento della produzione industriale e delle esportazioni e con incremento della disoccupazione. La deflazione – la riduzione di moneta circolante per rafforzarne il valore – colpì anche l’agricoltura, già danneggiata dalle battaglie del grano (la cui coltivazione fu protetta a scapito di altre più redditizie pur di ridurre il deficit derivante dall’importazione di frumento).
Nel 1929 fu lanciata una politica demografica con lo scopo di favorire le famiglie numerose, accompagnandola con una politica occupazionale (con forte impulso ai lavori pubblici).
Presentandosi come colui che aveva salvato l’Italia dalla rivoluzione, Mussolini godette dell’appoggio di ambienti politico-finanziari inglesi (Churchill), francesi e americani. Ma non tardò a mostrare il volto imperialistico del regime (intervento in Albania, 1926).
La fine dello Stato liberale si consumò quando venne approvata la nuova legge elettorale (1928) che introduceva il sistema della lista unica (tanti candidati quanti i seggi da occupare), costituzionalizzando poi il Gran Consiglio del Fascismo che divenne organo di stato, di fatto svuotando di ogni significato e valore politico la Camera e il Parlamento.
5. Il Fascismo come totalitarismo imperfetto
Mentre in Germania il nazismo era ancora un fenomeno marginale, nella seconda metà degli anni Venti in Italia il Fascismo era ormai realtà consolidata. Esso consisteva nella sovrapposizione di due strutture parallele: il vecchio Stato monarchico e il Partito Fascista. Punto di congiunzione era il già citato Gran Consiglio del fascismo. Per scelta di Mussolini, lo Stato fu sempre preponderante, per cui il PNF, vistosi ridotto il margine di azione politica, tentò di dilatare la sua presenza nella società in modo capillare (la tessera del PNF divenne pratica di massa dalla fine degli anni Venti, essendo addirittura necessaria per concorsi e posti pubblici).
La fascistizzazione del Paese venne portata avanti tramite la creazione di una fitta rete di associazioni: l’Opera Nazionale Dopolavoro (che si occupava del tempo libero di milioni di lavoratori); il Comitato Olimpico Nazionale (CONI, per promuovere e controllare le attività sportive); i Gruppi Universitari Fascisti (GUF); l’Opera Nazionale Balilla (ONB, per ragazzi dai 12 ai 18 anni); i Figli della Lupa (per bambini sotto i 12 anni).
Occupare la Società significava però per il fascismo trovare un modo di affrontare il più grande ostacolo in essa presente: la Chiesa, forte della presenza di parrocchie in tutta la penisola, capaci di aggregare socialmente e culturalmente. Già nel 1923, con la riforma Gentile, Mussolini si era presentato come protettore della Chiesa e ne aveva approfittato per espellere i ministri del Partito Popolare e spingere alle dimissioni lo stesso Don Sturzo. Ma adesso si trattava di andare ben oltre.
Dopo anni di trattative, si giunse infine alla firma dei Patti Lateranensi (11 febbraio 1929):
Tali patti rappresentarono un compromesso tra la ricerca di autonomia della Chiesa e l’aspirazione a un ruolo di primo piano garantito dallo Stato Fascista. Risolta la “questione romana”, Mussolini incamerò un notevole successo diplomatico, guadagnandosi anche l’appoggio del mondo cattolico, al punto che nelle elezioni plebiscitarie del 1929 il Fascismo ottenne il 98% dei voti favorevoli (dato che va considerato sapendo che la segretezza del voto era spesso violata da modalità di votazione al limite dell’illegalità).
L’altro ostacolo con cui restava da confrontarsi era la monarchia: mentre dopo il 1934 Hitler è capo del governo e presidente della Repubblica (poi trasformata in III Reich), Mussolini è capo di governo e di partito, ma deve rendere conto al Re Vittorio Emanuele III che, benché di provata debolezza (come evidenziatosi in occasione della marcia su Roma del 1922), ha formalmente il diritto di nominare (e revocare) il presidente del consiglio. La monarchia resta dunque un motivo di interna debolezza del regime.
6. Il Fascismo e il Paese
L’Italia del ventennio fascista è un Paese in crescita demografica (dai 39 mln del 1921 ai 44 del 1939) ed industriale. Nonostante lo sviluppo, resta però un Paese arretrato (il reddito di un italiano alla fine degli anni Trenta è circa ¼ di quello di uno statunitense). Tale arretratezza è funzionale al regime: il fascismo (come il nazismo) predica il ritorno alla campagna, al ruralizzazione, esaltando la famiglia e lo sviluppo demografico (premi alle coppie prolifiche, secondo la teoria del “maggior numero, maggior potenza”), bloccando l’emancipazione femminile (la donna è angelo del focolare, relegata al ruolo domestico, inserita nella associazione delle Massaie rurali).
Tale ritardo è d’altra parte un ostacolo alla realizzazione di un regime totalitario moderno. L’arretratezza culturale ed economica (che permane nonostante le generiche assicurazioni di “solidarietà tra i settori della produzione” contenute nella Carta del Lavoro del 1927) fa sì che l’adesione più convinta al Fascismo venga dalla media borghesia (esaltata dai valori del regime e dalla prospettiva di carriera nel Partito), mentre i ceti popolari restano fondamentalmente distanti, mantenendo schemi mentali e sociali inalterati.
Per controllare il Paese, il Fascismo tenta di inserirsi:
Viene fondato addirittura un Ministero per la Cultura Popolare (MinCulPop, 1937) a imitazione di quello nazista per la propaganda. Nel 1927 viene fondato l’EIAR (antenato della RAI) che controlla le trasmissioni radiofoniche (dopo il ’35 la radio diventa mezzo di propaganda fortissimo, diffusa nelle abitazioni civili, in scuole e uffici pubblici).
Si cerca poi di frenare l’importazione di film americani, sovvenzionando il cinema italiano, ma il regime si accontenta soprattutto di imporre i cinegiornali prima di ogni spettacolo: realizzati dall’Istituto Luce, sono efficacissimi mezzi di informazione e propaganda che raggiungono milioni di spettatori.
7. Fascismo ed economia
Tra capitalismo e socialismo, il fascismo tenterà una terza via, il corporativismo: la gestione diretta dell’economia da parte delle categorie produttive, organizzate appunto in corporazioni distinte per settori di attività e comprensive di imprenditori e lavoratori dipendenti. Questo sistema verrà attuato solo nel 1934, ma si ridurrà a una pura aggiunta burocratica che non inciderà realmente sull’economia.
Dopo un avvio liberista e produttivista (1922-1925), causa di inflazione e svalutazione della Lira (145 lire per una sterlina), il ministro delle Finanze Giuseppe Volpi nel 1925 cambiò radicalmente indirizzo imponendo rigide misure protezionistiche per ottenere deflazione, stabilità della moneta e controllo statale sull’economia.
La svolta del 1925 prende avvio dalla “battaglia per il grano”: il tentativo di raggiungere l’autosufficienza nel settore dei cereali, proteggendo i prodotti interni (con l’imposizione di dazi, come già nel 1887, per scongiurare le importazioni) e aumentando la produzione (+50% il grano negli anni Trenta). Il prezzo fu il sacrificio degli allevatori (privati di pascoli destinati a grano) e delle colture specifiche per le esportazioni (ortofrutticole) colpite dal protezionismo.
La seconda battaglia sarà quella detta “Quota 90”, ossia per la rivalutazione della lira (1926): obiettivo raggiunto in circa un anno, grazie a un cospicuo prestito dagli Usa e con il conseguente taglio dei salari dei lavoratori dipendenti, nonché la flessione delle industrie rivolte all’esportazione, colpite dall’eccessivo rafforzamento della lira (90 lire per una sterlina).
Questi elementi di crisi dovuti alle scelte del Fascismo si aggiunsero alla crisi del 1929 che colpì anche l’Italia (ma in misura minore di altri Paesi in virtù di una economia arretrata e dunque meno imperniata sulle moderne realtà borsistico-finanziarie).
Dinnanzi a questo il regime reagì:
Grazie a queste misure, nel 1935 l’Italia poteva dirsi fuori dalla crisi economica.
8. L’imperialismo fascista
Rimessa in moto l’economia, questa si trasformò presto in economia di guerra per sostenere le aspirazioni imperialistiche della componente nazionalista del Paese, desiderosa di far rivivere le glorie di Roma antica. Diversamente dalla Germania, che aveva motivo di stimolare il riscatto di una nazione uscita sconfitta dalla Grande Guerra, l’Italia non ha motivazioni così forti negli anni Venti, limitandosi a vaghe aspirazioni di grandezza nazionale.
I rapporti divengono poi tesi con la Francia, quando questa ospita esuli antifascisti italiani, ma l’Italia resta comunque alleata delle democrazie occidentali, come dimostra l’incontro di Stresa dell’aprile 1935 in cui ITA, FR e GB condannano il riarmo tedesco. In questa occasione Mussolini si presenta come mediatore rispetto alla GER.
L’illusione di forza nazionale lo porta a progettare l’aggressione all’Etiopia, unico grande stato africano ancora libero, funzionale alla creazione di un impero laddove l’Italia possiede già al Somalia (1889), l’Eritrea (1890) e la Libia (1912). Tale campagna sarebbe l’occasione per far convergere l’attenzione popolare su una metà precisa, capace di distogliere l’attenzione dai motivi di crisi interni al Paese. Soprattutto, sarebbe l’occasione per riscattare la sconfitta di Adua (1896).
Nell’ottobre 1935 Mussolini inizia l’invasione dell’Etiopia. FR e GB non possono stare a guardare e spingono la Società delle Nazioni (di cui l’Etiopia fa parte) a comminare sanzioni all’ITA, ovvero il divieto per i Paesi della SdN di esportare in Italia merci e materiale bellico. Sanzioni di fatto poco più che formali, poiché si possono esportare le materie prime (comunque necessarie) e perché di fatto non colpiscono USA e GER che non aderiscono alla SdN (la GER è uscita nel 1933).
Di fatto le sanzioni approfondiscono la però al crisi nei rapporti tra ITA e democrazie occidentali, portando Mussolini a dipingere il Paese come vittima di una congiura internazionale. A ciò si aggiunga che la campagna di Etiopia è giustificata anche in nome della missione civilizzatrice dell’Italia, chiamata – secondo la propaganda - a liberare quel popolo da un regime ingiusto e oppressivo.
Dopo 7 mesi di dura lotta l’esercito etiope comandato dal Negus si arrende a quello italiano, numeroso (400.000 uomini) e meglio equipaggiato. Il 5 maggio 1936 il maresciallo Badoglio entra in Adis Abeba. Il re VM III riceve la corona di Imperatore d’Etiopia.
Benché il Paese sia ben povero di risorse naturali e inospitale (come già si era rivelata la Libia all’indomani della conquista), per il regime è un grande successo propagandistico. L’Occidente non può che accettare la conquista come un fatto compiuto: FR e GB riconoscono l’Impero Italiano in Africa orientale.
Questo dà a Mussolini l’idea di essere nel momento giusto per avvicinarsi alla GER (dopo aver deciso di condividere la campagna spagnola in appoggio a Franco, 1936-1939), con la quale stringe il patto di amicizia “asse Roma-Berlino” (ottobre 1936), illudendosi di poter così gestire i rapporti tra la GER di Hitler e le democrazie occidentali. L’anno successivo l’ITA aderisce al Patto anti-Comintern (1937) sottoscritto l’anno prima da GER e JAP: iniziano a delinearsi i blocchi della seconda Guerra mondiale.
A poco a poco i rapporti di forza di invertono però e, compiuta l’Anschluss dell’Austria (marzo 1938) e l’occupazione della Cecoslovacchia (di fatto permessa dal via libera all’annessione tedesca dei Sudeti decisa da ITA, FR e GB alla Conferenza di Monaco del settembre 1938), è Hitler a influenzare le scelte del Duce, portandolo a firmare l’alleanza militare tra ITA e GER, il Patto d’Acciaio (maggio 1939).
Mentre Mussolini si illude che la guerra si ancora lontana, Hitler già prepara l’occupazione della Polonia che di lì a poco avrebbe scatenato il secondo conflitto mondiale (settembre 1939).
9. L’Italia Antifascista
Dal 1925 con l’inizio della dittatura fascista il dissenso nei confronti del regime assunse due forme: quella propagandistica degli esuli all’estero e quella della agitazione clandestina in patria.
Gli antifascisti si possono suddividere in:
Se i risultati pratici non saranno incisivi, occorre però dire che dall’iniziativa di questi gruppi nasceranno le condizioni morali e motivazionali per la successiva Resistenza armata contro il regime.
Il regime, dal canto suo, comincia a perdere consenso per:
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Autore del testo: Manetti
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