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L’età di Traiano
Si è soliti in genere considerare il periodo dall'avvento di Vespasiano (69 d.C.) alla morte di Traiano (117 d.C.) come una sola età, ma, a ben guardare, gli anni della dinastia flavia e quelli caratterizzati dall'avvento di Traiano presentano caratteri tipologici fortemente differenti; basti pensare, ad esempio, alla gestione del potere che nei primi fu sempre sostanzialmente autoritaria e talvolta addirittura dispotica, mentre in Traiano fu tollerante e addirittura illuminata. Tutto ciò non poteva non determinare un profondo mutamento anche nell’ambito del rapporto fra il potere e gli intellettuali che ora, con Traiano, si sentono meno condizionati, più liberi di esprimersi, anche se, come si vedrà, non si rendono conto come in realtà è un regime in cui la libertas non è un bene acquisito col diritto dei cittadini, ma elargito paternalisticamente ai sudditi.
La dinastia flayia si spegne con la morte di Domiziano e con essa si interrompe anche il periodo cosiddetto dinastico, caratterizzato cioè dalla successione imperiale per eredità nell'ambito della stessa famiglia. Gli stessi congiurati che avevano decretato la fine di Domiziano si erano preoccupati di organizzare anche la successione e avevano designato Marco Cocceio Nerva, un senatore di grande prestigio, assai esperto di problemi amministrativi. Nerva resse il potere imperiale per due anni appena (96-98 dC) durante i quali pero' diede prova di grande rettitudine: prese importanti provvedimenti di ordine giudiziario, come la soppressione dei processi per lesa maestà, e amministrativo, come la nomina di una commissione che si occupasse di regolare la riduzione della spesa pubblica. Fin dai primi tempi del suo principato, Nerva fu salutato come pater patriae, proprio a voler sottolineare la fiducia che in lui si riponeva per l'instaurazione di un nuovo e ben più sereno periodo dopo le burrasche domizianee. Egli riuscì a stabilire un rapporto di concordia col senato e pote' contare anche sull'appoggio della nobilitas, mentre più difficile fu l'intesa con i militari, per la quale saggiamente il Principe preferì farsi affiancare da Marco Ulpio Traiano, generale di origine spagnola, che poco più tardi adottò come figlio e designò per la successione. Con questo provvedimento preso da Nerva si passò da un sistema di tipo ereditario a quello di tipo adottivo, che rimase in vigore anche per i tre imperatori successivi.
Ben più lungo fu il principato di Traiano, che durò dal 98 al 114.dC. e che fu caratterizzato da due chiari orientamenti: da una parte l'organizzazione dell'opera di risanamento delle campagne italiche e dall'altra la politica di espansione territoriale. «Lo spopolamento dell'Italia rurale - un fenomeno ormai secolare - rappresentava un fenomeno doppiamente preoccupante: da un lato, esso erodeva uno dei pilastri dello Stato romano, tradizionalmente poggiato sull' abbondanza di prodotti e di uomini forniti dalle campagne italiche; dall'altro lato rendeva sempre più difficile il reclutamento dei legionari in Italia. Per incrementare le nascite, Traiano fondò le instiutiones alimentariae: si trattava di pensioni offerte alle famiglie numerose dei contadini poveri, perché questi potessero nutrire ed allevare la propria prole. Questo fondo sociale era finanziato con un procedimento ingegnoso: lo Stato concedeva ai proprietari fondiari prestiti a un tasso di interesse assai limitato, e questi interessi erano appunto devoluti a formare il capitale delle institutiones; si immetteva quindi denaro fresco nell'agricoltura, e contemporaneamente si incoraggiava una ripresa della natalità in Italia» (VEGETTI).
L'espansione territoriale fu accresciuta da Traiano, che conquistò definitivamente tutta la Dacia, riprese l'offensiva contro i Parti e ridusse a provincia romana il regno d'Armenia.
Col senato Traiano stabilì una pacifica convivenza, evitando di assumere atteggiamenti forti; l'appoggio delle truppe gli era garantito dai suoi trascorsi militari. Sostanzialmente, dunque, quello di Traiano può esser considerato come uno sforzo di consolidamento delle strutture imperiali e come un tentativo di pacificazione e di conciliazione tra le diverse esigenze in gioco: quelle del Principe, quelle del senato, quelle dei nobili e dei militari e quelle del popolo; insomma, l'instaurazione dell'equilibrio tra principato e libertà.
Soltanto nei confronti del mondo giudaico e cristiano, che proprio in quegli anni cominciava ad assumere caratteri diversificati, la politica traianea mostrò una notevole dose di aggressività e di ostilità. Infatti durante il suo principato si ruppe quell'accordo che si era determinato, prima all'atto dell'uccisione di Domiziano e poi durante il brevissimo governo di Nerva, fra gli interessi del senato improntati al rispetto della tradizione e le forze emergenti del mondo giudaico e cristiano sicché «la classe dirigente senatoria, rinnovata ormai e ben avvicinata all'imperatore, poté condurre, d'accordo con lui, una politica tradizionalista manifestamente ostile alle forze del proselitismo giudaico-cristiano » (MAZZARINO).
Traiano morì nel 117, mentre tornava dalla campagna contro i Parti: qualche anno prima egli aveva già adottato il suo successore, Publio Elio Adriano.
La vita politica e la cultura
Salito al principato, dopo la tirannide di Domiziano e l'effimero regno di Nerva, Traiano si rese subito conto che urgeva un'opera di pacificazione attraverso un recupero del consenso dei nobili. In altri termini egli volle proporre come immagine di sé quella del Principe buono e illuminato che governa in sintonia con la nobilitas, secondo quella linea politica che era stata già ampiamente collaudata con il principato augusteo. Instaurò pertanto un clima di tolleranza che non mancò di far sentire i suo benefici influssi sulla cultura in genere e sulla letteratura in particolare, che fu più libera rispetto al potere imperiale. Certo non si trattò piuttosto di una piena ed autentica libertà, perché essa fu sempre controllata alla lontana dal Principe, si trattò di una libertà vigilata, che non mise mai in forse il potere e il carisma dell'imperatore, ma che diede agli intellettuali l'illusione di aver conseguito, dopo anni di asservimento, la libertà di espressione. Ciò spiega ampiamente certe prese di posizione nettamente favorevoli al Principe, come quella di Plinio il Giovane che nel Panegirico a Traiano afferma:
“O via nuova e inaudita per giungere al principato! Tu non sei diventato Principe per ambizione o paura propria, ma per l'interesse e il timore degli altri. Quantunque sembri che tu abbia ottenuto il massimo degli onori fra gli uomini, tuttavia era un bene maggiore quello che hai lasciato: hai cessato di essere un privato cittadino sotto un buon Principe. Sei stato chiamato a gravarti di preoccupazioni e fatiche né ti hanno spinto ad occupare questo posto gli aspetti migliori di esso, bensì quelli difficili e ingrati: hai preso il potere dopo che un altro si pentiva di averlo assunto lui».
Dalle parole di Plinio emergono con chiarezza elementi che richiamano nitidamente certi aspetti della propaganda augustea. A ben guardare, il ruolo del prìnceps non è inteso come dominio assoluto e felice sui sudditi bensì come sacrificio e addirittura come onus, un peso che il Principe assume, abbandonando la felice condizione di cittadino privato per farsi carico di tutti i problemi della collettività. Altrettanto lusinghiera, anche se venata di una punta di pessimismo, è la posizione dello storico Tacito, appartenente all'aristocrazia senatoria, il quale nella Vita di Agricola, dopo aver tracciato un quadro a tinte fosche della tirannide di Domiziano, guarda con sollievo al proprio tempo e al principato tollerante istaurato da Nerva e Traiano: «Ora (cioè dopo la morte di Domiziano) si ritorna a respirare; e benché Nerva Cesare, all'inizio di questa felicissima età abbia conciliato due cose che in precedenza apparivano incompatibili, il principato e la libertà, e Nerva Traiano di giorno in giorno accresca la felicità dei nostri tempi, e la sicurezza pubblica non formula più speranze e voti, ma ha acquistato una ferrea fiducia nella realizzazione di questi stessi voti, tuttavia, a causa della natura stessa della fragilità umana, i rimedi sono più lenti dei mali; e come il nostro corpo cresce lentamente, ma celermente si distrugge, così è più
facile opprimere lo spirito e le sue attività che ravvivarli. Infatti si insinua nell'animo la dolcezza dell'inerzia e l'ignavia, che in un primo tempo risulta penosa, alla fine viene amata».
Ad uno sguardo complessivo, quindi, la cultura dell'età di Traiano evidenzia dei sintomi di risveglio che hanno il loro presupposto nella libertà di espressione garantita dal Principe agli intellettuali. Questi sembrano risvegliarsi dopo anni di duro asservimento al potere, proclamando una vera e propria damnatio memoriae nei confronti di Domiziano, e mostrano un'insolita euforia: «per la felicità rara dei tempi ci è concesso di pensare ciò che vogliamo e di dire ciò che pensiamo » dirà Tacito nelle Historiae.
Ma in effetti tanto entusiasmo era un po’ fuori luogo, in quanto gli intellettuali da tempo ormai non erano più abituati ad esprimersi senza remore, e quindi di questa libertà, che il Principe elargì paternalisticamente, non seppero fare buon uso. Non è un caso che Tacito, l'intellettuale sicuramente più lucido di questa età, sul finire della sua attività storiografica, abbia cominciato ad avvertire tracce nitidamente autocratiche anche nel principato traianeo e che perciò si sia persuaso della ineluttabilità del declino di Roma e del suo impero.
La letteratura : La formazione degli intellettuali
Gli intellettuali che si affermarono nell'età di Traiano si erano già quasi tutti formati nell'età dei Flavi, e quindi è naturale che risentano del clima di reviviscenza classicistica che aveva caratterizzato gli anni di Vespasiano, di Tito e di Domiziano. E questo il caso sia di Plinio il Giovane sia di Giovenale, il secondo dei quali fu forse anche maestro di retorica poco fortunato.
Inoltre ciò che collega Giovenale, per non parlare di Tacito, con la cultura tradizionalistica dei Flavi è un amore malinconico, perché senza speranze, nei confronti degli antichi costumi, di quel mos maiorum che per lui continua ad essere il mastice che dovrebbe ancora tenere insieme i cocci della dignitas romana e, in ultima analisi, della compagine imperiale. Ancora più stretti i legami di Plinio il Giovane con la cultura precedente. Egli è il discepolo prediletto di Quintiliano, si è formato alla sua scuola di retorica, ne ha assorbito fino in fondo l'insegnamento prevalentemente formalistico. Dovrebbe essere l'intellettuale-tipo sognato da Quintiliano, capace di ricollegare la cultura con la vita, e invece ci appare un intellettuale generalmente incapace di sentire la realtà, che crede di fare politica senza accorgersi che si tratta di un gioco innocuo, in quanto le decisioni più importanti passano sulla sua testa.
Dunque si trattò per lo più di intellettuali, nati e cresciuti sotto i Flavi, ma che trovarono nell'età di Traiano le condizioni migliori per esprimersi con una certa libertà e di ciò furono sempre grati al Principe.
I generi
I generi che maggiormente si diffusero in quegli anni furono la storiografia e la satira.
La storiografia con Tacito riacquistò quel carattere moralistico che essa aveva avuto con Sallustio. Necessario per la salvezza di Roma appare allo storico un recupero dei buoni costumi tradizionali che coincidano con l'antica virtù dell'aristocrazia romana. L'impero poi, producendo un rivolgimento sociale e mescolando genti diverse, ha acuito questo fenomeno di dissoluzione della virtus tradizionale. La storiografia, però, non si limita a vagheggiare nostalgicamente un passato del resto improponibile, ma si impegna in un indagine profonda e demistificante nei confronti del potere imperiale, che per Tacito è simbolo di tirannia e di asservimento delle coscienze. In tal modo lo storico invece fornisce ai suoi contemporanei uno strumento eccezionalmente critico per guardarsi allo specchio, per indagare sui mali che imperversano nella società romana.
Molta fortuna ebbe anche la satira, e non è un caso. Essa infatti si afferma soprattutto nei momenti in cui emergono importanti problemi sociali, ma soprattutto quando è possibile, per le condizioni politiche che lo consentono, parlare di questi mali, pure se nel tono scherzoso o ironico che è proprio del genere satirico. E questo il terreno su cui si muove Giovenale, che intende protestare energicamente, ma sempre entro i limiti delineati dal genere, contro certi mali che affliggevano la società romana di quel tempo. La sua satira è così rivolta contro i ricchi e in particolar modo contro i nuovi ricchi, contro la lussuria, e denuncia alcuni inconvenienti propri di una città come Roma, che ormai è diventata una megalopoli, con tutto ciò che un'evoluzione di tal genere comporta, dalla mancanza di serenità al traffico intenso e caotico, dalle profonde discriminazioni territoriali fra quartieri-bene e quartieri-ghetto, alla corruzione dilagante.
Anche la satira di Giovenale si pone quindi, al pari della storiografia tacitiana, come un opera che intende additare e denunciare certe storture e disfunzioni della società romana, consapevole che esse possono risultare letali. E fu proprio la mancata soluzione di questi problemi, cui se ne aggiunsero di lì a poco altri ancora più gravi, ad avviare quel processo di decomposizione che portò poi al crollo dell'impero.
Fonte: http://digilander.libero.it/leo.eli/classe%20V_MATERIALI/MATERIALI_LATINO/LETTERATURA/03_eta_di_Traiano.doc
Sito web da visitare: http://digilander.libero.it/leo.eli/
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