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Tra il novembre del 1814 e il giugno del 1815 si riunirono a Vienna i rappresentanti di quasi tutti i paesi europei, allo scopo di restituire all'Europa una pace duratura. Trovare un accordo non fu semplice, poiché ciascuno dei partecipanti cercava di stabilire la pace salvaguardando i propri interessi. Vi erano il re di Spagna, i sovrani dei diversi stati italiani, il presidente della Confederazione svizzera, un rappresentante del papa; ma i principali protagonisti furono i rappresentanti delle quattro potenze che avevano contribuito alla sconfitta di Napoleone: la Prussia, l'Impero asburgico, la Russia e la Gran Bretagna. Essi erano rispettivamente il ministro degli Esteri prussiano von Hardenberg, il principe e cancelliere dell’Impero asburgico Metternich, il diplomatico Nesselrode, delegato dallo zar Alessandro I, e il primo ministro inglese lord Castlereagh. La Francia inviò come osservatore il principe di Talleyrand, ministro degli Esteri, che grazie alla sua abilità riusci ad avere una parte di rilievo nella realizzazione degli accordi.
Talleyrand si presentò a Vienna non come rappresentante passivo di un popolo vinto. Egli, infatti, dichiarando che «la Francia non è Bonaparte, la Francia è felice di aver riavuto il suo legittimo re», promosse uno dei motivi ispiratori del Congresso: il «principio di legittimità», secondo il quale uno stato non è altro che il territorio del suo legittimo re. Alla guida dei vari paesi europei dovevano dunque tornare le dinastie regnanti prima dello sconvolgimento operato dalla rivoluzione e da Napoleone.
Il Congresso di Vienna «restaurava» così l'Europa, ripristinando nei vari paesi la monarchia assoluta (a eccezione della Gran Bretagna, dove già regnava una monarchia costituzionale e vigeva un sistema parlamentare). E «Restaurazione» furono detti il periodo successivo al Congresso e l'assetto politico da esso stabilito.
Nonostante le dichiarazioni di Talleyrand, gli altri diplomatici non potevano dimenticare l'operato di Napoleone. Per evitare che la Francia tentasse nuovamente la strada dell’espansionismo, bisognava trovare in Europa un equilibrio, che impedisse l'espansione territoriale di paesi molto potenti a scapito di altri più deboli. Perciò si decise di ripristinare i confini che la Francia aveva prima del 1789, di rafforzare le nazioni più deboli e di creare degli «stati cuscinetto», con la funzione di bloccare ogni eventuale tentativo di espansione francese.
Per garantire la pace in Europa e il rispetto dei princìpi di legittimità e di equilibrio, nel settembre del 1815 venne costituito un organismo internazionale, la «Santa Alleanza», nome proposto dal mistico zar Alessandro I, che cercava di portare la propria visione religiosa anche in politica. Con questo accordo la Russia, l'Impero asburgico e la Prussia si dichiaravano «delegati dalla Provvidenza a governare tre rami di una stessa famiglia», uniti come fratelli e disponibili a darsi aiuto reciproco. L'aiuto consisteva di fatto nell'impegno a intervenire militarmente per reprimere eventuali rivolte contro l'ordine stabilito dal Congresso, e le grandi potenze si arrogavano così il diritto di intromettersi anche nelle questioni interne degli altri paesi. Alla Santa Alleanza aderirono via via molti sovrani «restaurati», compreso il re di Francia. Non vi aderì invece il papa Pio VII, poiché non intendeva essere accomunato a sovrani protestanti e greco–ortodossi; né vi aderì il sultano dell’Impero ottomano, riluttante a immischiarsi in un patto fondato apparentemente sui principi cristiani. Anche l'Inghilterra, paese ormai in fase di avanzata industrializzazione, si autoescluse, poiché una parte della sua classe politica era in netto disaccordo con l'orientamento «passatista» che era emerso dal Congresso.
Le grandi potenze uscirono dal Congresso di Vienna rafforzatee ingrandite. I paesi minori invece, in nome dell’equilibrio politico, vennero divisi tra le grandi potenze, quasi fossero stati una merce da scambiare.
L'Inghilterra rafforzò la sua posizione di potenza marittima ottenendo alcune isole nel Mediterraneo, nell'oceano Indiano, nelle Antille e nel mare del Nord, utili come basi d'appoggio dei suoi traffici oltremare. La Russia ottenne di espandersi in Finlandia e con Austria e Prussia si spartì la Polonia. Quest'ultima, la cui prima spartizione era stata attuata nel Settecento, venne così a perdere la propria identità nazionale. L'Impero asburgico perse le Fiandre, ma vide compensata questa perdita con l'annessione del LombardoVeneto in Italia, con il controllo indiretto della maggior parte degli stati italiani e con l'annessione di Ungheria, Croazia, Istria e Dalmazia.
Per quanto riguarda la Francia, invece, essa, come si è detto, fu riportata ai confini del 1789. Inoltre dovette pagare una forte somma a titolo di indennizzo alle potenze vincitrici.
Come «stato cuscinetto» tra Francia e Germania venne costituito il Regno dei Paesi Bassi, comprendente le Fiandre, cioè l'attuale Belgio, già appartenenti all'Impero asburgico, e l'Olanda, due territori i cui popoli avevano lingue e tradizioni diverse.
La Germania divenne una confederazione, presieduta dall'imperatore d'Austria, comprendente 38 stati. Fra questi era la Prussia, che dal Congresso aveva ottenuto ingrandimenti territoriali e che era lo stato più forte della confederazione. A differenza dell’Impero asburgico, costituito da vari paesi e da diverse etnie, la Prussia si fondava su una forte «coscienza nazionale»: perciò essa si sarebbe, in seguito, messa in conflitto con l'Impero per assumere la guida dell’unificazione della nazione germanica, nel quadro di una comune civiltà.
Dal Congresso di Vienna l'Italia uscì frammentata in numerosi stati, la maggior parte dei quali venne posta sotto il controllo diretto o indiretto degli Asburgo. In particolare:
Relativamente autonomo era invece il Regno di Sardegna che comprendeva l'isola e i possedimenti continentali dei Savoia, tornati al re Vittorio Emanuele I di questa dinastia. Il Regno di Sardegna era uno degli «stati cuscinetto» posti a presidiare i confini della Francia, ingrandito, dopo il Congresso di Vienna, con l'annessione della scomparsa Repubblica di Genova.
I princìpi ispiratori del Congresso di Vienna seppero garantire un lungo periodo di relativa pace in Europa e questo, dopo le guerre napoleoniche, realizzava in effetti un desiderio generale. E tuttavia il Congresso non tenne in alcuna considerazione né gli interessi delle nuove classi in ascesa legate alla diffusione dell’industria, né le esigenze di libertà (Napoleone aveva concesso ai paesi occupati la Costituzione, nata dalla Rivoluzione francese, e con essa i diritti civili), né le aspirazioni all'indipendenza nazionale di alcuni popoli. La pace in Europa perciò era ovunque solo apparente e i sovrani tornati al potere si trovarono a fare i conti con le spinte al cambiamento all'interno dei loro stati.
L'imperatore dei Francesi, Napoleone I, era stato considerato da molti popoli come il portatore di quelle idee di uguaglianza, di solidarietà tra i cittadini, di libertà e di indipendenza che si erano affermate con la Rivoluzione francese.
Quelle idee si erano diffuse in tutta Europa, spesso proprio in contrapposizione alla dispotica egemonia instaurata di fatto dall'impero napoleonico. La Restaurazione non ne aveva tenuto conto ‑ e come vedremo cercherà di soffocarle ‑ ma esse erano diventate patrimonio comune di molti intellettuali e borghesi.
In realtà il cambiamento culturale e sociale in atto era legato, oltre che alla diffusione delle idee rivoluzionarie francesi, a un insieme di fenomeni, determinato soprattutto dalla crescente diffusione, in particolar modo in Inghilterra, della nuova economia industriale.
La borghesia (industriali, commercianti, professionisti ecc.), interessata allo sviluppo economico, era aperta a una visione nuova dei rapporti tra il cittadino e lo Stato e delle relazioni tra paesi, e aveva dunque come obiettivo la libertà d'iniziativa e di commercio (mentre la Restaurazione aveva creato delle barriere doganali che penalizzavano l'attività economica). Pertanto essa rivendicava dal punto di vista sociale il principio che ogni cittadino ha diritto alla libertà individuale (liberalismo), mentre dal punto di vista economico affermava il principio del liberismo, in base al quale lo Stato deve garantire piena libertà d'iniziativa alle imprese economiche e alle attività produttive in generale.
D'altro canto i massacranti ritmi di lavoro nelle fabbriche e le penose condizioni di vita degli operai in squallidi quartieri, sorti rapidamente intorno alle fabbriche stesse, spingevano alcuni intellettuali a riflettere sulla disuguaglianza sociale e sulla necessità di intervenire per il progresso civile e sociale di tutti.
Nel campo della cultura, la consapevolezza che il mondo stava cambiando si manifestò attraverso la diffusione del Romanticismo. Questo movimento culturale, nato in Germania e in Inghilterra intorno al 1800 e poi diffusosi nel resto d'Europa, affermava l'importanza che ogni individuo possa vivere esprimendo in piena libertà i propri sentimenti, la propria immaginazione, le proprie aspirazioni. Sosteneva inoltre che ogni popolo ha diritto a vivere libero e indipendente, fedele alle proprie tradizioni storiche e culturali. In conseguenza di ciò si svilupparono gli studi storici, allo scopo di riportare alla luce le antiche radici dei popoli. Ciascun popolo mostrava così di avere caratteri distintivi e indelebili: l'origine etnica, la lingua, i costumi. A questi si aggiungevano le particolari vicende economiche, politiche, sociali, militari che avevano portato ciascun popolo a identificarsi con una terra, la patria. Nacque così ‑e si propagò in tutta Europa‑ un nuovo concetto: l'idea di nazione. Nazione significava comunità stabilita su un territorio (cioè su un'area geografica definita), unificata da legami di sangue (cioè da comuni origini) e da una lingua comune.
La rivendicazione del diritto delle nazioni a vedersi riconosciute come tali e libere su basi storiche comportava, inevitabilmente, la condanna del «mercato dei popoli», attuato dal Congresso di Vienna attraverso la spartizione dei paesi minori tra le grandi potenze.
A facilitare la diffusione della nuova cultura e delle nuove idee liberali ed egualitarie contribuì un fenomeno importante: la crescente diffusione di libri e riviste. Questo fenomeno cominciò ad affermarsi nell'Europa nord-occidentale, e la sua importanza crebbe di pari passo con l'aumento delle persone che apprendevano a leggere e a scrivere.
Sia i governi della Restaurazione, sia i loro oppositori erano consapevoli dell’importanza che la stampa aveva nella circolazione delle idee e nella formazione dell’opinione pubblica, ossia di quel complesso di idee, di giudizi, di conoscenze e di interessi che si stava diffondendo tra la popolazione, accomunando un gran numero di persone.
La libertà di stampa, stimolando la circolazione delle idee, era un aspetto importante per lo sviluppo culturale e civile della società; per i governi della Restaurazione, tuttavia, essa costituiva un potenziale pericolo, perché poteva incoraggiare il dissenso politico e persino le insurrezioni. Per questo, mentre i governi della Restaurazione tendenzialmente operavano severe censure sulla stampa, gli oppositori fecero della libertà di stampa uno dei punti principali delle loro rivendicazioni.
In Italia, il maggior centro di vita culturale fu Milano, dove un gruppo di intellettuali di idee liberali diede vita, nel 1818, a un periodico scientifico‑letterario, «Il Conciliatore», che raccolse le forze più vive della cultura italiana con l'intento di unificarle in uno sforzo comune: «sostenere la dignità del nome italiano». Su questa rivista, cui collaborarono intellettuali quali Silvio Pellico, Giovanni Berchet, Federico Confalonieri e Giandomenico Romagnosi, si discutevano opere di scrittori stranieri e veniva espressa la necessità che anche in Italia sorgesse una letteratura nazionale, capace cioè di farsi portavoce delle idee e dei sentimenti dell’intero popolo italiano. Il dibattito era circoscritto a un esiguo numero di intellettuali; ma il regime intuì che su quella strada si sarebbe prima o poi arrivati a nuovi sommovimenti: per questo dopo un anno vietò la rivista, indagò sui suoi redattori ‑che in effetti erano in gran parte affiliati a società segrete‑ e celebrò clamorosi processi che si conclusero con varie condanne a morte, poi commutate nel carcere duro.
Le idee liberali, contrarie alla politica della Restaurazione, non potevano essere espresse apertamente: le libertà di stampa e di associazione erano state soppresse in molti stati, la polizia vigilava e attuava una dura repressione nei confronti di tutti coloro che fossero sospettati di cospirazione politica contro i governi al potere. Per poter diffondere le loro idee e organizzare ugualmente un'opposizione contro i governi reazionari, numerosi liberali cominciarono quindi a riunirsi in società segrete, cioèin associazioni clandestine.
Numerose furono le società segrete che si diffusero in Europa e diversi i loro programmi. La maggiore fu senza dubbio la Massoneria, sorta in Inghilterra nel secolo precedente: essa reclutava i suoi affiliati nei ceti colti e benestanti, predicava la libertà di associazione e di culto e la fratellanza tra gli uomini e i popoli, educando alla tolleranza. A questa società appartenevano i maggiori esponenti del mondo politico inglese, che guardavano con simpatia a una possibile attuazione, sul continente, di riforme moderate, le uniche capaci di evitare l'insorgere di nuove spinte rivoluzionarie.
In Italia si era diffusa la Carboneria società segreta che reclutava i suoi affiliati specialmente tra gli intellettuali, i borghesi, gli ufficiali dell'esercito, divenendo in breve un'organizzazione cospirativa di ampie dimensioni: diffusa soprattutto nell'Italia meridionale, essa contava, nel solo Regno delle Due Sicilie, centinaia di migliaia di iscritti.
Diversa fu la situazione delle società segrete nell'Italia settentrionale, in particolare nel Lombardo‑Veneto, dove il controllo della polizia e la severità delle pene inflitte ai loro membri ne ostacolò l'organizzazione. Qui le società segrete, poco diffuse tra gli strati sociali più bassi, operarono soprattutto in collegamento con l'estero, stabilendo contatti con l'Inghilterra, la Francia e la Svizzera.
Le prime forme di opposizione violenta contro la Restaurazione si manifestarono nel 1820‑21 e partirono dalla Spagna. Qui Ferdinando VII,«restaurato» sul trono dal Congresso di Vienna, aveva abolito la Costituzione del 1812 e aveva ripristinato l'assolutismo. L'insofferenza verso il suo regime reazionario porrò il l° gennaio 1820 all'insurrezione, segretamente sostenuta dagli Inglesi, di una parte dell’esercito, con lo scopo di riottenere la Costituzione. L'esercito, che era stato il nucleo della resistenza nazionale antinapoleonica ed era composto da membri di società segrete, uomini che quindi condividevano le idee liberali, trovò solidarietà anche presso la borghesia urbana e una parte del clero. Il re di Spagna Ferdinando VII fu costretto a concedere la Costituzione.
L'insurrezione spagnola ebbe ripercussioni anche in Italia, a partire dal Regno delle Due Sicilie. Qui, nel luglio dello stesso anno, guidati da due ufficiali e da un sacerdote, borghesi e popolani, in parte affiliati alla Carboneria, insorsero chiedendo una Costituzione simile a quella di Spagna. Sotto la pressione degli insorti, il re Ferdinando I fu costretto a concederla.
La notizia della rivolta napoletana mise in allarme l'Austria; e, nel gennaio del 1821, il cancelliere dell’impero Metternich convocò a Lubiana i rappresentanti dei paesi membri della Santa Alleanza. Al Congresso di Lubiana venne riaffermato il principio dell’intervento collettivo delle potenze conservatrici, per ripristinare i poteri legittimi negli Stati scossi dai moti costituzionali. Solo l'Inghilterra si oppose a questo principio, poiché considerava i moti liberali questioni interne dei singoli paesi, e non intendeva quindi né reprimerli né favorirne la repressione. In questa sede, il re delle Due Sicilie, che già aveva promesso la Costituzione, chiese l'intervento armato dell’Austria per ripristinare l'assolutismo.
Nel marzo 1821, quindi, un esercito asburgico scese lungo la penisola e a Rieti sbaragliò le forze del governo costituzionale del Regno delle Due Sicilie, che tornò così ad avere un regime assolutistico.
Quando ormai gli insorti napoletani stavano per essere sconfitti, si misero in moto i liberali in Piemonte, guidati dal nobile Santorre di Santarosa. I cospiratori si illudevano di avere l'appoggio del probabile erede al trono, Carlo Alberto diSavoia, che si era dimostrato relativamente aperto alle idee liberali. Il programma segreto della setta alla quale Santarosa faceva capo non prevedeva solo l'ottenimento della Costituzione, ma anche l'unificazione dell’Italia in una monarchia costituzionale. In un primo momento Carlo Alberto aderì all'iniziativa, ma poi ebbe un ripensamento. Tuttavia la sommossa scoppiò e il re di Sardegna Vittorio Emanuele I, dopo aver rifiutato di promulgare la Costituzione per non venir meno al giuramento di fedeltà alla Santa Alleanza, abdicò a favore del fratello Carlo Felice.Questi, temporaneamente assente, nominò come reggente il principe Carlo Alberto. Sotto la pressione dei liberali il giovane principe concesse la Costituzione, con la riserva tuttavia che essa venisse confermata dal nuovo re. Sconfessato però da Carlo Felice, Carlo Alberto abbandonò i liberali e si recò a Novara, dove erano rimaste le truppe fedeli al re, che avevano nel frattempo ricevuto l'appoggio di un contingente austriaco. Nell'aprile del 1821 le truppe sabaude e austriache attaccarono e sconfissero le truppe dei rivoluzionari. Anche questa insurrezione era stata sedata.
La politica di repressione attuata nei diversi stati italiani dopo le insurrezioni costrinse numerosi patrioti a fuggire all'estero: in Francia e soprattutto in Inghilterra. Santorre di Santarosa si rifugiò dapprima in Spagna, poi in Inghilterra e infine accorse a combattere per l'indipendenza della Grecia, morendo in battaglia nell'isola di Sfacteria nel 1825.
La repressione del movimento liberale non si verificò soltanto in Piemonte e nel Regno delle Due Sicilie. Essa si fece sentire duramente anche nel Lombardo‑Veneto, in particolare a Milano, dove furono soppressi i giornali liberali e condannati a lunghi anni di carcere uomini come Silvio Pellico, collaboratore del Conciliatore, e Federico Confalonieri, che aveva stabilito contatti con i liberali piemontesi contro l'Austria. Ciononostante questi moti furono importanti perché da essi prese avvio il nostro processo di unificazione nazionale, noto con il nome di «Risorgimento».
Anche in Spagna l'insurrezione fu repressa. L'incarico fu affidato dai paesi della Santa Alleanza alla Francia; con l'esercito francese, tra le file dei reazionari, combatte anche il principe Carlo Alberto, per far dimenticare le simpatie liberali del 1821. L'Inghilterra, ancora una volta, si dichiarò contraria a un intervento repressivo.
Mentre in Italia fallivano le insurrezioni costituzionali, in Grecia era iniziata la lotta per la liberazione del paese dal dominio turco. Anch'essa era spinta da organizzazioni segrete di massa: le «Eterìe», ossia «compagnie», «società»: associazioni che contavano affiliati anche a Istanbul, la capitale dell’Impero ottomano, e alla corte dello zar di Russia. I liberali greci avevano infatti il sostegno della Russia, che era interessata a indebolire l'Impero ottomano per estendere la propria influenza sulla Penisola balcanica e quindi sul Mediterraneo.
Allo scoppio delle prime insurrezioni in Grecia, nel 1821, i Turchi reagirono con violenza: stragi, deportazioni di massa, distruzioni di intere città. L'opinione pubblica europea, stimolata da intellettuali, artisti, letterati e poeti che vedevano negli insorti gli eredi di una meravigliosa civiltà, fu solidale con la lotta di liberazione dei Greci. Numerosi liberali accorsero da tutta Europa a sostegno della causa greca e, dopo una prima fase di esitazione, anche la Francia e l'Inghilterra decisero di intervenire. A spingerle, tuttavia, non furono soltanto ragioni umanitarie, ma anche motivi di ordine politico ed economico: esse temevano infatti che la Russia potesse trarre un eccessivo vantaggio dall'indebolimento dell’Impero ottomano e pertanto volevano controllare meglio le mire espansionistiche dello zar. L'intervento congiunto di Inghilterra, Francia e Russia portò alla sconfitta dei Turchi che, nel 1830, dovettero riconoscere l'indipendenza della Grecia, che divenne una monarchia costituzionale con Ottone, secondo figlio del re di Baviera.
I cospiratori italiani del 1820‑21 avevano cercato o accettato l'accordo con i singoli re o principi convinti, in tal modo, di attuare e consolidare il passaggio dall'assolutismo a regimi costituzionali. In realtà essi avevano rinunciato a fare della loro lotta la base di un movimento di carattere effettivamente nazionale. Perciò l'Austria aveva avuto buon gioco a sconfiggere separatamente Napoletani e Piemontesi e a processare e condannare i liberali lombardi.
La rivoluzione greca invece ebbe successo proprio perché fu nazionale. Da essa, inoltre, risultò chiaro che il successo di un moto costituzionale e nazionale dipendeva non soltanto dalla validità dei principi professati dai cospiratori, quali l'indipendenza, la libertà, la fratellanza, ma anche dall'adesione di masse popolari pronte a battersi per liberarsi da un'intollerabile dominazione, come era accaduto appunto in Grecia. Inoltre apparve altrettanto chiaro che nella lotta per l'indipendenza di una nazione sarebbero stati fondamentali il consenso e l'appoggio di potenze straniere.
Mentre l'Europa veniva scossa dalle guerre napoleoniche e poi «riordinata» dalla Restaurazione, fatti importanti accadevano anche nell'altro emisfero: nell'arco di circa un ventennio nell'America latina si dissolse il grande impero coloniale spagnolo.
I moti per l'indipendenza scoppiarono a partire dalla conquista napoleonica della Spagna, nel 1808, che causò un minor controllo della madrepatria su quelle terre. Queste insurrezioni furono mosse inizialmente dall'aristocrazia creola, ossia dai discendenti degli antichi conquistatori, che aspiravano a una maggiore libertà economica (la Spagna imponeva infatti alle proprie colonie il monopolio commerciale) e soprattutto a ottenere il potere politico, che era in mano ai funzionari spagnoli. In alcuni casi i creoli riuscirono ad avere anche l'appoggio delle classi inferiori, gli indios (originari de luogo) o i neri (schiavi deportati dall'Africa), che vivevano in condizione di miseria e di ignoranza.
Sin dal 1811 sotto la guida del venezuelano Simón Bolívar e dell’argentino José de San Martín, il Venezuela proclamò l'indipendenza (raggiunta però di fatto solo nel 1821); nel 1816 si rese indipendente l'Argentina, malgrado il contrattacco degli Spagnoli su tutto il continente e, negli anni dal 1818 al 1825, raggiunsero l'indipendenza anche il Cile, la Colombia, il Perú e la Bolivia.
La Spagna aveva chiesto più volte l'intervento della Santa Alleanza e anche, in particolare, dell’Inghilterra, che aveva nell'Atlantico una flotta da guerra. Ma l'Inghilterra rifiutò di attaccare le colonie spagnole in rivolta, poiché aveva tutto l'interesse a sostenere il libero commercio nell'America latina. Venne chiesto allora l'intervento degli Stati Uniti, ma il presidente James Monroe, ricordando la lotta per l'indipendenza delle ex colonie inglesi, sostenne il principio poi divenuto famoso: «L'America agli Americani».
Nel 1821 anche il Messico, il cui territorio a quel tempo si estendeva fino alla California e al Texas, aveva proclamato la propria indipendenza, annettendo le Province Unite dell’America Centrale, ossia gli attuali stati del Guatemala, San Salvador, Costa Rica, Honduras, Nicaragua, che in seguito si resero autonomi.
Il Brasile, colonia portoghese, raggiunse l'indipendenza negli stessi anni, ma in modo meno travagliato, senza insurrezioni. Esso infatti, proclamato indipendente nel 1822 dal figlio del re del Portogallo, che ne assunse la corona, fu riconosciuto indipendente tre anni dopo anche dalla madrepatria portoghese.
L'aspirazione di Bolívar e di San Martín era di trasformare l'America meridionale in una grande e potente federazione di stati concordi. Queste speranze tuttavia fallirono, anche per l'intervento delle due potenze che li avevano appoggiati: gli Stati Uniti e l'Inghilterra; esse erano infatti interessate ad affermare in quei territori il loro
predominio economico e per questo preferivano avere a che fare con tanti stati divisi, deboli e talvolta anche in conflitto fra loro. Nel 1826 Simón Bolívar tentò, con il Congresso di Panama, di legare tra loro i vari stati in una confederazione simile a quella del Nord; ma il tentativo falli, anche perché mancavano una reale fusione e un'unità di intenti tra le classi sociali.
Tuttavia, nonostante le divisioni e le debolezze dei vari stati, all'interno dei quali spesso scoppiavano scontri tra partiti diversi, l'indipendenza dell’America latina costituì una svolta importante nella storia contemporanea. Essa dimostrò definitivamente che Spagna e Portogallo erano ormai potenze di secondo piano e apri il continente a relazioni commerciali più libere rispetto al passato.
Un duro colpo all'assetto politico imposto all'Europa dal Congresso di Vienna venne inferto dai moti che scoppiarono nel 1830 in Francia e che dilagarono presto in diversi paesi europei.
Nel 1824 a Luigi XVIII era succeduto Carlo X, da sempre considerato uno dei rappresentanti delle forze assolutiste. Egli volle essere incoronato nella cattedrale di Reims secondo l'antico rito dei Merovingi, cioè con l'unzione sacra, per dimostrare che il suo potere derivava direttamente dalla volontà divina. Per indebolire l'opposizione liberale Carlo X affidò l'organizzazione dell’istruzione pubblica ai Gesuiti, restitui al clero antichi privilegi e tassò il popolo per poter concedere elevati indennizzi in denaro ai nobili espropriati delle loro ricchezze dalla rivoluzione del 1789.
Contro una tale politica si coalizzarono liberali, nostalgici bonapartisti, repubblicani e in generale la borghesia finanziaria e industriale riluttante a essere calpestata da un'aristocrazia oziosa, che pretendeva di tornare a un regime basato sul privilegio. Così di fronte a questa spaccatura, Carlo X il 26 luglio rispose sciogliendo la Camera dei Deputati e indicendo nuove elezioni, riducendo il numero degli elettori a danno della borghesia, abolendo la libertà di stampa e qualsiasi altra forma di opposizione. Ma nei giorni immediatamente successivi la popolazione parigina insorse e occupò il Municipio (rivoluzione di luglio): il re fu costretto a fuggire.
Non furono tuttavia i repubblicani a vincere; in pochi giorni infatti, per timore che le proteste potessero portare a mutamenti troppo radicali, la parte più moderata degli oppositori formò un blocco compatto intorno a Luigi Filippo duca d'Orléans, liberale e legato ai carbonari europei: questi venne proclamato «re dei Francesi per grazia di Dio e volontà della nazione», a dimostrazione del fatto che egli era re anche per volontà del popolo.
Luigi Filippo concesse una nuova Costituzione d'ispirazione liberale; inoltre venne aumentato, tramite una riforma elettorale, il numero delle persone che avevano diritto al voto e fu stabilito il principio di non intervento, secondo il quale non era consentito intervenire negli affari interni di altri stati. Con tale principio la Francia proclamava il proprio orientamento liberale, e si poneva così in netta opposizione con quanto affermavano le potenze della Salita Alleanza.
Il nuovo re rappresentava un compromesso che soddisfaceva i liberali, lasciava spazio a vecchi bonapartisti e isolava l'estremismo repubblicano. Egli, in particolare, ricevette l'appoggio dell’alta borghesia e a sua volta favori le attività industriali: in questo modo la borghesia ebbe l'opportunità di aumentare le sue ricchezze e il suo potere.
Gli avvenimenti in Francia incoraggiarono una serie di insurrezioni in altri paesi europei e accesero, in coloro che combattevano contro i regimi assolutisti, le speranze di un aiuto da parte del re francese. Nell'agosto del 1830, sull'esempio della Francia, insorse il Belgio. Alle radici di questa rivoluzione c'erano due richieste: l'indipendenza dall'Olanda e una Costituzione liberale. La Santa Alleanza chiese alla Francia d'intervenire, ma era interesse francese favorire il distacco del Belgio dall'Olanda: si sarebbe rotto così uno stato cuscinetto creato contro la Francia. Nel marzo del 1831 il Belgio divenne una monarchia costituzionale, con a capo un principe tedesco, Leopoldo I di Sassonia‑Coburgo. L'indipendenza del Belgio ebbe anche l'appoggio dell’Inghilterra, che in effetti preferiva avere come vicini stati piccoli, legati a sé da gratitudine e da bisogno di aiuto, piuttosto che uno stato potente.
Nel novembre del 1830 ebbe inizio in Polonia un'insurrezione per l'indipendenza nazionale, guidata da intellettuali, studenti e nobili di orientamento liberale. Inizialmente essa ebbe successo: il fratello dello zar, che era reggente a Varsavia, fu infatti costretto alla fuga. In seguito, tuttavia, i moti vennero domati e l'università di Varsavia, culla della cultura nazionale polacca, venne chiusa.
Per scampare al massacro, migliaia di polacchi fuggirono nell'Europa occidentale: tra questi il famoso musicista e pianista Fryderyk Chopin, che si recò a Parigi. Gli esuli polacchi in Occidente svolsero una vivace propaganda contro l'assolutismo zarista e contro l'Austria e la Prussia, suoi principali alleati. Contribuirono così ad accrescere l'avversione dei liberali dell’Europa occidentale contro i governi assolutisti.
Nuovi moti scoppiarono anche in Italia nel 1831 e questa volta il nemico da combattere fu, oltre agli Asburgici, il governo papale, fortemente contrario alle idee progressiste. Gregorio XVI, sul soglio pontificio proprio da quell'anno, appoggiò infatti le correnti più retrive, contrarie a qualsiasi riforma e persino a innovazioni, quali le ferrovie e la vaccinazione. Considerate veicolo di idee progressiste, queste innovazioni venivano tacciate come invenzioni sataniche, da respingere totalmente.
Le insurrezioni partirono dal Ducato di Modena e, come già era successo nel 1820‑21, i cospiratori sperarono di ottenere l'appoggio di un principe: Francesco IV di Modena. Egli inizialmente collaborò, attratto dal miraggio di ottenere espansioni territoriali. Ma poi, per timore dell’Austria, Francesco IV tradì i cospiratori alla vigilia dell’insurrezione e li fece arrestare. Tuttavia la rivolta, già decisa, scoppiò ugualmente, estendendosi a Reggio, a Parma e allo Stato pontificio, dove il malcontento per la cattiva amministrazione era fortissimo. L'intervento armato dell’Austria ebbe però ben presto ragione delle speranze rivoluzionarie. Numerosi cospiratori, tra i quali Ciro Menotti, facoltoso commerciante di Carpi, furono condannati a morte, mentre coloro che riuscirono a sfuggire alla repressione si rifugiarono in Francia e in Inghilterra. Molti esuli poi si unirono ai profughi polacchi nelle file dei liberali in Spagna e Portogallo, continuando a prepararsi sul piano militare, oltre che politico. Alcuni si trasferirono nell'America meridionale, dove erano in corso lotte tra liberali e reazionari. In ogni caso, gli esuli italiani si preparavano a riprendere l'iniziativa rivoluzionaria nella penisola.
Anche se molti dei moti dei 1830‑31 fallirono, essi misero in discussione l'ordine politico instaurato dalla Restaurazione. Il Belgio era divenuto indipendente e la Francia era passata dall'assolutismo a un sistema più liberale. L'Inghilterra, senza sconvolgimenti violenti, aveva introdotto nel 1832 una riforma che ampliava il diritto di voto estendendolo alla borghesia mercantile e industriale, nel 1833 uno statuto che aboliva la schiavitù nelle colonie britanniche e il monopolio della Compagnia delle Indie Orientali nel commercio con la Cina, e, più tardi, una legislazione che poneva un freno allo sfruttamento di donne e fanciulli nelle fabbriche. Si stava così delineando il contrasto tra «due Europe»: una, che faceva capo a Francia, Belgio e Inghilterra, con un avanzato grado di sviluppo industriale, essendo ricca di banche, industrie, commerci, e un sistema politico più liberale; l'altra, dominata dall'assolutismo di Austria, Prussia e Russia, prevalentemente caratterizzata da un'agricoltura ancora stagnante e da una maggiore arretratezza politica oltre che sociale ed economica.
Dopo il fallimento dei moti del 1831, che aveva determinato la crisi della Carboneria, tra i liberali italiani si diffuse la consapevolezza che era giunto il momento di mirare con maggiore fermezza e chiarezza all'obiettivo dell’unificazione d'Italia. Non si trattava soltanto di ottenere maggiori libertà all'interno dei singoli Stati, ma di puntare alla realizzazione di un solo Stato, cioè appunto all'unificazione nazionale.
All'interno del dibattito sulla questione nazionale italiana erano presenti due diverse correnti d'opinione: quella dei moderati e quella dei democratici, che proponevano modi differenti di realizzare l'unità della nazione.
La corrente moderata mirava alla realizzazione dell’unità in modo pacifico e con l'appoggio dei vari sovrani. La corrente democratica, invece, non contava sull'aiuto dei principi, ritenendo che l'unità si dovesse realizzare con la rivoluzione e attraverso l'azione di tutto il popolo. Tra i maggiori esponenti della corrente moderata vi furono Vincenzo Gioberti e Cesare Balbo; tra i democratici la figura principale fu quella di Mazzini.
Nel 1831, proprio mentre in Italia fallivano le ultime insurrezioni, a Marsiglia Giuseppe Mazzini, esiliato dal Regno di Sardegna in quanto carbonaro, fondò la Giovine Italia. Si trattava di un'associazione politica cospirativa che aveva come programma la realizzazione di un'Italia unita, indipendente e repubblicana. Mazzini aveva riflettuto sul fallimento dei moti carbonari e riteneva che bisognasse superare la disorganizzazione delle società segrete, quali la Carboneria, che avevano agito senza collegamento fra loro e secondo programmi confusi e segreti. Bisognava raccogliere i veri patrioti in un'associazione nuova con un'organizzazione semplice, segretissima per quanto riguardava i capi, gli affiliati e le sedi, ma con un programma pubblico; inoltre, a differenza delle sette carbonare che operavano solo a livello locale, la nuova organizzazione avrebbe dovuto agire in modo coordinato su tutto il territorio italiano. Avrebbe dovuto avere una direzione centrale e una miriade di nuclei operativi, sempre pronti a passare all'azione. Il programma doveva essere rivolto a tutta la popolazione, in particolare ai giovani, più ricchi di energia e di entusiasmo (da qui il nome “Giovine Italia”). Strumento fondamentale della propaganda sarebbe stata la stampa e in particolare i giornali, che dovevano essere scritti con linguaggio semplice e chiaro, comprensibile a tutti.
L’organizzazione mazziniana, la prima in Italia con simili caratteri, ebbe diffusione assai ampia e raccolse vaste adesioni soprattutto negli ambienti della media borghesia.
Presto l'organizzazione mazziniana si scontrò con la repressione poliziesca. Il nuovo re di Sardegna, Carlo Alberto, venuto a conoscenza che la Giovine Italia reclutava affiliati tra l'esercito, che tradizionalmente doveva essere fedele strumento della politica regia, ordinò processi severissimi e condanne capitali (1833).
Nel febbraio del 1834 un tentativo di invasione della Savoia, guidato da Mazzini, con lo scopo di spingere alla ribellione, fallì miseramente; mentre un'altra insurrezione repubblicana, che doveva scoppiare a Genova ed essere guidata da Giuseppe Garibaldi, affiliato alla Giovine Italia, non ebbe neppure inizio. Braccato dalle polizie di mezza Europa, Mazzini fu costretto a rifugiarsi in Svizzera e poi in Inghilterra. In esilio, nel 1834, egli fondò anche la Giovine Europa: questa organizzazione nasceva dalla convinzione che, per avere successo, il movimento nazionale italiano dovesse collegarsi a quelli delle altre nazioni oppresse, quali per esempio la Polonia e l'Ungheria.
Mazzini riteneva che l'intera penisola sarebbe insorta se anche in un solo villaggio fosse stata proclamata la repubblica; per questo egli, per quindici anni, perseverò nella cospirazione senza fermarsi di fronte agli insuccessi e alle repressioni cui i suoi moti andarono incontro. Un tentativo tragicamente fallito fu quello promosso dai fratelli Attilio ed Emilio Bandiera: ex ufficiali della marina asburgica e affiliati alla Giovine Italia, nel 1844, nonostante il parere contrario di Mazzini, i fratelli Bandiera cercarono di far insorgere il Mezzogiorno d'Italia, ma furono catturati e fucilati dall'esercito borbonico nei pressi di Cosenza.
La tragica conclusione dell’impresa dei fratelli Bandiera suscitò profonda impressione e sollevò molte critiche ai metodi di lotta praticati dai mazziniani e contro lo stesso Mazzini, accusato di sacrificare inutilmente la vita di tanti giovani. Il fallimento dei progetti dei democratici contribuì a conferire maggiore popolarità alle idee dei moderati, che da sempre erano contrari alla lotta violenta.
I princìpi di indipendenza nazionale, di diritto alla libertà e alle riforme erano diffusi anche in certe aree del mondo cattolico e in alcuni settori del clero, nonostante la maggior parte di esso avesse per lo più difeso i sovrani al potere.
Proprio un sacerdote, il torinese Vincenzo Gioberti, fu uno dei maggiori esponenti del cattolicesimo liberale. In un'opera pubblicata nel 1843, Del primato morale e civile degli Italiani, Gioberti sosteneva che la Chiesa dovesse avere una funzione centrale per l'unità nazionale: il papa stesso avrebbe dovuto farsi promotore di un moderato progresso, assumendo la presidenza di una confederazione di Stati della penisola. All'Italia, in questo modo, sarebbero state assicurate una sorta di unità politica e una certa indipendenza, senza compromettere nessuno dei principi in carica.
Il progetto di Gioberti era irrealizzabile dal punto di vista politico, tuttavia, proprio perché cercava di conciliare l'idea di nazione e il principio del legittimismo, contribuì a rendere vasto e aperto il dibattito sull'unificazione nazionale. In tal modo infatti furono coinvolti anche ambienti e ceti sociali, come gli aristocratici di tendenza liberale e i borghesi ricchi proprietari, che non volevano aver nulla a che fare con la rivoluzione mazziniana, ma che erano comunque contrari alla dominazione straniera ed erano convinti che l'unificazione nazionale avrebbe avvantaggiato il benessere generale della penisola.
Il programma moderato di Gioberti sembrò realizzarsi quando, nel 1846, fu eletto papa Pio IX: questi infatti concesse una serie di riforme che lo fecero sembrare effettivamente un papa “liberale”.
Tra i provvedimenti presi dal nuovo papa vi furono l'amnistia per i detenuti politici e per quelli colpevoli di reati comuni, una maggiore libertà di stampa e l'istituzione della Consulta di Stato, ossia di una specie di Parlamento che aveva funzioni consultive ed era aperto anche ai laici. A Roma si inneggiò al papa e lo stesso Giuseppe Mazzini si dichiarò pronto a collaborare con il pontefice per raggiungere l'unità e l'indipendenza; da Montevideo, in Uruguay, persino Garibaldi ‑ dopo tredici anni di guerre in difesa di alcune repubbliche sudamericane contro regimi tirannici ‑ offrì la propria collaborazione.
I provvedimenti di Pio IX, sia pure molto moderati, ebbero larga influenza sullo svolgimento degli eventi nel resto della penisola. In Toscana e Piemonte essi accesero le speranze dei liberali: di fronte a un'opinione pubblica ormai minacciosa, il granduca di Toscana e il re di Sardegna furono costretti a concedere a loro volta alcune caute riforme.
Accanto all'opera di Gioberti, in quegli stessi anni vennero pubblicati scritti di liberali moderati, nei quali si proponevano diverse soluzioni per l'unità italiana. Nel 1844 il moderato Cesare Balbo pubblicò Le speranze d'Italia, in cui si sosteneva la necessità di una confederazione di Stati, secondo il modello di Gioberti, ma guidata non dal papa, bensì dal re di Sardegna. Della stessa opinione era il moderato Massimo d'Azeglio, che nel 1847 pubblicò la sua Proposta di un programma per l'opinione nazionale italiana.
Balbo proponeva di compensare l'Impero asburgico, per le perdite registrate a causa dell’unificazione italiana, con ingrandimenti territoriali nei Balcani: lo spostamento di interessi dell’Austria avrebbe comportato inoltre l'espansione del Cristianesimo contro l’islamismo introdotto in Europa dall'Impero ottomano. L’unificazione italiana in tal modo avrebbe concorso alla “civiltà europea” nel suo insieme.
Tra le correnti di opinione che alimentarono il dibattito sulla questione nazionale italiana, va ricordata anche la corrente federalistica che faceva capo a Carlo Cattaneo. Egli sosteneva che l'Italia era troppo differenziata al suo interno da secoli di divisione in Stati diversi; perciò riteneva che la forma di organizzazione politica più adatta fosse una federazione repubblicana che tenesse conto delle differenze regionali. Questa federazione doveva essere poi inclusa negli Stati Uniti d'Europa: ciò avrebbe posto fine alle guerre nazionali e avrebbe favorito la stabilità dei sistemi liberali in tutto il continente. Allievo dell’illuminista Giandomenico Romagnosi, Cattaneo credeva nel progresso e nella scienza, e aveva fondato importanti riviste di studi scientifici, tra cui, nel 1839, “Il Politecnico”.
Anche Cattaneo inquadrava dunque l'unificazione nazionale italiana in una visione europea. Come Gioberti e poi Cavour, tutti questi pensatori separavano nettamente l'indipendenza nazionale dal nazionalismo inteso come affermazione degli Italiani ai danni degli altri popoli.
L’unificazione nazionale, ai loro occhi, era un fattore di più sicura libertà e di progresso per tutti, una conquista della storia senza alcuna ripercussione negativa.
La creazione di uno Stato nazionale italiano non era comunque un obiettivo che stava a cuore solo ai pensatori o ai cospiratori; l'unità d'Italia era divenuta una necessità anche per uomini d'affari, banchieri, industriali e scienziati. Insomma, il problema dell’unificazione si esprimeva ormai anche in un programma politico ed economico concreto, non solo in una formula storico‑letteraria o in un dibattito poco più che teorico.
Troppe barriere doganali, difficoltà di scambi, diversità di monete, di norme e persino di sistemi di pesi e di misure rallentavano i commerci e le relazioni sociali e culturali.
Era chiaro che il progresso economico e civile non poteva essere realizzato nei ristretti confini degli staterelli nei quali era suddivisa la penisola. Questo era tanto più evidente se si confrontava la situazione italiana con quella di altri Paesi che avevano un sistema industriale più avanzato e un sistema politico più aperto: entrambi utili allo sviluppo economico.
All'inizio degli anni Trenta era ormai chiaro che i problemi da risolvere in Europa non erano più solamente quelli nazionali.
Il rapido sviluppo dell’industrializzazione (soprattutto in Paesi come Gran Bretagna, Francia e Germania che si trovavano già in una fase più avanzata di espansione industriale) e la diffusione delle grandi industrie ‑in particolare di quelle manifatturiere‑ avevano cominciato a determinare lo spostamento di artigiani e contadini dalle campagne e quindi lo sviluppo delle città: si erano venuti così a formare immensi agglomerati di opifici e di baracche dove gli operai, il cui lavoro era retribuito con un salario spesso insufficiente, vivevano in condizioni di grande povertà e miseria. A questo si deve aggiungere il rancore derivante dall'inevitabile confronto del proprio stato di vita con quello, di gran lunga migliore, della borghesia mercantile, professionale e impiegatizia e dei proprietari terrieri.
Fin dai primi anni dell’Ottocento cominciarono perciò a diffondersi, soprattutto in Gran Bretagna, ma anche in Francia e in Germania, forme di protesta e di ribellione degli operai.
In Gran Bretagna si sviluppò il luddismo, un movimento il cui nome deriverebbe da quello di un operaio di nome Ned Ludd, condannato a morte per aver distrutto un telaio, come gesto di ribellione. Nel corso degli anni 1811‑16 gli aderenti a questo movimento, ostili all'impiego delle macchine nell'industria, soprattutto nelle manifatture tessili, poiché le ritenevano causa di disoccupazione e dei bassi salari, diedero vita a episodi di vandalismo e di violenza contro i macchinari di diverse fabbriche. Sempre in Inghilterra, a Manchester, nel 1819 una dimostrazione di operai venne duramente repressa: fu il cosiddetto “massacro di Peterloo”, che costò la vita ad alcuni lavoratori. Rivolte operaie furono represse nello stesso periodo anche in altre parti d'Europa: per esempio, quelle scoppiate a Lione, in Francia, nel 1831 e nel 1834. Pur attraverso queste esperienze fallimentari, crebbero a poco a poco nei lavoratori la consapevolezza del proprio ruolo nella società e la coscienza della necessità di unirsi per far valere i propri diritti. Nacquero così le cooperative: gli operai acquistavano in società e in grosse quantità (in modo da pagare meno o avere sconti sul prezzo) merci (per esempio riso, grano, patate, stoffe) da consumare via via nel tempo.
Vennero organizzate in seguito le società di mutuo soccorso: a scadenza stabilita, gli operai versavano una piccola somma in una cassa comune, allo scopo di assicurare assistenza economica ai membri bisognosi, in caso, per esempio, di malattie o disoccupazione.
In Inghilterra si formarono anche le prime associazioni sindacali: le Trade Unions (“Unioni del Lavoro”), sorte verso la fine del Settecento, vennero riconosciute nel 1825 e poterono organizzarsi legalmente per patteggiare salari e orari di lavoro. La lotta dei lavoratori si trasferì anche sul piano politico: si sviluppo così, sempre in Inghilterra, il movimento cartista, così detto dalla Carta del popolo, presentata al Parlamento nel 1838. In essa si rivendicavano, tra l'altro, il suffragio universale maschile, ossia il diritto di tutti i cittadini maschi a partecipare alla vita pubblica tramite il voto, e la segretezza del voto stesso (scrutinio segreto) .
Non furono però soltanto gli operai a muoversi per migliorare le proprie condizioni di vita e rivendicare i propri diritti: alla questione sociale si interessarono infatti economisti, intellettuali e borghesi “illuminati”.
Nacque così il socialismo, ossia quel movimento di pensiero che fece proprie le rivendicazioni operaie elaborando una concezione della società e dello Stato basata sull'uguaglianza di tutti gli uomini. Uno dei primi pensatori socialisti fu il francese Claude‑Henri de Saint‑Simon (1760‑1825): analizzando i problemi sorti con lo sviluppo delle industrie e delle grandi città, egli affermò che il governo deve essere affidato agli “scienziati sociali”, ossia a tecnici esclusivamente dediti all'interesse generale. Ciascun uomo avrebbe dovuto lavorare secondo le proprie capacità e ricevere secondo le proprie necessità. Saint‑Simon si basava sul presupposto che ogni uomo avrebbe dovuto mirare a migliorare le proprie condizioni avendo come fine ultimo il progresso generale (progresso materiale, con industrie, servizi pubblici ecc.; progresso spirituale, con l'istruzione di massa). Contemporaneamente un altro pensatore francese, Charles Fourier (17721837), teorizzava un sistema sociale basato sui falansteri, piccole comunità autonome, capaci di bastare a se stesse e di offrire ai propri abitanti un lavoro stimolante e quindi altamente produttivo. In Inghilterra l'industriale Robert Owen (1771‑1858), che grande importanza ebbe nell'organizzazione del movimento sindacale e delle Trade Unions, immaginò una società basata su villaggi cooperativi, cercando anche di realizzarne uno negli Stati Uniti.
Ancora in Francia ricordiamo Louis‑Auguste Blanqui (1805‑81); Louis Blanc (1811‑82), teorizzatore degli opifici sociali, cioè fabbriche sovvenzionate dallo Stato; e infine Pierre Proudhon (1809‑65), le cui teorie politiche si basavano sull'abolizione della proprietà privata, poiché essa assicura al proprietario il godimento di un reddito senza lavoro. Pertanto al concetto di proprietà (diritto di disporre dei beni) avrebbe dovuto sostituirsi quello di semplice possesso (diritto di godere) dei beni necessari all'esistenza.
Fu però soltanto il filosofo tedesco Karl Marx (181883) a formulare una teoria politico‑economica derivante da un'analisi approfondita dello sviluppo industriale. Tale teoria fu espressa dapprima nel Manifesto del partito comunista, che Marx scrisse nel 1848 insieme al filosofo tedesco Friedrich Engels (1820‑95), come programma della Lega dei comunisti tedeschi; e in seguito trovò la sua formulazione più ampia nell'opera Il Capitale, rimasta però incompiuta e solo in parte pubblicata lui vivente.
La società umana, secondo Marx, è stata caratterizzata, fin dall'inizio della sua storia, dalla “lotta di classe”, ossia dal conflitto tra gruppi dominanti e gruppi dominati e sfruttati (liberi e schiavi, colonizzatori e popoli colonizzati ecc.). La “lotta di classe” ha via via creato nuovi dominatori che hanno sostituito i precedenti: la storia attuale, caratterizzata dalla comparsa delle macchine, appartenenti alla classe dominante, e dal trionfo del capitalismo , ha segnato il predominio della borghesia sul proletariato . L’analisi di Marx si concentra per l'appunto sul rapporto tra capitale e forza‑lavoro (proletariato). Il capitalista altro non è che il proprietario dei mezzi di produzione, al quale il proletario è costretto a rivolgersi per poter lavorare e guadagnarsi i mezzi di sussistenza. Ma il salario che il proletario riceve è inferiore al valore del bene che egli produce. La differenza tra valore del bene prodotto e la paga percepita costituisce il plus‑valore, che va a incrementare continuamente il capitale, senza alcun beneficio per il proletario. Solo il comunismo, abbattendo con una rivoluzione la borghesia capitalistica, e affidando allo Stato la proprietà collettiva dei mezzi di produzione, rappresenterebbe il superamento dell’antagonismo tra uomo e uomo e dello sfruttamento dell’uomo sull'uomo.
Secondo Marx e i suoi discepoli, il capitalismo, spinto dalla sete di profitti sempre più alti, avrebbe esasperato la contrapposizione tra una minoranza di capitalisti (sempre più ricchi, ma in numero via via decrescente) e l'immenso esercito di proletari, sempre più numerosi e poveri. Da questa contrapposizione sarebbe infine scaturita la “società senza classi”, basata sul possesso collettivo dei mezzi di produzione (non solo le macchine ma anche il danaro) e dalla equa e universale distribuzione dei guadagni. Proprio perché “senza classi”, lo stadio finale dello sviluppo sociale avrebbe anche eliminato per sempre le ragioni delle guerre tra Stati: originate dalla corsa egoistica al controllo di risorse, materie prime, mercati e dalla conquista e sfruttamento dei popoli ritenuti meno civili e quindi “inferiori”.
Non è però chiaro se per Marx il passaggio dal capitalismo al comunismo dovesse necessariamente avvenire tramite una rivoluzione sanguinosa e lo sterminio fisico dei capitalisti o per consumazione ed esaurimento della borghesia. Di sicuro egli riteneva comunque che la borghesia e l'industrializzazione fossero dei passaggi obbligati verso il comunismo e costituissero degli stadi più avanzati rispetto a quello in cui l'agricoltura deteneva il primato e ai modelli offerti dalle civiltà extraeuropee.
Detto “scientifico” per distinguerlo dai “sogni” (o utopie) di altri socialisti, il marxismo non ha comunque trovato alcuna piena applicazione storica, sicché la sua scientificità rimane da provare.
I socialisti (o comunisti: a lungo i due termini furono sinonimi) si distinsero poi in rivoluzionari o massimalisti (convinti della necessità del “bagno di sangue”, della eliminazione dell’“avversario di classe”) e riformisti (sicuri che al superamento della divisione in classi contrapposte si potesse giungere gradualmente, senza aggiungere tragedia a tragedia).
Nel corso del 1848 l'intera Europa fu attraversata da un'ondata rivoluzionaria, scatenata anche dalla grave crisi economica che proprio in quegli anni aveva investito i Paesi europei. A causa di annate climaticamente pessime i prodotti agricoli scarseggiavano e il loro prezzo era salito a livelli insostenibili per i ceti popolari. I salari, già bassi, non bastavano più neppure per i generi di prima necessità e numerosi prodotti, non strettamente indispensabili, restavano invenduti. Molte industrie, non riuscendo a vendere le merci prodotte, furono costrette a chiudere determinando una grave disoccupazione. Salari bassi e disoccupazione andarono quindi a inasprire la generale insoddisfazione delle masse popolari a causa delle dure condizioni in cui ordinariamente vivevano, alimentando nuovi moti di protesta.
In Francia, contro il governo di Luigi Filippo, si era intanto formata una vasta opposizione: essa comprendeva sia i vecchi bonapartisti, desiderosi di una politica estera più energica, sia i democratici, cioè i repubblicani e i socialisti, che rivendicavano una serie di riforme: tra queste l'allargamento del diritto di voto, ancora ristretto all'alta borghesia bancaria, industriale e agraria.
Alle esigenze dei democratici ‑che erano la voce della piccola e media borghesia dei bottegai, degli artigiani e del proletariato industriale e riscuotevano ampio consenso dalle masse delle città industrializzate come Parigi, Lione, Marsiglia‑ era stato risposto con la repressione anziché con le riforme. Il governo cercò di impedire ogni forma di propaganda: vennero chiusi giornali e vietati i comizi e i banchetti pubblici, organizzati come pretesto per riunirsi e discutere dei problemi politici più gravi. Dopo un nuovo divieto governativo di tenere un banchetto per circa 20 000 persone, i democratici si ribellarono. L’insurrezione scoppiò a Parigi il 22 febbraio 1848, appoggiata da ampi strati della popolazione, e il re Luigi Filippo fu costretto a fuggire.
Venne così proclamata la Seconda Repubblica (la prima era stata quella del periodo della Rivoluzione francese) e si costituì un governo provvisorio, composto
dai rappresentanti delle forze che avevano partecipato alla rivoluzione: ne facevano parte, tra gli altri, lo scrittore Alphonse de Lamartine e Louis Blanc (v. cap. 29). Inizialmente vennero approvate alcune riforme favorevoli ai ceti popolari: la riduzione della giornata lavorativa a dieci ore in Parigi e a undici in provincia; il suffragio universale; la soppressione della pena di morte; l'abolizione della schiavitù nelle colonie; la creazione degli opifici nazionali, ispirati agli opifici sociali, per combattere la disoccupazione. Lo sviluppo industriale aveva infatti creato intorno alle città masse di disoccupati, cui si voleva garantire una sistemazione dignitosa. I socialisti, sostenuti dal proletariato, cercarono di dare al governo un orientamento rivoluzionario, che portasse a espropriare i ricchi per distribuirne i beni ai nullatenenti; ma il tentativo fallì. Nelle elezioni, che si tennero a suffragio universale maschile a fine aprile, prevalse infatti l'orientamento moderato, sostenuto dalla borghesia; i socialisti furono perciò esclusi dal governo.
Poco dopo la caduta di Luigi Filippo, la rivoluzione era dilagata intanto dalla Francia in tutta l'Europa centrale, ove scoppiarono una serie di dimostrazioni che ebbero come obiettivo riforme e costituzioni.
A Vienna il 13 marzo 1848 si verificarono i primi scontri con le truppe imperiali e ben presto il principe Metternich fu costretto a dimettersi dalla carica di cancelliere, mentre l'imperatore dovette concedere la Costituzione.
La rivolta si allargò subito ad altri territori dell’Impero e si caratterizzò proprio come insurrezione contro la dominazione asburgica: la popolazione di Budapest, incitata dal poeta Sándor Petófi e da Lájos Kossuth, insorse, ottenendo dal governo di Vienna il riconoscimento dell’autonomia ungherese; contemporaneamente i Boemi richiesero l'indipendenza; nel LombardoVeneto, come vedremo, le proteste antiasburgiche costringeranno gli Austriaci a fuggire.
Anche in Germania gli effetti dell’ondata rivoluzionaria si fecero subito sentire; il 17 marzo, in seguito a violente rivolte, il re di Prussia Federico Guglielmo IV fece tutte le concessioni possibili: parlamento elettivo per l'intera Confederazione germanica, libertà di stampa, esercito nazionale. Linsurrezione non pose solo il problema delle riforme, ma anche quello dell’unità nazionale; perciò, poco tempo dopo, si riunì a Francoforte un'assemblea per decidere le sorti della Germania. Ben presto, però, l'assemblea si divise su due soluzioni contrapposte: da una parte vi erano i cosiddetti “Grandi Tedeschi”, favorevoli all'unione tra tutte le genti di lingua tedesca, Austriaci compresi; dall'altra stavano i “Piccoli Tedeschi”, per i quali il futuro Stato tedesco avrebbe dovuto comprendere la Prussia ma escludere l'Austria e anzi, parallelamente alla nazione tedesca, avrebbero dovuto costituirsi in Stati indipendenti anche le nazioni ungherese, boema, polacca e slava. Questo avrebbe portato alla dissoluzione dell’Impero asburgico. Alla fine prevalse la tesi dei Piccoli Tedeschi. Ma quando essi offrirono la corona del nascente Stato tedesco al re di Prussia, egli la rifiutò: era per lui inconcepibile che il trono gli fosse offerto da un'assemblea popolare, nata da una rivoluzione. L’assemblea di Francoforte non aveva, però, alcun potere effettivo e, mentre essa discuteva, la controffensiva reazionaria ebbe tutto il tempo di riorganizzarsi.
In Italia, nel biennio precedente il 1848, il movimento liberale aveva fatto notevoli progressi grazie anche all'elezione di papa Pio IX; questi, con una politica di riforme moderate, aveva stimolato la concessione di alcune libertà da parte dei sovrani della Toscana e del Regno di Sardegna.
Diversa era però la situazione del Regno delle Due Sicilie, ove Ferdinando II aveva rifiutato di adeguarsi a questo cauto orientamento liberale. Ma da Malta, all'ombra della bandiera britannica, esuli meridionali e soprattutto siciliani avevano tenuto viva una trama insurrezionale, d'ispirazione mazziniana, con il contributo dei patrioti italiani disseminati in Grecia, a Costantinopoli e nell'Africa settentrionale. Così, a Palermo, il 12 gennaio 1848 scoppiò una vasta insurrezione popolare che chiedeva la Costituzione. Nel moto siciliano riemersero anche vecchie aspirazioni all'autonomia dell’isola: pertanto l'insurrezione perse buona parte della sua importanza dal punto di vista della causa nazionale. Ferdinando II, comunque, concesse una Costituzione, modellata su quella francese del 1830.
Dopo questa concessione in quasi tutti gli Stati italiani i liberali fecero pressioni per ottenere a loro volta la Costituzione. Anche in Toscana, quindi, nel Regno di Sardegna e nello Stato pontificio ai principi assoluti vennero strappate Costituzioni liberali. Carlo Alberto, l'antico amico dei cospiratori del 1821 e spietato repressore del 1833‑34, il 4 marzo 1848 promulgò lo Statuto. Si trattava di una Costituzione di ispirazione ancora conservatrice: infatti riservava al re il comando dell’esercito, il controllo sulla politica estera e sulla scelta dei ministri e la nomina dei membri del Senato, che avrebbe agito da freno nei confronti della Camera, eletta invece da un'esigua percentuale di cittadini. Lo Statuto albertino riconosceva tuttavia la libertà di stampa e di associazione, pur con molte restrizioni. Esso proclamava la religione cattolica culto ufficiale dello Stato, ma Carlo Alberto eliminò ogni discriminazione civile e politica ai danni delle minoranze religiose (Valdesi, Ebrei ecc.).
Nel frattempo, le notizie della fuga di Metternich e delle insurrezioni antiasburgiche, scoppiate nei territori dell’Impero, scatenarono un movimento di rivolta in numerosi centri del Lombardo‑Veneto: Venezia insorse (17 marzo) costringendo alla fuga gli Austriaci, i patrioti Niccolò Tommaseo e Daniele Manin furono liberati dal carcere e fu costituito un governo provvisorio repubblicano.
Il 18 marzo anche Milano insorse e, dopo cinque giornate di combattimenti (le Cinque Giornate), cacciò le truppe occupanti. Gli Asburgici, guidati dal maresciallo Radetzky, si rifugiarono nelle fortezze del Quadrilatero, il territorio delimitato dalle quattro città di Mantova, Legnago, Verona e Peschiera.
Contemporaneamente, anche nel Ducato di Parma e nel Ducato di Modena altre insurrezioni costringevano i sovrani alla fuga. La rivolta milanese era stata animata da un Consiglio di guerra presieduto dal federalista Carlo Cattaneo, ma il governo provvisorio, costituitosi dopo la fuga degli Austriaci, fu dominato dalla nobiltà liberale moderata, che temeva che un eccessivo spazio dato ai ceti popolari e alle loro rivendicazioni sociali potesse compromettere i privilegi dei ceti più ricchi. Per proseguire la lotta contro l'Austria, i moderati chiesero aiuto a Carlo Alberto: in cambio offrivano l’annessione della Lombardia al Regno di Sardegna.
Intanto anche all'interno del Regno di Sardegna i moderati premevano perché Carlo Alberto intervenisse contro l'Austria: essi avrebbero desiderato che la monarchia sabauda si facesse paladina del movimento di indipendenza e inoltre temevano una svolta radicale degli eventi, che poteva portare, per esempio, a una soluzione repubblicana. Sotto queste pressioni, e anche per paura che l'insurrezione potesse estendersi al suo stesso regno, il 23 marzo 1848 Carlo Alberto dichiarò guerra all'Austria: iniziava così la prima guerra d'indipendenza.
L’entusiasmo con cui i patrioti di tutta Italia accolsero la notizia costrinse i sovrani del Granducato di Toscana, del Regno delle Due Sicilie e lo stesso pontefice a inviare delle truppe in appoggio all'esercito sabaudo. Tuttavia, a parte i battaglioni di studenti toscani accorsi come volontari e che si sacrificarono nelle battaglie di Curtatone e di Montanara, presso Mantova, per permettere all'esercito piemontese di penetrare nel Quadrilatero, gli eserciti napoletano, pontificio e granducale non recarono un effettivo contributo alla guerra.
Infatti fermarono la loro avanzata a sud del Po, fuori del teatro di guerra.
L’atteggiamento di Carlo Alberto del resto non permetteva di condurre la guerra in modo deciso; egli non volle approfittare troppo del contributo dei volontari, temendo che il successo dell’iniziativa popolare avvantaggiasse i democratici; d'altra parte, i sovrani alleati non vedevano di buon occhio un'eccessiva affermazione del re sabaudo. Così, mentre dilagava l'entusiasmo popolare e molti si illudevano di vivere una svolta definitiva verso la libertà, il benessere sociale e l'unità, nessun governo della penisola volle rischiare troppo. Il 29 aprile, anzi, papa Pio IX si dissociò dalla guerra dichiarando che la Chiesa doveva avere solo il compito pastorale di mediatrice tra i contendenti; ritirò così le sue truppe, seguito poco dopo dagli altri sovrani.
L’armata piemontese, dopo successi iniziali a Pastrengo, Goito e Peschiera, subì a fine luglio una sconfitta a Custoza, ripiegò su Milano e quindi rientrò in Piemonte. Il governo preferii aprire trattative di pace. Il 9 agosto 1848, a Vigevano, in Lombardia, il generale piemontese Salasco firmava con Radetzky l'armistizio , secondo il quale la linea di demarcazione tra gli eserciti piemontese e austriaco veniva fissata nuovamente sul precedente confine tra Piemonte e Lombardia. Gli Austriaci rimanevano a Milano dov'erano già rientrati il 6 agosto; e nei ducati di Modena e Parma ritornavano i duchi fuggiti dinanzi all'avanzata dei Piemontesi e alle insurrezioni liberali.
Il fallimento della prima guerra d'indipendenza portò a una crisi del movimento liberale e in particolar modo dei moderati, che avevano creduto nell'iniziativa del re sabaudo. Parallelamente, i democratici e i repubblicani videro rafforzate le loro convinzioni e per questo motivo, all'indomani dell’armistizio, ripresero le agitazioni in quasi tutti gli Stati italiani.
Nel Granducato di Toscana, Leopoldo II fu costretto a fuggire e i democratici istituirono un governo provvisorio.
A Roma, nell'autunno del 1848, il papa aveva creato un governo laico di cui faceva parte, con l'incarico di ministro degli Interni e delle Finanze, il giurista Pellegrino Rossi, un conservatore illuminato già ambasciatore di Francia presso la Santa Sede, che cercò di attuare una politica di equilibrio tra reazionari e democratici. Egli tuttavia poco dopo venne assassinato, vittima di una congiura di democratici; i tumulti che ne seguirono costrinsero il papa a rifugiarsi a Gaeta e, il 9 febbraio 1849, un'Assemblea costituente proclamò la Repubblica, affidandone il governo a un triumvirato , composto da Giuseppe Mazzini, Aurelio Saffi e Carlo Armellini.
L’iniziativa democratica, tuttavia, era destinata a fallire; nel frattempo, infatti, l'ondata rivoluzionaria che aveva travolto l'Europa aveva ormai esaurito la sua forza propulsiva e le forze reazionarie stavano ovunque riprendendo il sopravvento.
In Italia il fallimento dei moti insurrezionali si era già manifestato nel Regno di Napoli, dove fin dai primi mesi del 1848 il re Ferdinando Il aveva abrogato la Costituzione, da lui stesso concessa pochissimi mesi prima.
A Parigi, uno dei primi provvedimenti del governo fu a sfavore del proletariato: vennero chiusi infatti gli opifici nazionali voluti dal socialista Louis Blanc; poiché, se garantivano un salario per tutti (v. pag. 327), costituivano però, in molti casi, un sussidio di povertà, cui lo Stato provvedeva tramite l'imposizione di tasse, naturalmente mal accettate dalla borghesia e dai contadini. Gli operai parigini insorsero di fronte al provvedimento, ma la protesta venne repressa a cannonate.
La Seconda Repubblica assumeva così una chiara tendenza conservatrice. Furono indette nuove votazioni, nelle quali venne eletto presidente a maggioranza Luigi Napoleone Bonaparte, nipote del defunto imperatore di Francia. Per monarchici, repubblicani conservatori, cattolici e persino socialisti moderati egli rappresentava l'uomo “forte”, capace di porre finalmente un freno alla minaccia e agli eccessi popolari. Con lui la Francia imboccò la via della stabilizzazione interna. Cancellate via via le tracce più significative delle conquiste del 1848 con l'abolizione del suffragio universale e della libertà di associazione, il 2 dicembre 1851 Luigi Napoleone ottenne la carica presidenziale per dieci anni; ma esattamente un anno dopo, con un colpo di Stato trasformò la Seconda Repubblica in un Secondo Impero, assumendo il nome di Napoleone III.
In Austria nel dicembre del 1848 l'imperatore Ferdinando I, incapace di governare lo Stato, abdicò e venne sostituito dal nipote, il diciottenne Francesco Giuseppe. Questi dimostrò subito una ferma determinazione nel ripristinare in tutto l'Impero una politica assolutista. Già nel giugno del 1848 l'esercito asburgico aveva domato nel sangue l'insurrezione per l'indipendenza a Praga, in Boemia, mentre in Italia, poco dopo, era riuscito a sconfiggere, come si è visto nel par. 30.9, l'esercito piemontese. Nel settembre dello stesso anno gli Austriaci mossero contro l'Ungheria. Consapevole di non poter schiacciare da solo la rivoluzione, il governo austriaco chiese l'intervento dell’esercito russo: lo zar Nicola I, custode dei princìpi reazionari, intervenne anche per il timore che la rivolta dilagasse in Polonia. Dopo mesi di sanguinose battaglie e feroci eccidi della popolazione, nell'agosto del 1849 l'Ungheria si arrese e i principali capi militari furono uccisi. Alcuni fuggirono in Italia, dove si sarebbero battuti a fianco dei democratici nella seconda guerra d'indipendenza e nell'impresa dei Mille (v. cap. seg.).
Intanto, nel marzo del 1849, il governo di Torino riprese le ostilità contro gli Asburgo. La guerra fu brevissima, poiché l'esercito sabaudo fu subito sconfitto presso Novara. Carlo Alberto abdicò allora a favore del figlio Vittorio Emanuele II, il quale firmò a Vignale un altro armistizio, che prevedeva il pagamento di una forte indennità ai vincitori. Egli tuttavia poté conservare in vigore lo Statuto e questo assicurò alla monarchia l'appoggio dei liberali, che costituivano la maggioranza dei dirigenti del Regno sabaudo. Lo stesso giorno della sconfitta piemontese a Novara, Brescia insorse e per dieci giorni (23 marzo‑1° aprile) resistette alle truppe austriache; poi anche questa insurrezione fu soffocata. Intanto nel Granducato di Toscana gli Austriaci appoggiarono il ritorno di Leopoldo II Una nuova restaurazione iniziava così in Italia, e poneva fine alle esperienze dei governi liberali che avevano preso il posto dei sovrani cacciati dalle insurrezioni popolari. Dopo la Toscana fu la volta di Roma. Pio IX, infatti, dal suo esilio di Gaeta, aveva chiesto aiuto a tutte le potenze cattoliche, e al suo appello avevano risposto il re di Napoli, gli Austriaci, gli Spagnoli e soprattutto la Francia di Luigi Napoleone, che voleva così garantirsi l'appoggio dei moderati e del clero francesi. In difesa della Repubblica romana accorsero volontari da ogni parte d'Italia, tra i quali Giuseppe Garibaldi e l'ufficiale napoletano Carlo Pisacane. Dopo un'eroica difesa, le truppe di volontari furono però sconfitte e a Roma fu restaurato il governo pontificio.
Caduta Roma, con una colonna di uomini, Garibaldi puntò su Venezia, che ancora resisteva. Ma, braccato dalle truppe asburgiche, Garibaldi si rifugiò nella pineta di Ravenna, dove a causa degli stenti, mori la moglie Anita. Riuscì poi a raggiungere la Liguria, ma fu costretto prudentemente all'esilio dal Regno di Sardegna. A Venezia intanto, assediata dagli Austriaci, volontari accorsi da tutta Italia combattevano strenuamente in difesa della Repubblica, ma il 22 agosto 1849, vinta dalla fame e da un'epidemia di colera, la città fu costretta ad arrendersi.
L'ondata rivoluzionaria del 1848 risultava così sconfitta; ma non tutto andò perduto. Si era infatti affermata in molti Paesi quella borghesia moderata che era riuscita a imporre ai sovrani assoluti il principio monarchico‑costituzionale. In Italia, malgrado i fallimenti, due anni di guerra avevano sortito uno Stato costituzionale, il Regno di Sardegna, che aveva osato battersi contro l'Impero asburgico. Il Piemonte divenne quindi il rifugio e la base operativa degli esuli degli altri Stati italiani: qui essi agivano ormai quasi alla luce del sole per l'unità e l'indipendenza della nazione. Molti di loro vennero addirittura eletti deputati al Parlamento piemontese, che divenne crogiuolo di unificazione della dirigenza nazionale.
Il biennio di rivoluzioni e controrivoluzioni mise anche in evidenza che la storia europea non procedeva più in una direzione unica: al programma di indipendenza nazionale ora si affiancava quello delle riforme sociali. Però, mentre la lotta per l'indipendenza nazionale era viva su quasi tutto il continente, le rivendicazioni sociali riguardavano soprattutto i Paesi economicamente e socialmente più avanzati: la Francia, alcune zone della Germania renana e, in misura di gran lunga minore, l'Italia del Nord. Tali rivendicazioni, tuttavia poterono essere isolate e soffocate. I governi d'ispirazione liberale sopravvissuti alla controrivoluzione, infatti, si preoccupavano che in Europa fosse ripristinata una certa tranquillità politica: per consolidarsi avevano bisogno di un periodo di pace interna e internazionale.
Dagli eventi italiani del 1848‑49 era emerso chiaramente che il Regno di Sardegna si candidava a guidare il processo di unificazione italiano. Negli ultimi anni questo Regno aveva realizzato vistosi progressi: era stata costruita una rete ferroviaria che da sola superava l'insieme delle strade ferrate del resto della penisola; erano stati migliorati i porti mercantili di Genova, Savona, Oneglia e quello militare di La Spezia. Per facilitare gli scambi commerciali con la Francia, la Svizzera, i Ducati padani e la Toscana era stata ampliata e migliorata la rete stradale; inoltre erano stati costruiti nuovi canali per l'irrigazione ed erano state bonificate vaste zone paludose. Mentre venivano incoraggiati settori tradizionali, come la produzione di cereali e di vino e le manifatture di seta e di lana, furono introdotte o potenziate altre industrie, quali la produzione di tessuti di cotone e la concia delle pelli, in massima parte importate dall'America meridionale. Venne poi avviata anche la produzione di concimi chimici e furono favorite l'industria siderurgica e metallurgica, fondamentali per le ferrovie, la cantieristica e la produzione di armi.
Allo sviluppo economico del Piemonte diede un importante contributo uno statista destinato ad avere un ruolo fondamentale anche nella formazione dell’unità italiana: Camillo Cavour.
Camillo Benso, conte di Cavour, aveva frequentato l'Accademia militare, ma presto si era dedicato agli studi di economia e di finanza, ai viaggi di istruzione e agli affari. Aveva poi partecipato all'Associazione agraria di Torino, promotrice di studi finalizzati ad attuare riforme socio‑economiche e istituire casse di risparmio, banche private, e diffondere ferrovie, linee di navigazione e industrie. Nel febbraio 1848 Cavour fu tra coloro che sostennero la necessità dello Statuto, e presto anzi egli chiese l'elettività di entrambe le Camere, poiché il Senato, di nomina regia e vitalizio , a suo giudizio era destinato a intralciare la libertà delle Camere riducendo la rappresentatività del Parlamento. Con Cesare Balbo e altri liberali moderati, Cavour fondò il giornale “Il Risorgimento”: da quelle pagine egli contrastò apertamente i democratici accusandoli di voler introdurre provvedimenti demagogici, volti cioè ad accontentare il popolo con benefici immediati, ma a lungo andare dannosi per l'economia dello Stato. Egli accusò inoltre i democratici di compromettere l'esistenza stessa del regno proponendo una politica estera avventurosa, ispirata alla guerra contro gli Asburgo: impresa, questa, che il Piemonte non sarebbe stato in grado di affrontare vittoriosamente con le sue sole forze.
Uno dei principali problemi della vita pubblica del Regno di Sardegna erano le relazioni tra lo Stato e la Chiesa cattolica. Questa si avvaleva di antichi privilegi, che riservavano a un tribunale separato (il cosiddetto “foro ecclesiastico”) il giudizio sui sacerdoti colpevoli sia di mancanze verso la Chiesa sia di reati comuni, e ai luoghi consacrati la possibilità di dare asilo a un perseguitato, qualsiasi reato avesse commesso. Per divenire uno Stato moderno, come la Gran Bretagna, la Francia e il Belgio, il Piemonte doveva laicizzare i suoi ordinamenti, garantendo l'uguaglianza di tutti i cittadini dinanzi alla legge. Per iniziativa del ministro Giuseppe Siccardi, nel 1850 furono perciò aboliti il foro ecclesiastico e il diritto di asilo. Questo provvedimento, che eliminava privilegi medievali, suscitò vivaci proteste da parte del clero piemontese e della Santa Sede.
Cavour, eletto in Parlamento nel 1848, fu uno dei più accesi sostenitori della legge Siccardi, convinto che solo attraverso una politica di riforme si sarebbero gradualmente risolti i problemi italiani. In seguito egli entrò nel governo presieduto dal liberale Massimo d'Azeglio in qualità di ministro dell’Agricoltura (1850) e poi delle Finanze (1851): tra i provvedimenti da lui presi in questo periodo vi furono l'introduzione di una serie di riforme a favore dell’economia dello Stato (molte delle quali tendenti a favorire gli scambi commerciali tra il Piemonte e gli altri Paesi europei, secondo il principio del liberismo economico, di cui Cavour era sostenitore) e la realizzazione di importanti opere pubbliche. Per attuare il suo programma, Cavour doveva contare sull'appoggio del Parlamento, allora formato da una destra, composta da moderati, conservatori e reazionari (estrema destra), una sinistra, formata da liberali, repubblicani e rivoluzionari (estrema sinistra) e un centro, rappresentato da parlamentari che non si riconoscevano né nella destra né nella sinistra. Cavour, convinto che un governo efficiente non dovesse lasciare nessun uomo e nessuna idea valida all'opposizione, realizzò un'intesa tra il centro e la sinistra che gli assicurò l'appoggio dei democratici. Fu questo il cosiddetto “connubio”, che portò d'Azeglio, capo del governo appoggiato da una maggioranza di centro‑destra, a dimettersi. Fu così che nel 1852 Cavour si trovò alla guida del governo piemontese. In tale veste, egli prosegui la laicizzazione dello Stato: abolì gli ordini religiosi contemplativi, ossia quelli che non svolgevano attività di interesse sociale, quali per esempio istruzione, assistenza ai malati, agli anziani, agli orfani, e decise l'espropriazione e la vendita dei loro immensi beni immobiliari, come conventi, palazzi, terreni. Alcuni di essi vennero acquisiti dallo Stato e adibiti a scuole, uffici pubblici, caserme; altri vennero venduti e il ricavato servì a coprire le ingenti spese sostenute per opere di pubblica utilità, quali ferrovie, porti, fortificazioni, strade, canali, indispensabili per la modernizzazione e lo sviluppo economico del Regno di Sardegna.
Oltre che alla modernizzazione del Regno sabaudo, Cavour puntava al raggiungimento dell’unificazione nazionale e all'affermazione del Piemonte come Stato‑guida dell’unificazione stessa.
Per questo scopo, egli era convinto che occorresse anche l'appoggio di una potenza straniera e, prima ancora, che la questione italiana dovesse essere portata a conoscenza di tutte le potenze europee. L’occasione che si presentò a Cavour per realizzare tali obiettivi fu la guerra di Crimea, nel mar Nero, scoppiata nell'ottobre 1853 tra Russia e Impero ottomano in seguito a un tentativo di espansione russa a sud, verso la Turchia, con l'intento di ottenere uno sbocco sul Mediterraneo. Nel marzo 1854 Francia e Gran Bretagna scesero in guerra a fianco dell’Impero ottomano, per impedire ogni rafforzamento ed espansionismo della Russia. L’anno successivo Cavour ottenne che anche il Regno sabaudo entrasse in guerra a fianco dell’alleanza contro la Russia.
Il conflitto si concluse con la sconfitta della Russia, sicché il Regno di Sardegna poté partecipare alle trattative di pace come vincitore: Cavour ne approfittò per realizzare i suoi progetti.
Nella guerra di Crimea l'Impero asburgico per la prima volta era rimasto in posizione marginale. A mettere in luce l'isolamento politico di Vienna fu soprattutto la brillante parte avuta da Cavour sia nel corso della guerra sia al tavolo della pace, nel Congresso di Parigi del febbraio‑marzo 1856. In questa occasione Cavour, rappresentante di uno Stato che aveva contribuito alla vittoria, poté richiamare l'attenzione delle potenze europee, Francia e Gran Bretagna in particolare, sulla situazione italiana, sottolineando che la suddivisione della penisola in tanti staterelli retti da governi reazionari era causa di instabilità e di continuo pericolo per la pace europea. Il suo convincente discorso indusse Francia e Gran Bretagna a un atteggiamento di tolleranza per la questione italiana, e pose le basi per una prossima alleanza con la Francia. Quest'ultima, peraltro, aspirava a emarginare l'Austria dall'Italia per estendere la sua influenza a sud, appunto sulla Penisola italiana.
Dopo la spedizione in Crimea, Cavour poté contare su alleati decisi. Sul piano diplomatico internazionale ebbe l'appoggio dell’imperatore dei Francesi, Napoleone III; in Italia trovò sostenitori nella cosiddetta “Società Nazionale”, un'associazione politica che sosteneva l'alleanza tra il movimento di unificazione nazionale e la monarchia costituzionale sabauda. Organizzatasi pubblicamente nel Regno di Sardegna, con ramificazioni cospirative nel resto della penisola, la Società Nazionale ebbe come vicepresidente Giuseppe Garibaldi, che le assicurò l'appoggio dei democratici e di molti ex mazziniani, pronti a rinunciare all'immediata instaurazione della repubblica in cambio dell’impegno sabaudo per l'unificazione nazionale.
Nel frattempo i mazziniani, che avevano riorganizzato una fitta rete di propaganda e di cospirazioni clandestine, avevano subìto nuovi insuccessi: nel dicembre 1852, con il processo di Mantova, numerosi patrioti erano stati condannati a morte; nel febbraio 1853 era fallito a Milano un tentativo insurrezionale organizzato con largo consenso di artigiani e popolari.
Ogni volta Mazzini aveva risposto con fede rinnovata, ritrovando intorno a sé giovani entusiasti del suo programma e pronti a sacrificarsi. Lo stesso avvenne nel 1857 quando fu organizzata una spedizione di circa trecento volontari, guidata dal mazziniano Carlo Pisacane, con l'obiettivo di far insorgere il Mezzogiorno. Pisacane si era sempre dichiarato contrario a imprese arrischiate e fondate sul solo volontariato, e aveva insistito sulla necessità di organizzare dall'interno l'insurrezione, propugnando rivendicazioni di riscatto sociale. Priva di adeguata preparazione, anche la sua impresa fallì tragicamente presso Sapri, in Campania. I contadini massacrarono i patrioti, presentati dai Borboni come briganti, e lo stesso Pisacane, ferito, si tolse la vita. Nel 1858 Mazzini era quasi un isolato: le sue iniziative erano fallite al Nord, dove era venuto meno l'appoggio della borghesia riformatrice, e al Sud, dove era mancato l'aiuto delle masse contadine.
Approfittando del fatto che Napoleone III, desiderando estendere la sua influenza soprattutto nell'Europa meridionale a scapito dei territori dell’Impero asburgico, si faceva sostenitore delle libertà nazionali, Cavour si adoperò per ottenere in tempi brevi un importante risultato. In un incontro segreto avvenuto nel luglio del 1858 nella stazione climatica di Plombières, nei Vosgi, egli stipulò con l'imperatore francese un patto dinastico e militare destinato a mutare in breve tempo la storia d'Italia: di fronte a un'aggressione asburgica la Francia sarebbe accorsa in aiuto del Regno di Sardegna, assicurandogli, in caso di vittoria, il Lombardo‑Veneto e l'Emilia; in cambio essa avrebbe ottenuto dai Piemontesi Nizza e la Savoia. Secondo il costume tradizionale, il patto fu suggellato dalle nozze tra il cugino dell’imperatore, Gerolamo Bonaparte, e Clotilde, figlia del re sabaudo. Nel Regno di Sardegna i mesi successivi all'incontro di Plombières trascorsero tra febbrili preparativi di guerra solo parzialmente mascherati: si doveva infatti fare in modo che fosse l'Austria a dichiarare guerra al Piemonte. U Impero asburgico alla fine cedette alle provocazioni: Vienna intimò a Torino lo scioglimento dei reparti armati in corso di organizzazione. Al rifiuto del Piemonte, l'Austria dichiarò la guerra, sicché, in base al trattato di Plombières, giunse immediatamente l'aiuto militare francese al Regno sabaudo.
La guerra del 1859 (seconda guerra d'indipendenza) fu decisiva per la storia d'Italia. Gli eserciti francese e sabaudo sconfissero gli Asburgo a Montebello (20 maggio), a Palestro (30 maggio), a Magenta (4 giugno) e, in via definitiva, a Solferino e San Martino a sud del Garda (24 giugno), ove le perdite degli eserciti contrapposti giunsero a 25000 uomini.
Alla testa di un corpo di volontari, i Cacciatori delle Alpi, anche Garibaldi riportò brillanti successi a Varese e a San Fermo (26 e 27 maggio). Sull'onda delle vittorie franco‑piemontesi, che avevano ormai portato alla liberazione della Lombardia, erano insorte anche Parma, Modena, Bologna e Firenze, che si erano date governi provvisori, dichiarandosi favorevoli alla monarchia costituzionale di Vittorio Emanuele II.
Ma mentre sembrava vicina la liberazione del Veneto, la Francia e l'Austria firmarono un armistizio, l’11luglio 1859, a Villafranca. Napoleone III era giunto all'improvviso a questa decisione per diverse ragioni: innanzitutto aveva capito che difficilmente avrebbe potuto realizzare in Italia una sorta di supremazia francese, come invece inizialmente sperava; in secondo luogo temeva un attacco dalla Prussia la quale, in risposta all'impegno militare francese in Italia, aveva mobilitato le sue truppe, minacciando di inviarle al confine con la Francia. I cattolici francesi, infine, dei quali doveva tener conto, temevano che gli avvenimenti rimettessero in discussione lo Stato pontificio.
L’armistizio di Villafranca fu accettato da Vittorio Emanuele II, ma scontentò gravemente Cavour, che si dimise dalla carica di presidente del Consiglio, e Garibaldi, che prese la via dell’Italia centrale.
Vittorio Emanuele II sapeva bene che, se avesse continuato la guerra da solo, sarebbe stato sconfitto; quindi si accontentò della Lombardia, come stabilito anche dall'armistizio. Ma, sempre nell'armistizio di Villafranca era previsto che, nei ducati insorti dell’Italia centrale, rientrassero i legittimi sovrani. Le loro popolazioni, tuttavia, si erano fermamente opposte a questa decisione e caldeggiavano l'annessione al Regno sabaudo. Intanto la Gran Bretagna premeva per una soluzione unitaria del problema italiano: se un piccolo Stato, come quello sabaudo, era destinato a diventare facilmente soggetto alla Francia, lo stesso non sarebbe accaduto a un grande Stato comprendente tutta l'Italia. Cavour allora, ripresa la guida del governo e forte dell’appoggio diplomatico inglese, offri a Napoleone III Nizza e la Savoia, che erano rimaste al Regno sabaudo, dato che la Francia aveva interrotto la guerra. In cambio l'imperatore francese avrebbe dovuto dare il suo consenso all'annessione delle province dell’Italia centrale. L'imperatore accettò e, nel marzo 1860, con l'avallo di plebisciti, Emilia, Romagna e Toscana scelsero per sovrano Vittorio Emanuele II, “re costituzionale”.
Dopo il successo diplomatico di Cavour, la politica del Regno sabaudo sembrava aver adottato una certa prudenza riguardo al raggiungimento dell’obiettivo dell’unificazione nazionale, per timore di compromettere i delicati rapporti internazionali. Per contro, i democratici e i mazziniani sostenevano che in questa fase fossero più che mai necessarie azioni di forza, da realizzare stimolando una maggiore partecipazione di popolo. Nella primavera del 1860, dopo una lunga preparazione, insorsero in Sicilia nuclei liberaldemocratici e repubblicani: sembrava giunto il momento di intervenire per la liberazione del Meridione; da qui, del resto, giungevano appelli a Giuseppe Garibaldi perché prendesse la guida dell’insurrezione, che stava generalizzandosi.
Con l'appoggio tacito dello Stato sabaudo (che non voleva compromettersi ufficialmente con un'iniziativa di forza), Garibaldi arruolò un migliaio di volontari e con essi si imbarcò a Quarto, presso Genova, il 5 maggio 1860. Dopo sei giorni, la spedizione dei Mille sbarcò a Marsala, in Sicilia. Garibaldi assunse il potere con il programma di raccogliere un esercito attorno ai suoi volontari, abbattere la monarchia borbonica e, quindi, invadere lo Stato pontificio. Il 15 maggio egli batté i Borbonici a Calatafimi, il 27 liberò Palermo insediandovi un governo provvisorio. Dopo circa due mesi di combattimenti, durante i quali numerosi contadini siciliani si arruolarono nell'esercito di Garibaldi, tutta la Sicilia fu liberata. Varcato lo stretto di Messina, il 19 agosto, Garibaldi conquistò rapidamente gran parte del Meridione, e il 7 settembre, dopo che il re borbonico era fuggito a Gaeta, entrò in Napoli, accolto da un'entusiastica manifestazione popolare.
Intanto i successi di Garibaldi erano visti con preoccupazione dal governo sabaudo: infatti, si temeva da un lato che l'esercito garibaldino proseguisse, nelle conquiste, fino allo Stato pontificio, scatenando l'opposizione di molte potenze europee; dall'altro che le sue vittorie rafforzassero democratici e repubblicani portando alla costituzione di repubbliche. Si decise quindi che le truppe sabaude sarebbero andate incontro a Garibaldi per fermarne l'avanzata. Ottenuto il consenso di Napoleone III, Vittorio Emanuele scese alla testa di un esercito verso il Mezzogiorno, il 18 settembre sconfisse a Castelfidardo le truppe del papa che cercavano di sbarrargli la strada, ed entrò nei territori del Regno di Napoli. Agli inizi di ottobre Garibaldi, con la battaglia del Volturno, sconfisse definitivamente le truppe borboniche e il 26 dello stesso mese, incontratosi presso Teano con Vittorio Emanuele II, si rassegnò a consegnargli il Mezzogiorno liberato. I plebisciti del 21 ottobre nel Regno delle Due Sicilie e del 4‑5 novembre 1860 in Umbria e nelle Marche, già appartenenti al lo Stato pontificio, sancirono l'annessione di quelle regioni al Regno sabaudo. Gli eventi del 1859‑60 furono dunque fondamentali. Gli Italiani erano infatti sottoposti a dominazioni straniere dal lontano 1494, quando Carlo VIII di Francia, invadendo la penisola, aveva dato inizio alle guerre di egemonia.
Il 24 marzo 1861 il nuovo Parlamento proclamò la costituzione del Regno d'Italia, guidato dal re costituzionale Vittorio Emanuele II. All'unità completa mancavano tuttavia ancora Roma, sotto il controllo del papa, e il Veneto, che restava all'Austria. Il 6 giugno dello stesso anno, poco dopo aver realizzato il suo grande progetto, morì improvvisamente, a soli 51 anni, il primo ministro Cavour.
Dopo l'incontro di Teano, una parte della sinistra e soprattutto i mazziniani accusarono Garibaldi di aver regalato alla monarchia il frutto del sacrificio di due generazioni di patrioti. In realtà l'unità d'Italia venne realizzata anche perché le grandi potenze liberali europee l'avevano permesso: stavano però attente che essa si realizzasse con uno Stato retto da una monarchia costituzionale e non pericoloso per la pace europea. La Gran Bretagna favori l'unificazione d'Italia nel timore che Napoleone III imponesse la costituzione di un regno dell’Italia centrale o meridionale affidato a un francese, allargando quindi la sua sfera d'influenza nella penisola. A loro volta la Russia e la Prussia, benché legittimiste, stimarono preferibile un regno solido e unitario alle continue insurrezioni repubblicane. La Francia, infine, era contraria a che l'unificazione italiana si traducesse nell'avvento di una repubblica. In varia misura le grandi potenze erano quindi favorevoli a una soluzione della questione italiana, a patto però che non fosse l'inizio di una rivoluzione europea e contribuisse, anzi, alla stabilità generale. Qualsiasi altra conclusione avrebbe esposto l'Italia a iniziative militari straniere. Garibaldi ne era consapevole non meno di Vittorio Emanuele II. Il comportamento dell’eroe ‑che lasciò Napoli e si isolò nella sua casa di Caprera.
Nel settembre 1862 il re di Prussia Guglielino I, salito al trono l'anno precedente, nominò cancelliere Otto von Bismarck, esponente assai rappresentativo della potente classe dei grandi proprietari terrieri, gli Junker, legati a tradizioni reazionarie e militaristiche. Abile diplomatico, Bismarck sosteneva che la guerra fosse “la continuazione della diplomazia” e quindi era fortemente deciso ad assicurare alla Prussia un solido esercito. Quando perciò il Parlamento respinse la richiesta di nuove imposte per sopperire all'aumento delle spese militari, Bismarck ordinò ugualmente la riscossione delle imposte, e nessuno osò opporsi. Convinto che “i grandi problemi del giorno non saranno decisi da discorsi ma dal ferro e dal sangue”, nel 1864 Bismarck rivendicò i ducati di Schleswig, Holstein e Lauenburg, fondamentali per il controllo del Baltico. Abitati da popolazioni tedesche, dal 1852 essi erano stati assegnati alla Danimarca. Assicuratasi l'alleanza dell’Impero asburgico, Bismarck ordinò di annettere i ducati; a questa clamorosa violazione del diritto internazionale nessuno si oppose. Questo provò che la Prussia aveva preso la guida del l'unificazione dei Tedeschi.
Nel 1866 la Prussia si rivolse contro l'Austria per affermare la sua supremazia sul mondo germanico. Prima di passare alla guerra contro l'Austria, Bismarck si recò in visita da Napoleone III, assicurandosene la neutralità , e stipulò, nella primavera del 1866, un'alleanza con il Regno d'Italia, cui veniva garantita l'annessione del Veneto in caso di vittoria sull'Austria. Il governo italiano non si lasciò sfuggire l'occasione di riprendere il programma di unificazione nazionale; malgrado la scarsa preparazione bellica e le pressioni della Francia, preoccupata per un'eventuale vittoria prussiana, nel giugno dello stesso anno l'Italia entrò in guerra contro l'Austria a fianco della Prussia.
L’esercito prussiano dimostrò una volta di più la sua straordinaria efficienza militare a Sadowa, in Boemia, dove sbaragliò l'esercito asburgico. Con la pace di Praga, stipulata nell'agosto del 1866, venne creata una Confederazione tedesca settentrionale, sottoposta al controllo della Prussia. Si gettavano così le basi per l'unificazione tedesca sotto l'egemonia prussiana.
La sconfitta dell’Impero asburgico portò le popolazioni sottomesse, come gli Slavi e i Boemi, a intensificare le richieste di autonomia. Riuscirono nell'intento gli Ungheresi, che rappresentavano la più forte minoranza etnica dell’Impero; a essi l'Austria fece importanti concessioni: l'Ungheria ottenne un proprio governo e un proprio Parlamento, pur continuando a far parte dell’Impero asburgico, avendo in comune con l'Austria questioni militari e politica estera. L'Impero asburgico si chiamò così Impero austro‑ungarico: perso il suo antico prestigio, esso tenderà ormai a diventare una potenza orientale, spinta a espandersi verso i territori dell’arretrato Impero ottomano.
Sul fronte italiano la guerra, che fu detta “terza guerra d'indipendenza”, ebbe una sorte diversa. Gli Italiani furono sconfitti a Custoza e, in mare, a Lissa. Solo Garibaldi ottenne un brillante successo a Bezzecca, che gli apri la via verso Trento. Nello stesso tempo, però, dopo la vittoria prussiana di Sadowa, fu siglato un armistizio tra Austria e Prussia, che costringeva l'Italia a interrompere le ostilità; fu così stipulato l'armistizio di Cormons tra Italia e Austria (12 agosto) e il governo italiano ordinò a Garibaldi di fermarsi: questi, rispose con un breve quanto significativo telegramma: “Obbedisco”. Con la pace di Vienna del 3 ottobre 1866, l'Impero asburgico cedette il Veneto a Napoleone III, che a sua volta ne fece “omaggio” all'Italia.
Se l'annessione del Veneto fu un altro importante passo verso l'unificazione completa dell’Italia, restava tuttavia ancora aperto il problema di Roma, che era rimasta sotto il dominio pontificio. Non solo i repubblicani e i democratici, ma anche tutti i liberali e molti cattolici, come per esempio lo scrittore Alessandro Manzoni, sostenevano la necessità della sua annessione al Regno d'Italia, e quindi dell’eliminazione dello Stato pontificio. Non si trattava solo di un problema di espansione territoriale del nuovo Regno d'Italia: Roma costituiva il simbolo della storia italiana, dell’antica grandezza, ed era quindi un obiettivo ritenuto necessario dal governo.
Il rifiuto pontificio di dare una soluzione politica alla questione romana esasperò la sinistra democratica, in modo particolare dopo la drammatica conclusione del primo tentativo garibaldino di difendere la Repubblica romana. Raccolto un piccolo esercito di volontari in Sicilia e passato sul continente con il programma “Roma o morte”, il 29 agosto 1862 Garibaldi era stato affrontato sull'Aspromonte dall'esercito regolare inviato dal governo italiano; ferito in uno scontro a fuoco, era poi stato arrestato e imprigionato. 1 democratici, ormai apertamente anticlericali, avevano addebitato ai cattolici quel gravissimo episodio e, vista l'opposizione di Pio IX a una qualsiasi trattativa, insistevano per risolvere la questione di Roma con una azione militare.
In effetti la possibilità che la questione romana si risolvesse con accordi diplomatici era molto remota: che tra Pio IX e lo Stato italiano ci fosse una frattura insanabile fu dimostrato, fra l'altro, dalla pubblicazione, nel 1864, dell’enciclica papale Quanta Cura e del Sillabo, nei quali venivano condannati i princìpi liberali e si riaffermava solennemente la dottrina della supremazia della Chiesa sullo Stato.
Anche una soluzione militare del problema presentava però delle difficoltà: lo Stato pontificio, infatti, era protetto da una significativa presenza di navi militari francesi stanziate a Civitavecchia: Napoleone III, per mantenere il potere, aveva bisogno dell’appoggio dei cattolici francesi e per questo aveva deciso di tutelare gli interessi del papa. Nel 1864 si stipulò pertanto, tra Italia e Francia, un accordo, la Convenzione di settembre, per regolare la questione di Roma: il governo francese si impegnava a ritirare entro due anni le proprie truppe da Roma, e quello italiano, dal canto suo, si impegnava a non attaccare e anzi a proteggere il territorio pontificio. La capitale del nuovo Regno veniva trasferita da Torino a Firenze, affinché il governo italiano potesse meglio vigilare sull'incolumità dello Stato pontificio.
Il governo italiano non era dunque in grado di proseguire il programma di unificazione nazionale occupando Roma; esso infatti non poteva scontrarsi con Napoleone III, perché rischiava di rimanere isolato e di esporsi alle rappresaglie dell’Austria, che ne avrebbe approfittato per recuperare i territori perduti nel 18591866. Al tempo stesso, però, sentiva la necessità di venire incontro, almeno in parte, alle rivendicazioni della sinistra democratica, che minacciava continuamente l'insurrezione repubblicana, se il re non avesse ripreso l'iniziativa per l'unità d'Italia.
Sulla questione romana, dunque, il governo del Regno d'Italia era in serie difficoltà.
Una nuova impresa garibaldina per la conquista di Roma fu tentata nel 1867, ma fallì: i volontari di Garibaldi furono sconfitti a Mentana da un corpo di mercenari francesi, mentre i cospiratori che all'interno della città di Roma avevano tentato di dare avvio a un'insurrezione vennero giustiziati.
Dopo l'intervento a favore del pontefice, i ministri francesi esaltarono le “meraviglie” compiute dai nuovi fucili a ripetizione francesi contro i garibaldini a Mentana e affermarono con enfasi che mai gli Italiani avrebbero messo piede a Roma. Tre anni più tardi, invece, nel 1870, Napoleone venne sconfitto, come vedremo nei paragrafi successivi, dalla Prussia, e l'Impero francese crollò; caddero così le riserve di Vittorio Emanuele, che poté decidere di annettere Roma. Ma poiché Pio IX rifiutò nuovamente di cercare una soluzione diplomatica, che evitasse l'impiego delle armi, il governo italiano ordinò l'invasione. Il 20 settembre 1870, aperta a colpi di cannone una breccia a Porta Pia, le truppe italiane entrarono in Roma. Poco dopo, un plebiscito confermò l'annessione del Lazio al Regno d'Italia. L'anno successivo governo, Parlamento e uffici ministeriali furono trasferiti a Roma, che diventò la nuova capitale d'Italia.
Per rispettare l'impegno assunto con le potenze europee e garantire al papa la libertà di esercitare il proprio potere spirituale (dato che quello temporale era ormai finito), il governo italiano elaborò la cosiddetta “legge delle guarentigie” (“garanzie”). Essa assicurava al pontefice l'inviolabilità, l'immunità dei propri luoghi di residenza (Vaticano, Laterano e Castel Gandolfo), il diritto di ricevere ambasciatori e accreditarne dei propri presso le potenze straniere, la non interferenza negli affari della Chiesa e un indennizzo per i territori perduti.
La sconfitta di Napoleone III, che permise l'annessione di Roma al Regno d'Italia, fu una conseguenza del conflitto franco‑prussiano del 1870.
Bismarck vedeva nella Francia un ostacolo alla realizzazione del suo progetto di rafforzamento della Prussia e di costituzione di un forte Stato nazionale germanico sotto l'egemonia prussiana; in particolare, egli mirava a escludere l'influenza francese sulla regione renana. Il cancelliere tedesco aspettava perciò l'occasione propizia per regolare finalmente i conti con la Francia, e un incidente diplomatico da lui provocato gli offri tale opportunità.
A dichiarare la guerra, il 19 luglio 1870, fu Napoleone III, sicuro di una facile vittoria. Ma la realtà fu ben diversa: il suo esercito, disorganizzato e male armato, fu rapidamente sconfitto dalla Prussia a Sedan, il 2 settembre 1870. L’imperatore francese, arresosi, riparò in Inghilterra.
Immediatamente dopo, il 4 settembre, Parigi insorse e proclamò la Terza Repubblica, con un governo provvisorio presieduto da Léon Gambetta, capo della sinistra repubblicana. Nel frattempo, tuttavia, la Prussia giunse ad assediare Parigi e la repubblica si trovò a dover organizzare la difesa: Gambetta fuggi da Parigi con un pallone aerostatico e, insediato provvisoriamente il governo a Bordeaux, riuscì a costituire, nelle province, un esercito di volontari per liberare la capitale dall'assedio.
Con lo scopo di combattere per difendere la nuova repubblica, appoggiata in varia misura dalle sinistre di tutta Europa, era intanto accorso in Francia, sin dal settembre 1870, anche Giuseppe Garibaldi, che ottenne a Digione una vittoria nel gennaio 1871.
La resistenza parigina durò circa quattro mesi, dopo di che, vinta dalla fame, la città fu costretta ad arrendersi. Il governo provvisorio dovette accettare le dure condizioni di pace (trattato di Francoforte) imposte da Bismarck: esse consistevano nella cessione alla Prussia dell’Alsazia, con le sue ricche miniere, di parte della Lorena e nel pagamento di una forte indennità di guerra, garantito dalla temporanea occupazione prussiana di alcune città francesi d'importanza strategica.
Il 18 gennaio 1871, dieci giorni prima della capitolazione di Parigi, nella sala degli specchi del castello di Versailles, il re di Prussia Guglielmo I venne proclamato imperatore di Germania; innanzi a lui sfilarono plaudenti re, principi, arcivescovi e presidenti degli
Stati membri della Confederazione tedesca, già in gran parte al suo fianco nella guerra. Nell'Europa centrale veniva così a formarsi un nuovo e potente Stato: esso colmava il vuoto che si era aperto con la morte di Federico II di Svevia (1250) e il conseguente declino del Sacro Romano Impero Germanico, e che si era in seguito aggravato con la guerra dei Trent'anni (1618‑48).
Dinnanzi alle condizioni di pace accettate passivamente dal governo di Bordeaux, allora presieduto dal conservatore Adolphe Thiers, il 18 marzo 1871 la popolazione di Parigi insorse e costituì un nuovo governo rivoluzionario a carattere democratico. Tale governo, detto “la Comune”, varò subito provvedimenti di ispirazione socialista, tra i quali la determinazione di un salario minimo per i, lavoratori, il rinnovamento di tutti i servizi pubblici, la gestione collettiva di fabbriche e aziende abbandonate dai loro proprietari, la laicizzazione dell’istruzione.
Ben presto però il governo nazionale, che si era trasferito a Versailles, decise di restaurare l'ordine per mezzo delle armi. 1 comunardi (così si chiamavano gli esponenti della Comune) reagirono con misure di terrore, fucilando degli ostaggi sospetti di tradimento. Tra il 21 e il 24 maggio 1871, falliti alcuni tentativi di accordo, Parigi venne presa d'assalto e conquistata casa dopo casa: i comunardi vennero uccisi a migliaia, mentre i sopravvissuti furono deportati nella Nuova Caledonia, colonia francese situata nell'oceano Pacifico.
La Comune venne considerata il primo esempio di governo proletario e divenne un modello al quale si sarebbero poi rifatti i rivoluzionari socialisti e, in genere, i partiti comunisti di altri Paesi. La sua tragica fine favorii in Francia le tendenze restauratrici, fortissime tra i proprietari fondiari e la borghesia professionistica di provincia.
Mentre nell'Europa della prima metà dell’Ottocento le forze dei vari Stati si mantenevano nel complesso equilibrate, tantoché si parlava di “concerto europeo” per definire i rapporti tra grandi potenze, fuori del nostro continente iniziava l'ascesa di nuove grandi potenze destinate a svolgere un ruolo fondamentale nel mondo contemporaneo.
Al di là dell’Atlantico assunsero un peso enorme gli Stati Uniti d'America. Qui, nella prima metà dell’Ottocento, si assistette alla progressiva avanzata dei pionieri (coloni) verso occidente: la conquista delle fertili terre del West, passata attraverso lo sterminio delle tribù dei pellirosse che le abitavano, spostò gradualmente la frontiera degli Stati Uniti verso il Pacifico. Alla fine degli anni Quaranta, dopo la guerra contro il Messico, gli Stati Uniti indirizzarono la loro espansione territoriale anche verso sud, dove ottennero ricchi territori. Nel corso di tutto l'Ottocento gli Stati Uniti furono interessati da un forte aumento demografico, cui contribuirono sia lo sviluppo economico del Paese, sia l'immigrazione dall'Europa dovuta alla povertà di molte sue regioni. L’economia aveva avuto infatti una forte crescita non solo nei settori agricolo, dell’allevamento e delle manifatture tessili, ma anche in quello industriale, con lo sviluppo di siderurgia, metallurgia e raffinerie. Contemporaneamente migliorarono le comunicazioni: in particolare si diffusero sempre più le ferrovie.
L’espansione degli USA da est verso ovest e da nord verso sud condusse alla formazione di due aree molto diverse per tradizioni, caratteri economici e popolazione. Nel Sud, a clima tropicale, prevalevano immense piantagioni di cotone e di tabacco e l'allevamento del bestiame; nel Nord, ricco di giacimenti minerari, l'economia era invece incentrata sulle industrie estrattive e metallurgiche e sul commercio. Il Nord aveva interesse alla libera circolazione della manodopera di colore, utilizzabile a salari molto bassi, e quindi era antischiavista; per il Sud, invece, era vantaggioso tenere inchiodata la manodopera agricola nella condizione di schiavitù. Il Nord era favorevole al protezionismo, ossia a una politica doganale che imponeva elevati dazi alle merci d'importazione, per difendere l'industria nazionale dalla concorrenza straniera. Il Sud era invece favorevole al libero scambio, poiché temeva che anche gli Stati europei avrebbero aumentato i dazi sui prodotti provenienti dal nuovo mondo, limitando così le importazioni di prodotti agricoli dal Nord America.
Così questi due stili di vita, queste due mentalità, mescolandosi a opposti interessi economici, giunsero a un tale punto di contrasto da determinare la secessione degli Stati del Sud e la guerra. Nel 1860 le elezioni alla presidenza degli Stati Uniti furono vinte da Abraham Lincoln, che sosteneva un programma antischiavista; per reazione, l'anno successivo, gli Stati del Sud proclamarono la separazione da quelli del Nord e costituirono la Confederazione degli Stati d'America, sotto la presidenza di Jefferson Davis. Circa due mesi dopo, gli Stati secessionisti dichiararono guerra. Nel 1863, il presidente Lincoln, per rafforzare le ragioni morali della sua lotta, proclamò l'abolizione della schiavitù in tutti gli USA.
Per i mezzi impiegati, i costi, le perdite umane e le distruzioni provocate, la guerra di secessione fu durissima. Essa si concluse il 9 aprile 1865 con la resa dei sudisti; poco dopo il presidente Lincoln venne assassinato da un fanatico, ma con la vittoria degli Stati del Nord la schiavitù venne abolita in tutti gli USA.
Dopo la guerra di secessione, gli Stati Uniti, forti del loro sviluppo agricolo e industriale, cominciarono a porsi, nei confronti dell’Europa, come una vera e propria potenza economica: i mercati europei furono infatti invasi dai loro prodotti agricoli e manifatturieri. Questo era accaduto perché le merci statunitensi, prodotte su scala industriale, potevano essere vendute a prezzi decisamente inferiori a quelli, delle merci europee (v. cap. 34). I prodotti statunitensi, inoltre, venivano trasportati da navi molto più moderne, capienti e veloci di quelle del vecchio continente: così l'incidenza della spesa di trasporto sul prezzo di vendita era ridotta al minimo. Tutto ciò, come vedremo, avrà pesanti conseguenze sull'economia europea.
Ma gli Stati Uniti, attratti anche dai traffici sul Pacifico, già intorno agli anni Quaranta, avevano cominciato a occupare isole e arcipelaghi apparentemente secondari, ma che in realtà erano altrettante tappe per il grande balzo verso l'Asia. Nel 1853 la flotta degli USA bloccò Tokyo e obbligò il Giappone ad aprire i propri mercati alle esportazioni americane.
L’altra nuova potenza in ascesa sulla scena mondiale era il Giappone. Alla metà dell’Ottocento il Giappone era ancora un Paese con una struttura di tipo feudale e aveva alle spalle secoli di isolamento, dato che era stato quasi completamente chiuso agli influssi dei Paesi stranieri. Da secoli il potere, anziché essere nelle mani dell’imperatore ‑ che aveva funzione simbolica ‑, era nelle mani di un grande feudatario che deteneva la carica di sh-ogun, governatore militare. Con il passare del tempo, tuttavia, il potere dello sh‑ogun era stato ridimensionato dagli altri grandi feudatari e dai samurai, guerrieri di piccola nobiltà, che formavano una vera e propria casta privilegiata. Infine, dopo il 1853, l'irruzione commerciale degli Americani e degli Europei scosse la società giapponese.
Come era nelle tradizioni del Giappone, vi fu una forte reazione alla penetrazione straniera: si formò infatti un movimento nazionalistico con il programma di restituire autorità all'imperatore e di cacciare gli stranieri. Nel 1867, con l'avvento dell’imperatore Mutsuhito, il potere imperiale fu effettivamente restaurato ed ebbe inizio un processo di progressiva abolizione del feudalesimo e di modernizzazione della società.
Nel giro di pochi anni, in Giappone vennero introdotte riforme di stile europeo, tra cui gli obblighi di pagare tasse in moneta anziché in natura, di frequentare le scuole e di prestare il servizio militare. Il governo promosse l'industrializzazione, protesse le esportazioni, scoraggiò le importazioni e realizzò un gigantesco piano di opere pubbliche quali ferrovie, poste e telegrafi. Più che per la libera concorrenza tra imprenditori privati, il Giappone divenne un Paese industrializzato per volontà del governo, che impose l'industrializzazione dall'alto, investendo ingenti mezzi finanziari e bloccando l'aumento dei salari. Ne fecero le spese le classi meno abbienti, le cui condizioni di vita subirono un netto peggioramento. Moltissimi giovani furono mandati a studiare nelle università europee e americane, e lo stesso principe ereditario viaggiò a lungo all'estero, per conoscere sistemi politici e costumi diffusi nei Paesi industrialmente più avanzati.
Dietro il processo di occidentalizzazione, tuttavia, la mentalità giapponese rimaneva ancorata alla tradizione guerresca, le cui antiche ambizioni potevano ora contare su mezzi infinitamente più forti: se ne sarebbero viste le conseguenze quando il Giappone avrebbe iniziato l'espansione coloniale in Estremo Oriente.
La grande espansione, che l'industria stava vivendo nella seconda metà dell’Ottocento (v. cap. 35) all'interno di molti Paesi, aveva portato a un eccesso di produzione, rispetto alle reali possibilità di acquisto del mercato. In parte esso fu causato dall'aumento di afflusso dei prodotti extraeuropei, statunitensi in particolare, sui mercati d'Europa.
La concorrenza dei prodotti americani sul mercato europeo risultò infatti imbattibile. L'invasione di merci a prezzi inferiori a quelli nazionali trovava il favore dei commercianti europei, interessati ad avere prodotti a basso costo per aumentare vendite e guadagni.
Pertanto, per tutelare lo sviluppo delle industrie nazionali dalla concorrenza straniera e in contrapposizione ai Princìpi del liberismo, i governi europei intervennero ripristinando il protezionismo doganale: esso prevedeva l'introduzione di nuovi dazi sulle merci straniere, in modo da aumentarne i prezzi e rendere più conveniente l'acquisto dei prodotti nazionali.
Inoltre, i produttori del vecchio continente puntarono con decisione a procurarsi materie prime, derrate alimentari e manodopera a costi minimi, cercandole in altre regioni del globo; contemporaneamente essi si mossero alla ricerca di nuovi sbocchi commerciali, sia per poter vendere l'enorme quantità di merci prodotte, sia per investire i capitali accumulati.
Gli Stati europei iniziarono così una politica imperialistica, ossia intrapresero quell'espansionismo nelle terre d'oltremare che portò alla costituzione di grandi imperi coloniali.
Dunque, come si affermò allora, la politica coloniale era “figlia della politica industriale”. Almeno nella prima fase dell’imperialismo, infatti, la conquista politica e militare fu una conseguenza, non la causa dell’avanzata commerciale. Successivamente, nel timore che non rimanessero spazi di espansione vitale, anche piccole potenze corsero ad accaparrarsi colonie senza sapere se fossero redditizie o sterili.
Come nei secoli precedenti, il colonialismo ottocentesco nasceva dalla necessità di assicurarsi risorse e prodotti a basso costo; ma mentre nei secoli precedenti erano i commercianti che partivano alla conquista dei mercati, e soltanto in un secondo momento gli Stati procedevano a occupare nuovi territori, nell'Ottocento l'espansione coloniale procedette in senso contrario: “il commercio segue la bandiera”. Nei domini coloniali, industriali e commercianti praticavano i loro affari all'ombra dei governi nazionali.
La conquista coloniale offriva per industria e commercio la prospettiva di grossi guadagni ma, nella fase iniziale, essa fu costosissima per i governi e per la finanza pubblica. La massa dei cittadini venne dunque gravata da ulteriori imposte introdotte per far fronte alle ingenti spese coloniali.
Vi furono però alcune categorie economiche per le quali le conquiste coloniali furono fin dall'inizio molto vantaggiose: le compagnie commerciali di navigazione , le cui linee venivano finanziate dai governi; gli industriali fornitori di armi, che ovviamente ricavavano ingenti profitti dal fatto che le conquiste si traducevano in lunghe guerre e guerriglie; i militari e alcune categorie di impiegati, che in colonia potevano ottenere quei rapidi avanzamenti di carriera che, in condizioni di pace e in patria, non avrebbero probabilmente ottenuto.
Tutti costoro non avevano affatto bisogno di investire capitali nelle colonie rischiando di perderli: per loro le imprese coloniali erano un buon affare prima ancora di incominciare e in qualsiasi modo si concludessero. I profitti erano infatti assicurati dalle spese effettuate dai governi per merci e servizi. Essi avevano dunque interesse a diffondere la “mentalità imperialistica”, ossia a convincere le grandi masse a ritenere assolutamente necessario il possesso di colonie, anche se in effetti erano in pochi a sapere con chiarezza quali effettivi vantaggi avrebbero potuto ricavarne gli Stati e le masse popolari.
Alla base della corsa alle colonie non vi furono comunque solo ragioni economiche.
La politica coloniale di uno Stato, infatti, rispondeva anche alla necessità di dimostrare il proprio prestigio, la propria superiorità militare e la propria potenza rispetto alle altre nazioni.
Il mito della conquista fu una delle spinte al colonialismo. Ciascun governo, inoltre, accelerò la corsa alle colonie nel timore di arrivare troppo tardi, quando ormai non ci fossero più terre disponibili. Anche se talvolta non era chiaro a nessuno quali benefici potessero essere tratti dai territori conquistati, nessun governo accettò di rinunciarvi con il rischio di non poter godere dei vantaggi che sarebbero potuti derivare in futuro da quei domìni.
Alla base dell’espansione coloniale ci fu infine la convinzione della superiorità della cultura e della razza bianca sulle altre civiltà: si pensava che l'uomo bianco avesse la missione di civilizzare popoli considerati inferiori e che la diffusione, anche con la forza, della superiore civiltà bianca avrebbe migliorato le sorti dell’umanità.
Tuttavia, se nei possedimenti coloniali furono costruite opere pubbliche, come ferrovie, canali, scuole e ospedali, le potenze colonizzatrici imposero però spesso un duro sfruttamento, soffocando civiltà diverse dalle loro.
La Gran Bretagna, che già al termine dell’età napoleonica possedeva un gigantesco impero coloniale comprendente il Canada, l'Australia, Città del Capo e Ceylon, aveva ripreso esplorazioni e conquiste lungo due direttrici fondamentali: l'India e l'Africa.
Sin dal Seicento gli interessi britannici in India erano stati rappresentati dalla Compagnia inglese delle Indie Orientali, una società commerciale che si occupava anche dell’amministrazione di quel territorio. Nel 1857, una sanguinosa rivolta antibritannica (la rivolta dei Sepoys) convinse il governo di Londra che era ormai necessario assoggettare direttamente l'immensa regione: gli Inglesi riuscirono a riaffermare il proprio dominio e nel 1876 la regina Vittoria d'Inghilterra si proclamò imperatrice delle Indie.
Nell'Africa del Sud gli Inglesi possedevano dal 1815 la Colonia del Capo. Qui sorsero presto gravi tensioni tra gli stessi Inglesi e i Boeri, discendenti dei coloni olandesi emigrati in quei luoghi fin dalla metà del Seicento. Di fronte all'espansione britannica i Boeri si ritirarono verso le regioni più interne del Transvaal, dell’Orange e del Natal, dove trovarono ricchi giacimenti di oro, diamanti e carbone, che divennero allora oggetto delle mire inglesi. Dopo anni di schermaglie, nel 1899 iniziò una vera e propria guerra anglo‑boera, che terminò nel 1902 con la sconfitta dei Boeri e l'annessione dei loro territori ai possedimenti inglesi.
La Francia aveva iniziato, fin dal 1830, la conquista dell’Algeria. Nei decenni successivi le mire di Parigi si estesero anche al Vicino Oriente e, più oltre, alla Cocincina, nel sud della Penisola indocinese, che divenne colonia francese nel 1867.
Dopo la sconfitta nella guerra contro la Prussia, nel 1870 (v. cap. 32), la Francia accelerò la propria espansione coloniale: in questo modo si rivaleva dello smacco di non avere più il primato militare in Europa e di aver perso l'Alsazia e la Lorena. In pochi anni la Francia estese i suoi dominii: oltre alla Penisola indocinese, essa si affermò in Africa equatoriale estendendosi verso il golfo di Guinea e nell'Alto Volta. Queste conquiste servivano sì alla Francia per ricavare i prodotti coloniali, molto richiesti sul mercato europeo, ma soprattutto servivano a non rimanere in secondo piano nella corsa al dominio sui continenti extraeuropei.
Anche gli Stati minori si impossessarono di nuovi domini coloniali o utilizzarono meglio quelli che già avevano.
L’Olanda, che conservava solo una minima parte del suo fiorentissimo impero del Seicento, sfruttò a fondo l'antico dominio nelle Indie Orientali. Il Belgio si mostrò interessato alla penetrazione nell'Africa centrale, e cominciò a stabilire sue basi nel Congo.
La Russia, dopo la sconfitta nella guerra di Crimea (v. cap. 31) e il conseguente arresto del suo espansionismo verso i Dardanelli, riprese la “colonizzazione interna”, ampliando il proprio dominio verso est, sino al Pacifico e a sud, intensificando il popolamento delle regioni centrorientali del suo impero, cui contribuì anche la pratica sempre più diffusa ‑ iniziata già nel Settecento ‑ di deportare in Siberia i condannati, anche per ragioni politiche.
La corsa alle colonie rischiava di rimettere in discussione i precari equilibri faticosamente instaurati dopo la guerra franco‑prussiana.
Ben presto infatti i rapporti tra le grandi potenze furono compromessi a causa di una grave crisi nei Balcani. Qui alcune regioni poste sotto il dominio turco si erano ribellate rendendosi indipendenti; l'Impero ottomano aveva tentato allora di reprimerne l'autonomia e nel 1877, atteggiandosi a protettrice dell’indipendenza di quelle regioni, la Russia dichiarò guerra alla Turchia. Ne uscì vincitrice la Russia, che estese il suo controllo indiretto su Bulgaria e Serbia, mentre l'Impero ottomano rimase fortemente scosso.
In questa circostanza emerse anche la rivalità tra Impero russo e Impero austro‑ungarico: entrambi infatti erano interessati a estendere la propria egemonia nell'area balcanica.
La vittoria della Russia venne vista con preoccupazione dalle potenze europee. Essa infatti sembrava trarre eccessivi vantaggi dalla crisi dell’Impero ottomano, e ciò comprometteva i già precari equilibri politici europei. In tal modo il rischio di una nuova guerra tra le potenze europee si aggravava.
Per scongiurarlo, nel giugno 1878 il capo del governo tedesco, Bismarck, convocò un congresso. Il Congresso di Berlino decise di contenere la tendenza all'espansione russa nei Balcani e sancì l'indipendenza della Romania, della Serbia e del Montenegro, che ebbero inoltre ingrandimenti territoriali. Anche la Bulgaria, pur rimanendo tributaria dell’Impero ottomano, divenne un principato autonomo. Fu inoltre stabilito che Bosnia ed Erzegovina, dopo trent'anni di protettorato austriaco, sarebbero entrate a far parte dell’Impero austro‑ungarico.
Nonostante ciò, l'Impero austro‑ungarico uscì fortemente danneggiato dalla nuova crisi balcanica e dal Congresso di Berlino: infatti della crisi dell’Impero ottomano l'Austria non poté approfittare da sola, come aveva sempre sperato. Ne beneficiò l'Inghilterra, che già nel 1878 occupò l'isola di Cipro, a breve distanza dal Vicino Oriente. Anche la Germania aumentò la sua influenza nei Balcani con l'ascesa, sul trono di Bulgaria, di un principe tedesco. Nel 1881 la Francia ebbe mano libera nell'imporsi sulla Tunisia, che nominalmente faceva parte dell’Impero ottomano e che l'Italia reclamava, poiché vi vivevano molti suoi emigrati.
La corsa tra le potenze europee per la spartizione delle colonie, dell’Africa in particolare, si scatenò negli anni Ottanta dell’Ottocento. Se nel 1875 solo un decimo del continente era colonia europea, vent'anni dopo appena la decima parte di quel territorio rimaneva indipendente.
Nel 1882, l'anno successivo all’occupazione francese della Tunisia seguita al Congresso di Berlino, la Gran Bretagna decise di occupare l'Egitto, con il pretesto di imporre al Cairo il pagamento dei debiti contratti con i governi occidentali. In realtà, la ragione principale era che essa voleva consolidare la sua presenza nel Mediterraneo e sulla rotta verso le Indie. Inoltre, dall'Africa meridionale gli Inglesi risalirono il continente, ampliando i loro possedimenti con il pretesto di unire Città del Capo ad Alessandria d'Egitto per mezzo di una ferrovia tutta in territorio britannico.
L'Italia dal canto suo, nello stesso anno, come vedremo meglio più avanti, occupò dei territori turchi nel mar Rosso: essa temeva di vedersi precluso il commercio diretto con l'oceano Indiano, un commercio molto florido, fonte di prodotti ‑ quali la seta, il cotone, il tè, il legname pregiato ‑ molto richiesti sul mercato europeo.
La Francia, che già possedeva alcune colonie nell'Africa equatoriale occidentale, aveva iniziato ad avanzare verso oriente: essa voleva estendere il suo dominio nell'area equatoriale dall'oceano Atlantico all'oceano Indiano, dove già possedeva, nella regio ne somala, la colonia di Gibuti.
Ma la competizione coloniale si rifletteva sugli equilibri tra le potenze europee e rischiava di portare a un conflitto armato. Perciò fu ancora Bismarck a convocare a Berlino, nel 1885, una conferenza internazionale per definire la politica coloniale. La conferenza stabilì innanzitutto che potessero essere colonizzati quei territori che erano res nullìus, ossia “cosa di nessuno”. In pratica si trattava dei Paesi dell’Africa e dell’Asia, non ancora occupati da Europei o che non fossero in grado di dimostrare di essere uno Stato e di avere quindi diritto all'indipendenza. Di fatto le potenze europee erano autorizzate a espandersi in misura proporzionale alla loro forza militare. Alla conferenza si stabilirono anche alcune convenzioni sui diritti di navigazione e sulla delimitazione delle acque territoriali ; inoltre, si auspicò che la spartizione del mondo avvenisse senza causare conflitti tra Stati europei.
L'espansione della Gran Bretagna verso nord e della Francia verso est, portò le due potenze a scontrarsi, nel 1898, nel villaggio sudanese di Fashoda, sul Nilo. Reparti dell’esercito francese e di quello inglese si trovarono fronte a fronte per piantare la bandiera dei rispettivi Paesi su quel punto strategico dell’Africa.
Per un momento sembrò inevitabile una guerra, poi i governi di Parigi e di Londra riuscirono a trovare un'intesa: entrambi, in fondo, avevano interesse a procedere di comune accordo, per non lasciare spazio ad altri concorrenti. La Gran Bretagna, del resto, era già in contrasto con altre potenze: con l'Impero russo per il controllo della Persia e dell’Afghanistan, con la Germania per il Sud Africa, con il Giappone per l'Estremo Oriente. All'inimicizia della Germania ‑eredità della guerra del 1870‑ la Francia non voleva aggiungere l'ostilità della Gran Bretagna.
In questo periodo, anche la Germania, che fino ad allora non aveva partecipato alla gara coloniale, prese parte alla spartizione dell’Africa: conquistò il Camerun, il Togo e parte del Congo, nell'Africa occidentale; l'Africa del Sud‑ovest, a nord delle colonie inglesi del Sud Africa, e il Tanganica, nell'Africa orientale. L'espansione coloniale della Germania si estese anche al Pacifico, dove occupò una serie di isole di importanza strategica. Il programma coloniale tedesco fu voluto principalmente dall'imperatore Guglielmo II, salito al trono nel 1888. Egli, che mal tollerava l'onnipotenza di Bismarck, si liberò presto del vecchio cancelliere, che consigliava prudenza e giudicava sbagliato compromettere la sicurezza della Germania in Europa con una politica avventata e soprattutto attirando sulla Germania l'ostilità di Russia e Francia, che l'avrebbero chiusa in una tenaglia.
L’espansione coloniale delle grandi potenze fu intensissima per circa trent'anni, a partire dai primi anni Settanta fino agli inizi del Novecento. Gli spazi non colonizzati erano ormai pochissimi. Nonostante ciò, la sete di dominio delle potenze non venne placata; gli equilibri politici, anzi, ne risultarono alterati, le tensioni si inasprirono e ciò contribuì a far precipitare le potenze in un conflitto globale: la prima guerra mondiale. Dopo l'aspra gara per “divorare” Asia, Africa, Oceania, le potenze europee tornarono infatti, come vedremo nella prossima unità, a scontrarsi per le divisioni di confine nel vecchio continente.
Sul finire del secolo anche le potenze extraeuropee iniziarono una loro politica imperialistica. Riprendendo a proprio vantaggio il principio sostenuto nel 1823 dall'allora presidente Monroe ‑secondo cui l'America doveva essere solo degli Americani‑ e forti dell’enorme sviluppo economico e demografico, gli Stati Uniti mirarono a estendere la loro influenza in modo particolare sul continente americano. Nel 1898, con il pretesto di favorire la liberazione di Cuba dal secolare dominio di Madrid, entrarono in guerra contro la Spagna. Mentre gli Stati europei facevano a gara per imporsi in Asia e in Africa, gli Stati Uniti appoggiavano la decolonizzazione, non senza un loro vantaggio: alla dominazione spagnola, infatti, essi sostituirono su Cuba la loro tutela. Analogamente agirono favorendo la liberazione del Portorico e delle Filippine dalla soggezione alla Spagna, ma imponendo il loro controllo.
Qualche anno dopo gli Stati Uniti aumentarono l'influenza sull'America centrale. Lì, nel 1903, essi entrarono in possesso di una stretta striscia di territorio, la Repubblica di Panama e vi aprirono un canale navigabile.
Portato a termine nel 1914, il canale di Panama permise alle navi di passare dall'oceano Atlantico all'oceano Pacifico senza circumnavigare l'America meridionale, sino ad allora unica via di comunicazione diretta tra i due oceani.
Sul finire del secolo, anche il Giappone iniziò una politica espansionistica, contando sulla propria forza militare ed economica. Alla base di tale espansionismo vi era la necessità di procurarsi materie prime, di conquistare nuovi mercati sui quali esportare le merci eccedenti e di procurare posti di lavoro per una popolazione sempre più numerosa.
Il Giappone si orientò in modo particolare verso la Cina. Governata da un imperatore e da un apparato di funzionari (i mandarini) corrotti e spesso incapaci, la Cina era allora un Paese immenso con una organizzazione sociale ancora molto arretrata. Priva di una moderna struttura industriale, già dalla metà dell’Ottocento la Cina era guardata con molto interesse da parte delle potenze industriali occidentali ed era diventata uno degli obiettivi delle loro mire espansionistiche. La Gran Bretagna, la Russia e la Germania avevano in pratica già il controllo di alcune aree del territorio cinese, su cui esercitavano i loro interessi economici, lasciando formalmente inalterato il potere della dinastia imperiale. Il Giappone, entrato in guerra con la Cina nel 1894, ne uscì vincitore grazie alla sua superiorità militare, così da ottenere numerosi territori, tra cui la penisola di Liaotung e l'isola di Formosa.
L’inasprirsi dell’ingerenza straniera provocò in Cina il sorgere di società segrete ostili agli stranieri. Tra di esse famosa è quella dei Boxer, che nel 1900 diede vita a una rivolta, sedata nel giro di un anno da una spedizione internazionale che occupò Pechino. Anche l'Italia ne fece parte e si assicurò, a rivolta domata, la “concessione” di Tien‑Tsin.
Le altre potenze, d'altro canto, e in particolare la Russia, guardarono con apprensione l'espansionismo giapponese: nel 1904,infatti, la Russia dichiarò guerra al Giappone proprio per tener testa al suo espansionismo. Vinse il Giappone (1905),che ottenne il controllo della Manciuria, prima sotto l'influenza russa, accentuò l'espansione in Cina e poté annettere definitivamente al proprio impero il Regno di Corea, già vassallo della Cina.
In Europa, nel periodo compreso tra il 1850 e il 1914, si verificò una serie di cambiamenti importanti che mutarono la vita del continente.
Certamente le innovazioni non furono della stessa portata in tutti i Paesi: più forti e caratterizzate in alcuni; meno evidenti in altri. Tuttavia gli Europei avevano l'impressione di essere giunti a una svolta: così, anche se le ferrovie non raggiunsero ogni luogo, ciò non impedì che dappertutto, anche nella più umile casa contadina, il resto del mondo apparisse meno lontano. Anche queste sensazioni contribuirono a mutare il senso della vita.
Poche cifre possono servire a dare un'idea dei mutamenti che si verificarono in questo arco di tempo.
Nuovi procedimenti metallurgici permisero di produrre in quantità ingenti e a basso costo l'acciaio, una lega di ferro e carbonio, malleabile ma resistente, flessibile ma forte, che avrebbe permesso di produrre impianti e macchine molto più durevoli. Nel settore ferroviario, per esempio, le vecchie rotaie di ferro furono sostituite con rotaie d'acciaio, più resistenti al peso dei treni, alle vibrazioni e agli sbalzi di temperatura. Anche grazie a questo miglioramento la rete ferroviaria europea passò da 105 000 km nel 1870 a 363 000 km nel 1913.
A metà dell’Ottocento cominciarono a essere sfruttati su larga scala molti giacimenti di petrolio, al punto che negli Stati Uniti l'industria petrolifera passò dall'estrazione di 2,5 milioni di barili nel 1865 a 265,8 nel 1914. Inizialmente il petrolio estratto fu usato soprattutto come combustibile per l'illuminazione, ma alla fine dell’Ottocento si iniziò a utilizzarlo anche per i primi motori a scoppio.
Aspetto particolarmente notevole fu che, in quegli anni, accanto all'espansione dei settori industriali già esistenti, si svilupparono industrie totalmente nuove, come quelle chimica ed elettrica.
L'influenza della ricerca scientifica nella chimica fu enorme: essa consentì l'invenzione di tutta una serie di prodotti, come la celluloide (la prima materia plastica) e la bachelite (un isolante elettrico), e permise uno straordinario aumento (e a costi relativamente bassi) della produzione di molti altri prodotti già noti, come i coloranti.
A partire dagli anni Ottanta del XIX secolo l'industria elettrica si diffuse assai rapidamente. Se in un primo tempo l'energia elettrica fu impiegata essenzialmente per l'illuminazione domestica (è del 1879 l'invenzione della lampadina a incandescenza di Thomas Alva Edison), presto essa venne utilizzata come fonte di energia motrice al posto del vapore. Già agli inizi del Novecento essa era stata impiegata in grande misura per la produzione industriale e per i trasporti urbani (un prototipo dei tram a trazione elettrica apparve già nel 1879).
La crescita economica dell’Europa non fu dovuta soltanto all'abilità dei suoi imprenditori, al lavoro dei suoi operai, alla genialità di abili inventori che progettarono macchine e congegni nuovi. Alla sua base vi fu un processo molto più complesso. Le colonie ‑ soprattutto inglesi, francesi e tedesche ‑ furono sia una fonte di rifornimento di materie prime, sia uno spazio verso il quale esportare i prodotti fabbricati nella madrepatria con le materie prime che le colonie medesime avevano fornito. Né basta. Accanto alla presenza coloniale diretta vi fu anche quello che si può definire un “colonialismo indiretto”, fondato, cioè, sull'influenza esercitata su Paesi (in particolare dell’America centromeridionale) che erano formalmente indipendenti. Anche questi Stati divennero fornitori, a prezzi irrisori, di materie prime e assorbirono beni prodotti dalle industrie europee. E’ su questo insieme di fattori che si fondò lo sviluppo economico delle grandi potenze europee e degli Stati Uniti d'America.
Tra il 1870 e il 1914 l'Europa visse un'epoca di pace. Le guerre non mancarono, ma ebbero come teatro terre periferiche (come la crisi balcanica del 1877‑78 e la guerra russo‑giapponese del 1904‑05); solo nel 1911 la guerra italo‑turca riportò le ostilità nel Mediterraneo. Questo lungo periodo di pace fu certamente favorevole allo sviluppo economico di cui si è parlato nel paragrafo precedente: ma non solo a quello. L’Europa sperimentò un nuovo stile di vita.
Innanzitutto, l'alfabetizzazione si diffuse sempre più e trovò alimento in un'editoria popolare che offri a prezzi contenuti opere classiche e di divulgazione. I giornali si moltiplicarono e raggiunsero tirature che mai prima erano state toccate: fu, questo, un primo modo per diffondere con rapidità notizie provenienti da tutti i Paesi del mondo. Inoltre erano già in funzione il telegrafo elettrico, inventato dall'americano Samuel Morse nel 1832, e poi il telefono, brevettato da un altro americano, Graham Bell, nel 1876, e infine la radio, entrata in funzione nel 1896.
Queste invenzioni permisero la circolazione di informazioni su grandi distanze. Era l'inizio di una più ampia conoscenza tra i popoli, che trovava un ulteriore punto di forza nella facilità di viaggiare (sia pur relativa, poiché ancora alla portata di poche “borse”), consentita da ferrovie e navi a vapore.
L'Europa era orgogliosa di mostrare i propri successi e si organizzavano dappertutto esposizioni e fiere, nelle quali i vari Paesi mostravano i prodotti ‑ industriali e agricoli ‑ più significativi della propria attività. La prima esposizione universale ebbe luogo a Londra nel 1851, mentre la celebre Torre Eiffel di Parigi, composta di 15 000 pezzi metallici, fu costruita per l'Esposizione mondiale del 1889. Imponente fu infine l'Esposizione Universale di Parigi del 1900: incontro di scienziati, filosofi, artisti. La diffusione degli spettacoli teatrali era intensissima e in particolare i teatri lirici accoglievano signore elegantissime e ingioiellate, ma anche operai appassionati di musica. I caffè si moltiplicarono; in verità essi erano sempre esistiti, ma ora si trasformarono profondamente, diventando centro di socialità e accogliendo ‑ a seconda del loro livello ‑gruppi di alti borghesi, o di studenti, o di agitatori politici, o di letterati e artisti. Si diffondevano inoltre la foto2rafia che, nata agli inizi dell’Ottocento, si era affermata intorno alla metà del secolo, e il cinema, introdotto intorno al 1895. Con essi si entrava in un mondo visivo e di spettacolo completamente nuovo: la fissazione (con la fotografia) e l'animazione (con il cinema) delle immagini.
Certamente non tutte le classi sociali beneficiarono in ugual misura di queste innovazioni e di questi svaghi, e del pari non tutti i Paesi ne goderono in modo uguale e simultaneo. Ma quel che conta è che tra il 1850 e i primi anni del Novecento si diffuse, soprattutto tra la borghesia imprenditoriale e capitalista (che più di tutti godeva di questi benefici), l'impressione di vivere un momento esaltante della storia: questo periodo è chiamato “Belle Epoque”, espressione francese che significa “bella epoca”, a indicare un momento di benessere ritenuto (a torto)generale.
Il benessere di cui abbiamo parlato nei paragrafi precedenti in realtà non era diffuso in tutte le classi sociali; inoltre, anche le crisi inevitabilmente provocate dallo sviluppo economico in alcuni settori colpirono soprattutto le classi più umili.
Per esempio fu grave la crisi dell’agricoltura. Essa trovò la sua origine in due fattori. Da un lato il miglioramento dei trasporti navali consenti l'importazione in Europa di cereali da Paesi come l'Argentina o l'Australia. D'altro canto, la forte meccanizzazione dell’agricoltura negli Stati Uniti consenti agli agricoltori di quel Paese di produrre a costi nettamente inferiori e quindi di esportare i loro prodotti a prezzi più bassi: in Inghilterra il prezzo del grano tra il 1871 e il 1895 si ridusse di circa la metà. Paesi come Francia, Germania e Italia stabilirono dei dazi protettivi, ma questi non ebbero dappertutto la stessa efficacia. Infatti, per “proteggersi” veramente sarebbe stato necessario soprattutto cercare di mettersi al livello dei prezzi della concorrenza: bisognava cambiare l'agricoltura, sia meccanizzandola, sia impiegando fertilizzanti, sia specializzandosi in colture più ricche. Questo riuscì nel caso francese e tedesco, ma non in quello italiano. In Italia, infatti, con l'eccezione di poche regioni (in particolare la Lombardia) non si ebbero effettive trasformazioni.
La crisi agraria fu comunque veramente profonda: si consideri, a riprova, che tra il 1851 e il 1910 circa 34 milioni di Europei emigrarono specialmente nelle Americhe (e di questi più di 6 milioni erano Italiani, provenienti in particolare dal Meridione e dal Veneto). Le campagne erano ormai sature, e per vivere era divenuto necessario emigrare in Paesi più ricchi, anche se questo avrebbe comportato almeno all'inizio una vita peggiore di quella dei Paesi di origine. La fase di crescita industriale ‑ un fenomeno certamente positivo nel suo complesso ‑ richiese duri sacrifici proprio alle classi più umili. Non si trattava solo del fatto che il lavoro in fabbrica era ancora estremamente faticoso, dell’impiego di donne e bambini in lavori pesantissimi, delle condizioni d'alloggio e di quella che possiamo definire la miseria generale. La conseguenza più grave delle emigrazioni era lo sradicamento. Gli operai, infatti, non erano che contadini inurbati: il primo trauma, dunque, era dover cambiare completamente abitudini. Il lavoro in fabbrica (anche 12‑14 ore al giorno per sei giorni la settimana) non conosceva le lunghe pause di quello nelle campagne, durissimo in certe fasi, quasi nullo in altre. A questo si aggiunga che il salario per il lavoro in fabbrica non era molto superiore a quello che ricavava un contadino (solo un 10 per cento in più), e la vita in città aveva certo un costo molto più alto. Per molto tempo, infine, l'impiego in fabbrica risultò precario, come quello dei braccianti agricoli.
A partire dal 1850, dunque, a seguito del processo di migrazione dalle campagne (v. anche cap. 29), le città industriali europee videro raddoppiata la loro popolazione. Era quindi necessario creare strutture che permettessero di risolvere il problema del rifornimento idrico e dello smaltimento delle acque e dei rifiuti solidi, inadeguato alla nuova popolazione, di razionalizzare il traffico crescente, ampliando le strade e creando nuovi sistemi di trasporto, di organizzare gli spazi abitati rispetto a quelli da adibire a verde pubblico, per rendere la città meno soffocante. Inoltre i poveri, i disoccupati che dalla campagna confluivano nella metropoli in cerca di un lavoro, costituivano per l'opinione pubblica borghese un pericolo sociale, poiché la miseria li spingeva alla rapina e alla rivolta. Acquistò così ampio sviluppo l'urbanistica, disciplina che studia i problemi delle città, le modalità di crescita e di vita al loro interno. La prima prova di questa disciplina si ebbe a Parigi con George‑Eugène Haussmann, che tra il 1853 e il 1869 elaborò per Napoleone III la ristrutturazione della città. Il suo criterio era questo: dare un volto grandioso e moderno alla capitale separando nettamente la borghesia dal proletariato, collocando la prima in città ed emarginando il proletariato in periferia. Perciò egli fece abbattere le vecchie case del centro e sventrare le strade strette dove il Popolo, come forma di protesta, dava spesso vita a episodi di violenza e avrebbe potuto creare barricate; tracciò grandi viali alberati, i boulevards, che attraversavano tutta la città, ai cui lati fece costruire palazzi di cinque o sei piani, divisi in appartamenti lussuosi. Al di fuori del centro si trovavano invece i disordinati sobborghi, dove grandi squallidi edifici ospitavano masse di persone, costrette dalla povertà alla coabitazione in spazi ristretti. Era inevitabile che proprio lì si annidasse un'enorme tensione sociale. Ciononostante, la ristrutturazione di Parigi fu considerata un ottimo esempio per i suoi effetti spettacolari e fu imitata da molte città europee: Bruxelles, Barcellona, Berlino.
Cresceva dunque il numero degli operai alla periferia delle città in rapporto alle esigenze della produzione industriale, e aumentava di pari passo la tensione, a causa della loro condizione di miseria e di sfruttamento. Quegli uomini, sottoposti a orari estremamente duri, pagati con salari da fame, costretti a vivere in abitazioni umide e poco aerate e indifesi di fronte alle malattie e agli incidenti sul lavoro, decisero di unirsi e organizzarsi, non solo in Inghilterra (v. cap. 29) ma in tutta Europa. Non è certo per caso se tra il 1870 e il 1890 si diffuse ampiamente il pensiero di Marx ed Engels, già espresso nel Manifesto del 1848 (v. cap. 29) e di altri teorici di riforme sociali. Sulla base di quelle analisi presero corpo organizzazioni, partiti, movimenti il cui scopo era l'evoluzione della classe operaia verso condizioni di vita più degne. Vennero così a formarsi i sindacati, grandi associazioni per la difesa degli interessi comuni dei lavoratori, divise a seconda del settore produttivo cui erano addetti gli iscritti (chimico, metallurgico, tessile ecc.). Contemporaneamente, in quegli anni ‑tra il 1850 e il 1900‑ ebbe ampia diffusione lo sciopero, una forma di lotta dei lavoratori dipendenti, consistente nell'astensione collettiva dal lavoro, allo scopo di ottenere determinati miglioramenti economici, (come per esempio l'aumento salariale), o normativi (cioè riguardanti il regolamento, come l'orario di lavoro o il numero dei giorni di ferie), sulle condizioni di vita in fabbrica e l'assistenza sanitaria. Né si deve credere che le esigenze di maggiore giustizia sociale fossero espresse solo dai socialisti. Anche molti esponenti della borghesia riformistica si rendevano conto che andavano introdotti cambiamenti. A sua volta la Chiesa cattolica ‑con l'enciclica Rerum novarum promulgata da papa Leone XIII nel 1891‑, pur condannando con fermezza qualsiasi forma di conflitto violento tra classi, affermò solennemente che “è stretto dovere dello Stato prendersi la dovuta cura del benessere degli operai: non facendolo, si offende la giustizia che vuole reso a ciascuno il suo”, e sostenne la necessità di ridurre le ore lavorative e di retribuire il lavoro con salari sufficienti ad assicurare quanto meno una vita decorosa.
Le organizzazioni sindacali, così come lo sciopero, riguardavano però unicamente la tutela del lavoro dipendente. Il socialismo, al contrario, era una proposta di portata ben più ampia. Partendo dall'analisi del lavoro operaio, esso si allargava alla società con l'intento di trasformarla. Questo movimento proponeva l'abolizione della proprietà privata, del potere economico in mano a pochi individui, e auspicava l'inizio di un'epoca in cui le rivolte spontanee fossero sostituite da un'unica grande rivoluzione, che avrebbe portato il proletariato a impadronirsi del potere.
Questo progetto, condiviso da una parte della classe operaia, trovò uno strumento di diffusione, al di là dei confini statali, nella prima Associazione internazionale dei lavoratori, meglio conosciuta come Prima Internazionale, fondata a Londra nel 1864 con lo scopo di coordinare appunto le varie correnti socialiste d'Europa. Tra i suoi fondatori vi era Karl Marx (v. cap. 29), che in questa sede si scontrò con Michail Aleksandrovié Bakunin, rappresentante dell’anarchismo, dottrina di carattere rivoluzionario diffusasi in quegli anni. Bakunin era contrario a ogni autorità e dunque a ogni forma di organizzazione che comportasse una distinzione gerarchica tra un capo e gli esecutori dei suoi ordini. Rifiutava, dunque, lo Stato, fosse esso borghese o proletario, poiché qualsiasi Stato avrebbe inevitabilmente creato una struttura di potere oppressiva e ingiusta. Era invece favorevole alle rivolte spontanee e alla conquista di una società aperta, in cui tutti gli uomini avrebbero ottenuto un'illimitata libertà.
Tra le due posizioni, quella di Marx e quella di Bakunin, sorse un grave contrasto che portò all'espulsione degli anarchici dalla Prima Internazionale nel 1871. Ne seguì però un indebolimento dell’Associazione che nel 1876 si sciolse.
Tuttavia i semi erano gettati e nel 1875 fu creato in Germania il Partito socialdemocratico tedesco; nel 1879 nacque il Partito socialista francese; nel 1880 quello inglese (ma qui già prima si erano formate organizzazioni sindacalizzate); in Italia nel 1882 venne fondato il Partito operaio indipendente, dal quale dieci anni dopo sorse il Partito socialista.
La nuova Italia che si era presentata alla ribalta della “grande politica” europea nel 1859 e che si era successivamente unificata (fra il 1860 e il 1870) era un Paese complessivamente debole.
Un primo segno di debolezza era costituito dal fatto che in Italia la grande maggioranza della popolazione parlava unicamente i vari dialetti regionali.
Soltanto una percentuale oscillante fra il 3 e il 10 per cento si esprimeva anche in lingua italiana.
Per questo la “Destra” (cioè il gruppo politico moderato che governò il Paese dopo la morte di Cavour) dovette affrontare molti problemi: innanzitutto quello di portare a termine l'unificazione d'Italia con l'annessione del Veneto e quella di Roma, e, come diretta conseguenza di ciò, quello di dare una lingua comune a una popolazione numerosa e divisa. Occorreva creare scuole e soprattutto condizioni economico‑sociali che non obbligassero i bambini a lavorare fin dalla più tenera età. Lo sforzo in tal senso fu ingente, ma i suoi risultati tardarono a farsi sentire. Infatti, nonostante la legge Casati del 1859, che rese obbligatoria la frequenza scolastica per almeno due anni, nel 1871 il 68 per cento degli Italiani risultava ancora analfabeta. A questo problema, che però derivava anche dalla mancanza in Italia di una solida unità, si aggiunse pure quello di uno sviluppo demografico eccessivo in rapporto alla scarsità delle risorse di vita. Questo fenomeno, tra l'altro, contribuì a fare aumentare l'emigrazione.
Tra il 1861 e il 1880, quasi 2400000 Italiani (circa il 10 per cento della popolazione dell’epoca) lasciarono il Paese. Gli emigranti erano soprattutto meridionali, ma numerosi furono anche quelli di altre regioni: Veneti, Friulani, Piemontesi, Toscani ecc.
Un altro segno ancora della debolezza del Paese era la persistente antica frattura fra città e campagna. I moti del Risorgimento non avevano visto alcuna adesione dei contadini, rimasti dunque estranei al problema nazionale. Garibaldi constatò che tra i suoi volontari non aveva visto neppure un contadino. A sua volta il garibaldino Ippolito Nievo, l'autore di Le confessioni di un Italiano, scrisse subito dopo la guerra del 1859: “Sì, il popolo illitterato delle campagne abborre da noi, popolo addottrinato delle città italiane”. Va tenuto presente che i contadini rappresentavano allora la maggioranza della popolazione italiana. Appare dunque chiaro come una parte assai consistente della popolazione rimanesse estranea alla nuova realtà politica.
Le prove della debolezza dell’Italia unificata sono numerose, ma una emerge su tutte: il notevole divario fra Nord e Sud.
In tutti i campi esso appare netto: nei consumi alimentari; nella disponibilità di alloggio per gli abitanti; nei servizi igienici; nelle comunicazioni stradali e ferroviarie; nel tasso d'industrializzazione; nell'indice di alfabetizzazione, nella presenza di ospedali, “ambulatori” e assistenza a orfani, poveri e malati.
Tutti i dati dimostrano un incontestabile vantaggio del Nord rispetto al Sud. Peraltro non bisogna dimenticare che in ogni regione “sviluppata” del Nord vi erano zone povere come al Sud. Né va trascurato che è improprio dire che il Nord fosse “più ricco del Sud”. In realtà esso era solo meno arretrato: entrambi però erano poveri, se confrontati con Paesi come Gran Bretagna, Belgio, Francia, Germania, ognuno dei quali aveva però anche zone di grave sottosviluppo. Nei decenni che seguirono l'unità politica, il divario Nord‑Sud, invece di diminuire, si accrebbe. Ciò accadde anche perché nel Nord, nel triangolo fra Torino, Genova e Milano, si ebbe una forte industrializzazione, favorita anche dalla presenza di una discreta rete ferroviaria (inesistente, o quasi, nel Sud e nelle isole), dall'abbondanza di energia idroelettrica fornita dalle acque alpine e da una borghesia che per tradizione aveva una mentalità più dinamica e imprenditoriale.
Nel Mezzogiorno, invece, l'industria continuò a essere in gran parte assente: anzi, le poche esistenti si trovarono presto in difficoltà, incapaci di reggere la concorrenza di quelle del Nord; il commercio era molto ridotto; le vie di comunicazione erano scarse. Quanto all'agricoltura, essa non era certo favorita a causa del latifondo , della scarsità d'acqua (dovuta anche al clima), della povertà delle tecniche e della miseria dei contadini. Appare quindi evidente come la cosiddetta “questione meridionale” fosse fin da allora uno degli aspetti socio‑economici che più travagliavano il governo.
La debolezza socio‑economica dell’Italia si manifestò ben presto anche attraverso una diffusa inquietudine sociale la quale diede luogo a proteste, sommosse e opposizioni di ogni sorta.
La principale espressione di quest'inquietudine fu il “grande brigantaggio”, che coinvolse (e sconvolse) il Sud fino a tutto il 1866. Il brigantaggio non era un fenomeno del tutto nuovo. Anche nei secoli precedenti, contadini senza terra si erano ribellati ai soprusi dei ricchi possidenti, rifugiandosi sulle montagne e diventando banditi. Ora però il fenomeno assunse il carattere di una rivolta estesa (di qui l'espressione “grande brigantaggio” coniata dagli storici). Dietro di esso vi era la “fame di terra” dei contadini che invano avevano sperato dall'unità nazionale un reale miglioramento della loro vita, mentre continuavano a essere favoriti i proprietari fondiari, ai quali lo Stato cedeva le terre demaniali a prezzi irrisori. Vi era la rivolta contro un sistema fiscale ‑ quello piemontese ‑ ancora più esoso di quello borbonico perché provvedeva a uno Stato molto più complesso. E vi era la ribellione contro il servizio militare obbligatorio, che sottraeva lavoro alla terra e che soprattutto veniva reso a uno Stato che nulla, o quasi, dava in cambio.
Più che malavita fu una vera rivolta; e il brigantaggio ebbe proporzioni assai estese, come estesi furono i massacri che lo Stato compi per debellarlo. Tra il 1861 e l'agosto 1863 (una trentina di mesi) nella sola Basilicata vi furono 1038 “briganti” fucilati, 2413 uccisi in combattimento e 2668 arrestati. Va tenuto conto che il “giovane” Regno d'Italia viveva un momento di insicurezza dovuta alle rivendicazioni papali e borboniche e alla minaccia straniera, a cominciare dall'Austria.
Fu in particolare sulla questione fiscale che si rivelarono il malessere delle classi umili e la mancanza di una “politica sociale”.
Fin dalla formazione, il nuovo Stato aveva istituito o inasprito una serie di imposte e tasse . Molte di queste colpivano proprio i ceti più deboli, come, per esempio, la cosiddetta “tassa sul macinato”, istituita nel 1868. Essa consisteva nell'obbligo da parte dei contadini di pagare una somma per ogni quantitativo di cereali (grano, mais) portato a macinare ai mulini: la tassa veniva applicata sulla base del numero dei giri compiuti dalle macine, contati da appositi “contatori” meccanici ideati dal ministero delle Finanze. Questa tassa fu sopportata assai di malanimo dalla gente; infatti penalizzava due volte le classi umili: i contadini, quando portavano i cereali a macinare, e i ceti più poveri in generale poiché, a causa della tassa, dovevano pagare il pane e la polenta a prezzi più alti.
Il malcontento popolare si fece sentire nel Sud ma anche nel Nord, dove nel 1869 si registrarono rivolte contadine. La risposta dello Stato fu identica a quella data nel Mezzogiorno al brigantaggio: anche perché in molte zone dietro la protesta emergeva il rifiuto dell’unità nazionale.
Tutta l'Italia, in particolare quella rurale, era in agitazione, desiderosa di maggiore giustizia sociale. Ne è testimonianza, tra l'altro, il successo che ebbero le prime forme di lotta. Dai tempi della Prima Internazionale, il movimento internazionalista, nella forma estrema di anarchismo, aveva trovato in Italia un terreno fertile per affermarsi. Enrico Malatesta, Andrea Costa, Carlo Cafiero e tanti altri ‑sulle orme delle idee anarchiche di Bakunin‑ credettero nell'efficacia di rivolte anche isolate. Presto, tuttavia, dopo il loro esito fallimentare, si fece strada la consapevolezza che era meglio organizzarsi e magari anche partecipare alla vita politica ufficiale attraverso la presenza in Parlamento, per ottenere riforme e più ampie libertà garantite dalla legge.
Le imposte fiscali istituite dalla Destra servirono soltanto in minima parte a migliorare le condizioni del Paese: per esempio, ad ampliare la rete ferroviaria, sostenere le industrie ecc. La maggior parte della spesa pubblica fu invece assorbita dai costi connessi con l’unificazione politico‑amministrativa, quindi per pagare funzionari e impiegati, creare nuovi uffici, riportare in pareggio il bilancio statale dopo le ingenti spese militari delle guerre risorgimentali e saldare i debiti contratti dagli Stati esistenti prima dell’unità.
A ciò occorre aggiungere che il governo della Destra praticò fin dagli inizi una politica favorevole ai proprietari terrieri dei Sud, a svantaggio dei contadini. La stessa repressione del brigantaggio (se si vede questo fenomeno anche come una rivolta contadina per il possesso della terra) portò un sostanzioso aiuto ai grandi proprietari. Anche la politica fiscale fu vantaggiosa per i latifondisti, poiché non pochi furono i casi di piccoli e medi proprietari che, rovinati dalle imposte, furono costretti a cedere le loro terre ai grandi proprietari.
D'altra parte, dopo l'unificazione del Paese, i gruppi sociali dominanti ‑ aiutati dallo Stato ‑ si arroccarono nella difesa dei loro interessi, in contrasto con le tendenze dell’Europa moderna. I latifondisti si mostravano in generale più interessati alla rendita che al profitto. In altre parole, essi preferivano vivere agiatamente del denaro di cui disponevano anziché investirlo per migliorare la produzione e creare maggiori introiti per sé ma anche lavoro per altri e ricchezza per il Paese.
Un altro segno di mentalità arretrata di gran parte della classe dirigente era una diffusa diffidenza verso l'industrializzazione. Perfino gli imprenditori più intraprendenti temevano che, concentrando un gran numero di lavoratori negli stabilimenti, si formasse una classe operaia consapevole dei propri diritti e quindi capace di creare disordini sociali, com'era già accaduto nei Paesi europei più industrializzati, quali Francia e Inghilterra.
Inoltre, il predominio del latifondo, cioè di una proprietà terriera concentrata nelle mani di pochi proprietari, per giunta poco disposti a investire capitali nel progresso, causava in molte regioni, soprattutto del Sud, l'assenza quasi totale di piccola e media proprietà e manteneva i contadini nella miseria e l'agricoltura in generale nel l'arretratezza, con effetti nel complesso negativi su tutta l'economia italiana. In altre zone, invece, soprattutto collinari e alpine, la proprietà era anche troppo frammentata. Le conseguenze però erano identiche: nessuna possibilità e voglia di investire per migliorare, degrado, impoverimento.
Si trattava di un circolo vizioso. La grande massa degli Italiani non aveva abbastanza denaro da spendere. Di conseguenza esisteva uno scarso mercato per i prodotti agricoli come per quelli industriali. Ciò determinava una diffusa insufficienza di capitali da investire nella produzione e nello sviluppo, che si traduceva in un'insufficiente offerta di posti di lavoro, in diffusa povertà e così via.
In conclusione, la politica della Destra, oltre a non recare decisivi progressi all'economia del Paese e a suscitare il malcontento popolare, risultava svantaggiosa anche per le classi medie (per esempio, commercianti e professionisti che, con un'economia più florida, avrebbero potuto lavorare con maggiori benefici). La piccola borghesia era scontenta anche perché non aveva ancora diritti elettorali, limitati per legge a una fascia molto ristretta di cittadini.
Il 18 marzo 1876 il governo della Destra fu costretto a dimettersi. La presidenza del Consiglio venne allora affidata al lombardo Agostino Depretis (1813‑87), uno dei maggiori esponenti della Sinistra.
La nuova maggioranza, che Depretis guidò ‑ eccetto due brevi interruzioni ‑ fino al 1887, attuò subito una serie di importanti riforme, con lo scopo di radunare intorno a sé tutti i gruppi sociali in qualche modo danneggiati dalla Destra. Depretis cercò infatti continuamente, tramite concessioni e agevolazioni, di venire incontro alle diverse richieste dei gruppi di potere che potevano opporsi al suo governo. Venne così a poco a poco a mancare la distinzione tra Destra, intesa come partito moderato e conservatore, e Sinistra, come partito democratico e progressista. Proprio per questa politica del massimo consenso attuata da Depretis all'interno del Parlamento (e quindi tra i deputati che rappresentavano le diverse forze politiche), il trasformismo venne spesso duramente criticato, perché in molti casi favorì il clientelismo, ossia la pratica di accordare favori personali o concessioni a interessi locali o a gruppi d'interesse in cambio dell’appoggio parlamentare.
Tra le riforme della Sinistra vi fu quella attuata con la legge Coppino (1877) che ribadì l'obbligatorietà e la gratuità dell’istruzione elementare, stabilendo pene per coloro che non rispettavano tale obbligo. Questo provvedimento servi, almeno in parte, a combattere l'analfabetismo, ancora molto diffuso nelle campagne e nel Mezzogiorno. Venne inoltre abolita l'odiata tassa sul macinato (v. cap. 36). Furono presi i primi provvedimenti per la tutela del lavoro minorile e, attraverso una modifica della legge elettorale, venne aumentato il numero degli elettori, che da 620000 passò a oltre 2 milioni. Dal voto restavano ancora esclusi gli analfabeti, le donne e coloro che ‑ come i piccoli proprietari e i nullatenenti, gli operai e i piccoli artigiani ‑ avevano un reddito molto basso.
Sempre in questo periodo venne avviata, su mandato parlamentare, un'inchiesta agraria, che costituì un importantissimo contributo per la conoscenza delle campagne italiane e della loro spaventosa arretratezza sociale. Fu anche attuata una serie di provvedimenti a favore dell’industria nazionale, ancora decisamente arretrata rispetto a quella delle maggiori potenze europee. Per proteggere la produzione industriale italiana dalla concorrenza straniera vennero allora imposte tariffe doganali sui prodotti stranieri, in modo da aumentarne i prezzi, rendendo più convenienti i prodotti nazionali. Per facilitare lo sviluppo dell’industria italiana, oltre a queste misure protezionistiche, il governo decise il finanziamento di alcuni settori industriali (metallurgico, siderurgico e meccanico). Nacquero così i primi importanti complessi industriali italiani, quali le acciaierie di Terni e le officine Breda.
L'adozione di una politica protezionistica si rese tanto più necessaria quando, soprattutto a partire dagli anni Ottanta, la concorrenza di Paesi extraeuropei si fece sentire anche in Italia in modo molto acuto non soltanto nel settore industriale, ma anche in quello agricolo.
Dagli Stati Uniti e da alcune regioni asiatiche arrivavano infatti sui mercati d'Europa enormi quantità di grano, venduto a prezzi decisamente inferiori rispetto a quelli europei. Quelle regioni, infatti, erano estremamente fertili, la loro produzione era molto elevata e, perciò, i loro prodotti venivano venduti a prezzi bassi, anche grazie alla diminuzione del costo del trasporto per mare.
L'agricoltura europea, non esclusa quella italiana, non poté reggere alla concorrenza straniera; la conseguenza fu, anche in Italia, il crollo del prezzo del grano -e di altri prodotti agricoli- che a sua volta provoco un impoverimento dei piccoli e medi proprietari terrieri. Si impose perciò la necessità di proteggere ulteriormente l'economia nazionale. Nel 1887 vennero fissate nuove misure protezionistiche, ancora più rigide.
Tali misure protezionistiche, tuttavia, per la mancanza della concorrenza straniera, provocarono un notevole aumento dei prezzi dei generi di prima necessità, determinando un peggioramento delle condizioni di vita dei ceti più poveri. Se fu positivo per lo sviluppo dell’industria, il protezionismo ebbe dunque ripercussioni negative sull'agricoltura italiana, soprattutto quella del Meridione. I Paesi stranieri, infatti, per reazione alle tariffe doganali imposte dal governo italiano sui loro prodotti, introdussero, a loro volta, tariffe sui prodotti agricoli italiani, in particolare su quelli del Sud, come l'olio e il vino, fino a quel momento esportati in notevoli quantità.
Per far fronte alla crisi, in realtà, sarebbero state necessarie profonde trasformazioni in agricoltura, per esempio lo sviluppo di colture specializzate e l'introduzione di metodi di coltivazione più moderni; ma le condizioni di arretratezza e miseria sociale ed economica nelle quali versavano soprattutto le regioni meridionali impedivano costose trasformazioni. Perciò l'agricoltura, che versava in uno stato di crisi, e l'ulteriore immiserimento dei ceti poveri contribuirono a spingere all'emigrazione migliaia di persone dal nostro Paese verso l'America e in particolar modo Argentina e Stati Uniti.
Agli inizi degli anni Ottanta, il governo italiano prese alcune importanti decisioni in politica estera. Nel 1881, come si è detto, la Francia impose il protettorato sulla Tunisia, dove vivevano mezzo milione di Italiani e su cui l'Italia stessa aveva mire espansionistiche; ciò provocò una serie di tensioni con la Francia, tanto che il governo e il re Umberto I (1878-1900) decisero di proteggere il Paese da una possibile aggressione da parte francese. Pertanto l'Italia stipulò nel 1882 la Triplice Alleanza, un patto a carattere difensivo con la Germania e l'Impero austro‑ungarico.
Questo accordo siglato con l'Impero austro‑ungarico, per tradizione nemico dell’Italia, scatenò numerose proteste da parte degli irredentisti, i patrioti che non si erano rassegnati a lasciare all'Austria i territori del Trentino e della Venezia Giulia ancora “irredenti”, vale a dire non ancora liberati dal controllo straniero. Una clausola della Triplice Alleanza, però, prevedeva che, se l'Austria si fosse ingrandita nei Balcani, l'Italia sarebbe stata compensata con l'annessione di nuovi territori: così Roma sperava di ottenere pacificamente Trento e Trieste.
Dopo il trattato di alleanza con la Germania e l'Austria, l'Italia, sentendosi più sicura in Europa, decise di tentare l'avventura coloniale.
Fin dal 1869 la Compagnia di navigazione Rubattino aveva acquistato una base ad Assab, sulla costa africana del mar Rosso, in un territorio nominalmente appartenente all'Impero ottomano; la base doveva servire quale scalo per i vapori sulla via dell’Oriente, sempre più battuta anche dagli Italiani.
Nel 1882 la baia di Assab fu acquistata dal governo italiano: e questo fu il punto di partenza per l'espansione in Eritrea, militarmente occupata infatti tre anni dopo. Un ulteriore tentativo di espansione dell’Italia in Eritrea venne tuttavia fermato: a Dogali, infatti, nel 1887 le truppe italiane furono pesantemente sconfitte dagli Abissini. La sconfitta di Dogali suscitò in Italia un'emozione enorme e portò il governo Depretis a decidere la sospensione della campagna africana.
Nel 1887, alla morte di Depretis, la direzione del governo passò a Francesco Crispi, un ex repubblicano e garibaldino che successivamente aveva aderito alle idee monarchiche e legalitarie. Il momento era piuttosto delicato: l'Italia infatti stava ancora subendo gli effetti della grave crisi economica, e molto aspra era la protesta sociale di contadini e operai.
Eccetto gli anni 1891‑93, Crispi fu alla guida del governo fino al 1896. Anch'egli adottò una serie di riforme, quale l'abolizione della pena di morte, e prese provvedimenti per la tutela della salute pubblica; con lui tuttavia la politica del governo ebbe una svolta autoritaria. Nelle rivendicazioni delle organizzazioni operaie e di quelle contadine Crispi vedeva infatti un attentato alla sicurezza dello Stato; pertanto le loro rivolte vennero affrontati e con la forza: nel 1894, furono represse le agitazioni promosse in Sicilia dai cosiddetti “Fasci dei lavoratori” , organizzazioni di contadini che si ispiravano al socialismo; al Nord, in Lunigiana, furono stroncate le rivolte di minatori. Per arginare ulteriormente la protesta sociale, Crispi decise anche lo scioglimento di tutte le organizzazioni operaie e socialiste, compreso il Partito socialista, fondato a Genova nell'agosto del 1892.
In politica estera, l'obiettivo di Crispi era una politica di potenza che desse all'Italia prestigio internazionale. Questo doveva realizzarsi attraverso il potenziamento delle forze armate e la ripresa delle imprese coloniali. Per l'Italia l'espansionismo coloniale era una necessità sia politica sia economica: esso sarebbe dovuto servire a procurare nuovi mercati e materie prime a basso prezzo. Il governo italiano cercava insomma di stare al passo con le grandi potenze; inoltre, era convinto che con la conquista di colonie si potesse trovare, prima o poi, uno sbocco soddisfacente al problema dell’eccesso demografico nel Paese.
Il primo obiettivo del governo Crispi era quello di fare dell’Etiopia, che era il più forte Stato africano, un protettorato italiano. Nel 1889 il governo italiano stipulò quindi, con il sovrano (o negus) etiopico Menelik, il trattato di Uccialli, con il quale l'Italia ottenne il riconoscimento dei possessi in Eritrea, il protettorato sulla Somalia settentrionale e si illuse di ottenere pure il protettorato sull'Etiopia. A distanza di pochissimi anni, tuttavia, il negus Menelik rifiutò la tutela del governo italiano, che, per imporla, intervenne allora con la forza. Ma, dopo alcuni successi italiani, le truppe di Menelik inflissero all'esercito italiano la dura sconfitta di Adua, nel 1896. Le ambizioni coloniali italiane si restrinsero perciò all'Eritrea e alla Somalia, affacciata sull’oceano Indiano.
Le aspre polemiche seguite alla sconfitta di Adua provocarono le immediate dimissioni di Crispi.
Negli ultimi decenni dell’Ottocento si rafforzò in Italia il movimento operaio: nacquero i primi sindacati e numerose associazioni che organizzavano lavoratori delle fabbriche, contadini e braccianti. Cominciava infatti a farsi strada la consapevolezza che l'organizzazione e la solidarietà tra le classi lavoratrici erano indispensabili per raggiungere i loro obiettivi, spesso in contrasto con le esigenze dei datori di lavoro.
I principali tra questi obiettivi erano la lotta contro la disoccupazione, l'aumento dei salari, la riduzione dell’orario giornaliero di lavoro.
All'interno delle organizzazioni operaie e contadine si diffuse soprattutto l'ideologia socialista e fu proprio all'unificazione di diverse organizzazioni operaie e contadine che nel 1892, a Genova, nacque il Partito socialista italiano.
Nel frattempo, in campo sociale e politico, stavano gradualmente affermandosi anche le iniziative dei cattolici. L vero che essi non potevano partecipare alla vita politica attiva: lo aveva vietato papa Pio IX, dopo che lo Stato italiano si era impossessato di Roma, e il suo successore Leone XIII aveva ribadito l'inopportunità che i cattolici partecipassero alle elezioni politiche. Lo Stato italiano, quindi, nato con l'eliminazione dello Stato pontificio, continuava a essere considerato dai cattolici come usurpatore dei diritti del papa. Tuttavia la Chiesa e le associazioni cattoliche erano intervenute in campo sociale, con opere di beneficenza, di assistenza e anche con la fondazione di istituti di credito a favore di artigiani e piccoli proprietari terrieri. 1 cattolici inoltre avevano cominciato a confrontarsi con la questione sociale, prendendo atto della gravità delle condizioni di vita delle classi lavoratrici. Infine i cattolici prendevano parte alle elezioni dei Consigli comunali e provinciali e molti di essi erano anche nominati sindaci, assessori, consiglieri.
Alla base dell’intervento cattolico in campo sociale vi era l'enciclica Rerum novarum, emanata nel 1891 da Leone XIII: in essa veniva analizzata la condizione dei proletari e si sosteneva la necessità di andare in loro aiuto. In contrapposizione al socialismo si affermava poi l'importanza della proprietà privata, ma anche la necessità che i datori di lavoro rispettassero la dignità umana dei lavoratori e li retribuissero con un salario adeguato. Nell'enciclica inoltre si proponeva, come rimedio, la formazione di associazioni operaie cattoliche e di associazioni miste di lavoratori e proprietari. Sotto l'impulso della Rerum novarum si moltiplicarono associazioni operaie e sindacati cattolici, banche, casse rurali, cooperative, scuole di arti e mestieri.
Sull'esempio di quanto era avvenuto in altri Paesi, a fine Ottocento si diffuse in Italia un movimento politico cattolico. Esso attribuiva ai cattolici il dovere di realizzare una maggiore giustizia sociale rifiutando sia la concezione materialistica dei socialisti, sia l'individualismo e l'“affarismo” dei liberali. I suoi esponenti ritenevano che fosse necessaria la partecipazione politica dei cattolici e che fosse giunto il momento di costituire un partito cattolico a carattere democratico e autonomo rispetto alle gerarchie ecclesiastiche. Il movimento fu sciolto nel 1907; esso tuttavia pose le basi per un futuro partito cattolico di massa.
Dopo le dimissioni di Crispi, si apri in Italia un periodo di crisi che si protrasse per cinque anni. Durante questa fase si fecero più acute le proteste degli operai e dei contadini per le sempre più insostenibili condizioni di vita. Contro l'inasprimento fiscale, contro l'aumento della disoccupazione e per ottenere miglioramenti salariali, nel corso del 1897, scoppiarono agitazioni operaie e contadine. L'anno successivo, in diverse città si verificarono altri gravi tumulti contro l’aumento dei prezzi. Il governo, presieduto dal marchese Antonio di Rudinì, ordinò una dura repressione. Nel maggio 1898 a Milano, le truppe del generale Bava Beccaris spararono sulla folla, che protestava contro il rincaro del pane, e fecero diverse decine di morti. Il marchese di Rudinì, violando la legge, fece arrestare molti dirigenti dell’estrema sinistra, compresi alcuni deputati in carica; inoltre proibì i giornali e le associazioni dei gruppi di opposizione, quali anarchici, radicali, repubblicani, socialisti e cattolici dichiaratamente antigovernativi. Poco dopo il generale Luigi Pelloux, succeduto a Rudinì a capo del governo, non si limitò a vietare le associazioni politiche e i giornali dell’estrema sinistra, ma cercò anche di limitare le libertà parlamentari, compresa quella di discussione in aula. Le accese reazioni del Parlamento stesso contro le proposte di Pelloux determinarono lo scioglimento della Camera. Le nuove elezioni, nel giugno del 1900, registrarono un notevole successo dei gruppi di Sinistra: era il segnale che il Paese sentiva il bisogno di una svolta. L’urgenza di un cambiamento politico venne ribadita dall'assassinio di Umberto I, ucciso a Monza dall'anarchico Gaetano Bresci.
Alla fine del secolo, una parte consistente della dirigenza politica italiana cominciò dunque a comprendere che, per dare stabilità all'Italia, le istituzioni dovevano adottare strumenti e metodi diversi: non servivano le limitazioni delle libertà, le repressioni, le polizie, gli stati d'assedio, ma occorreva cercare un più ampio appoggio nel Paese.
Fonte: http://www.donatoromano.it/dal%20congresso%20di%20Vienna%20ai%20primi%20governi%20dell'Italia%20unita.doc
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