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La situazione politica nell'Italia del Due e Trecento
Le differenze tra Nord e Sud
Il panorama politico dell'Italia nel periodo che ci interessa vede una netta bipartizione tra il Centro-Nord della penisola e il Sud.
Nell'area settentrionale e centrale, sin dal secolo XI, si era affermata una fitta rete di città politicamente autonome, che si reggevano con ordinamenti di tipo repubblicano, i Comuni.
L'Italia meridionale invece era stata stabilmente retta da forme monarchiche: prima il regno normanno, poi quello degli Svevi, infine, dal 1266, la dinastia angioina che si era installata a Napoli e, dal 1283, dopo la guerra dei Vespri, quella aragonese che era venuta in possesso della Sicilia. Mentre nel Nord l'affermarsi delle città aveva progressivamente indebolito ed emarginato il sistema feudale, nel Sud esso era rimasto forte e diffuso. Federico II di Svevia, nella prima metà del Duecento, aveva cercato di contrastarne il particolarismo anarchico, combattendo i feudatari ribelli e organizzando saldamente lo Stato attraverso un apparato efficiente di funzionari imperiali, fondando una forma di monarchia assoluta, fortemente accentratrice, e prefigurando così quelle che erano destinate a diventare le forme dello Stato moderno, ma l'avvento degli Angioini aveva ridato pieno vigore alla feudalità.
Nell'Italia centrale si era poi consolidato lo Stato della Chiesa, una particolare monarchia di tipo teocratico, in cui il potere temporale e quello spirituale erano nelle mani della stessa persona, il pontefice (che peraltro doveva continuamente lottare contro lo strapotere delle grandi famiglie nobili). Quindi, mentre nelle città del Centro-Nord si erano sviluppate una vivace vita civile, fondata sulla partecipazione attiva dei cittadini a consigli e magistrature, ed un'intensa vita economica, basata sullo scambio, nello Stato della Chiesa e nel Sud non vi era nulla di paragonabile a tale fervore: le strutture sociali ed economiche rimasero più arretrate e statiche, caratterizzate ancora dal sistema feudale. Questa bipartizione fu gravida di conseguenze per il futuro sviluppo politico e sociale dell'Italia, sino ai giorni nostri; ma non fu priva di influenze anche sulla vita culturale, segnando in modo spiccato la fisionomia delle diverse zone e dei diversi centri.
Il particolarismo, la crisi dell'Impero e i Comuni
Anche nel Nord, nonostante la vivacità della vita cittadina, mancava un centro politico unificante. Al particolarismo feudale, che nel Sud creava perpetui conflitti tra i diversi signori, si sostituiva un fenomeno non meno negativo, il particolarismo municipale, che contrapponeva tra loro le varie città. La funzione universale affidata all'autorità dell'imperatore e del papa, pur conservando a lungo un ascendente ideale, risultava sempre più svuotata di contenuti reali. Le pretese dell'imperatore Federico Barbarossa di ristabilire l'autorità imperiale sulle città italiane falliscono dinanzi alla resistenza dei Comuni della Lega lombarda, che lo sconfiggono nella battaglia di Legnano (1176): di conseguenza l'autorità imperiale sull'Italia diviene puramente nominale. Anche Federico II, nel secolo successivo, non riesce più ad esercitare un effettivo controllo sui Comuni centro-settentrionali; e dopo la sua morte (1250) vi è una vera e propria vacanza del potere imperiale, poiché i suoi successori della casata d'Asburgo non si occupano più dell'Italia, presi dalla necessità di consolidare i loro domini germanici. Anche Enrico VII di Lussemburgo, che nel 1312 scende ancora in Italia nel tentativo di ristabilirvi il dominio imperiale, va incontro al fallimento.
Questa crisi del potere universale dell'Impero consente ai Comuni italiani di affermare appieno la loro autonomia, e ciò a sua volta favorisce lo sviluppo civile ed economico, ma lascia libera facoltà di esplodere alle tensioni municipali, cioè alle continue guerre delle città tra di loro e delle fazioni rivali all'interno di esse. La conseguenza è una sostanziale debolezza dell'Italia nei confronti di altri Stati europei, come la Francia, in cui si era affermata presto una monarchia assoluta accentratrice, che si opponeva sia all'anarchia feudale sia ai particolarismi municipali. Già nel momento di maggior splendore civile, economico e culturale erano presenti nella situazione italiana le cause della futura crisi e decadenza.
La Chiesa
Anche la presenza dello Stato della Chiesa in Italia, nei suoi complessi e mutevoli rapporti con l'autorità imperiale, non costituisce un fattore di coesione e di stabilità, ma al contrario contribuisce a creare situazioni aspramente conflittuali. La Chiesa, che cerca di difendere e di ampliare i propri privilegi, sia politici sia territoriali, non cessa di partecipare alle vicende del tempo, in un complesso gioco di alleanze e di lotte, che coinvolgono l'Impero, le monarchie nazionali e l'emergente forza dei Comuni. Nel corso della prima metà del Duecento i papi sono impegnati a fronteggiare Federico II, che capeggia in Italia il partito ghibellino. Alla morte dell'imperatore, nel vuoto di potere che si determina, la Chiesa cerca di consolidare le proprie posizioni, mirando con Bonifacio VIII a impadronirsi della Toscana e intromettendosi nelle lotte civili del comune fiorentino tra la fazione dei Bianchi e quella dei Neri (di cui fu vittima Dante, che fu mandato in esilio dopo la vittoria dei Neri).
Dopo un aspro conflitto con la forte monarchia nazionale francese, ai primi del Trecento, la Chiesa vide iniziare un lungo periodo di crisi e decadenza, che si concreta nel trasferimento della sede papale ad Avignone, durato ben settant'anni (1309-1377). Per altro verso, la Chiesa è impegnata sul fronte, per così dire interno, dei problemi religiosi, che più direttamente fanno capo al suo magistero (anche se appare perlopiù impossibile distinguere fra le componenti religiose e quelle politico-sociali). Particolarmente delicato e difficile risulta l'atteggiamento da tenere nei confronti di quei movimenti spirituali che nascono dal basso, rappresentando le esigenze di un profondo rinnovamento della vita e dei costumi ecclesiastici; esigenze che, da un lato, esprimono voci di protesta popolare nei confronti delle ingiustizie sociali, dall'altro si propongono di contrastare la decadenza e la corruzione della Chiesa, per riportarla alla purezza evangelica delle origini (è questo un motivo assai frequente nella letteratura due-trecentesca, che ritroveremo anche in Dante, Petrarca e Boccaccio). Si pensi a un movimento come quello della "pataria", che, diffusosi dalla seconda metà dell'XI secolo soprattutto in area lombarda, combatte i costumi corrotti del clero locale, raggiungendo la sua massima forza e autonomia a Milano, dove si collega alle origini del Comune di quella città. In questo complesso intrecciarsi di motivazioni, di tipo ereticale o più semplicemente riformatore, si collocano la fondazione e il ruolo degli ordini religiosi: quello dei Domenicani, creato da Domenico di Guzmàn e approvato da Onorio III nel 1216, che affiancherà per lo più le iniziative ufficiali della Chiesa, dedicandosi alla predicazione e alla lotta contro le eresie (ai Domenicani verrà affidato il tribunale dell'Inquisizione); quello dei Francescani, fondato da Francesco d'Assisi, che suscita non poche diffidenze presso le gerarchie ecclesiastiche, risultando più direttamente coinvolto nei contrasti religiosi del tempo (Bonifacio VIII condannerà come eretiche le posizioni delle frange più estremistiche dei Francescani, che, rivendicando la povertà della Chiesa, accusavano lo stesso pontefice di avere tradito l'insegnamento di Cristo, negandogli l'obbedienza e rifiutandone l'autorità).
Il Comune e la sua organizzazione politica
Lo sviluppo della civiltà comunale
La massima parte della letteratura del Due e Trecento ha come sfondo la vita cittadina: è indispensabile perciò esaminare più da vicino l'organizzazione politica del Comune. Anche nei secoli di maggior depressione dell'alto Medio Evo le città in Italia, per quanto decadute rispetto al periodo romano, avevano conservato un ruolo non trascurabile. Dopo il Mille la ripresa economica e demografica, il superamento dell'economia feudale fondata sul semplice autoconsumo e lo sviluppo degli scambi conferiscono un nuovo impulso alle città italiane. L'espansione, la crescita delle attività e della ricchezza generano anche il bisogno di autogoverno delle città: in esse nascono così forme di organizzazione politica nuove, rivoluzionarie rispetto al sistema feudale. Le città divengono come dei piccoli Stati a sé, che si governano con ordinamenti repubblicani, fondati su consigli dei cittadini e cariche pubbliche elettive. Il Comune era così chiamato perché era una gestione in comune della cosa pubblica, che esigeva la partecipazione dei cittadini (non l'intera popolazione, ma solamente i ceti che avevano maggior potere e influenza: altri ceti subalterni erano esclusi dai diritti politici; non bisogna proiettare sulla vita civile delle città medievali gli schemi democratici moderni, fondati sull'eguaglianza di tutti i cittadini). I cittadini si riunivano in un'assemblea popolare, detta Arengo, o Concione o Parlamento, sia per stabilire le leggi (gli Statuti), sia per eleggere al governo della città-stato i loro rappresentanti.
Un grande peso politico assumono poi le corporazioni di mestiere, o Arti. In origine esse erano associazioni private che raggruppavano tutti coloro che operavano nello stesso settore di attività (la lana, la seta, il cambio delle monete, i medici, gli speziali); in seguito assunsero una funzione pubblica e politica, tanto che solo chi era iscritto ad un'Arte poteva accedere alle cariche del Comune. A Firenze, nel 1282, fu istituita una nuova magistratura, il Priorato, composta dai sei Priori delle Arti maggiori, quelle che rappresentavano le attività più lucrose e influenti.
I Comuni rivendicavano la loro fisionomia di piccole repubbliche sovrane, affrancandosi dall'assoggettamento al potere imperiale. Come Stati autonomi, i Comuni avevano affermato i loro pieni poteri nell'amministrazione della giustizia, nell'esazione delle entrate fiscali, nell'organizzazione militare. Le città avevano imposto il loro dominio anche sul territorio circostante, il contado, strappandolo ai signori feudali, per poter controllare le fonti dell'approvvigionamento alimentare; per cui ogni città disponeva di un territorio più o meno vasto intorno a sé.
I contrasti all'interno dei Comuni e la loro crisi
La conflittualità tra i vari Comuni vicini era alta, ma ancor più alta era la conflittualità interna al Comune stesso. Le faide tra famiglie o consorterie rivali erano all'ordine del giorno. Ma la faziosità che era propria delle città medievali si esprimeva in primo luogo nella divisione in "parti". I Comuni furono soprattutto lacerati dalle lotte tra Guelfi e Ghibellini. Esse riflettevano il grande conflitto che, su scala europea, contrapponeva i fautori dell'Impero (i Ghibellini) e quelli del Papato (i Guelfi). Ma nella situazione particolare di ogni città questi grandi schieramenti ideologici si mescolavano in modo inestricabile con interessi locali, rancori e vendette tra famiglie e gruppi. In generale la parte guelfa si identificava più con gli interessi del ceto "popolare", cioè della ricca borghesia mercantile e bancaria, mentre quella ghibellina rispondeva più agli interessi dell'aristocrazia cittadina. Ma la mappa politica interna delle varie città era infinitamente più complessa e intricata di questi orientamenti di fondo. Se nel Duecento la città comunale è in piena espansione, nel corso del Trecento si manifesta la sua crisi. Dei sanguinosi e continui conflitti tra fazioni, che generano instabilità politica, approfittano politici ambiziosi (spesso di origine nobile) per imporre la loro supremazia personale, la Signoria. Già ai primi del Trecento molti Comuni si erano trasformati in Signorie, e alle istituzioni repubblicane si era sostituito il dominio di uno solo: a Milano dominavano i Visconti, a Verona i della Scala, a Ravenna i Da Polenta, a Rimini i Malatesta.
Alla crisi politica si associava quella economica. Gravissima fu quella di Firenze, che nel Duecento era stata la città più ricca e in più rapida espansione: verso la metà del secolo grandi istituzioni bancarie, che avevano influenza in tutta Europa, vennero messe in ginocchio dal mancato pagamento dei debiti da parte di sovrani stranieri, come il re d'Inghilterra. Si aggiunsero poi gli effetti disastrosi delle continue guerre con le città vicine, carestie ed epidemie, che determinarono paurosi cali di popolazione: famosa è rimasta la peste del 1348, descritta da Boccaccio nell'Introduzione al Decameron. Per finire, gravi convulsioni furono determinate da rivolte urbane dei ceti più bassi, esasperati dagli effetti della crisi che ricadevano prevalentemente su di essi: nel 1378 a Firenze si verificò il "tumulto dei Ciompi", la rivolta violenta dei lavoratori del settore laniero, che rivendicavano i diritti politici da cui erano esclusi. Alleandosi con le Arti minori, essi riuscirono a impadronirsi per qualche tempo del potere, ma furono ben presto sopraffatti dalla reazione della grande borghesia, che ristabilì il suo dominio.
Alla svolta del nuovo secolo, il XV, Signorie e Principati costituiscono ormai la regola sulla scena politica italiana.
Eccezione di rilievo è ancora Firenze, che conserverà sino al 1434 la sua forma repubblicana, e sarà fiera della sua "libertà" civile. Anche qui però le vecchie istituzioni comunali appaiono svuotate ed il potere effettivo è ormai in mano ad una ristretta oligarchia, composta dalle famiglie più potenti. Tra esse vi è quella dei Medici, grandi mercanti e banchieri. Uno di essi, Cosimo il Vecchio, nel 1434 riesce ad imporre il suo dominio personale. Con questo evento, la stagione dei Comuni si può dire veramente chiusa.
La vita economica e sociale del Comune
La figura del mercante
Con l'avvento della civiltà comunale il centro della vita economica e sociale si sposta dalla campagna alle città: sono esse i luoghi in cui ci si incontra, si fa politica, si svolge l'attività economica, si fa cultura. Se nel sistema feudale l'economia si basa essenzialmente sulla produzione agricola, nella società comunale l'attività fondamentale diviene quella mercantile, basata sulla produzione di merci; se quella feudale è un'economia chiusa, che produce quasi esclusivamente per il consumo di coloro stessi che producono, ed è caratterizzata da una scarsissima circolazione monetaria, quella urbana è un'economia aperta, fondata sullo scambio e sulla rapida e intensa circolazione di capitali. L'economia urbana rappresenta quindi un'alternativa radicale a quella feudale e introduce una vera e propria rivoluzione nella vita economica e sociale.
La figura sociale tipica della nuova età è quella del mercante. Non che essa mancasse nella società feudale, anzi era nata e si era sviluppata ancora al suo interno; ma là era una figura marginale, subordinata, di scarso peso; ora diviene la figura veramente centrale e dominante nella vita cittadina. Originariamente il mercante è un semplice intermediario nello scambio di merci tra un venditore e un compratore distanti fra loro: acquista dei prodotti per rivenderli ad altri, ottenendo un profitto. Con i proventi di questa intermediazione il mercante accumula un capitale, che reinveste nell'acquisto di nuove merci. È questo il carattere distintivo dell'economia di scambio: il denaro non giace infruttuoso, né è destinato allo sperpero, come nella società feudale, ma è continuamente reinvestito, e negli investimenti successivi si accresce indefinitamente. Se propri dell'economia feudale sono l'immobilismo e la mancanza di espansione, la caratteristica dell'economia mercantile fondata sullo scambio è la crescita continua, il dinamismo. Il capitale acquisito può anche essere investito in proprietà immobiliari, case, palazzi cittadini, che, affittati, offrono una rendita; ma può essere altresì investito in proprietà terriere, nel contado. Quella della città medievale è una forma di economia mobiliare che non ha ancora perso i legami con la terra; anzi spesso il mercante, stanco di rischi continui e di incertezze, preferisce, ad un certo punto della sua vita, investire nella terra, che può garantire una rendita più sicura. Ma, comunque, anche quando il mercante diviene proprietario terriero e redditiere, la mentalità cambia radicalmente rispetto al tradizionale sistema feudale: se il signore è un proprietario assenteista, che si dedica solo a consumare le rendite, il mercante divenuto proprietario si preoccupa di far fruttare le terre, controllando il lavoro dei contadini. Per questi ultimi la situazione muta in peggio, e si accresce lo sfruttamento. Di qui nascono odi e diffidenze tra borghesia cittadina e abitanti del contado, che in letteratura troveranno espressione nel motivo della "satira del villano".
Vi è anche un altro modo in cui il mercante può investire i suoi profitti: prestando denaro ad interesse: strettamente legata all'attività mercantile è quindi quella bancaria. Nelle città del Due e Trecento la figura del mercante e quella del banchiere di regola coincidono. L'attività bancaria raggiunge dimensioni di grandissimo rilievo: i banchieri italiani, specie quelli fiorentini, arrivarono a prestare denaro ai sovrani stessi, anche stranieri, che dovevano ricorrere a prestiti per finanziare le spese delle corti o quelle militari.
Più avanti il mercante non fu solo più un mediatore, ma divenne imprenditore in proprio, producendo egli stesso le merci da vendere sul mercato. Importava le materie prime, come la lana e la seta (l'attività produttiva prevalente era allora quella tessile), e le faceva lavorare nella propria bottega. Questa dapprima era a conduzione familiare, poi si trasformò in un vero e proprio opificio, dando lavoro a lavoranti salariati; spesso il lavoro era anche distribuito a domicilio, impiegando così mano d'opera femminile.
La crisi della civiltà feudale e lo sviluppo delle città
L'avvento dell'economia mercantile in Italia accelerò rapidamente la crisi del mondo feudale. L'aumento dei prezzi, dovuto allo sviluppo dei commerci e alla maggiore massa di denaro circolante, creò disagio economico tra i signori, le cui entrate erano spesso in natura, o fissate tradizionalmente, e quindi restavano stazionarie. Per altro verso aumentò per essi il bisogno di denaro, perché il raffinarsi dei costumi esigeva l'acquisto di generi sempre più preziosi (vesti, suppellettili, cavalli, cibi, armi). Per questo i signori feudali cercarono di aumentare le loro entrate, facendo dissodare appezzamenti incolti, trasformando i servi della gleba in fittavoli (più produttivi perché personalmente interessati al profitto ricavato dalla terra), cedendo parte delle loro proprietà ai borghesi. Si capisce di qui come vada mutando la fisionomia tradizionale della nobiltà feudale, che si adatta alle trasformazioni in atto.
Inoltre la città, divenendo il luogo per eccellenza della vita associata, esercita un fascino irresistibile sul nobile, che lascia il contado e viene a far parte del ceto cittadino. Qui spesso diviene egli stesso imprenditore, si "borghesizza", dedicandosi ad attività economiche.
L'intensa vita economica della città, con le possibilità da essa offerte, attira abitanti dalle campagne. Infatti uno dei fenomeni più rilevanti della vita sociale del Duecento è l'inurbamento dei contadini, che fuggono dalla loro condizione servile, cercando una nuova libertà e possibili miglioramenti economici in città (un motto diffuso era: «L'aria della città rende liberi»).
L'inurbarsi sia della nobiltà feudale sia dei contadini, unito all'incremento demografico stimolato dalla crescita economica, determina una crescita a volte impressionante della popolazione e delle dimensioni delle città. Firenze, che da questo punto di vista è l'esempio più tipico, tra Due e Trecento deve infatti ampliare due volte la cerchia originaria delle mura. Con tutto questo, le città medievali restano centri piuttosto piccoli, se li confrontiamo con le megalopoli moderne. Proprio Firenze, che abbiamo preso come esempio di espansione rapida e tumultuosa, riesce a toccare appena i 100.000 abitanti nel Trecento.
La struttura sociale
Schematizzando, la struttura sociale tipica delle città italiane veniva ad essere così composta: i magnati, o grandi, che erano per lo più di origine nobiliare; - il popolo grasso, composto di non nobili, che rappresentava lo strato superiore della borghesia, quello più ricco ed influente; il popolo minuto, composto dal popolo dei mestieri meno ricchi.
Questi ceti erano organizzati, come si è detto, nelle Arti, le corporazioni di mestiere, che, a seconda dell'importanza dell'attività esercitata, si distinguevano in Arti maggiori, mezzane e minori. Al di sotto di questi ceti vi erano i lavoranti a giornata, che prestavano il loro lavoro nelle botteghe o a domicilio dietro pagamento di un salario in moneta e compivano i lavori più duri e faticosi. Essi non avevano la facoltà di organizzarsi in corporazioni di mestiere, ed erano esclusi dai diritti politici.
In questa scala sociale un posto a parte spetta ai rappresentanti delle professioni: soprattutto gli uomini di legge, giudici e notai, la cui funzione nella vita cittadina era di primaria importanza, poi i medici, gli speziali, gli insegnanti. Da questi gruppi proveniva il personale politico del Comune, ed anche la maggior parte del ceto intellettuale, come vedremo.
A completare il quadro sociale della città occorre ancora ricordare il clero, sia "secolare" sia "regolare", cioè rispettivamente i preti e i frati che debbono obbedire ad una "regola". Anche la loro presenza è un elemento essenziale della vita cittadina, dato il ruolo che la religione ricopre nella società medievale; e la loro importanza è confermata dalla letteratura, dove figure di preti e frati tornano continuamente, ora come oggetto di devozione, ora, e forse più spesso, come oggetto di riso e satira.
Non bisogna infine dimenticare un ultimo elemento: una massa ingente di poveri, nullatenenti, mendicanti, che vivono di carità o di furti. Questa struttura sociale contiene elementi di mobilità, in quanto la classe mercantile ascende proprio grazie alla sua energia e alla sua abilità spregiudicata, acquistando sempre maggior peso economico e politico (anche se poi, raggiunto il potere, la nuova classe egemone tende a ristabilire un nuovo equilibrio statico a proprio vantaggio, impedendo l'ascesa di ceti inferiori).
I rapporti sociali tra queste varie classi erano di regola conflittuali e violenti. In primo luogo si ebbe lo scontro tra il ceto magnatizio, che deteneva all'inizio il potere nel Comune, e la grande borghesia mercantile e bancaria, che acquistava sempre più peso economico e voleva assumere anche il potere politico. Questa lotta si intrecciò in modo confuso, per tutto il Duecento, con le lotte tra fazioni partiti politici. Alla fine del conflitto possiamo assistere ad una sostanziale fusione tra le due classi antagoniste. Ai primi del Trecento al potere vi è una nuova aristocrazia, che proviene in parte dalla vecchia nobiltà feudale, che ha ormai interessi economici nelle attività mercantili e bancarie, e in parte dall'alta borghesia, che ha acquisito stili di vita aristocratici. Si apre però un altro fronte di scontro con le Arti minori, escluse dalle cariche, che premono per entrare nell'area del potere. E tensione si viene anche a determinare con i lavoranti salariati, che rivendicano la facoltà di organizzarsi anch'essi in corporazioni. Il conflitto sfocia nel 1378 nella rivolta dei Ciompi, di cui abbiamo già parlato.
La mentalità
La nuova concezione del mondo e dell'individuo
La nuova organizzazione dell'economia e della società ha riflessi evidenti sulla mentalità e la concezione del mondo. Si può dire che nelle città di questo periodo sia in gestazione un uomo nuovo, rispetto al mondo feudale.
Si è visto che nella società feudale ad un'economia chiusa, che ignora l'espansione e la circolazione monetaria, e ad una struttura sociale statica, immobile nel suo sistema di caste, corrisponde una visione del mondo egualmente statica e chiusa: la realtà tutta appare organizzata in un ordine eterno e immutabile, rispondente alla volontà di Dio; pertanto i concetti di cambiamento e di trasformazione dinamica non entrano neppure nella coscienza comune. L'uomo, che è ritenuto un essere misero e debole, non può che inserirsi docilmente in un ordine fissato per l'eternità; non è lui, con la sua azione, che crea la sua storia e il suo mondo, ma la volontà provvidenziale di un Dio trascendente. Gli stessi confini della conoscenza sono fissati una volta per tutte da un'autorità: non vi è lo stimolo a valicare tali limiti, ad esplorare ciò che non è noto; la conoscenza non è che adeguazione a ciò che è stato tramandato dall'auctoritas.
Il mondo delle città è invece caratterizzato da un'economia aperta e dinamica, in cui i beni si scambiano e la ricchezza circola e si espande, da una struttura sociale che consente una sia pur relativa mobilità e spezza la rigida struttura in caste: la conseguenza più naturale è una visione dinamica del mondo, l'idea che la realtà può trasformarsi. Il fattore della trasformazione è l'uomo stesso. Il mercante è un uomo attivo, che incide sulla realtà che lo circonda con la sua capacità di calcolare e prevedere, con la sua audacia nel rischiare, con il senso della realtà, con la spregiudicatezza dei mezzi impiegati. Nasce così una nuova fiducia nella forza dell'uomo che può trasformare la realtà e modellarla secondo la sua volontà, mediante l'intelligenza e l'energia. È una concezione nuova dell'individuo e del suo valore: l'uomo non conta solo più in quanto è appartenente o meno ad una certa casta sociale (l'aristocrazia, il clero, i contadini), ma in quanto individuo singolo, per le sue capacità personali, per le doti che possiede per natura. La visione dinamica di un mondo che si può trasformare, la fiducia nell'energia creatrice dell'individuo, rendono poi più liberi di fronte all'Autorità, meno soggetti a vincoli e leggi prima ritenuti ineludibili.
La rivalutazione della vita terrena
Da questo atteggiamento scaturisce la curiosità di esplorare anche ciò che non è noto, al di là dei limiti fissati alla conoscenza dalla tradizione, in obbedienza ai propri interessi: si pensi appunto ai mercanti che si spingono nelle contrade più lontane pur di trovare fonti di merci e mercati, e scoprono così realtà nuove e impensate, che studiano con attenzione e rigore (si pensi a Marco Polo nel Milione). Ma ne deriva anche un'aderenza alla realtà concreta, una volontà di conoscerla personalmente, attraverso l'esperienza diretta, che intacca anch'essa la docile fiducia in ciò che viene tramandato dall'auctoritas. Questa rivalutazione della forza individuale, questa aderenza alla realtà concreta rendono anche l'uomo più attaccato alla vita terrena, più incline a giustificare il godimento dei beni materiali. Entrano così in crisi i fondamenti dell'ascetismo medievale, del contemptus mundi (il "disprezzo del mondo"), e si delinea una rivalutazione della sfera mondana, che non viene più condannata come peccaminosa e fonte di perdizione; nella natura, che detta all'uomo passioni e appetiti, non si vede più un'insidia da scacciare, ma una forza sana e benefica da assecondare, e si ritiene al contrario che vada eliminato tutto ciò che ostacola il libero espandersi delle forze naturali. Insistiamo su questi aspetti perché essi hanno un'influenza determinante sulla letteratura. Vedremo leggendo i testi come tutto ciò che abbiamo detto costituisca la base, ora più ora meno evidente, della produzione letteraria di questo periodo.
Naturalmente la contrapposizione che abbiamo delineata tra mentalità del mondo feudale e mentalità del mondo mercantile è un modello astratto, schematizzato e volutamente estremizzato per esigenze di chiarezza didattica. I fenomeni descritti sono graduali e lenti, si manifestano a poco a poco, in forme parziali, spesso non ben chiare alla mente stessa di chi li vive; gli elementi innovatori restano confusi con elementi tradizionali della visione del mondo ascetica, simbolico-allegorica o magico-superstiziosa del Medio Evo. Tuttavia, ad uno sguardo retrospettivo, da lontano, la fisionomia di una società nuova, di un modo nuovo di vedere le cose, di un "uomo nuovo", come si diceva, comincia a delinearsi in modo chiaramente visibile. Si tratta di germi di sviluppi a venire, lineamenti in embrione, che lasciano però intravedere la forma futura. La loro realizzazione piena e consapevole comincerà ad aversi con l'Umanesimo quattrocentesco.
Una nuova virtù: la "masserizia"
Accanto ad una nuova visione generale del mondo e dell'individuo si affermano nuovi valori che regolano la vita associata degli uomini.
Si è visto che un valore centrale della concezione feudale era la liberalità, il saper donare generosamente, il rifiuto di ogni calcolo interessato, il disprezzo del denaro. Tale concezione, abbiamo anche visto, era l'evidente riflesso di una classe sociale caratterizzata dal consumo, non dalla produzione di beni. La nobiltà feudale non produceva direttamente: consumava ciò che altri (i contadini, gli artigiani) producevano. La produzione avveniva in una sfera separata e lontana dalla vita dei privilegiati, e da essi era volutamente ignorata. La ricchezza giungeva ad essi come per un processo miracoloso, magico. Per questo il signore feudale aveva un profondo disprezzo per il denaro. Quella ricchezza che giungeva "magicamente" poteva e doveva essere sperperata, poiché si pensava che si sarebbe rinnovata sempre, miracolosamente. Ben diversa è la mentalità mercantile: il mercante produce personalmente la ricchezza, con la sua fatica giornaliera, attraverso i mille rischi a cui si espone, con la sua intelligenza, furbizia, spregiudicatezza. Perciò non può certo disprezzare il denaro: al contrario della visione feudale, la visione mercantile si incentra proprio sull'utile, sull'interesse, sul risparmio. Quelle che per il signore feudale erano manifestazioni di grettezza da disprezzare per il mercante divengono virtù.
Nel linguaggio del tempo la virtù fondamentale prende il nome di masserizia: ed è l'oculata amministrazione dei propri beni, il calcolo avveduto e prudente che evita ogni sperpero, che potrebbe intaccare irrimediabilmente il patrimonio.
I valori mercantili a confronto con quelli cortesi e con la Chiesa
Non bisogna però pensare che, nel concreto, tra la nobiltà di origine feudale (ormai divenuta cittadina) e la borghesia mercantile vi fosse un violento scontro di mentalità, un contrasto irriducibile di stili di vita. Si è già visto che, dopo un periodo di aspre lotte, si era arrivati ad una sostanziale fusione dei due ceti, che avevano dato luogo ad una nuova aristocrazia cittadina. Lo stesso avviene a livello di mentalità e valori. La nuova classe che si è affermata non ripudia affatto i valori di quella che la precedeva nell'egemonia sociale; anzi, tende ad ereditarli, a fonderli con i propri. Anche attraverso la cultura, la lettura di splendidi esempi di gesta magnanime e di nobili sentimenti, testimoniati dai romanzi cavallereschi e dalla lirica d'amore, l'ideale della cortesia esercita un fascino straordinario sui borghesi, che ne assimilano i princìpi e cercano di tradurli in realtà, ispirando ad essi il loro stile di vita. Si tende cioè a creare un equilibrio tra masserizia e liberalità: l'accorta amministrazione del patrimonio non deve impedire la generosità disinteressata e l'ostentazione di splendide forme di vita, ma d'altro canto il vivere splendido e magnanimo non deve arrivare a compromettere il patrimonio. Questo processo di fusione è prontamente registrato dalla letteratura. Vedremo quanto la cortesia abbia peso nel mondo del Decameron, che pure, come è stato detto, celebra l'«epopea dei mercanti» e delle loro virtù (Branca). Questa fusione di masserizia e di liberalità, di valori borghesi e cortesi, è l'aspetto forse fondamentale di tutta la cultura dell'età comunale, e avremo modo di verificarne sistematicamente l'incidenza nei testi letterari.
La visione della realtà propria della società mercantile è in sé antagonistica, oltre che a quella feudale, anche a quella della Chiesa. Il cristianesimo medievale privilegiava la contemplazione sulla vita attiva, proclamava l'ideale della povertà evangelica, condannava la cupidigia di denaro e l'attaccamento ai beni materiali, lanciava anatemi sull'usura, sul prestare denaro a interesse, ritenendolo peccato mortale e fonte di sicura dannazione. Il mercante, che era un buon cristiano, non poteva non provare sensi di colpa nell'esercitare le sue attività, nell'accumulare ricchezze e nel ricavare profitti dalle operazioni bancarie. Comunque non si arriva affatto ad uno scontro frontale tra le due concezioni, ma piuttosto ad un compromesso: la Chiesa consente al mercante di tacitare i suoi sensi di colpa con la beneficenza e le penitenze. Si possono trovare mercanti che in punto di morte, in segno di pentimento, lasciano parte delle loro ricchezze in eredità a "messer Domeneddio", cioè alla Chiesa per opere di carità, che guadagnino loro delle indulgenze nell'altra vita. E comunque i mercanti restano convinti, come ci documentano i libri familiari da essi redatti, che, se saranno onesti, Iddio proteggerà e favorirà le loro attività.
La figura e la collocazione dell'intellettuale
Chierici e laici
Come si è visto, nell'alto Medio Evo gli intellettuali erano esclusivamente chierici: essi erano i depositari del sapere e i responsabili della produzione e della trasmissione della cultura; il loro strumento linguistico era il latino. Nel culmine dell'età feudale compaiono poi figure di intellettuali laici, giullari e trovatori, che affrontano temi profani e si rivolgono ad un pubblico anch'esso laico, usando le lingue volgari.
Nella società urbana due e trecentesca i chierici conservano ancora un ruolo importante: elaborare e trasmettere la cultura di ispirazione religiosa. I grandi maestri delle università, i teologi e i filosofi, usano ancora il latino, poiché si rivolgono ad un pubblico di specialisti; ma gli altri chierici ormai ricorrono largamente al volgare, poiché il loro compito è la diffusione della cultura religiosa tra cerchie ben più vaste della popolazione, attraverso la predicazione, la compilazione di opere didattiche o di edificazione. Essi rappresentano un tipo di intellettuale professionista, che ricava il sostentamento dalla propria attività.
Tuttavia la figura più tipica di questa fase è quella dell'intellettuale laico.
Il primo gruppo omogeneo ed organizzato di intellettuali laici in Italia è quello che si forma, nei primi decenni del Duecento, alla corte siciliana dell'imperatore Federico II. Pur operando presso una corte, i poeti della "scuola siciliana" non hanno più nulla a che vedere col trovatore o col giullare, che vagano da una corte feudale all'altra alla ricerca dei favori e della protezione di un grande signore: poiché la corte presso cui operano è quella di un sovrano che mira a creare uno Stato assoluto e accentrato, essi sono dei funzionari dell'amministrazione statale. Non fanno più dell'attività poetica la loro professione, ma sono burocrati, forniti di regola di una cultura giuridica e retorica, che operano nella cancelleria imperiale, curando documenti diplomatici, stesure di leggi ed editti ecc. Per essi l'attività poetica è un "di più", quasi una forma di evasione, o un ornamento nobilitante.
L'intellettuale-cittadino
Ancora diversa è la figura dell'intellettuale che si afferma poco più tardi nei Comuni centro-settentrionali: qui prevale la figura dell'intellettuale-cittadino, che partecipa attivamente alla vita politica del suo Comune, ricopre cariche pubbliche, vive intensamente le passioni di parte, le tensioni, le avversioni, i conflitti. Anche questi intellettuali non traggono sostentamento dalla loro attività di scrittori, ma la affiancano all'esercizio di altre professioni. Spesso sono uomini di legge, giudici e notai, forniti di preparazione giuridica ma anche retorica; in altri casi sono insegnanti; taluni esercitano attività mercantili. La produzione di questo tipo di intellettuali-cittadini è costituita da opere, sia in prosa sia in versi, prevalentemente indirizzate a diffondere cognizioni, cioè ad "educare" la coscienza dei concittadini, a trasmettere quegli strumenti culturali che erano indispensabili all'ascesa dei nuovi ceti urbani, che stavano conquistando l'egemonia economica e politica: opere di retorica, per offrire al cittadino i mezzi per parlare e convincere nelle sedi della vita politica, poemetti didattici o enciclopedici per fornire le cognizioni indispensabili delle varie discipline, raccolte di aneddoti per dare esempi di comportamento e diffondere i princìpi della cortesia e del «bel parlare gentile», cronache cittadine per esaltare le glorie e i meriti della propria città e stimolare nei cittadini l'amore per la "patria" (che allora coincideva con la città); anche le opere destinate all'intrattenimento e al divertimento, come i romanzi cavallereschi e le novelle, sono spesso densi di materia didascalica. La divulgazione e l'ammaestramento sono l'abito mentale dominante nella letteratura di questo periodo. Accanto all'intento didattico l'intellettuale comunale porta poi nella sua produzione la sua passione politica, il suo attaccamento al Comune, la difesa di certi princìpi tipicamente comunali come la libertà o la "masserizia": ricorrendo ad una terminologia moderna, si riconosce in questa letteratura un forte "impegno" civile. Talora invece, come nel caso della poesia lirica di ispirazione amorosa, si tratta di una produzione altamente aristocratica, rivolta ad un'élite chiusa ed esclusiva. E tuttavia anche questa produzione risente dell'impegno intellettuale che è proprio dell'atmosfera culturale urbana. Un esempio può essere Guittone d'Arezzo, la cui poesia riflette le sue esperienze politiche e tocca, oltre alla tematica amorosa, quella civile, morale, religiosa; si può ricordare inoltre Guido Guinizzelli, che nella sua canzone-manifesto, Al cor gentil, è teso a dimostrare che la vera nobiltà non è quella trasmessa col sangue, ma è il valore proprio dell'individuo. Un esempio di lirica ardua, per pochi, eppure sostanziata di passione intellettuale, etica e civile, è quella di Dante, nelle grandi canzoni del Convivio e delle Rime.
L'intellettuale-cortigiano
Con l'affermarsi delle Signorie, nel corso del Trecento compare un tipo nuovo di intellettuale: il cortigiano, che si pone al servizio di un signore, dando lustro alla sua corte con la propria presenza, o utilizzando le proprie competenze "tecniche" di letterato in qualità di estensore di documenti ufficiali o di ambasciatore. La funzione sociale dell'intellettuale muta così radicalmente rispetto a quella dell'intellettuale-cittadino della fase comunale.
Viene meno la partecipazione politica alla vita cittadina, e con questo viene a cadere il carattere "impegnato" della produzione letteraria. Essa viene vista come esercizio altamente disinteressato, lontano da ogni legame pratico e contingente. Alla partecipazione politica si sostituisce l'ideale dell'otium letterario, il distacco dalla realtà per immergersi nello studio e nella meditazione, al fine di elevare spiritualmente se stessi. I destinatari della produzione culturale tornano a identificarsi con una cerchia ristretta di letterati o di gentiluomini di corte. Si riafferma l'uso del latino, e il volgare diviene una raffinata lingua letteraria, carica dell'eredità classica. Mentre l'intellettuale-cittadino è fortemente legato all'ambiente municipale, ai suoi valori come ai suoi conflitti, l'intellettuale-cortigiano non è più legato ad un ambiente particolare, può porsi al servizio di vari signori, anche al di fuori dei confini italiani. La cerchia dei suoi destinatari, se si restringe numericamente, si allarga nello spazio ad una dimensione sovranazionale.
Il rappresentante più tipico di questa nuova figura è Petrarca. che fu al servizio di grandi signori ecclesiastici ed intrattenne relazioni anche con il re di Napoli, rivendicando però sempre la propria autonomia e dignità di intellettuale. Dante può invece rappresentare il percorso di passaggio dall'uno all'altro ruolo: prima dell'esilio (1302) è il tipico intellettuale comunale, che è inserito nella dimensione politica ed appassionatamente immerso nelle contese ideologiche del suo tempo, e che di tali legami con la realtà politica sostanzia la sua opera. Però, dopo l'esilio, è costretto a cercare protezione presso signori feudali come i Malaspina di Lunigiana, o signori cittadini come gli Scaligeri di Verona o i da Polenta di Ravenna.
Spesso all'intellettuale-cortigiano non basta la protezione di un signore; perciò, per trovare maggior sicurezza, torna ad appoggiarsi alla Chiesa, prendendo gli ordini minori per poter fruire della rendita di benefici ecclesiastici. È ancora il caso di Petrarca, che era un chierico e godeva dei proventi di numerosi canonicati, che gli consentivano una vita agiata, libera da preoccupazioni materiali, da dedicare solo allo studio e alla letteratura.
Il pubblico e la circolazione della cultura
Si è visto che nell'alto Medio Evo la cultura scritta aveva una circolazione chiusa: i dotti scrivevano per altri dotti. Ciò perché solo i chierici erano in grado di leggere e scrivere; gli altri, i "laici", erano per la massima parte analfabeti, anche i sovrani e i grandi signori. Un fattore di esclusione era costituito dalla lingua, il latino, che era conosciuto solo dai chierici. Anche la letteratura cortese si rivolgeva ad un ambito chiuso, sia pur più largo, poiché l'uso del volgare consentiva l'accesso ad un numero più elevato di persone. Nella società urbana il pubblico dei lettori si allarga decisamente: la circolazione non è più limitata a cerchie esclusive. Ciò è dovuto al diffondersi delle scuole e dell'alfabetizzazione, al fatto che i ceti urbani, per le ragioni che si sono esaminate, hanno bisogno di saper leggere e scrivere, ed hanno bisogno di libri scritti in volgare per impadronirsi degli strumenti culturali a loro indispensabili.
Volendo delineare una stratificazione del pubblico dei lettori, troviamo in primo luogo i chierici e i dotti laici, i rappresentanti delle professioni, giudici, notai, medici, speziali, gli studenti universitari. È questo un pubblico bilingue, che è in grado di leggere in latino come in volgare. Ma i lettori appartengono ormai anche al ceto mercantile, sono persone per cui la lettura non è legata alla professione. Gli interessi del mercante si orientano verso libri devoti, cronache, romanzi, novelle.
Di questo pubblico di lettori non professionali facevano parte anche le donne: Boccaccio dedica il suo Decameron alle donne, indicando in esse il pubblico a cui l'opera è in primo luogo destinata. Per quanto egli idealizzi la figura femminile, in nome della cortesia, l'indicazione non si può trascurare: esisteva evidentemente uno strato superiore della borghesia urbana in cui le donne, pur escluse dagli studi superiori e dalla conoscenza del latino, erano alfabetizzate e in grado di divenire lettrici di opere letterarie. L'ambito a cui esse erano confinate era però di norma la semplice lettura di intrattenimento, romanzi cavallereschi e novelle. Ciò può suggerire riflessioni sui diversi ambiti di diffusione della produzione letteraria a seconda dei vari generi. Certe opere, come quelle religiose e devozionali, didattiche, romanzesche e novellistiche, cronachistiche, raggiungevano un pubblico più vasto, grazie anche alla diffusione orale. Altre opere avevano una destinazione più specialistica e una circolazione sensibilmente più limitata, come quelle retoriche, giuridiche, filosofiche. Anche la lirica si rivolgeva ad una cerchia gelosa di iniziati, quelli che si sapevano elevare alle raffinatezze squisite dell’”amor fino".
La diffusione della cultura ha uno strumento essenziale, il libro. L'estendersi dell'alfabetizzazione e il formarsi di un pubblico di lettori in ambito cittadino fa sì che la circolazione del libro sia più vasta di quanto non fosse nell'ambito della cultura ecclesiastica dell'alto Medio Evo. Allora i luoghi di produzione del libro erano gli scriptoria delle abbazie, dove schiere di monaci amanuensi erano impegnate a copiare libri antichi e moderni, e i prodotti erano diffusi nella cerchia delle abbazie stesse. Nella civiltà urbana si formano invece delle vere e proprie botteghe di copisti professionali, che producono libri dietro pagamento. La produzione è più organizzata, più rapida e più abbondante, ma i limiti della copiatura a mano sono insuperabili, e le copie sono ancora di necessità poche, quindi il prezzo è altissimo. Anche il materiale, che è sempre la pergamena, continua ad essere molto costoso. Solo lentamente comincia ad affacciarsi l'uso della carta, ricavata dagli stracci, che è meno cara, ma molto meno resistente. Spesso poi i libri sono ancora impreziositi da miniature colorate, opere di squisiti artisti.
Il libro resta perciò un oggetto di lusso che pochi possono permettersi. Ma spesso il lettore provvedeva egli stesso a copiare il libro, per poterlo possedere. Di un'opera di grande successo presso il pubblico borghese come il Decameron noi possediamo manoscritti non di pregio, cioè non prodotti dalle grandi botteghe specializzate, ma copiati dai lettori stessi, nella grafia propria del ceto mercantile, la mercantesca. Persino gli scrittori copiavano personalmente le opere che ad essi interessavano: noi possediamo codici scritti di pugno da Petrarca e Boccaccio.
Non esiste nulla in questo periodo che sia paragonabile alle biblioteche pubbliche moderne. Grandi centri di raccolta e conservazione dei libri restano i monasteri, o le biblioteche vescovili. Qui, nel Quattrocento, gli umanisti (seguendo l'esempio del precursore Petrarca) andranno in cerca di quei testi antichi che il Medio Evo non aveva più letto, e di cui si era perduta la traccia. Ma, accanto alle biblioteche ecclesiastiche, si vanno formando quelle delle università, dei grandi signori o dei grandi intellettuali come Petrarca, abbastanza ricchi da potersi permettere di accumular libri. Il Petrarca fu assiduamente in cerca di libri: l'amore che egli aveva per i classici antichi si trasferiva anche agli oggetti materiali che ne trasmettevano la parola. Perciò la sua biblioteca era composta solo da testi latini (unica eccezione la Commedia di Dante). Per quei tempi era un patrimonio immenso, oltre duecento testi (è una cifra però che fa quasi sorridere oggi, quando la biblioteca personale di un intellettuale può contare diverse migliaia di titoli). Di questo patrimonio Petrarca era orgoglioso; e, con idea veramente lungimirante, pensò di renderlo pubblico, lasciandolo in eredità alla Repubblica di Venezia, che lo aveva ospitato negli ultimi anni. Il progetto non si realizzò: alla sua morte i libri passarono ai da Carrara, signori di Padova, e in seguito andarono dispersi. Molti codici sono però stati rintracciati, tra cui quello, in parte autografo, contenente la stesura definitiva del Canzoniere.
Fonte: http://sandroarcais.altervista.org/Terza_Ita_StilNovo_Inquadramento.doc
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