John Stuart Mill Utilitarismo

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Il positivismo dopo Comte

Il positivismo in Francia e Inghilterra Con l'istituzione della Società positivista, il positivismo divenne un movimento organizzato. Le idee di Comte ebbero proseliti sia in Francia (il più noto fu il filosofo e linguista Emile Littré, 1801-1881) sia fuori. In Inghilterra i suoi seguaci più importanti furono George Henry Lewes (1817-1878), Richard Gongreve (1818-1899), Herbert Spencer (1820-1903, che si riallaccia all’evoluzionismo darwiniano), Frederic Harrison (1831-1923) e una donna, Harriet Martineau (1802-1876), che tradusse il Cours in inglese. Alcuni di questi finirono col rompere con Comte, quando le sue concezioni filosofiche e politiche si irrigidirono. La trasfor­mazione del positivismo in un'organizzazione politico-religiosa provocò l'allontanamento di coloro che non gradivano quella che sembrava una vera e propria «irreggimentazione» (questo il termine usato). Più che al proselitismo dei seguaci, la diffusione del positivismo fu dovuta a un clima culturale generale, di cui la filosofia comtiana era piuttosto un'espressione che la cau­sa. Certamente, non si deve solo a Comte il fatto che la filosofia guardasse sempre più alle scienze e che in molti ambienti prevalesse un atteggiamento antimetafisico. Questo atteggia­mento, infatti, fu condiviso proprio da pensatori che, pur avendo mostrato interesse per le idee di Comte, criticarono duramente aspetti impor­tanti del suo pensiero e seguirono una strada autonoma. È il caso, in particolare, di uno dei filosofi inglesi più influenti dell'Ottocento: John Stuart Mill.

John Stuart Mill (1806-1873), principale esponente della corrente dell’utilitarismo. Questa fu una corrente filosofica positivistica che ritenne chiave l’aspetto morale: “un’azione è buona se è utile”, cioè se contribuisce alla felicità comune. Mill condivideva l'impostazione antimetafisica di Comte, col quale intrattenne un ricco carteggio. Concordava anche sulla necessità di una «riorganizzazione intel­lettuale» della società: non potevano svolgere questo ruolo le concezioni religiose, che avevano perduto il loro «valore civilizzatore»; il loro posto non poteva essere preso né dalla «filosofia rivoluzionaria» né dalla filosofia speculativa tedesca, ma solo dalla filosofia positiva. Mill era però radicalmente lontano dallo spirito sistematico, dalla visione totalitaria e dal profetismo di Comte. Ostile a ogni forma di ingegneria sociale e di dirigismo politico, concepiva la società come un insieme di rapporti autoregolantisi e funzionanti sulla base del libero consenso degli interessati: non si trattava di affidare la direzione della società a un'elite tecnocratica (col perico­lo, scrisse in una lettera a Comte, di una «pedantocrazia»), ma di ampliare la sfera delle libertà individuali. Mill era inoltre estraneo anche allo spirito sistematico e totalizzante di Comte: «Per­ché – si chiedeva – questo continuo sistematizzare, sistematizzare, sistematizzare?» Infine, per Mill avevano un'importanza decisiva due discipline, la psicologia e l'economia politica, che Comte aveva escluso dal novero delle scienze positive.

In particolare, il Sistema dì economia politica (1848) di Mill riassume ed unifica i risultati che questa scien­za aveva raggiunto attraverso l'opera di Smith, Malthus e Ricardo. Mill non ritiene tutta­via che l'ordine economico sia automatico e fatale. Le leggi della produzione sono, egli dice, «leggi reali di natura»; le leggi della distribuzione dipendono invece dalla volontà umana, e quindi dal diritto e dal costume. È possibile modificare queste leggi per otte­nere una migliore distribuzione della ricchezza. Mill afferma a questo proposito che la scelta tra individualismo e socialismo «dipenderà principalmente da un'unica considera­zione, cioè da quale dei due sistemi si concili con la massima somma possibile di libertà e spontaneità umana». Ed in realtà ciò che trattiene Mill dall'aderire al socialismo, del quale condivide il riconoscimento e la condanna delle ingiustizie sociali, è l'esigenza di salvaguardare in ogni caso la libertà individuale. L'ultima parte del suo trattato è infatti dedicata a determinare i limiti dell'intervento del governo negli affari economici. Questi limiti sono in ultima analisi richiesti dall'esigenza che vi sia «nell'esistenza umana una roccaforte sacra, sottratta all'intrusione di qualsiasi autorità». Questo non gli impedisce però di difendere tutta una serie di misure che dovrebbero avere lo scopo di distribuire più equamente la ricchezza o di migliorare le condizioni del popolo.

Infine, Mill fu celebre anche per essersi occupato della questione femminile: ritenne che l’emancipazione delle donne fosse fondamentale per garantire il giusto funzionamento della società. Va ricordato che nell'Ottocento la famiglia e i ruoli di coloro che la compongono erano in piena trasformazione. Pur restando preminente la figura maschile (padre o marito), il ruolo della donna acquisì maggior peso, sia nelle famiglie borghesi, sia in quelle di estrazione più bassa (basti pensare al lavoro femminile nelle fabbriche).
Mill fornì una definizione filosofica di "femminismo liberale", sostenendo che l'ineguaglianza fondata sulla differenza di genere e la preclusione di determinati lavori alle donne erano due fatti in netta contraddizione con la modernità. Con l'abolizione della distinzione tra schiavo e uomo libero, tra servo e padrone, era impossibile conservare quella tra uomo e donna, tenendo le donne in una posizione subordinata: «se abbiamo le regine, come è possibile che non abbiamo donne membri del parlamento?»Va ricordato che Mill nel 1851 sposò Harriet Hardy (un’attivista di quel movimento femminista inglese che premeva per ottenere il diritto di voto alle donne) e che tra il 1865 e il 1868 fu membro della Camera dei Comuni, sostenendo l'estensione del suffragio alle donne. Nel 1869 scrisse il saggio La servitù delle donne. L’interdizione delle donne dalla vita politica, così come dal ruolo attivo nella società, era dovuta alla subordinazione della donna all'uomo: si precludeva alle donne la sfera pubblica per consolidare la loro subordinazione domestica, poiché - osservava Mill - «gli esponenti del sesso maschile non riescono ancora a tollerare l'idea di vivere con una loro pari». Nel saggio, Mill paragona più volte alla relazione padrone-schiavo il rapporto che si instaura fra uomo e donna nell'ambito familiare: un dominio fondato sul pregiudizio dell'inferiorità biologica della donna. Il filosofo era convinto che gli ostacoli al libero sviluppo delle potenzialità di metà del genere umano rappresentassero non solo un'ingiustizia, ma anche un grave danno per il «progresso umano»: era dunque nell'interesse di tutti (non delle sole donne) che anche i rapporti sociali fra i due sessi cominciassero finalmente a essere improntati a un princi­pio di uguaglianza.
Questo testo di Mill ebbe una vasta dif­fusione, venendo tradotto in molte lingue.
Da N. Abbagnano, G. Fornero, Protagonisti e testi della filosofia, vol. c, Milano, Paravia, 2000, pag. 431; A. La Vergata, F. Trabattoni, Filosofia e cultura, vol. 3a, Scandicci, La Nuova Italia, 2007, pagg. 254-5 e 333. M. Pancaldi, M. Trombino, M. Villani, Philosophica, vol. 3A, Milano, Marietti Scuola, 2007, p. 490-1 (con modifiche)

 

Fonte: http://www.bellodie.altervista.org/filo5a_file/Positivismo_dopo_Comte.doc

Sito web da visitare: http://www.bellodie.altervista.org

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