La scoperta dell’America

La scoperta dell’America

 

 

 

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La scoperta dell’America

Aprile 1492 - Capitolazioni di Santa Fe’ (autorizzazione a Colombo per la messa in atto del progetto di esplorazione ad occidente)
Le convinzioni di Colombo sulla fattibilità del viaggio si basano su di alcuni fattori:

  1. lettura del Milione di Marco Polo
  2. dissertazione del Cardinale D’Ailly sulla sfericità della Terra
  3. teoria di Toscanelli
  4. valutazione (errata) della circonferenza della terra intorno ai 30.000 km (e non 40.000)

San Salvador (arcip. Delle Bahamas) viene raggiunta il 12 Ott. 1492
Amerigo Vespucci compie un viaggio (1499-1502) nel corso del quale comprende la vera identità del nuovo continente, e nella lettera “Mundus Novus” del 1503, dà l’annuncio della sua scoperta. Per questo motivo il geografo tedesco Waldseemuller, in una carta del 1507, propone di denominare America le nuove terre scoperte.

Il viaggiare di Colombo è legato fortemente all’idea di redenzione religiosa dei popoli. Egli stesso, in qualche occasione, non manca di rilevare il carattere profetico del suo nome: Cristoforo, “Christum Ferens”. Da non dimenticare, inoltre, l’influenza della visione escatologica di Gioacchino da Fiore.

 

Le fasi dell’espansione europea:

  • esplorazione
  • invasione
  • conquista
  • colonizzazione

La conquista

  1. Conquista di Cortez dal 1519. La spedizione parte da Cuba e trova la sua realizzazione nella conquista e distruzione del potere degli Aztechi. Divenuto governatore del nuovo territorio, Cortez chiede l’invio di missionari per estirpare gli antichi culti.
  2. Pizarro dà il via alla conquista del Perù intorno al 1532. L’impero Incas , fondato intorno al 1000 da Manco Capaz, ha come capitale Cuzco, sede del Tempio del Sole. Dopo la distruzione dell’impero buona parte della popolazione indigena viene asservita nel lavoro coatto delle miniere. Tentativo di insurrezione indipendentistica , capeggiata da Tupac Amaro che viene catturato ed ucciso nel 1571.

 

E’ possibile parlare in modo semplice di scontro tra due culture? Si tenga presente che gli iberici non sono più di 10.000 a fronte di indigeni il cui numero si aggira tra i 50 ed i 100 milioni. Le forme della penetrazione presentano modalità diverse a seconda del tipo di organizzazione politico-militare della popolazione indigena. Gli iberici sono abili nel realizzare alleanze con gruppi contro altri e a far esplodere i contrasti, a loro favore. Si tenga poi presente che fino a metà del XVI secolo non si registra una sostanziale trasformazione dell’assetto sociale del mondo indigeno.
Si può parlare di passaggio dalla fase della semplice invasione alla vera e propria conquista e poi colonizzazione in occasione del crollo demografico delle popolazioni indios.( qualche cifra: da 21 milioni a 5 nella zona del Messico) e della costituzione di nuove forme di insediamenti urbani.
Già sul finire del ‘400 emerge la questione dei diritti di insediamento delle potenze iberiche nei nuovi territori. E’ del 1494 il Trattato di Tordesillas (Alessandro VI).A Siviglia nasce la Casa de Contractation che regola gli spostamenti e le attività commerciali con il nuovo mondo. Viene poi costituito un Consiglio delle Indie a cui sarà sottoposta la casa de Contractation. Per quanto concerne il controllo del centro sulla periferia ricordiamo    l’istituzione delle audiencias (organismi collegiali di controllo). A partire, poi, dal 1535 vengono nominati i vicerè che sono posti a capo di una fitta rete di esercizio del potere, su modello spagnolo.

 

L’incontro con il “selvaggio”

 

Potremmo dire , parafrasando una frase dello studioso Lévi-Strauss, che il “selvaggio” è innanzitutto l’uomo che crede nei “selvaggi”.
Fantasie popolari sugli “uomini nuovi” emergono fin dai tempi di Plinio il Vecchio (I sec. D.C.). Le idee che circolano parlano di uomini senza testa, con occhi e bocca sul petto, deambulanti sulle braccia..Si parla dell’esistenza del mondo degli Antipodi caratterizzato da un modo di vivere rovesciato.
All’atto della scoperta il continente americano è popolato da una moltitudine di popolazioni che hanno raggiunto un diverso livello di sviluppo per quanto riguarda i mezzi di sussistenza e l’organizzazione sociale. Anche se variegato e spesso segnato da forti contrasti si trattava comunque di un mondo per molti aspetti equilibrato, soprattutto per quanto concerne la relazione uomo-ambiente.
La distribuzione sul territorio può essere così esemplificata.:

  • Indiani del nord-ovest/ Caribi delle Antille (nomadismo- struttura organizzativa elementare- caccia e pesca)
  • Irochesi dei grandi laghi/ Arawak dell’Amazzonia (sedentari- agricoltura: mais e manioca)
  • Imperi Maya,Incas,Aztechi (sviluppo sociale, tecnologico avanzati)

L’invasione europea costituisce un vero e proprio collasso segnato dalla sterminio delle popolazioni e dalla distruzione di culture, tecniche, strutture organizzative, modelli produttivi ed alimentari.
Il disastro demografico che vede la scomparsa di milioni di persone nel giro di un secolo può essere ricollegato ad innumerevoli fattori (sui quali gli storici ancora dibattono):

  • La pratica del massacro
  • L’azione naturale dei microbi
  • La riduzione in schiavitù con il conseguente sconvolgimento di modelli di vita preesistente
  • I nuovi rapporti economici che annientano l’equilibrio tra bisogni e produzione

Scrive in proposito G.Gliozzi :” Alla vivace tendenza espansionistica del nascente capitalismo europeo….per affamare i loro oppressori.” (da “La scoperta dei selvaggi”)
Una volta descritto l’evento della distruzione delle civiltà precolombiane si tratta di domandarsi quale coscienza ebbero di tutto ciò i coloni, i missionari, gli uomini di cultura europei e , soprattutto, quale immagine si costruirono delle popolazioni che venivano da loro assoggettate e annientate.
Fin dai primi anni della conquista spagnola si profila un atteggiamento di rifiuto quasi completo e di misconoscimento della piena umanità nei confronti delle popolazioni indigene.
La scoperta stessa di Colombo introduce la nozione di selvaggio: infatti le osservazioni del navigatore e dei suoi collaboratori diventano presto oggetto di divulgazione e contribuiscono a generare convinzioni generali.
La coscienza degli Europei , impegnati in un’opera sempre più sistematica di rapina delle risorse del nuovo continente, viene tacitata dall’immagine dell’americano come essere bestiale, rozzo, incivile, che, come sostiene ad esempio il domenicano Domingo de Betanzos in una relazione destinata al Consiglio delle Indie (1528) meritano, per volere di Dio, una rapida estinzione.
Naturalmente accanto a posizioni di questo tipo troviamo anche un atteggiamento più prudente e possibilista, come quello del papa Paolo III che, nell’enciclica “Sublimis Deus” del 1537 dichiara che gli indios sono umani a tutti gli effetti e che , proprio per questo devono essere ammaestrati alla vera fede. Si tratta di un’opera di inclusione degli stessi entro un universo culturale e religioso ritenuto valido in sé: per questo motivo la posizione per così dire “moderata” può essere ancora collocata nell’ambito del rifiuto della differenza.
Gli indios americani vengono chiamati selvaggi dagli europei , in quanto “abitanti delle selve”, cioè vengono equiparati alla natura e non riconosciuti come portatori di cultura ( legati cioè al determinismo della natura piuttosto che alla libertà della storia e della civiltà). Quali considerazioni stavano alla base della presunta superiorità” degli europei?

  • Gli europei professano la vera fede
  • Gli europei possiedono navi , armi da fuoco e vestiti
  • Gli europei si fanno crescere la barba
  • Gli europei conoscono il valore dell’oro
  • Gli europei hanno lingue complete (mentre le lingue americane non conoscono alcuni suoni quale effe,erre,elle)

(queste considerazioni sono indicate nel testo “Historia de la Provincia de Sancta Cruz di Pedro Magalhaens de Gardavo)

 

La Scoperta dell’Altro

 

Lo studioso russo Tzvetan Todorov affronta il problema del viaggio di Colombo non tanto da un punto di vista storico, quanto antropologico. Egli esamina gli scritti del navigatore (diari, lettere, rapporti…) per comprendere le sue idee degli indiani, al momenti dei primi incontri. L’atteggiamento di Colombo, ciò che egli nota degli indigeni, il suo stesso modo di osservarli sono dati altrettanto indicativi di una esperienza della differenza ma anche del non riconoscimento.
“Colombo parla degli uomini che vede solo perché dopo tutto fanno parte anch’essi del paesaggio………..” (da Todorov- La scoperta dell’altro”)
In forza di queste convinzioni si fa strada la perplessità sull’effettiva umanità degli indios, una perplessità che produce dubbio sulla presenza in essi di sentimenti, capacità intellettive e morali simili a quelle degli europei.
Su questo tema nasce una polemica tra il domenicano Las Casas e l’umanista spagnolo Sepulveda, autori , rispettivamente, della Apologetica Historia (1550 c.) e del Democrates secundus de iustis belli causis (1547) .
La posizione di Las Casas consiste in un’appassionata difesa degli indios visti come genti dotate di virtù quali la semplicità, la purezza, la docilità, il candore, l’innata fiducia nel prossimo… Essi vengono in un certo senso visti come esempio di un’umanità originaria, non ancora corrotta dalle brutture della storia e per questo vicina a Dio. La posizione dell’antagonista, fondandosi sulla teoria aristotelica dell’esistenza di una gerarchia naturale tra gli esseri, consiste invece in una dura e violenta requisitoria che sottolinea le differenze profonde tra selvaggi ed europei, fino a definire i primi “homunculi” e giunge a giustificare le stragi compiute ai loro danni perché compiute in nome della fede e contro popoli non civilizzati.
Una prima valutazione della disputa potrebbe condurre alla contrapposizione tra un Sepulveda francamente razzista ed ostile a qualsiasi esperienza di alterità e un Las Casas collocabile su posizioni diverse. In realtà, come invita a fare Todorov nel suo scritto “La scoperta dell’Altro”, le due posizioni contengono un’indisponibilità di fondo all’accettazione dell’altro: in un certo senso questa indisponibilità si fa particolarmente forte, contro ogni aspettativa, proprio in Las Casas. Infatti mentre Sepulveda, pur con tutto il suo odio e la sua avversione per gli indios, dimostra per lo meno di percepire una loro diversità, Las Casas li accetta ma con un chiaro atteggiamento assimilazionista. Con la conseguente indisponibilità ad accoglierli nella loro libertà ed originalità culturale.
Possiamo dunque ritenere che entrambi gli autori siano rappresentativi di una indisponibilità ad accettare l’”altro” in quanto tale, senza porre gerarchie o demonizzazioni. In effetti questa indisponibilità si coniuga con quel sentimento di paura del demoniaco che già in Europa si sta sviluppando. Scrive Delumeau nella sua “Storia della paura in Occidente”:
“ I missionari e l’élite cattolica nella sua maggioranza aderiscono alla tesi espressa da Padre Acosta: dalla venuta di Cristo e l’espansione della vera religione nel Mondo Antico, Satana si è rifugiato nelle Indie…..in America , prima dell’arrivo degli Spagnoli, egli regnava come padrone assoluto”
I teologi fanno riferimento all’idolatria degli indios considerandola l’inizio e la fine di tutti i mali. Questa idolatria non viene interpretata (e dunque in parte assolta) come una forma di religione naturale, se non da pochi come Las Casas il quale la depenalizza fino a vederla come consustanziale all’uomo dallo stesso Montaigne che prende le difese delle civiltà precolombiane. Nell’epoca in cui trionfa il progetto di estirpazione radicale dell’idolatria diventa sospetto anche l’atteggiamento di chi assume una certa tolleranza nei confronti degli usi e costumi degli indios.
“In Perù Francesco da Toledo , viceré dal 1569 al 1581, si fa campione in quest’area del Nuovo Mondo della lotta contro l’idolatria. Egli stesso, gli uomini di legge e i teologi che lo circondano ritrovano e radunano tutti gli argomenti inventati dalla scoperta dell’America per giustificare la conquista di infedeli non assoggettati ed il saccheggio dei loro tesori: gli Incas hanno peccato contro il vero Dio obbligando le popolazioni ad adorare degli idoli, chiudendo loro così la strada della salvezza.”
Il rifiuto della diversità culturale degli indios si concretizza da un lato nella persecuzione condotta nei confronti di coloro che ostinatamente rimangono legati alle antiche tradizioni religiose, e dall’altro nella pianificata distruzione dei segni tangibili del culto precristiano.
“Fin dal 1525 il francescano Martin de la Coruna distrusse tutti i templi e gli idoli di Tzintzuntzan, la città santa del Michoacan. Un altro francescano , Pietro di Gand, dichiara nel 1529 che la sua grande occupazione con i suoi allievi consiste nell’abbattere gli edifici e gli oggetti religiosi indigeni. Nel Luglio 1531 Zumarraga, primo vescovo del Messico, calcola che dall’inizio della conquista sono stati distrutti nella Nuova Spagna più di 500 templi e di 20.000 idoli”
Notiamo dunque che la politica della tabula rasa costituisce fin dall’inizio la linea di condotta spagnola in America. E per rendere sempre efficace questo tipo di azione vengono istituiti a partire dal XVII sec. dei tribunali che per certi aspetti ricordano quelli dell’Inquisizione funzionanti in Europa. e delle case di pena per pagani impenitenti (es. la casa de Sancta Cruz a Lima)

La distruzione di un mondo storico e l’evoluzione dell’idea di “selvaggio”

 

Le civiltà precolombiane furono distrutte dalla conquista. Si tratta di una distruzione legata non solo all’esercizio diretto della violenza, ma anche all’indifferenza , quando non addirittura dall’avversione , verso forme diverse di civiltà o, più semplicemente, dall’ignoranza.
La disputa su selvaggi si gioca,dunque, tutta sull’alternativa :Buoni_Cattivi. Quindi si tratta di un giudizio che parte da un modello precostituito. Il primo ad accettare, invece,l’ottica del diverso è il filosofo francese Montaigne, il quale colloca il costume nella sfera della grande variabilità dei comportamenti umani: misurare i costumi altrui sulla base dai nostri significa ignorare questa elementare verità e ridurre a barbaro tutto ciò che non corrisponde al nostro modo di comportarci.
Dopo Montaigne la riflessione sul selvaggio assume un connotato di variabilità rispetto alla pura e semplice condanna dei primi decenni del XVI secolo. Si comincia a riconoscere una certa autonomia di soggetto indipendente anche se permangono prese di posizione come quella di Giuseppe Acosta che nella Historia naturale e morale delle Indie del 1589 utilizza una quantità di dati oscillanti tra lo storico ed il mitologico per dimostrare che gli uomini del Nuovo Mondo sono simili agli antichi greci e romani. Il selvaggio comincia ad essere collegato con l’umanità degli albori del mondo, mentre viene sempre più accettata la “teoria dei 4 stadi”. Man mano che si sviluppa la cultura illuminista il selvaggio viene equiparato agli albori della storia dell’umanità e viene visto come modello di purezza e semplicità che deve addirittura ispirare un processo di rinnovamento del mondo.

 

A questo proposito ricordiamo alcuni scritti:

Rousseau:     Discorso sull’origine della disuguaglianza tra gli uomini
Voltaire   :   Conversazioni tra un selvaggio ed un baccelliere
Diderot    :   Supplemento al Viaggio di Bouganville

Il selvaggio in queste opere non è più l’uomo naturale, ferino, ma appartiene ad una società che è in equilibrio tra”la stupidità dei bruti e i lumi funesti dell’uomo civile”Da questo punto di vista il selvaggio, che vive in un mirabile equilibri di natura e cultura, viene utilizzato come espediente culturale per condurre una critica alla società presente e per fondare un progetto di rinnovamento della società.
Ma ancora una volta viene accantonato l’interesse per uno studio della specificità della sua dimensione culturale e storica.

LA "SCOPERTA" DELL'AMERICA, DAL PUNTO DI VISTA DI CHI L'HA SUBITA

LO SGUARDO DEGLI SPAGNOLI SULL'AMERICA
Il progetto di Colombo è assimilazionista, egli vuole ricondurre gli indigeni alla cultura spagnola, con le stesse usanze, le stesse tradizioni, convinto che questa sia per loro la cosa migliore.
Quando alla pace subentra la guerra, il suo atteggiamento passa rapidamente dall'assimilazionismo allo schiavismo, sottolineando l'inferiorità degli indigeni, e considerandoli come oggetti viventi di cui disporre a piacimento.
Il trattamento peggiore era riservato alle donne che venivano sfruttate dagli spagnoli e che subivano ogni genere di violenze e di umiliazioni.
Gli indigeni, nonostante fossero in numero assai maggiore degli spagnoli, vennero sconfitti da questi ultimi per cinque principali motivi motivi:

  1. Il comportamento ambiguo ed esitante di Moctezuma, capo degli aztechi, che non oppone resistenze, si lascia imprigionare, cede il potere per evitare spargimenti di sangue, addirittura si dichiara pronto a convertirsi al cristianesimo.
  2. L'arrendevolezza degli indios per la mancanza di comunicazione fra di loro al momento dell'arrivo degli stranieri.
  3. La strategia politica che porta Cortès a sfruttare i dissensi interni guadagnandosi l'appoggio dei popoli sottomessi agli aztechi.(ad esempio i Tlaxaltechi si alleano agli spagnoli per liberarsi dal giogo imposto loro dagli aztechi; ma in seguito Cortès non apparirà più come liberatore, ma come un tiranno ben più crudele di Moctezuma).
  4. La superiorità degli spagnoli data dalle armi da fuoco; inoltre gli aztechi non conoscevano la lavorazione dei metalli e non avevano a disposizione i cavalli.
  5. Le malattie mortali e sconosciute agli indigeni, portate dagli spagnoli.

Ciò che ha contribuito maggiormente a far sì che i conquistatori distruggessero le società messicane è stata la facilità con cui essi sono passati dal comprendere al prendere e dal prendere al distruggere. Questo non vuol dire che gli spagnoli detestassero gli aztechi, anzi lo stesso Cortès descrive nei suoi scritti con molta ammirazione le loro città e le loro usanze paragonandole a quelle spagnole (ciò nonostante, tutto è stato annientato).

COME AVVIENE UN GENOCIDIO
In seguito ad alcune ricerche si è potuto affermare, anche se non con assoluta sicurezza, che la società indigena all'inizio della conquista contava circa ottanta milioni di persone, mentre cinquanta anni dopo ne rimanevano solo dieci milioni.
Le principali cause di questo genocidio sono da ricercare sia nell'uccisione diretta, tanto durante le guerre quanto in altri casi, sia nell'alta mortalità causata dalle malattie.
Ci sono molti racconti, fra i quali quelli di Las Casas, in cui si parla di bambini gettati in pasto ai cani e divorati di fronte alle madri; di operai maltrattati dai loro capomastri perché non raccoglievano abbastanza oro; di indigeni massacrati solo per provare se le spade erano abbastanza affilate; di donne mutilate e impiccate con appesi alle caviglie i propri figli.
Particolarmente dure erano le condizioni di lavoro imposte dai conquistadores, specialmente nelle miniere. Il loro desiderio di arricchirsi era tale che non si preoccupavano minimamente della salute degli operai. Per quanto riguarda le malattie queste fecero sicuramente più vittime tra gli indigeni perché non erano conosciute ed essi, privi di specifiche difese immunitarie, erano molto più vulnerabili, essendo deboli per il lavoro e stanchi della vita. Tutto questo provocò anche una diminuzione di natalità, non solo perché i neonati morivano subito, dato che le madri non avevano abbastanza latte, ma anche le stesse donne abortivano o li affogavano per la disperazione.
Tutta questa crudeltà può essere spiegata con il prepotente desiderio di arricchirsi che animava i conquistatori, ma rimane anche il fatto che gli spagnoli provavano quasi piacere nel dare la morte; inoltre il fatto di essere lontani dalla legislazione e dal potere centrale, aumentava la loro libertà d'azione.
LA DISCUSSIONE SULL'INFERIORITA' DEGLI INDIGENI
Alla base di tutto vi era comunque l'idea dell'inferiorità degli indigeni, e su questo punto si sviluppò all'epoca un ampio dibattito. Il giurista regio P.Rubios scrisse il "Requirimento" con il proposito di dare una base legale alla conquista ed esso doveva essere letto pubblicamente agli indigeni per spiegare loro che quella terra era stata data in dono dal papa agli spagnoli.
Peccato che questa lettura avvenisse in una lingua sconosciuta agli indigeni e che questi non potessero ribattere nulla.
Il dibattito tra i sostenitori dell'eguaglianza e dell'ineguaglianza raggiunse il suo apice nella controversia di Vallaloid nel 1550, dove si scontrarono Las Casas e Sepulveda. Quest'ultimo basa le sue affermazione sul fatto che la gerarchia sia lo stato naturale della società umana, e come il corpo deve essere sottomesso all'anima, la donna all'uomo, il figlio ai genitori, così anche la schiava al padrone.
Sepulveda aggiunge che gli indigeni sono inferiori per natura perché praticano il cannibalismo, i sacrifici umani e ignorano la religione cristiana, quindi gli spagnoli hanno il diritto, anzi il dovere, di imporre loro ciò che è bene, senza, preoccuparsi del loro punto di vista. Al contrario, Las Casas difende gli indigeni, dichiarando che il sacrificio umano è la forma più alta di devozione perché si dà alla divinità ciò che di più caro si possiede. Egli non si pronuncia mai né contro la sottomissione né contro la colonizzazione, ma dice che entrambe devono essere gestite diversamente, tramite un'azione pacifica, sostituendo i religiosi ai soldati.
Più volte Las Casas tentò anche di mettere in pratica questo suo progetto, ottenendo però scarsi risultati. Nonostante questa sua posizione favorevole alla causa indiana, egli rimase pur sempre soggetto all'ideologia del suo tempo. Un esempio è il diverso comportamento che assunse nei confronti dei neri non opponendosi alla loro schiavitù.
Un altro personaggio che giocò un ruolo importante nella causa a favore degli indigeni fu Sahagun. Egli nacque in Spagna nel 1499, entrò nell'ordine dei francescani e, trentenne, andò in Messico dove rimase fino alla morte. La sua attività fu quella di letterato, divisa tra insegnamento e scrittura. Imparò la lingua del posto, il nahuatl, cosa abbastanza insolita, e diventò professore di grammatica latina nel collegio francescano di Tlatelolco, destinato all'élite messicana, raggiungendo ottimi risultati.
SAHAUGUN E DURAN
Fu autore di numerosi scritti, essenzialmente di due tipi, che ci fanno capire il suo ruolo di mediatore tra le due culture: quelli che presentano agli indigeni la cultura cristiana, quelli che descrivono agli spagnoli la cultura nahutal. Spesso venne ostacolato in questa sua attività, o perché gli vietarono di scrivere, o perché gli sottrassero con l'inganno i suoi libri. La sua principale opera è Historia general de las cosas de la Nueva Espana nella quale, per facilitare l'espansione del cristianesimo, descrive in modo particolareggiato l'antica religione messicana.
In quest'opera, composta da dodici libri, si è servito di tre mezzi espressivi: il nahutal, lo spagnolo, il disegno. Infatti dapprima l'opera venne scritta in nahuatl, poi in spagnolo. Nel testo si limita alla semplice descrizione, utilizzando la tecnica letteraria del distanziamento, ma vi sono anche dei prologhi, delle avvertenze, delle digressioni che fungono da cornice, dove egli inserisce le proprie riflessioni con riferimento alla Bibbia.
Talvolta si allontana anche dal fine dichiarato dell'evangelizzazione, perdendosi in descrizioni di vicende naturali o leggende che non riguardano minimamente il cristianesimo.
Sahaugun ritenne che il risultato finale della conquista fosse negativo perché aveva calpestato e distrutto un'intera società; il suo sogno era infatti la creazione di uno stato cristiano e messicano allo stesso tempo, e per questo motivo egli venne condannato dalle autorità.
Va inoltre ricordata anche l'opera di Diego Duran che appartenne all'ordine dei domenicani e, nato in Spagna, da giovanissimo andò ad abitare in Messico. Formatosi internamente alla cultura indigena, ma senza abbandonare le idee cristiane.
Duran viene ad essere ambivalente. Egli è anche un evangelizzatore convinto, il quale crede che per imporre la religione cristiana sia necessario estirpare completamente il paganesimo; ma quest'ultimo può essere eliminato solo dopo averlo attentamente studiato. In base a questa convinzione egli critica il comportamento dei preti che generalmente si accontentano di conoscere superficialmente la lingua locale; se invece si comprende a fondo una lingua, si capisce meglio la cultura del popolo che la parla, e non si rischiano interpretazioni fallaci. Da questo deriva la condanna di coloro che hanno bruciato i libri indigeni perché, agendo in tal modo, hanno reso più difficile il lavoro di comprensione.
Gli indigeni, anche nel loro vivere quotidiano, seguono il loro rituale, e con il pretesto di onorare Dio e i santi, onorano le loro divinità e introducono nel nostro cerimoniale i loro riti.
Duran vede tali somiglianze tra gli europei e gli indigeni per usanze e costumi e in campo religioso, da ritenere che lo stesso San Tommaso, prima degli spagnoli, fosse giunto tra loro e li avesse evangelizzati.
Duran condivide il modo di vita del popolo indigeno, partecipa alle sue privazioni e alle sue difficoltà. Scrive la storia degli aztechi e della loro religione. Anche nel racconto Duran conserva la sua ambivalenza, mettendo quasi sullo stesso piano Dio e le divinità indiane.
Questa ambivalenza è il prezzo del missionario: per capire bisogna inserirsi in una civiltà fino quasi a diventare come uno dei suoi appartenenti.
GLI AZTECHI
Gli aztechi entrarono nella valle dell'Anahuac, corrispondente alla parte centrale dell'attuale Messico, durante il 1100. per circa due secoli, il loro dominio fu caratterizzato dalla formazione di varie città-stato come Tlacopan e Tenochtean. Con l'andare del tempo la struttura interna dell'impero venne ad assumere una più precisa fisionomia, nettamente differenziata dal tribalismo primitivo delle epoche precedenti. Infatti dopo numerose lotte intestine nacque una lega tra gli aztechi e le popolazioni limitrofe, con le quali stipularono un accordo in base al quale tutti si impegnavano ad appoggiarsi reciprocamente in caso di guerre.
Concordarono anche una divisione delle spoglie che andava a vantaggio degli aztechi.
Nessun altro popolo riuscì mai a tener testa alla forza riunita dei confederati. All'inizio del sedicesimo secolo, alle soglie dell'arrivo degli spagnoli, il dominio azteco si estendeva da un capo all'altro del continente, dall'Atlantico al Pacifico.
Lo stato era di tipo monarchico ed il sovrano era eletto tra gli appartenenti agli strati sociali più elevati.
Le leggi degli aztechi venivano trascritte sotto forma di pitture geroglifiche. Quasi tutte tutelano l'incolumità dell'individuo più che i diritti di proprietà. I grandi crimini contro la società incorrevano tutti nella pena capitale. Infatti il codice azteco è redatto con la severità e la crudeltà tipiche di un popolo rude, indurito dalla dimestichezza col sangue che credeva essenzialmente nel valore collettivo della purificazione corporale.
La società presentava un impianto di tipo verticale: all'apice stavano il re e le supreme gerarchie, alla base i plebei e gli schiavi, fra i due estremi i ceti che oggi sarebbero definiti medi.
Ogni uomo era catalogato per il mestiere che svolgeva.
Le donne, pur nello stato inferiore a quello degli uomini, godevano di molti diritti. All'istruzione si attribuiva grande valore; funzionavano due modelli di scuola: una aperta a tutti e una per diventare sacerdoti. Importantissima era la categoria dei pochtechi, ossia dei commercianti viaggiatori che, specie attraverso le esportazioni e le importazioni, alimentavano i rapporti con il mondo esterno.
Ogni città era divisa in distretti e ciascuno di questi disponeva della terra e degli altri mezzi necessari alla vita della propria collettività.
L'economia era basata prevalentemente sull'agricoltura e sull'artigianato; il commercio si svolgeva solo mediante baratto; infatti la moneta non era conosciuta come mezzo di scambio e il mercato assumeva perciò un ruolo fondamentale anche ai fini delle reciproche conoscenze.
Nella società azteca fu dominante il carattere rigido, militare. La tattica bellica perseguita era tipica di uno Stato che, pur avendo fatto della guerra un mestiere, non l'aveva elevato alla dignità di scienza. Gli aztechi avanzavano attaccando rapidamente, servendosi di imboscate, assalti di sorpresa e schermaglie da guerriglia. Eppure la disciplina era tale da meritare l'encomio dei conquistatori spagnoli.
Dopo Moctezuma (1481-1486) ebbe inizio il processo di decadenza dell'impero a causa dell'incapacità degli aztechi di trasformare la loro entità politico-territoriale in un regno unitario. Quando salì al trono Moctezuma II, il potere azteco era già minato dalle ribellioni dei vassalli e gli spagnoli, approdati in Messico nel 1519, comandati da Cortès, poterono sfruttare la situazione instabile ed ebbero perciò la conquista facilitata.
Per quanto riguarda la religione il tratto che più colpì gli spagnoli è, senza dubbio, il sacrificio umano. La pratica dei sacrifici umani entrò in uso presso gli Aztechi all'inizio del XVI secolo. Inizialmente sporadici divennero sempre più frequenti con l'accrescimento dell'impero, finchè alla fine quasi ogni festa era suggellata da questo rito.
A distanza di un anno dalla cerimonia sacrificale si sceglieva un prigioniero immune da qualsiasi difetto fisico, che rappresentasse la divinità. Costui conduceva una vita facile e lussuosa fino ad un mese dal sacrificio, ma alla fine il giorno fatale si avvicinava. Condotto al tempio, veniva ricevuto dai sacerdoti, che lo scortavano alla pila sacrificale, un enorme blocco di pietra dalla superficie leggermente convessa, dove lo facevano stendere.
Cinque sacerdoti gli legavano la testa e gli arti, mentre il sesto apriva il petto della vittima con un affilata lama di itztli, sostanza vulcanica e, ficcata la mano nella ferita, ne strappava il cuore ancora palpitante, sollevandolo verso il sole per poi gettarlo ai piedi del dio cui era dedicato il tempio.
Questo era il normale sacrificio umano azteco che colpì duramente gli europei man mano che si inoltravano in quel paese.
Questi rituali sanguinari non erano dettati da sadismo personale, ma erano rigorosamente prescritti dalla religione azteca.
La quantità di vittime immolate sugli altari raggiunse un numero molto elevato. Così, per gli aztechi, l'obiettivo principale della guerra, accanto all'estensione dei confini, era la cattura di vittime sacrificali. Di conseguenza il nemico non veniva mai ucciso in battaglia, se c'era modo di prenderlo vivo.
E' a questa circostanza che gli spagnoli spesso la loro salvezza. L'influenza di queste pratiche religiose fu disastrosa per gli Aztechi, infatti con queste loro istituzioni fornirono la principale giustificazione alla conquista, che si presentò come un intervento necessario per mettere fine alla barbarie.
Ultimi venuti sull'altopiano del Messico ed eredi di civiltà anteriori anche notevolmente sviluppate, gli Aztechi diedero opere originali sia alle lettere sia alle arti. La scrittura rappresentativa o figurativa degli Aztechi colpisce per il modo grottesco e caricaturale con il quale vengono raffigurati i soggetti. Gli Aztechi infatti delineavano con precisione solo le parti più importanti della figura e nei colori prediligevano gli sgargianti contrasti atti a produrre un'impressione violenta.
Gli aztechi inoltre usavano vari simboli per esprimere ciò che per sua natura sfuggiva alla rappresentazione diretta, come gli anni, i mesi e i giorni e una minima variante nella forma o nella posizione della figura implica un significato diverso. Si trovano infine i segni fonetici, usati essenzialmente per i nomi propri di persona e di luoghi che, essendo derivati da qualche particolare circostanza o caratteristica, possono inserirsi nel sistema geroglifico. Così il nome di città Cimatlan era composto da "cimate", una radice che nasceva in quella zona, e "than" che significa vicino. Benchè gli aztechi conoscessero tutti i vari tipi di pittura geroglifica, usavano di preferenza il metodo della rappresentazione diretta. La scrittura azteca servì anche a trascrivere leggi, liste dei tributi, la mitologia, i calendari, i rituali e gli annali politici. Per una corretta interpretazione della scrittura azteca è indispensabile porla in relazione con la tradizione orale, di cui era complementare.
Nei collegi dei sacerdoti, gli alunni apprendevano l'astronomia, la storia, la mitologia ecc., utilizzando i geroglifici come una raccolta di appunti. I brani scritti erano redatti su materiali diversi: tela di cotone e pelli ben conciate, che venivano raccolte in rotoli, chiuse, assumendo l'aspetto di un libro. All'epoca in cui giunsero gli spagnoli, nel paese si era accumulata una gran quantità di questi manoscritti. Sfortunatamente subentrò nei conquistatori il sospetto che quelle indecifrabili iscrizioni avessero a che fare con la magia. Il primo arcivescovo del Messico raccolse questi scritti da ogni parte del paese, li fece accatastare nella piazza del mercato e li ridusse in cenere. La soldatesca analfabeta non tardò a seguire l'esempio del prelato. Ogni volume caduto nelle sue mani fu selvaggiamente distrutto e quando in un'epoca posteriore gli studiosi cercarono ansiosamente di rintracciare almeno alcuni di questi memoriali della civiltà, quasi tutti erano andati perduti e i pochi scampati erano tenuti gelosamente nascosti dagli indigeni. Successivamente una considerevole raccolta fu finalmente depositata negli archivi del Messico, ma qui la trascuratezza fu tale che alcuni manoscritti furono saccheggiati, altri marcirono per l'umidità e la muffa e altri ancora furono usati come carta straccia. Soltanto pochi manoscritti messicani sono giunti in Europa e sono conservati nelle biblioteche pubbliche delle varie capitali. Il più importante è il codice Mendoza, scomparso misteriosamente per oltre un secolo e finalmente riapparso nella biblioteca bodleriana di Oxford. A circa 100 anni dalla conquista la conoscenza dei geroglifici era così esigua che uno scrittore messicano deplorava che nel paese fossero soltanto due le persone che ne avevano una certa conoscenza.
Nessuna composizione azteca è sopravvissuta ma un'idea del loro valore poetico è desumibile dalle odi provenienti dai popoli vicini. Tali opere comprendevano principalmente poemi religiosi e cosmogonici, espressione di un pensiero teologico evoluto, poemi epici in cui si fondevano dati storici e mitologia, poemi lirici di ogni genere, che cantavano l'amore, la bellezza della donna e della natura, i fiori, la guerra e la morte, spesso con eleganza ed originalità ammirevoli.
Gli indigeni e gli spagnoli praticavano la comunicazione in modo diverso, anche se sul piano linguistico e simbolico si tratta di codici comunicativi ugualmente evoluti. Grazie ai testi dell'epoca sappiamo che gli indigeni dedicavano gran parte del loro tempo all'interpretazione dei segni e le forme di tali interpretazioni sono legate principalmente a due specie di divinazione.
La prima era la divinazione ciclica. Gli aztechi possedevano un calendario religioso nel quale ogni giorno aveva il suo proprio carattere che si trasmetteva soprattutto alle persone nate in quel giorno. Sapere il giorno in cui era nato qualcuno significava conoscere il suo destino. A questa interpretazione prestabilita e sistematica si aggiungeva una seconda divinazione sotto forma di presagi. Ogni avvenimento che si discostasse anche di poco dall'ordinario veniva letto come il preannuncio di un altro futuro avvenimento in generale nefasto. Infatti tutta la storia degli aztechi, così com'è raccontata dai loro cronisti, non è che la realizzazione di profezie antecedenti. In molti casi la profezia veniva formulata solo retrospettivamente, dopo che l'evento si era già verificato. Il mondo quindi era posto fin dal principio come surdeterminato: gli uomini si adeguavano a ciò regolamentando nel modo più minuzioso la loro vita sociale. Era dunque la società, attraverso i sacerdoti, che decideva delle sorti dell'individuo, che era semplicemente un elemento costitutivo della collettività. La vita della persona non era un campo aperto e determinato modellabile dalla libera volontà individuale, ma la realizzazione di un ordine esistente da sempre. L'individuo non costruiva il proprio avvenire, ma questo, regolamentato dal passato collettivo, gli veniva rivelato. Accanto all'interazione tra individuo e individuo, vi era quella fra la persona e il suo gruppo sociale e fra la persona e il mondo naturale. Era quest'ultima a ricoprire il ruolo predominante nella vita dell'uomo azteco, il quale interpretava il divino attraverso gli indizi e i presagi con l'ausilio del sacerdote/indovino. Proprio la carenza di comunicazione interumana, provocava una paralisi che non solo indeboliva la raccolta di informazioni, ma era già un simbolo di disfatta: infatti la rinuncia al linguaggio, che si ritrova prima di tutto nel rifiuto di Moctezuma di comunicare con gli spagnoli è la confessione di una sconfitta in partenza. In modo del tutto coerente in Moctezuma si associano la paura dell'informazione ricevuta e la paura dell'informazione richiesta dagli altri. Anche quando l'informazione raggiunge Moctezuma, egli non la riceve come un messaggio che gli viene dal mondo o dagli uomini, ma la interpreta rivolgendosi a coloro che praticano lo scambio con gli dei.
La mentalità degli spagnoli è invece molto diversa: il loro comportamento è a tal punto imprevedibile che l'intero sistema di comunicazione ne risulta sconvolto a svantaggio degli aztechi. Infatti tutte le azioni degli spagnoli li colgono di sorpresa. L'arrivo dei conquistatori è sempre preceduto da presagi, la loro vittoria è sempre annunciata come certa ed è proprio questa la situazione che ha un effetto paralizzante sugli aztechi e che ne indebolisce la resistenza. Gli atztechi si costruiscono un'immagine deformata degli spagnoli nel corso dei primi contatti e in particolare l'idea che essi siano degli dei con la conseguenza di rendere se stessi ancor più vulnerabili. In questo mondo rivolto al passato, dominato dalla tradizione, sopraggiunge la conquista: un evento assolutamente imprevedibile, sorprendente, unico. Essa introduce un'altra concezione del tempo antitetica a quella degli aztechi; infatti per loro il tempo si ripete, la conoscenza del passato conduce a quella del futuro mentre con la conquista si afferma la concezione cristiana del tempo, che non è un eterno ritorno come per gli aztechi, ma una progressione infinita verso la vittoria finale dello spirito cristiano, Gli aztechi riescono assai meno bene nelle situazione che richiedono capacità di improvvisazione, ma proprio tale è la situazione della conquista.
Gli aztechi inoltre, già inefficaci nelle loro comunicazioni rivolte agli spagnoli non si rendono conto dell'importanza della forza delle parole non meno pericolose delle armi
Prima di vincere militarmente, gli spagnoli avevano già riportato un successo decisivo. Quello consistente nell'imporre il loro tipo di guerra. Il comportamento degli spagnoli resta incomprensibile per gli indigeni; è inevitabile quindi che tutta la struttura del potere spagnolo sfugga loro completamente.
L'incontro degli indigeni con gli spagnoli è prima di tutto un incontro umano e non vi è da stupirsi se gli specialisti della comunicazione umana riportano la vittoria.

 

Fonte: http://digilander.libero.it/domani_ti_sego/file%20word/Sto%20mod/Scoperta.doc

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