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I.1 Introduzione
Il corso vuol essere una ripresa in chiave storica di concetti, problemi, definizioni già affrontati durante il corso degli studi. Avete studiato negli scorsi anni la storia contemporanea, le forme di governo, i concetti della politica: scopo del corso è di far prendere consapevolezza della storicità delle istituzioni, e di formare uno sguardo ‘critico’ rispetto alle forme della politica e alle istituzioni contemporanee. Esaminare origine, caratteri e scopi delle istituzioni e delle procedure politiche, comprendere le ragioni che portano alla loro creazione, o al loro sviluppo, o alla loro crisi, significa in realtà comprendere le relazioni tra forme della società e forme di stato e di governo. E’ una sorta di ingegneria istituzionale che dovrebbe fornire il retroterra culturale e critico per affrontare, da cittadini o da amministratori, i problemi legati al linguaggio e alla riforma delle istituzioni, così come si presentano oggi nel panorama italiano, europeo, e internazionale. La storia delle istituzioni deve aiutarci a capire che ogni forma istituzionale è una forma storica, non assoluta. In tal modo possiamo avere un atteggiamento critico e costruttivo verso le istituzioni del presente: leggerne i meccanismi e le funzioni, parteciparvi, intervenire nella loro riforma se necessaria, contribuire a impiantarne altre più rispondenti alle necessità del nostro tempo. Ma anche, al contrario, comprendere se e come una certa modalità istituzionale può ancora essere necessaria, ed evitare di azzerare istituzioni che ancora funzionano solo per comodità, o per la difficoltà che ogni azione di riforma e ‘riscrittura istituzionale’ comporta.
Il termine istituzione deriva dal latino institutio e instituere = “stabilire”, “disporre” “ordinare”.
L'institutio è allora ciò che sta alla base di una disposizione, quindi la regola o l'ordine stesso, e poiché dare ordine a qualcosa equivale a formarla, il termine institutio già in latino veniva riferito alle persone per indicare la formazione di qualcuno, la sua istruzione o educazione.
>> oggi questo valore resta nelle espressioni “istituzioni di diritto romano” o “istituzioni di analisi matematica” intesi come principi basilari della disciplina.
Da un punto di vista ampio, sociologico, possiamo dire che le istituzioni sono forme e strumenti di mediazione sociale. In tal senso vanno inclusi nella definizione lo stato, la pubblica amministrazione, il sistema giuridico, la Chiesa, le carceri, gli ospedale ecc. Vi è dunque una estrema eterogeneità, perché ‘istituzione’ è un concetto astratto, e “lo studio delle istituzioni è insomma lo studio della dimensione istituzionale della vita sociale” (De Leonardis p. 21).
Parlare in generale di istituzioni significa allora riferirsi ad un aggregato umano collettivo, ad un qualche corpo intermedio tra individuo e società, dove la collettività in questione non è risultato di una somma, ma una sintesi chimica che crea, tra realtà soggettiva e realtà oggettiva, una terza dimensione, quella della intersoggettività.
Questi aggregati collettivi così diversi hanno delle caratteristiche comuni:
Dunque, aggiungendo un tassello, le istituzioni sono aggregati e forme di mediazione delle relazioni sociali con una propria forza normativa. Oppure, come dice Ellul, possiamo definire istituzione tutto ciò che è organizzato volontariamente in una data società.
Secondo un’altra prospettiva, le istituzioni sono il risultato del prodotto degli uomini nel loro essere sociali, una sorta di “reificazione” dell’attività sociale degli uomini. Il vivere in società comporta sempre, per gli uomini, la necessità della cooperazione umana, ossia un fascio di relazioni sociali e intersoggettive in vista di uno scopo comune: il ripetersi nel tempo, in forme stabili, di queste relazioni, crea un processo di “istituzionalizzazione”, ossia la creazione di regole, organi e pratiche che servono a quello scopo comune (ad esempio il ‘far giustizia’).
Possiamo così definirle come tipi di organizzazioni sociali che implicano un insieme di regole, norme, principi e consuetudini che disciplinano in modo permanente i comportamenti sociali dei membri dell’istituzione stessa, e di quanti si relazionano con questa.
Le istituzioni, e a maggior ragione quelle politiche, contengono infatti anche un momento coercitivo. Possiamo allora chiederci se questa sia una forza esterna o interna, e anche domandarci : perché e come ubbidiamo alle istituzioni ? Infatti, le norme non bastano: devono essere accettate e praticate… perché esprimono anche credenze, valori morali, e una visione del mondo. “E’ questo mix di aspetti morali, cognitivi ed emotivi che si sedimenta nelle pratiche istituzionali sotto forma di habitus, di routine, di condotte che vanno da sé, che sono date per scontate” (De Leonardis p. 21). Inoltre, la forza normativa esige l’esistenza di un potere in grado di imporla (potere di tipo legale, ma non solo) quando la norma non è rispettata spontaneamente. Lo stato moderno altro non sarebbe allora che questa forza resa apparato.
Per altri, il momento del ‘consenso’ resta imprescindibile. Hauriou afferma: “Un’organizzazione sociale diventa duratura, vale a dire conserva la sua forma specifica, quando è istituita; e la forma dell’istituzione, che è il suo elemento duraturo, consiste in un sistema di equilibrio di poteri e di consensi”.
Oggi, quando parliamo di istituzioni politiche, ci riferiamo in primo luogo alle articolazioni di un ordinamento politico, di uno stato, ossia gli organi o i complessi di organi che ne costituiscono la struttura e ne svolgono i compiti.
E’ interessante notare che la parola italiana instituzione faceva parte originariamente di un gruppo di termini ripresi dal latino fra il Due e il Trecento, quando - all'interno delle realtà comunali che si erano ormai consolidate - si sentì la necessità di collegare e riferire i nuovi ordinamenti civili, politici e sociali alla grande eredità della cultura del mondo classico.
L’età moderna è il periodo in cui dal precedente sistema feudale si sviluppano istituzioni stabili, che espletano in modo ‘specializzato’ le funzioni pubbliche: un processo che gli storici riassumono nella formula “sviluppo dello stato moderno”.
Dopo l’affermazione dei regimi costituzionali, per istituzioni politiche si indicano gli istituti e gli organi fondamentali dell'ordinamento costituzionale, e dunque dell’ordinamento democratico: il Parlamento, il governo e il Capo dello Stato, cioè il Presidente della Repubblica che è la prima carica istituzionale del nostro paese. E poi la magistratura, la pubblica amministrazione, gli organi di controllo, e le relative articolazioni, e le istituzioni locali, regionali, provinciali e comunali.
Va notato che anche termini come costituzione, statuto e perfino stato derivano in fondo dalla stessa radice (“stare”), e condividono perciò il significato di “ciò che è stabile”, “ciò che è stato stabilito”, sulla base di un accordo, di un patto tra i cittadini, che si pone allora come patto istituzionale.
Un patto soggetto a logoramento, e dunque bisognoso, di quando in quando, di revisioni e aggiornamenti, attraverso procedure di riforma istituzionale.
Dunque, a partire da questa ultima considerazione, la storia delle istituzioni non può prescindere dalla ricostruzione dei modi di percepire, concepire e vivere le istituzioni: in una parola, dalla cultura delle istituzioni, che ritroviamo nelle costituzioni, nei progetti, nei preamboli, nell’enunciato delle leggi e dei regolamenti amministrativi, nelle opere del pensiero politico. Ma anche nelle testimonianze che ci hanno lasciato coloro che nelle istituzioni hanno creduto, che le hanno fatte vivere, o anche criticate, cercando di cambiarle: lettere, diari, memorie ecc. Così intesa, la storia delle istituzioni non è elenco di uffici, apparati o forme statuali, ma un processo di comprensione delle ragioni per cui una determinata società (o, per l’antico regime, una certa dinastia) si dà certe regole o procedimenti, e delle forme istituzionali che da queste derivano … in sintesi, è storia delle forme, degli strumenti e dei modi di organizzazione del potere politico e delle relazioni tra stato e società.
I.3. Come studiano le istituzioni gli storici ?
Secondo una lunga tradizione storiografica, i processi e le forme istituzionali dell’età moderna sono tutti aspetti della formazione dello stato moderno.
Stato moderno : apparato centralizzato che ha il monopolio della forza legittima in un determinato territorio e sulla popolazione di questo. Il concetto giuridico che è servito a inquadrare questa caratteristica dello Stato è quello di sovranità.
Vedremo durante il corso sia altre definizioni, che i limiti della definizione ora presentata, ricorrente comunque nei testi di diritto pubblico.
Considerare lo stato come lo scopo della storia, come il momento più elevato della vita sociale dell’umanità (Hegel), ha spinto gli studiosi ad imprimere alla ricostruzione storica una sorta di ‘teleologia’ che vede nello stato il fine ultimo dei processi politici e istituzionali dell’Europa moderna. In tal modo, si sono considerate le istituzioni precedenti come tappe in preparazione dello stato, o fasi costitutive dello stesso, finendo così per impoverire e anche travisare le forme, i caratteri e i principi di governo d’antico regime.
Oggi questa lettura non è più condivisa, e si preferisce studiare le istituzioni in senso ampio, osservando tutti i processi di organizzazione del potere, anche personali e territoriali (comunità, assemblee territoriali e cittadine, uffici, funzioni pubbliche, corti, ecc.), e cercando di cogliere in primo luogo i meccanismi e le dinamiche interne (procedure, sensibilità, mentalità, clientelismi, fenomeni di corruzioni, o di prevalenza degli interessi privati, ecc.). In primo piano vi sono oggi non le strutture, ma gli uomini, non i compiti pubblici ma i modi in cui questi sono stati effettivamente svolti, non le procedure o i regolamenti, ma l’andamento effettivo di uffici e funzioni pubbliche. In particolare si cerca di capire come si costruisce il potere dal basso, a partire da reti di relazioni personali, familiari, sociali, cetuali e territoriali.
Sono aspetti che riprenderemo durante tutto il corso.
I.4 Il nostro corso
Il percorso che sarà proposto nelle lezioni può essere così sintetizzato:
Parallelamente, e in relazione alle vicende e ai modelli che prenderemo in considerazione, scopo del corso è anche di affrontare e discutere alcune questioni e alcuni concetti fondamentali per la storia politica e istituzionale europea:
Letture :
O. BRUNNER, Per una nuova storia costituzionale e sociale, Milano 1970.
O. de LEONARDIS, Le istituzioni. Come e perché parlarne, Carocci 2001
J. ELSTER, Il cemento della società, IIMulino, Bologna 1995.
M. OAKESHOTT, La condotta umana, Bologna 1985.
L. ORNAGHI, Dall'"ambivalenza" dello Stato moderno all'analisi della condotta umana. Michael Oakeshott e la ricerca politica contemporanea, in "Annali ISIG", V (1979), pp. 279-307.
Rivista di riferimento (alla Biblioteca Socio-Politica):
“Le carte e la storia. Rivista di Storia delle Istituzioni”.
Premessa
Forse no: una recente ampia ricerca sul concetto e le pratiche della cittadinanza in Europa ha scelto come suo punto di avvio la stagione delle autonomie comunali, giudicando che questo sia il momento in cui si possono rintracciare le radici dell’intera esperienza politica europea, fondata sul valore della civitas, della rappresentanza e della partecipazione (Costa, Civitas). Ma a mio avviso, è necessario gettare uno sguardo al periodo medievale, sia perché lì sono rintracciabili le radici di alcune istituzioni che si sviluppano in età moderna, sia perché alcune successive elaborazioni dottrinali in tema di funzioni pubbliche e sovranità sono svolte già dai giuristi medievali.
Facciamo alcuni esempi di queste lontane radici delle istituzioni moderne:
Altri esempi li vedremo nelle lezioni.
Del periodo medievale è bene ricordare alcune vicende fondamentali:
Rispetto al nostro corso, va però rilevato che gli storici riconoscono alle società medievali uno scarso grado di “istituzionalizzazione”: prevalgono infatti poteri di fatto, egemonie militari, rapporti di potere personali e dirette, legami di fedeltà e sudditanza, risoluzione dei conflitti tramite faide, vendette e conflitti militari (anche brevi e mirati), forme di arbitrato privato e meccanismi di giustizia sommaria. E’ l’età successiva, che non a caso è detta ‘moderna’, a presentare chiari processi di sviluppo di istituzioni pubbliche, all’inizio cittadine e territoriali, poi statali. Tutti sviluppi e vicende che con un termine riassuntivo si indicano come processo di formazione dello stato moderno: un processo al quale la storiografia tradizionale e recente ha dedicato una serie innumerevole di studi, e che per questo mi è sembrato meritevole di una sintesi specifica, che cercheremo di delineare insieme alla fine del corso.
Ma per comprendere la concezione del potere, e l’organizzazione dei poteri, nel Medioevo, dobbiamo esaminare due esperienze politiche tra loro distinte: il feudalesimo, e le organizzazioni cittadine.
Cosa si intende con feudalesimo, sistema feudale, società feudale ?
Si parla di ‘sistema’ feudale per indicare la connessione, non sempre contemporanea, tra i diversi aspetti del periodo feudale, che in alcuni periodo giunge a influenzare e caratterizzare l’intera vita sociale.
Con società feudale si indica la società europea tra i X e il XIII secolo, caratterizzata da:
Il termine feudalesimo indica invece un “insieme di istituzioni che creano e reggono obblighi di obbedienza e di servizio, soprattutto militari, da parte di un uomo libero chiamato “vassallo” verso un altro uomo libero chiamato “signore” e obblighi di protezione e di mantenimento da parte del “signore” verso il “vassallo”. Essenza del contratto feudale è uno scambio tra la protezione del sovrano e l’obbligo dei feudatari di fornire consilium atque auxilium (questa la formula usata in un decreto dell’859) al re: aiuto militare, ma anche consigli e pareri sulle decisioni che riguardavano tutto il regno (NB >> come vedremo, sta in questa prassi l’origine lontana delle istituzioni rappresentative di ceto).
Ma come si forma questo sistema e come si sviluppano i suoi caratteri ?
E soprattutto: cos’è un feudo ?
Il termine feodum appare al posto del precedente beneficium dal IX secolo (da feos = bestiame, ma anche oggetti mobili di valore, ciò che serve al ‘mantenimento’).
Il feudalesimo sorge dalla fusione di alcuni elementi preesistenti:
Perciò il feudo è una terra immune da oneri fiscali, concessa da un signore ad un vassallo, che tende col tempo a porsi come un vero e proprio ordinamento chiuso, rispetto al quale i poteri del sovrano erano limitati.
Come abbiamo visto, gli elementi che compongono il feudo derivano da esperienze storiche precedenti. Si usa perciò dire che feudo è sintesi dei tre fattori storici della civiltà europea: germanica (vassallaggio), ecclesiastica (beneficio), romana (immunità). La realtà è forse più complessa, e già Vico rilevava che il feudo è una tappa ricorrente dell'evoluzione storica delle nazioni. La ricerca storica ha poi confermato presenza di legami o sistemi feudali anche in Russia, Egitto, Giappone ecc.
Dal punto di vista economico, si parla di “modo di produzione feudale” per indicare un modo di produzione dominato dalla terra e da un'economia naturale. Il contadino è legato alla terra del signore da vincoli politico-legali grazie alla delega di poteri che il re concede al signore al momento della concessione. Nel caso della Russia, ad esempio, la servitù della gleba fu abolita solo a metà Ottocento.
Perciò, nei suoi termini essenziali, il legame feudale può essere visto come un vincolo personale e reciproco fra un soggetto che offre protezione e benefici in cambio di fedeltà, e un altro soggetto che offre fedeltà e aiuto in cambio di protezione, mentre il feudo (la terra) si pone come base concreta dell’accordo. Inizialmente, i rapporti feudali svolgono quindi la funzione di raccordo tra poteri di diverso livello: ma con il tempo emerge sempre più chiaramente la tendenza del sistema a frammentarsi in tanti poteri autonomi.
Evoluzione del sistema feudale
Inizialmente, i rapporti feudali svolgono quindi la funzione di raccordo tra poteri di diverso livello: ma con il tempo emerge sempre più chiaramente la tendenza del sistema a frammentarsi in tanti poteri autonomi.
A partire dall’opera di Marc Bloch (1939), si afferma però la distinzione tra signoria e feudalesimo. La prima sarebbe una forma di dominio sulla terra e sui contadini precedente ai legami vassallatici, creatasi già nella crisi dell’ordinamento romano, e che con l’affermazione del feudalesimo sarebbe stata assorbita in questo. Si può anzi dire che molte ricerche successive hanno cercato di capire come e in che misura il feudalesimo sia stato una copertura formale successiva di relazioni di dipendenza e di potere che si erano già create nel basso Medioevo.
Molti storici indicano nell’XI secolo il periodo di un profondo mutamento (“rivoluzione feudale”), che porta alla diffusione generale dei legami feudali, che imprimono una particolare fisionomia all’intera società medievale.
Altri storici sono più attenti a segnalare le differenze territoriali: a fronte di un modello feudale compiuto, che si sviluppa tra la Loira e il Reno, sono così messi in lice anche sviluppi e forme in parte distinte.
Circa le origini, si attribuisce a Carlo Magno lo sforzo di mettere insieme gli elementi sopra descritti, già presenti nella realtà romana, franca e germanica. L'origine del sistema sta nelle spartizioni di terre e bottini dei popoli germanici (spesso nomadi) tra i fedeli del re: questa prassi diventa un vero e proprio sistema di governo quando si congiungono indissolubilmente tra loro vassallaggio e beneficio, e il vassallo fu incaricato dell'amministrazione di un preciso territorio, dal quale il potere regio era escluso. In tal modo, ogni funzione di governo e ogni potere del quale il superiore investiva il subordinato, diventava una immunità (ossia una esenzione dalle norme regie, o dalla giustizia regia).
Con il cumularsi delle immunità, il controllo di ogni signore sul proprio feudo diventò totale, fino ad escludere dal feudo ogni potere regio di controllo.
Come abbiamo detto, lo scopo del sistema era di supplire con una rete di legami e contratti personali che facevano capo al sovrano alla carenza di altre forme istituzionali. Con Carlo Magno conti e funzionari dell’impero furono obbligati a diventare vassalli. Peculiare del sistema franco fu il fatto che il feudalesimo fu adottato come sola forma di governo del regno, influenzando in tal modo tutti gli aspetti delle relazioni sociali e politiche. Per questo in relazione alla Francia feudale si usa la formula “nessuna terra senza signore”.
Ma con il cumularsi delle immunità, il controllo di ogni signore sul proprio feudo diventò totale, fino ad escludere dal feudo ogni potere regio di controllo. Col tempo, si tende a considerare sia il vassaticum che l'officium come legati alla terra, a sua volta resa trasmissibile: l’ereditarietà dei feudi, avallata da Carlo il Calvo nell’877, incrinò profondamente il sistema franco, dando origine anche a fenomeni di ‘doppio vassallaggio’ che crearono conflitti e controversie. Perciò, già alla fine del regno di Carlo Magno appare chiaro che il feudalesimo, sorto per rafforzare il potere del sovrano, in realtà è un fattore di indebolimento dell’autorità regia.
Frutto più della pratica che della teoria, il feudalesimo fu un tentativo di ricostruire lo stato sulla base di una catena di “solidarietà volontarie e private", e di riorganizzare la società in un periodo di estrema incertezza dei poteri e dei vincoli sociali.
In pratica: di fronte alla constatazione dell'impossibilità di governare direttamente, o di controllare i propri delegati, si preferì usare formule e pratiche consuetudinarie o giuridiche per creare dei vincoli personali e una rete di fedeltà: un sistema di obblighi reciproci che dovevano far capo al re. Ma questo equilibrio si rivelò subito instabile e sempre turbato dal contraente che in quel momento disponeva di più forza, politica o militare.
L'esito fu diverso a seconda dei casi: nella Francia del X secolo e nella Germania del XIII, come anche nell'Italia feudale, i più forti furono i vassalli, che portarono con i loro conflitti reciproci alla disgregazione del sistema. Invece, nell'Inghilterra del XII secolo e nella Francia del XIV il più forte sarà il re. Tanto è vero che baroni inglesi imporranno la Magna Charta a garanzia di alcuni loro diritti.
Al fondo il feudalesimo resta pur sempre un rapporto contrattuale e in quanto tale precario: in caso di violazione il re poteva riprendersi il feudo, anche se con l’ereditarietà ciò fu reso assai più problematico. Infatti, il principio di ereditarietà non fu mai ammesso dai sovrani, se pure vigeva nella prassi.
Ma anche il feudatario si sentiva sciolto dall'obbligo di fedeltà ove il re fosse stato inadempiente. Lo stesso accadeva alla morte del re: occorreva rinnovare il vincolo, anche se con il tempo rimase solo l'obbligo meramente formale di rinnovare l'investitura ad ogni cambio di signore.
In tal senso, è interessante notare che nell’assemblea di Coulaines (843), Carlo il Calvo dovette accettare il principio che la fedeltà del re ai suoi doveri era la condizione necessaria per la fedeltà dei nobili nei suoi confronti: una formulazione che contribuisce allo sviluppo dell’idea che il potere regio è un potere ‘condizionato’, legittimo solo se rispetta alcune regole concordate con i sudditi.
Il sistema feudale favorì certamente le controversie: ad esempio in caso di legami con più signori, per feudi diversi, che spinse i giuristi a introdurre l'omaggio ligio, ossia un giuramento di fedeltà assoluta che aveva la precedenza sugli altri; o per la concorrenza tra fedeltà laiche ed ecclesiastiche; o anche per la naturale propensione alle armi dei soggetti coinvolti. In tal senso si usa parlare di anarchia feudale, per indicare una situazione in cui deboli erano i poteri "pubblici", e forti i poteri personali e privati.
L'espansione del feudo in Italia avviene tra il IX e il X secolo, specie dove esistevano grandi proprietà fondiarie. Come nel sistema franco, risponde ad alcune necessità del tempo: il consolidamento dell’autorità regia in zone periferiche; la creazione di una rete di fedeltà legate al sovrano; il bisogno di sicurezza e rafforzamento del ceto militare, il più importante in un’epoca di profonda instabilità.
Presenta però alcuni caratteri diversi rispetto al sistema del regno franco:
Alle origini, il feudalesimo italiano appare caratterizzato da una prevalenza dell'attività amministrativa e giurisdizionale, e da un'apertura alle donne, che lo potevano ereditare.
Feudalesimo e società medievale
Tipica del regime feudale è una visione fortemente gerarchica della società, considerata come una piramide di dignità dal semplice chierico all'imperatore. Ma come armonizzare tra loro due piramidi, una laica e l'altra ecclesiastica ? E come conciliare la rinata idea dell'Impero con le gerarchie nazionali ?
All'inizio sono più forti le monarchie con una feudalità debole: ma con il tempo sono meglio serviti i re i cui feudatari sono avvezzi a governare i feudi come piccoli regni (Francia e Inghilterra), mentre in Germania accade il contrario, e non vi sarà mai un unico sovrano, ma una pluralità di stati territoriali che in certi ambiti riconoscono l’autorità dell’Imperatore. E' una contraddizione solo apparente: il perfezionamento degli istituti feudali e il loro rafforzamento, che aveva portato all’anarchia feudale, torna di nuovo utile al re nel momento in cui egli decide e riesce a far valere le sue prerogative regie. I re sono a loro volta titolari diretti di feudi da cui traggono risorse e redditi dinastici. Solo sui propri feudi diretti il re aveva un pieno controllo. Roma città-stato aveva fatto dell'Impero una confederazione di città-stato. I re medievali costruirono i loro regni come una piramide di feudi, ossia di piccoli-regni. Ma solo quando i loro domini diretti furono abbastanza estesi, i re inglesi o francesi riuscirono ad avviare la formazione di uno stato nazionale.
Con il termine particolarismo feudale si indica allora una concatenazione gerarchica di poteri deboli all'esterno, rispetto agli altri poteri concorrenti, ma forti all'interno del proprio dominio (e ciò vale per i regni come per i piccoli feudi), dove il signore (re o feudatario che sia) esercita un pieno potere, e fonde nella sua persona le qualità di proprietario, amministratore, governatore e giudice. Inoltre il potere è frazionato in segmenti sempre più ridotti, data la diffusione del sistema verso il basso, con la creazione dei vassi del vassus e così via.
Il sistema feudale sposta dunque l'essenza del potere dal campo dei rapporti pubblicistici (officium) a quello dei rapporti privatistici (beneficia).
"Questa forza centrifuga, animatrice dei feudi, si rivelerà poi in modo ancora più clamoroso, nella seconda metà del X secolo, quando la restaurazione ottoniana, potenziando enormemente la Chiesa, moltiplicò le concessioni feudali a vescovi e abati di grandi monasteri; i quali a loro volta, diventati conti, distribuivano i benefici in mano di altri ecclesiastici o di persone comunque legate alla Chiesa..." (Galasso, p. 83).
La figura del vescovo-conte creava anch'essa una contaminazione, quella fra poteri spirituali, ossia connessi alla funzione episcopale, e poteri del rapporto feudale. Fino alla situazione per cui imperatore nominava vescovo un suo comes, e non viceversa. Il fenomeno dei vescovi-conti suscitò vaste reazioni nel sec. XI: si aprì la lotta per le investiture, che si chiuse con il Concordato di Worms nel 1122 fra Callisto II ed Enrico V, che sanciva la precedenza della "libera electio et canonica consacratio" sulla investitura feudale.
Al termine della sua evoluzione, il feudalesimo diede dunque luogo ad una aristocrazia di guerrieri, liberi da altre occupazioni perché garantiti nella rendita, e perciò in grado di perfezionare l'arte e la tecnica militari: cavalleria, castelli, tornei, con il loro corollario di ideali cortesi e cavallereschi. E’ questa l’origine della più antica nobiltà europea, che ne spiega anche i caratteri comuni, almeno fino al Cinquecento.
Il vincolo di fondo del feudalesimo è in fondo di tipo tutorio: ad esempio, quando il feudatario moriva il re aveva l’obbligo di proteggerne i figli minori e la vedova. Anche questo ha conseguenze di lunga durata, nel permanere della figura del principe-tutore, pater dei sudditi, fino alle soglie della rivoluzione.
Vedremo durante il corso l’influenza che i legami feudali conservano per tutta l’età moderna, con una forza però assai diversa a seconda dei diversi stati europei. Per capire, comunque, cosa restasse del feudalesimo alla fine dell’età moderna, basta leggere il decreto di abolizione dello stesso emanato dall’Assemblea nazionale francese nella notte del 4 agosto 1789, che vedremo più avanti.
Ancora diverso è il concetto di ri-feudalizzazione, usato dagli storici dell’economia per indicare la ripresa dei diritti signorili, e in generale della forma di produzione feudale, nel ‘500 e agli inizi del ‘600: processo che coinvolse alcune zone dell’Europa occidentale, tra cui il Meridione d’Italia, ma soprattutto l’Europa orientale (ricordiamo che in Russia la servitù della gleba fu abolita nel 1867).
Si è anche parlato di feudalesimo cinese, o giapponese: per chi vuole una breve descrizione di questi problemi, si rinvia al Dizionario di storiografia della Bruno Mondadori.
Dalla rivoluzione francese in poi il feudalesimo fu oggetto di un giudizio negativo, poi condiviso da Marx, tanto da diventare sinonimo di oppressione e anarchia. Ma le forme istituzionali vanno sempre comprese in relazione alla situazione del tempo in cui si collocano.
Uno stato ‘ante-litteram’ ?
Può forse sembrare paradossale, alla luce degli sviluppi successivi, considerare che il Meridione della penisola italiana è stato l’ambito di sviluppo di una precoce esperienza statale, da molti storici indicata come un vero ‘precorrimento’ di alcuni aspetti dello stato moderno.
Federico II, figlio di Enrico VI e di Costanza di Altavilla, eredita dalla madre lo stato normanno. Incoronato Re di Germania nel 1215 con la promessa della rinuncia al Regno di Sicilia a favore del figlio Enrico, dopo la morte di Innocenzo III Federico II riesce a farsi incoronare imperatore, conservando così Impero e Regno di Sicilia. La sua intenzione era di trasformare l'Impero in un Impero Mediterraneo avente come centro la Sicilia, un’isola che tre secoli di governo musulmano e poi normanno avevano reso ricca e civile.
Come imperatore, Federico II riaccese lo scontro con i Comuni, che dopo Costanza si erano appropriati di ulteriori poteri e diritti, e si scontrò anche con il Papato, subendo anche una scomunica da parte di Gregorio IX, che addirittura bandì una crociata contro di lui.
Dopo l’accordo col papa, che Federico riuscì a ottenere solo offrendo in cambio ampie garanzie circa le libertà della Chiesa nel Regno, e dopo aver lasciato il governo della Germania nelle mani del figlio, Federico II poté mettere in atto in Sicilia il suo disegno di stato accentrato e burocratico, ponendo subito un freno alle tendenze autonomistiche di feudatari laici ed ecclesiastici, città e mercanti anche stranieri che si stavano appropriando dei porti e delle risorse del paese.
Con le assise di Capua (1220) e di Messina (1221), l'imperatore ordinò l'immediata reintegrazione di tutti i beni demaniali e di tutti i regalia (diritti del re) usurpati dai feudatari e dalle comunità.
Da subito, Federico II si preoccupò di costituire un robusto nucleo di funzionari statali: si colloca in questa prospettiva la creazione dell'Università di Napoli nel 1224, con una chiara tendenza allo studio del diritto pubblico.
Ma il suo capolavoro legislativo fu il Liber Augustalis, noto come Costituzioni di Melfi (1231), seguito dalla Constitutio in favorem principum del 1232.
Due testi di impronta nettamente opposta : mentre il primo dava vita ad uno stato unitario, accentrato e burocratico, il secondo rimetteva il governo della Germania nelle mani dei principi dell'impero, dando vita a quel sistema di stati territoriali che caratterizzerà la Germania fino al presente. Anche l'opposizione del figlio Enrico a questo disegno fu presto vinta: Enrico morì nel 1242 in prigionia.
Parallelamente, Federico II appoggia nell'Italia settentrionale la costituzione di robuste signorie, per creare un sistema simile a quello tedesco: la sua lotta strenua contro i Comuni gli provocò una nuova scomunica (1239): contro di lui il papa indisse un Concilio, che Federico II riuscì dapprima ad impedire. Ma nel 1245 fu deposto: mentre in Germania si apriva lo scontro per la successione, Federico II subì una grave sconfitta sotto Parma e infine morì il 13 dicembre 1250.
Le costituzioni di Melfi
Sono un testo fortemente influenzato dal diritto canonico (che Graziano aveva consolidato in una raccolta nel 1140-42), dal diritto musulmano (Federico II aveva negoziato e non combattuto con il sultano del Cairo), e dal diritto imperiale romano. Non bisogna quindi cercare in questo testo una concezione univoca e chiara dello stato, che è influenzata più dalla visione barbarica integrata con quella romana che da idee nuove.
Ma si avvertono nelle costituzioni di Federico II tre motivi di fondo:
1. lo stato come fonte unica della sovranità
2. la visione utilitaristica e laica dello stato
3. la creazione di un ordine civile pacifico e forte come scopo dell’azione del sovrano
Anche l'estensione di questo testo a tutto i Regno risponde più ad una forma di difesa contro gli statuti comunali (la cui azione verso la frammentazione del potere Federico II aveva visto all'opera nell'Italia settentrionale), che ad una chiara idea di unità statale (in certe zone sono infatti lasciati per certi settori diritti barbarici precedenti). Caso mai, è questa valenza uniforme in tutto il Regno che farà sorgere una nuova idea di stato presso giuristi e pensatori politici.
Obiettivo primo di Federico II è rimettere ordine nel Regno: ridare vigore alle leggi, riscuotere regolarmente le collette, amministrare la pace.
Dice nel testo : "Né creda la posterità che noi abbiamo compilato il presente libro di Costituzioni solo per amore di gloria; ma lo abbiamo compilato per cancellare in questa nostra età l'oltraggio fatto al diritto nel passato, quando tacque la sua voce; lo abbiamo compilato perché dalla vittoria del nuovo re anche una nuova giustizia rampolli".
Ciò che appare chiaro, è che il disegno di Federico II fu voluto e ponderato, non frutto di provvedimenti casuali: lui stesso disse che il regno di Sicilia doveva diventare invidia principum et norma regnorum.
La storiografia ha connotato questo ordinamento come "utilitario, burocratico, razionale”, in quanto le sue istituzioni e le sue norme mirano in primo luogo al raggiungimento di precisi scopi pratici, amministrativi e fiscali.
A tal fine, si rivendica al solo imperatore la facoltà di emanare leggi, riferendosi alla delega di potere della Lex regia.
Nel testo sono presenti anche altri principi politici interessanti:
- la funzione preventiva della legge
- il valore della clemenza regia
- la possibilità di fare le leggi in modo razionale
- l'idea che fonte del potere regio è Dio
- la giustizia come valore supremo dello stato (tipico della visione politica medievale).
Affiora anche l’idea della sovranità legibus soluta, ma che si autolimita. Lo dice lo stesso Federico nel proemio del testo:
"Sebbene la suprema dignità imperiale, cui è dato emanar leggi, sia sciolta dalla legge, curammo tuttavia come cosa conveniente che nell'osservanza delle leggi, nella inflessibilità della giustizia dovessimo anche Noi seguire il diritto comune agli altri e che a quelle leggi, cui non ha potuto obbligarci la Necessità (la Natura) ci obblighi spontanea volontà. E vogliamo, per conservare i principi della Giustizia, non usare delle prerogative regali contro la legge e a danno dei nostri fedeli e sudditi, perché noi reputiamo i danni dei nostri fedeli nostri danni e i loro guadagni nostri guadagni".
Va però detto che nella prassi, l’intreccio di feudalesimo e di centralismo messo in atto da Federico II provocò un vero dissanguamento delle risorse del Regno, e che la centralizzazione unita al fiscalismo e alla limitazione delle libertà municipali impedì la costituzione di un ceto mercantile e produttivo forte.
Ciò di cui lo stato di Federico II è considerato un modello ante litteram è lo stato di stampo assolutistico-burocratico: fu la burocrazia lo strumento primo del governo di Federico II. "La scelta del personale, il controllo del suo operato, la fissazione delle responsabilità civili in confronto agli amministrati, i giuramenti all'atto di ammissione alle pubbliche cariche, le ispezioni, le inchieste, le rese dei conti, i ricorsi, gli appelli, i registri, i sigilli, i diritti di cancelleria, i libri dei conti, la grafia stessa, tutto era minuziosamente previsto" (Pepe).
Motore della macchina statale furono le Costituzioni e la Magna Curia, ove la legge era continuamente interpretata.
L'amministrazione periferica era affidata a dei giustizieri regionali e municipali, dipendenti dal Maestro Giustiziere della Magna Curia: avevano ingerenza in tutti gli affari economici, sociali, militari, fiscali, ecclesiastici, di giustizia.
Dopo la morte di Federico, però, lo stato meridionale imboccò una direzione diversa, che portò all’insediamento degli Angioini, e al distacco della Sicilia che dopo la “guerra del vespro” si porrà sotto la guida degli Aragonesi.
A sua volta, l’Impero germanico entrò nel periodo del “grande interregno”, una lunga fase di lotte intestine e di disordini che contribuirà al definitivo indebolimento del valore ‘universale’ dell’Impero stesso, che diventerà un potere soprattutto ‘tedesco’. Da quella fase prenderà però avvio, con l’elezione di Rodolfo I d’Asburgo (1273), la lunga storia del predominio degli Asburgo nell’Impero.
Letture:
R. Ago, La feudalità in età moderna, Laterza, Bari-Roma 1994.
M. Bloch, La società feudale, Einaudi, Torino, varie edizioni
R. Boutruche, Signoria e feudalesimo, Il Mulino, Bologna 1974.
Ganshof, Cos’è il feudalesimo ?, Einaudi, Torino, 1989.
G. Galasso, Potere e istituzioni in Italia, Einaudi, Torino 1974 (e altre edizioni).
Storia della società italiana, Teti editore > volume relativo al periodo
G. Tabacco, Dai re ai signori : forme di trasmissione del potere nel Medioevo, Bollati Boringhieri, Torino 2000.
G. Tabacco, Sperimentazioni del potere nell'alto Medioevo, Einaudi, Torino 1993.
Premessa
Nella storiografia dell'Otto e Novecento il tema degli ordinamenti comunali ha occupato un posto di rilievo, associato all'idea che in quella peculiare fase della storia della penisola fosse possibile rintracciare una effettiva esperienza di libertà e di partecipazione popolare al governo della cosa pubblica. Ma tutta la storiografia più recente tende a sottolineare come per l'esperienza tardo medievale e comunale (ma è un concetto che va esteso all'intero periodo d'antico regime) si debba piuttosto parlare di un fascio di "libertà" al plurale, ossia di situazioni di privilegio, di capacità giuridiche e di forme di partecipazione popolari assai diverse da caso a caso, e mutevoli nel tempo. Tramontato il mito del comune come area ‘pacificata’ e concorde, sono affiorate le costanti tensioni e i continui conflitti interni, di cui furono protagonisti le famiglie nobiliari, i gruppi mercantili, i ceti di governo, le corporazioni e le arti.
Una ulteriore semplificazione storiografica dell'esperienza comunale da cui occorre prendere le distanze è quella che vede nei Comuni l'espressione sul piano politico dell'egemonia dei ceti mercantili o "borghesi". Il Comune come espressione della formazione di una precoce "borghesia": è questo un luogo comune che la storiografia più attenta ha definitivamente superato, anche se resta vero che in tante esperienze politiche e istituzionali della fase comunale trovano spazio interessi mercantili e finanziari di tipo nuovo. Ma siamo sempre all'interno di un'economia prevalentemente "naturale", in cui gli scambi internazionali restano limitati a certe produzioni di lusso, mentre il grosso della produzione è su base locale. Soprattutto però, manca una visione "capitalistica" del processo produttivo, e si resta in una dimensione economica che privilegia la conservazione della ricchezza e la sua distribuzione rispetto ai processi produttivi. Si pensi al concetto di masserizia come emerge dai Libri della famiglia di Leon Battista Alberti, dove quel termine sta ad indicare in primo luogo la capacità di una casata di preservare le sue ricchezze familiari dai rovesci della fortuna tramite un uso accorto della stessa, e la capacità di impiegare al meglio le risorse domestiche: lo scopo di questa oculata gestione domestica è comunque non il guadagno in sé, ma l'onore che l'uso della ricchezza può procurare all'intera famiglia. Ricchezza e beni materiali sono sempre incardinati ad una famiglia, una casata, un nome.
L'equiparazione comune/borghesia sorge su un equivoco di fondo, quello della confusione tra città e comune, caratteristica di tanta storiografia dell'Ottocento. Ma va tenuto presente che comune e città non sono sinonimi. Il fenomeno della ripresa degli scambi mercantili, della formazione di nuclei urbani dediti a lavorazioni artigianali e al commercio, l'irrobustirsi delle classi mercantili, sono fenomeni che hanno un'ampia diffusione: un po' in tutta l'Europa centro-occidentale si assiste dopo il Mille ad una netta ripresa della vita cittadina.
Il “comune" è invece un fenomeno in parte diverso, e sta ad indicare in costituirsi della città come ordinamento politico autonomo, con proprie leggi e propri organi di governo: con tali caratteri è un fenomeno peculiare dell'Italia centro-settentrionale, delle Fiandre e dell’Impero tedesco. Come vedremo, il fenomeno delle città-stato è limitato nel tempo, e tende a scomparire attorno al XIV-XV secolo, quando i comuni sono assoggettati a domini territoriali più ampi: ma anche all'interno degli ordinamenti territoriali le città italiane mantengono ampie sfere di autonomia, soprattutto sul pieno amministrativo. E' anzi questa, come diremo meglio, una delle ragioni di fondo individuate dalla storiografia italiana per spiegare la mancata formazione, nella nostra penisola, di stati unitari e accentrati. Il comune medievale italiano è quindi in primo luogo non una mera unità amministrativa, o una ripartizione territoriale, ma un ordinamento politico.
Dopo la fine delle ultime invasione barbariche ad opera degli Ungari, si assiste un po' ovunque ad una lenta ripresa dei commerci, alla messa a coltura di estensioni di terre sempre più vaste, ad un netto incremento demografico, alla ripresa della vita urbana. Tutto ciò in una situazione di estrema debolezza dell'autorità imperiale, minata dal basso dai poteri dei feudatari, cui nel 1037 era stato riconosciuto il diritto alla trasmissione ereditaria del feudo. Nella sostanziale assenza del potere imperiale, i poteri erano esercitati nelle città dai vescovi o dai loro delegati. Si può anzi dire che le città che si costituiscono in comune sono tutte sedi vescovili: ai vescovi gli Ottoni avevano infatti concesso ampie deleghe di potere (cfr. il documento letto insieme), e i vescovi a loro volta avevano investito di questa autorità i rappresentanti della città, che poco a poco si costituiscono in "comune".
La curia vescovile costituisce spesso il primo nucleo di potere dei comuni, e i funzionari vescovili sono anche i primi ufficiali del comune. Il termine "comune" non indica in origine un ente pubblicistico, ma semplicemente l'insieme degli abitanti la città, la "comunanza" dei cittadini.
Il Comune è quindi in origine uno strumento di auto-organizzazione degli abitanti delle città per uscire dalla carenza di poteri, e per porsi come soggetti attivi di pace e accordi per il mantenimento dell'ordine e della pace entro le mura cittadine. Anche la lotta per le Investiture tra Papato e Impero, chiusasi nel 1122 con il concordato di Worms, genera un bisogno di pace e di stabilità cui i poteri tradizionali non sono più in grado di offrire risposte efficaci.
Il Comune si costituisce in genere tramite patti stipulati tra il signore locale e gli abitanti della città, o più spesso tra questi ultimi e il vescovo. Il mondo comunale comprende fin dall'inizio una varietà di ceti e di interessi che vanno ben oltre la connotazione mercantile che a quell'esperienza è di solito associata: piccoli feudatari, nobili, cavalieri, funzionari vescovili, artigiani, mercanti, notati e così via sono i protagonisti di una stagione politica che non intende all'inizio rompere con gli schemi e gli assetti sociali e politici medievali, quanto piuttosto ritagliarsi nelle maglie di questi un proprio autonomo spazio di iniziativa e di organizzazione degli interessi comuni.
Va però detto che non vi è, nella realtà, un "comune-tipo", ma tante esperienze diverse di ordinamenti cittadini, di cui gli storici hanno cercato di rintracciare gli elementi comuni.
Evoluzione
In genere, gli storici sottolineano entro l'esperienza comunale due fasi distinte, se pure non separabili nettamente:
è la fase cosiddetta "consolare", dal nome dei funzionari che in rapida rotazione governano la città. L’organo di auto-governo è l’assemblea dei cives (coloro che godono dello status di cittadino), da cui si staccano presto assemblee più ristrette (Consiglio degli Otto, dei Dodici ecc., oppure dei Savi, degli Anziani), e poi consigli più ampi come quello dei Cinquecento a Firenze. I consules sono eletti in genere da un consiglio più ristretto, con incarico annuale, ma spesso rieleggibili. Con il tempo appare un consules iustitiae. Sia l’assemblea che i consoli che gli altri magistrati cittadini svolgono la loro attività dopo un solenne giuramento pubblico.
Quasi ovunque, l’assemblea si sdoppia precocemente in un Consiglio Maggiore e in un Consiglio Minore più ristretto, quest'ultimo con funzioni in parte esecutive. Il potere dei Comuni è in questa fase soprattutto un potere de facto, sancito dai patti stipulati con i signori o i vescovi, e la macchina amministrativa è ancora in formazione: alla mancanza di una chiara definizione delle funzioni dei vari organi sopperisce l'ampia partecipazione dei cittadini alla vita pubblica, che ha fatto parlare il Waley, a proposito dell'esperienza comunale, di una funzione pubblica part-time. Anche l'avvio dell'espansione cittadina verso il contado si attua tramite accordi di sottomissione o di alleanza con i signori circostanti.
E' in sostanza una fase di forte sperimentazione istituzionale, in cui i gruppi egemoni in ciascun comune cercano di mettere a punto sistemi elettorali e regole di funzionamento atti a rappresentare e assicurare una solida difesa ai loro interessi. Anche la macchinosità delle regole elettorali tendeva a garantire gli equilibri sociali del momento: tra i sistemi più usati vi sono la cooptazione, l'elezione indiretta, l'estrazione a sorte, ma più spesso si ricorreva ad una combinazione tra questi due ultimi sistemi.
Il carattere ancora instabile degli organi di governo è dimostrato anche dal frequente ricorso, allorché subentravano nuove funzioni o si creavano situazioni inedite, a commissioni temporanee straordinarie, incaricate di esaminare e dirimere la questione, e poi sciolte.
con la pace di Costanza del 1183 l'Imperatore cede ai Comuni suoi alleati un'ampia serie di prerogative e di regalìe. I Comuni diventano perciò ordinamenti politici del Regnum, e la loro autonomia è legittimata dal testo di questo accordo. Dopo la morte di Enrico VI nel 1197 i Comuni riescono ad ampliare la loro jurisdictio, a scapito di quei poteri imperiali che la pace di Costanza, nell'intenzione dell'Imperatore, avrebbe dovuto ribadire.
Dopo Costanza emergono le difficoltà delle magistrature collegiali a conseguire l’unità del comando e l’imparzialità tra interessi diversi. Nel ventennio della lotta con il Barbarossa emerge a capo del comune la figura del podestà, funzionario forestiero, chiamato in città assieme alla sua curia di funzionari e giudici, che realizza una parziale unificazione dei poteri.
La figura del podestà rappresenta il tentativo di superare le discordie interne alla città, già forti nel periodo precedente, e diventate ancora più violente dopo il riconoscimento dei Comuni da parte imperiale. Giurista, tecnico, ma anche mediatore istituzionale, il podestà amministra la giustizia e sovrintende a tutta la vita cittadina, mentre il potere deliberativo resta all'assemblea cittadina (specie per le questioni amministrative e fiscali). Dopo l'esaurimento della sua mansione, il podestà era soggetto a sindacato, e la sua opera era attentamente vagliata per scoprire eventuali responsabilità o irregolarità.
Mestiere persino rischioso, la figura del podestà finisce col tempo per essere un'immagine emblematica dell'"ideologia comunale", e sulle funzioni, sui doveri e sui compiti dei podestà fiorisce una vasta letteratura: ricordiamo qui solo il Liber de Regimine Civitatis di Giovanni da Viterbo (1260-1270 circa). Ma nei fatti, il podestà era sovente nominato dalla fazione dominante, di cui rappresentava gli interessi. Questa figura ebbe comunque un grosso ruolo nella lotta contro il feudo per l'affermazione della iurisdictio comunale. In questa fase si accentua l'autonomia dei Comuni dal potere vescovile, si fa più decisa l'espansione nel contado, e cresce la popolazione urbana, e con essa la produzione artigianale e il commercio.
Gli statuti
Dal punto di vista normativo, la vita comunale è regolata dagli statuti: vedremo tra un attimo cosa sono e come si legano alle altre fonti di diritto dell’epoca. Per ora, va rilevato che lo statuto si preoccupa di dare voce agli interessi cittadini, e non si preoccupa perciò di essere esaustivo, rinviando molti istituti meno rilevanti per la vita comunale alla disciplina del diritto comune. All'interno degli statuti trova posto un'estrema varietà di norme, destinate a regolare la vita cittadina in tutti i suoi aspetti: materia successoria e dotale; funzionamento delle magistrature cittadine e sistemi di elezione; giustizia penale e civile; contratti agrari; ordine pubblico; fisco; mercati, fiere, strade, acque, mulini ecc.
La parte più rilevante dello statuto è quindi dedicata all'amministrazione cittadina in senso lato, ed è proprio questa lunga vigenza dei "reggimenti cittadini" a rendere in parte inutile, o poco applicata, la legislazione regia o principesca.
Lo statuto diventa ben presto l'immagine più forte dell'autonomia comunale, espressione della volontà dei cittadini di essere liberi, e di vivere secondo "ragione". Lo esprimerà bene Brunetto Latini: "cittade è uno raunamento de gente fatto per vivere a ragione; onde non sono detti cittadini d'uno medesimo comune perché siano insieme raccolti entro ad uno muro, ma quelli che insieme sono raccolti a vivere ad una ragione".
La difesa dello statuto diventerà perciò in epoca successiva, quando le città saranno assorbite in più ampi stati territoriali, uno degli obiettivi ricorrenti delle richieste cittadine. Corretti, rivisti e a tratti limitati nella loro portata, gli statuti resteranno in vigore fino alla fine dell'antico regime, costituendo uno dei tratti più originali dell'esperienza giuridica italiana. La legislazione regia o principesca sarà spesso una sorta di intervento straordinario, dettato da esigenze contingenti, e la validità degli ordini sovrani dovrà essere continuamente ribadita, anno dopo anno, perché abbia un minimo di applicazione. Solo nel corso del XVIII secolo i sovrani faranno loro il proposito di dare una vigenza generale ed effettiva alle norme regie.
Occorre inoltre ricordare che lungo tutto l'antico regime le norme che l'autorità centrale tenta di imporre su tutto il territorio danno quasi sempre luogo a proteste, richieste e suppliche, con lo scopo, da parte degli altri soggetti politici, di conservare gli antichi privilegi loro riconosciuti. Così, una volta emanata, la norma deve essere rivista in accordo con le richieste avanzate (l'accoglimento delle quali dipende ovviamente dai rapporti di forza del momento).
Legittimati dalla pace di Costanza come enti giuridici, i Comuni attuano tra il XIII e il XIV secolo una rapida espansione nel territorio circostante, volgendo a proprio favore l'ambiguità di quel testo, dove si diceva che le prerogative concesse dall'Imperatore valevano "tanto in città che fuori" (in civitate quam extra civitatem). Cosa intendeva dire questa frase ? Prendendola in senso restrittivo, essa indica i poteri cittadini in quella fascia di territorio circostante (suburbio) che anche dopo la dissoluzione dell'Impero romano le città avevano considerato come parte integrante della propria giurisdizione, e che serviva ad alimentare i mercati cittadini per i generi di prima necessità. In senso più ampio, quelle parole potevano invece indicare un territorio più ampio attorno alla città (distretto), a sua volta popolato di villaggi, signorie e città minori. E' chiaro che l'Imperatore intendeva dare alla frase un significato restrittivo: si ammetteva insomma la giurisdizione della città sul suburbio, ma al tempo stesso la si limitava ad esso. Ma i giuristi cittadini dettero di quella frase, all'opposto, un'interpretazione estensiva, che autorizzava le città ad estendere fin dove potevano la propria giurisdizione.
L'espansione dei Comuni danneggiava tra l'altro quanto restava dell'organizzazione territoriale imperiale: da qui la ricerca di una giustificazione dottrinale, che prima fece proprie le metafore organicistiche della dottrine medievale (città e contado visti rispettivamente come la testa e le membra di un unico corpo), poi si appoggiò sull'idea della "protezione" e della "tutela" che la città poteva offrire agli abitanti del contado.
Se prima del 1183 l'espansione nel contado avviene soprattutto attraverso patti di alleanza con i signori e le comunità, dopo Costanza si intensificano i patti di sottomissione vera e propria, a segnalare la nuova e più robusta consapevolezza dei propri fondamenti giuridici che animava ora gli ordinamenti cittadini.
A lungo comunque, la città estese i suoi poteri sulla campagna in modo sostanzialmente pacifico, o barattando la sottomissione dei centri minori con la concessione di privilegi e immunità, o comprando in denaro la giurisdizione dei luoghi del contado, o creando nel distretto dei centri amministrativi autonomi e dipendenti dalla città.
Tra la fine del XII e il primo XIV secolo, ebbe particolare rilevanza la creazione dei cosiddetti borghi franchi, centri urbani creati dalle città nel territorio circostante in funzione sia di difesa del territorio (in questo caso i borghi sono "murati"), che per scopi economico-commerciali (controllo di strade, vie fluviali e luoghi di transito, creazione di fiere, mercati ecc.), che per obiettivi demografici, onde popolare la campagna e favorire il disboscamento delle zone incolte per avviare una produzione agricola atta a soddisfare i bisogni dei mercati cittadini. Si calcola che nella sola Italia settentrionale, per il periodo su indicato, siano stati creati 220 borghi franchi: ma ricerche recenti hanno rivelato una diffusione ancora più capillare del fenomeno.
Sicuramente, si assiste nel periodo podestarile ad un certo miglioramento della vita nel contado: si diffondono particolari tipi di contratti agrari tesi al miglioramento delle colture; si riducono gli obblighi feudali; si avviano interventi cittadini in materia di strade, acque e altri servizi collettivi; si diffondono nuove colture (ad es. il gelso, destinato a rifornire le manifatture cittadine della seta).
Ma con l'estendersi del dominio cittadino, e con le trasformazioni politiche interne ai Comuni stessi, ove i governi popolari e delle "arti" cercano di attuare una politica annonaria assai più rigida, anche le condizioni del contado si fanno più difficili. Le campagne e il territorio circostante le città sono sottoposte ad una sorta di "spoliazione", sia con l'imposizione degli obblighi annonari per il rifornimento cittadino, sia con l'introduzione di sistemi fiscali che penalizzano enormemente i contadini e i centri rurali, tendendo al contempo ad alleggerire i carichi fiscali della proprietà cittadina nel contado. E' questa l'origine antica della profonda disuguaglianza nella ripartizione delle imposte che caratterizza la storia di tutti gli Stati italiani in età moderna, e che solo con le riforme del XVIII secolo sarà in parte corretta.
Anche l'abolizione della servitù della gleba attuata da molti ordinamenti comunali deve perciò essere interpretata non solo come un effetto dell'estensione alle campagne della libertà cittadina, ma soprattutto come un efficace strumento di propaganda: l'immagine della città come spazio immune dalle antiche servitù doveva servire ad indebolire i restanti poteri feudali.
Ciò che si forma nei secoli XIII-XIV è in pratica un sistema di organizzazione territoriale la cui durata va ben oltre l'esperienza comunale. Lo stato cittadino è visto come un unico corpo, costituito dalla stretta simbiosi di città e campagna. Ma assai diverse erano le posizioni giuridiche dei due soggetti: in quanto "testa" di questo stato, la città gode di un'ampia serie di privilegi, che solo le riforme settecentesche tenderanno ad abolire in nome di una visione del territorio come spazio relativamente omogeneo e ugualmente sottoposto al comando del sovrano.
Arti e corporazioni
Uno degli strumenti fondamentali della vita interna dei comuni furono le corporazioni, ossia le associazioni di mestiere o ‘arti’, che riunivano gli addetti ad un certo settore con compiti di organizzazione del lavoro, di gestione del commercio, di aiuto reciproco fra i membri di uno stesso mestiere, e di raccordo con le istituzioni comunali. Fino a giungere, in molti casi, a un ruolo di governo diretto del comune stesso.
Collegia professionali erano presenti anche nell'Italia bizantina, e contemplati dai testi giustinianei e da altri testi giuridici medievali. Ma è con la rinascita economica e commerciale del X secolo che le associazioni di mestiere conoscono una diffusione capillare in tutta Italia.
Quali sono le origini del fenomeno ?
Nonostante l’utilizzo di forme preesistenti, le organizzazioni di mestiere comunali hanno una loro forte originalità. La fase ‘matura’ dell'ordinamento corporativo si situa tra il XIII e il XIV secolo. Le prime a sorgere sono le universitates mercatorum, poi quelle delle professioni maggiori (medici, speziali, giudici e notai). Spesso, queste associazioni ricalcano l’organizzazione interna del comune: assemblea, consiglio, uffici. Sul loro esempio un po’ tutte le arti costituiscono proprie organizzazioni dette anche ministeria, fraternite, fraglie (da fraterna), con funzioni assistenziali e spesso anche devozionali. Da queste organizzazioni restano comunque esclusi i lavoratori subordinati.
La corporazione è quindi un ordinamento completo (universitas, corpus), con personalità giuridica propria, che ha una sorta di monopolio sull'esercizio del mestiere, ne regola l'iscrizione, ha la giurisdizione sugli iscritti, detiene funzioni di "polizia economica" e svolge una sua “politica sociale”. Ma col tempo assume precise funzioni politiche, spesso acquisite dopo un periodo di lotta con il comune: le diverse modalità e intensità, e i distinti protagonisti di questi conflitti interni ai comuni, sono tra i fattori che maggiormente hanno determinato il diverso andamento delle vicende dei comuni italiani.
Per non fare che due esempi opposti, basti ricordare che a Firenze le arti acquistano dal XIII secolo una funzione preponderante nella vita politica del comune, che si evolverà fino a fare delle arti un elemento essenziale della sua ‘costituzione’ interna; mentre a Venezia il carattere aristocratico della costituzione relega precocemente le corporazioni ad un ruolo marginale e impone loro rigidi controlli.
“Popolo” e “arti” non sono sinonimi, ma le arti diedero consapevolezza a larghi strati del popolo. Già nel primo Duecento il popolo si organizza in "società delle armi" a imitazione delle organizzazioni militari dei nobili: col tempo, accanto al comune sorse in molte città un “comune del popolo” con un capitano e una struttura analoga a quella del comune. Per gli affari generali si stabilì la regola che ogni decisione del “comune del popolo” doveva essere approvata anche dal “comune del podestà”, e viceversa. Regimi eccezionali provocati dalla reazione popolare furono gli "Ordinamenti sacrati e sacratissimi" di Bologna nel 1282; gli "Ordinamenti sacrati" di Pistoia; gli "Ordinamenti di giustizia" dati a Firenze da Giano della Bella nel 1293. Ma anche da questi regimi popolari restò comunque escluso il "popolo minuto".
La storiografia più recente ha messo fortemente in discussione il binomio comuni / libertà tipico della storiografia ottocentesca e del primo Novecento, che esaltava il momento comunale e condannava invece l’esperienza delle signorie e dei principati (signoria / tirannide).
Si tende ora a rilevare come gli ordinamenti comunali mostrino ben presto una serie di limiti, che saranno poi le cause del superamento di questa esperienza istituzionale. In primo luogo, i Comuni non sono capaci di difendere concretamente quella libertà che costituisce il motivo più forte della loro coesione ideologica, oltre che un efficace strumento di legittimazione della loro esistenza prima, e delle loro trasformazioni istituzionali poi. La libertà realizzata in ambito cittadino deve essere ancora pensata nei termini della tradizione medievale, dunque non come una condizione unica, ma come l'esito di una serie di privilegi e prerogative. Non la libertà, dunque, ma “le libertà”, al plurale: sia la partecipazione al governo del Comune che il godimento di altri diritti dipendono in primo luogo dallo status di cittadino, dal quale abitanti del contado e forestieri (anche se abitanti in città) erano spesso esclusi. La concessione della cittadinanza era questione di assoluto rilievo nella politica cittadina, ed è sottoposta con il tempo a una serie di criteri più o meno restrittivi a seconda degli indirizzi e degli obiettivi politici di volta in volta perseguiti dalle autorità cittadine.
Neppure con il "governo delle Arti" gli strati inferiori della popolazione sono pienamente rappresentati nelle magistrature cittadine. L'immagine del "governo largo", che indica l'ampia partecipazione popolare attuata in certe esperienze comunali, anche quando non è mera propaganda, indica comunque più una tendenza o una volontà, che una realizzazione di fatto.
E' stato poi rilevato come fin dall'inizio il Comune appaia al suo interno diviso in gruppi di potere, clientele, famiglie, fazioni in lotta tra di loro: gli organi di governo sono perciò "occupati" dalla parte vincente, mentre i gruppi sconfitti devono prendere la strada dell'esilio. Il Comune non riuscirebbe perciò a farsi stato, ossia non darebbe luogo ad ordinamento politico generale, ove anche le minoranze possano esprimere le loro posizioni e influenzare in qualche misura la vita politica. Al contrario, il governo comunale sarebbe secondo gli storici sempre e comunque un governo di parte, in cui gli interessi particolari di un gruppo sono elevati a interesse generale, a "bene comune" per la collettività. L'assenza di tolleranza per le minoranze, e l'uso ricorrente della violenza privata per risolvere i conflitti sono i caratteri del Comune che lo rendono vulnerabile, e che ne minano col tempo la stabilità e la capacità di essere rappresentativo di tutta una comunità. Nei casi estremi, il Comune stesso è una fazione, una consorteria, una “parte” che diventa stato.
Sintetizzando, questi che seguono sono i limiti dell'esperienza comunale su cui gli storici si sono di recente soffermati:
- carattere rudimentale e semi-privatistico dell'ordinamento comunale;
- il Comune come "una cittadella di immunità e diritti particolari", come "un confuso fascio di privilegi";
- il Comune come ente pubblicistico minato dal prevalere degli interessi particolari.
Recentemente, si è posta attenzione alle ‘forme’ della vita comunale, con una particolare enfasi sul carattere ‘pattizio’ di quegli ordinamenti, e sul giuramento come manifestazione esterna di questo carattere contrattualistico. Per un approfondimento sul tema si rinvia al volume di Paolo Prodi.
Letture:
M. BERENGO, L’Europa delle città, Einaudi, Torino 1999.
G. Chittolini – D. Willoweit (a cura di), Statuti, città, territori in Italia e Germania tra medioevo ed età moderna, Il Mulino, Bologna 1991.
M. C. DE MATTEIS, “Societas christiana” e funzionalità ideologica della città in Italia: linee di uno sviluppo, in Le città in Italia e in Germania, a cura di G. Fasoli e Elze, Il Mulino, Bologna.
P. COSTA, Civitas. Storia della cittadinanza in Europa, vol. I: Dalla civiltà comunale al Settecento, Laterza, Roma-Bari 1999.
P. PRODI, Il sacramento del potere. Il giuramento politico nella storia costituzionale dell'Occidente, Bologna, Il Mulino, 1992.
P. MICHAUD-QUANTIN, Universitas. Expressions du mouvement communautaire dans le moyen age latin, Paris 1970.
M. SBRICCOLI, L'interpretazione dello statuto. Contributo allo studio della funzione dei giuristi nell'età comunale, Milano 1969.
D. WALEY, Le città-repubblica nell'Italia medievale, Einaudi, Torino 1980 (2a).
4. La nozione di “particolarismo politico e giuridico” e la gerarchia delle fonti di diritto
Come abbiamo detto, una delle forme in cui si esprime l’autonomia comunale è nel potere della città di dare leggi a se stessa, attraverso gli statuti, corpus di regole e norme che trae la sua origine dalla revisione e redazione scritta di consuetudini, norme di diritto comune, regolamenti delle magistrature cittadine.
Ma per comprendere a pieno cosa siano gli statuti e in che relazioni siano con le altri fonti del diritto, occorre fare alcune precisazioni.
Nel tardo Medioevo, esiste una pluralità di fonti di diritto. In particolare, occorre aver presente la distinzione tra:
1. diritto comune, frutto dell’accoglimento e della rielaborazione del Corpus juris civilis di Giustiniano compiuta dai giuristi a partire dal XII secolo (Scuola di Bologna). Con il tempo, il diritto comune comprende anche il diritto canonico e il diritto feudale. Era considerato dai giuristi il "diritto dell'Impero", in quanto unico per tutta la Cristianità, e recepito, se pure in forme e tempi diversi, un po' in tutta Europa (per questo detto ‘comune’);
2. diritto proprio, costituito dalle consuetudini locali, dal diritto regio, dagli statuti mercantili, cittadini o corporativi.
Alcune precisazioni:
I fondamenti della legittimità del diritto proprio.
Il fenomeno dello statuto comunale, che aveva pretesa di validità generale per tutto l'ordinamento cittadino, pose subito ai giuristi il problema del raccordo tra diritto comune e diritto proprio. La scienza giuridica rinata con la Scuola di Bologna dal XII secolo in avanti diede soluzioni diverse, nel tempo, a quest'esigenza di sistematizzazione delle fonti di diritto. All'inizio i dottori negarono la validità degli statuti in quanto leggi generali, e li inquadrarono piuttosto nella categoria dei contratti privati. Dalla fine del Duecento gli statuti furono poi legittimati sulla base della permissio concessa dall'Imperatore a Costanza. Infine, il grande Bartolo da Sassoferrato (XIV secolo) legittimerà gli statuti con la teoria della jurisdictio. Dopo di lui, il suo allievo Baldo degli Ubaldi dirà che la potestà statutaria spetta a ciascun popolo per "diritto delle genti" (de jure gentium), che equivaleva ad affermare il diritto per ogni organizzazione politica, anche minima, di darsi proprie regole.
Dal punto di vista dottrinale, va detto che per tutta l’età medievale, e per l’inizio dell’età moderna, è predominante l’idea che “lex facit rem”, mentre solo lentamente, da Bodin in là, si afferma il principio “rex facit legem”. Che significa ? il sovrano nella concezione medievale è in primo luogo un “re-giudice”, e il suo attributo fondamentale resta quello del conservare il regno in pace, dentro e fuori, dirimere le controversie, attribuire “a ciascuno il suo”. Re- giudice non significa che egli eserciti sempre in prima persona la funzione giudiziaria, ma che la sua funzione primaria è quella di rendere giustizia e dare ‘grazia’. Un potere, quest’ultimo, che persiste fino ad oggi: nell’ordinamento italiano, come sapete, il potere di grazia è attribuito al Presidente della Repubblica.
Solo lentamente, all’inizio dell’età moderna, si fa strada l’idea che il re è in primo luogo “legislatore” e che il suo compito primario è di tipo normativo. Ma anche se affermato nella dottrina (Bodin), questo principio stenterà a tradursi nella pratica, e fino alle consolidazioni giuridiche del ‘700 la legge del re (diritto regio) deve imporsi, per essere efficace, su una pluralità di norme concorrenti, soprattutto in relazione al diritto civile.
Cosa significa in concreto la formula “lex facit rem” ?
Tutto ciò è espresso dagli storici col termine “particolarismo giuridico”, con il quale si intende la pluralità di ordinamenti giuridici che caratterizza la concreta struttura politico-sociale post-feudale. Tali ordinamenti possono essere territoriali, di un dato regno o città o territorio, o personali, legati allo status della persona: ad esempio la lex mercatorum che vale per i mercanti, o il diritto canonico che vale per gli ecclesiastici, ecc.
Nell’applicazione concreta vanno ricordate alcune regole generali:
Ma sono indicazioni generali e non sempre osservate, che anzi daranno vita ad una serie infinita di controversie, ricorsi, appelli. La giustizia d’antico regime ha procedure lentissime, numerosi gradi di appello, e molti soggetti istituzionali vi intervengono: la molteplicità dei diritti non faceva che aggiungere ulteriore complicazione a questo settore della vita pubblica. Alla fine dell’antico regime, le richieste di codificazione del diritto muoveranno proprio dalla constatazione dell’impasse in cui la giurisprudenza di diritto comune si trovava a fronte delle esigenze di chiarezza, celerità e razionalità giuridica della società mercantile.
Letture:
P. Costa, Iurisdictio. Semantica del potere politico nella pubblicistica medievale (1100-1433), Milano 1969
A. Cavanna, Storia del diritto moderno in Europa, Giuffré, Milano 1979, vol. I.
G. Chittolini – D. Willoweit (a cura di), Statuti, città, territori in Italia e Germania tra medioevo ed età moderna, Il Mulino, Bologna 1991.
P. Grossi, L'ordine giuridico medievale, Laterza, Bari-Roma 1995.
Premessa
Prima di parlare dell’evoluzione istituzionale degli stati europei, e dei modelli politici che si delineano in età moderna, cercheremo di dare uno sguardo alle trasformazioni istituzionali della penisola italiana, sia per comprendere meglio come e perché entrano in crisi le istituzioni comunali, sia perché la penisola si pone, tra il XIV e il XVI secolo come un autentico ‘laboratorio’ di forme di potere, modelli di governo e formazioni statali, alcune destinate ad essere travolte dalle vicende militari a cavallo fra Quattro e Cinquecento, altre destinate a durare fino all’età napoleonica e oltre.
Ma il rilievo della penisola è anche di altra natura: infatti, proprio la varietà delle formazioni politiche, anche se fragili, e la complessità delle relazioni tra i vari centri di potere, fanno del caso italiano una scena interessante per studiare la costruzione ‘dal basso’ delle entità statuali, e la creazione di istituzioni e forme di potere territoriale a partire da interessi sociali, economici e territoriali ben precisi. In particolare, come diremo, il fenomeno dello “Stato del Rinascimento” e quello, strettamente intrecciato, della “corte” hanno attirato fin dall’800 l’attenzione degli storici, dando vita a interpretazioni e giudizi discordanti.
La crisi degli ordinamenti cittadini
Quando si parla di "crisi" degli ordinamenti comunali ci si riferisce non ad un avvenimento, ma ad una lunga fase di mutamenti e di instabilità degli assetti cittadini, che va dalla seconda metà del secolo XIII all'inizio del Cinquecento, ossia dall'avvento delle prime signorie allo stabilizzarsi dell'assetto politico italiano dopo le "guerre d'Italia". Identificata dalla storiografia del tardo Ottocento e del primo Novecento come momento di crisi delle "libertà comunali" e avvio della "decadenza" politica ed economica della penisola, questa fase è oggi al centro di numerose ricerche che a loro volta si intrecciano con il tema della costituzione dei cosiddetti "Stati regionali", ossia le formazioni politiche della penisola che salvo qualche aggiustamento giungono fino al periodo dell’unificazione italiana.
L'attenzione della storiografia recente si è quindi spostata dai dati per così dire "costituzionali" (forma di governo, sistemi elettorali cittadini, forme di partecipazione e di libertà ecc.), a temi più di storia sociale e di storia dell'amministrazione: al centro del dibattito sono ora gli strumenti di governo, gli assetti sociali, il rapporto tra dominante o principe e città suddite, le forme di controllo sulle periferie, le norme giuridiche, l'amministrazione della giustizia e così via.
Sia nell'analisi delle ragioni della "crisi" degli istituti comunali e repubblicani, sia nella ricerca delle origini degli Stati territoriali, si tende ora a riportare in luce il peso ed il ruolo che le componenti feudali e rurali hanno esercitato anche nei momenti di maggiore vitalità dei Comuni, sia in veste di soggetti collettivi, con proprie forme organizzative, richieste, pratiche concrete d’azione, sia per gli effetti che la loro inclusine negli stati regionali produce sul piano dell’azione dei governi centrali, che siano principeschi o repubblicani. (Macek ha parlato a tale proposito di un "mare feudale" che circonda le cittadelle comunali).
Qualche studioso - ad es. Giorgio Chittolini - ha anche proposto di riconsiderare l'intera questione alla luce degli esiti delle vicende comunali, che approdano ovunque ad un processo di involuzione oligarchica e di aristocratizzazione: "appare opportuno spostare l'attenzione a quelle forze politiche che esercitano la loro azione sovrapponendosi e contrapponendosi alle istituzioni cittadine; sia quelle che hanno le loro basi fuori dalla città e del sistema delle istituzioni urbane, e agiscono al di fuori della cerchia delle mura, sia quelle che, pur inserite nel mondo urbano... non esauriscono nelle istituzioni municipali la loro autonoma capacità di iniziativa" (Chittolini, Alcune considerazioni …, p. 408).
In altre parole, il tema stesso della "crisi" delle istituzioni comunali porta con sé inevitabilmente un processo di riconsiderazione degli ordinamenti repubblicani, alla luce del quale essi non paiono più gli "unici" attori e protagonisti delle vicende politiche dei secc. XI-XIII. Soprattutto per l'area padana, si è messo in luce il peso che la feudalità ha sempre conservato nel contado, e sovente anche all'interno delle mura cittadine. Esemplare è in tal senso il caso ferrarese, che si potrebbe ben chiamare uno "stato in forma di feudo".
Ma anche rispetto ai Comuni, si guardano ora in una luce nuova le dinamiche politiche effettive entro le mura cittadine, cercando di porre in evidenza le reali forze sociali e i veri meccanismi di governo: vengono così alla luce i poteri esercitati di fatto dalle grandi famiglie cittadine, dalle consorterie nobiliari, dalle associazioni corporative, e si rivela la fitta rete di legami di tipo "privatistico" che stava alla base della vita repubblicana e cittadina.
Come per il caso degli "alberghi" genovesi, emergono dei poteri di fatto, feudali o nobiliari, in grado di influenzare non solo l'ambito cittadino, ma anche di tessere alleanze e reti di rapporti nel contado, o con le famiglie di altre città. A Parma, ad esempio, per tutto il XV secolo a detenere il potere furono i cosiddetti "principali", che non siedono però nelle istituzioni comunali, ma sono signori e feudatari del contado (Rossi, Pallavicino, Sanvitale). Dal Piemonte al Friuli, emerge un'Italia rurale e "feudale" poco toccata dalle istituzioni comunali, e dominata invece da comunità di valle, federazioni di comuni, signorie rurali, che proprio con gli Stati regionali torneranno ad essere forze politiche attive ed interlocutori dei principi.
Perché sono state finora trascurate queste istituzioni e queste forme di governo del territorio ? Forse perché la storiografia ottocentesca, tutta presa dal compito di delineare in ogni sua fase storica il processo di costruzione dello Stato moderno, identificava proprio nel Comune cittadino, con le sue istituzioni amministrative e le sue forme di partecipazione, una prima tappa di questo stesso processo, mentre escludeva dal suo orizzonte ogni forma politica non riconducibile a questa visione di "lungo periodo". Tutto ciò che era rurale o feudale appariva agli occhi degli storici come "arretrato", come pura sopravvivenza di forme e di istituti in via di superamento. Da qui anche quell'interesse per le istituzioni di governo (finanza, consigli, magistrature, uffici amministrativi) che meglio rispondevano (o somigliavano) alle istituzioni dello stato moderno.
Di recente, come si diceva, questa prospettiva è stata ridimensionata: basti vedere il modo riduttivo in cui il tema degli ordinamenti cittadini è stato affrontato nella Storia d'Italia Einaudi, che ampio spazio dà invece alle campagne, ai rapporti tra città e campagna, e alla cosiddetta "rifeudalizzazione". Rispetto a questi ambiti, la storia della Einaudi tende anzi a sottolineare come il Comune si sia limitato a sovrapporsi ai signori feudali nel dominio del contado, senza incidere in profondità negli assetti di potere interni alle campagne stesse (contratti, norme giuridiche, forme di produzione e di coltura, smercio dei prodotti e così via). Al punto che secondo certi storici (ad es. il Villari), la Storia d'Italia Einaudi avrebbe ribaltato il tradizionale giudizio storiografico, da Cattaneo in poi, sul ruolo positivo e trainante delle città nella storia della penisola, e suggerisce l'ipotesi opposta della città come "freno" allo sviluppo della penisola.
Da qua, fra l'altro, il bisogno di rivedere le tradizionali scansioni cronologiche, costruite, come si è detto, sulla base del privilegiamento delle "forme" di governo (comune, signoria, principato, dominazione straniera). Si è così notato come le principali istituzioni di governo cittadino si siano formate nel periodo tra la fine del Trecento e l'inizio del Quattrocento: riformate e riviste, sono queste le istituzioni "municipali" che solo le riforme del Settecento riusciranno a scalfire.
Signorie e principati italiani
Il processo che porta dal comune alla sua trasformazione in signori, stato territoriale e principato, non è un passaggio pacifico. Come per molte altre trasformazioni istituzionali dell’età moderna, sono le guerre e i conflitti a indurre queste trasformazioni. Se per alcuni storici l’evoluzione verso lo stato territoriale era inscritta fin dall’origine nelle vicende dei comuni, passando per il loro dominio sui rispettivi contadi, per altri “fu soltanto quando i comuni urbani cominciarono a combattere tra di loro non più solo per questioni di confine o di preminenza economica, ma con l’intento di sottomettersi o di non farsi sottomettere, che la struttura comunale cittadina denunciò tutto il suo grado di precarietà, di insufficienza amministrativa e financo di mancanza di un’ideologia politica che superasse i limiti angusti del sentimento civico” (De Matteis).
Sono dunque le conflittualità tra i vari ordinamenti locali a far affiorare, all’interno di questi, quelle esigenze di organizzazione militare e di ordine sociale che sono alla base dell’affermazione dei regimi signorili.
Per altri (ad es. Pini nel suo contributo alla Storia d’Italia della Utet), anche le difficoltà economiche e le ripetute carestie sono tra le ragioni dell’affermazione dei regimi signorili. E’ infatti nei momenti di ristrettezze economiche, di eccessivo fiscalismo, di difficoltà commerciali, che affiorano entro il comune una accesa rivalità fra famiglie e fazioni, una chiusura delle élites dirigenti a difesa delle posizioni di potere acquisite, e una aperta frattura tra città e contado. “La soluzione è vista nell’uomo forte che è, o si pensa possa essere, al di sopra delle parti” (Pini), e dunque in grado di mettere fine agli abusi, alle discordie interne, alle minacce esterne.
Quali che siano le ragioni della loro ascesa, con l’eccezione di Venezia e Bologna, quasi tutti i comuni del Nord Italia sono agli inizi del Trecento sotto il governo di un signore. La maggior parte di questi sono in origine podestà, o capitani di ventura, o nobili del contado, esterni dunque alle dinamiche e alla conflittualità interna. A questi signori vengono da subito concessi poteri assai larghi, a volte con diritto ereditario. Inizialmente, i signori innovano assai poco nella struttura amministrativa cittadina, e si limitano a rafforzare apparati fiscali e burocratici in vista delle funzioni di cui sono investiti.
Con il tempo, però, molti signori cercano di sciogliersi dall’investitura dal basso che li aveva legittimati, o dal consenso popolare, e di ottenere investiture e titoli dall’alto, dal papa o dall’imperatore. All’inizio il titolo cercato è quello di “vicario”, ossia di rappresentante del potere superiore, cosa che li metteva in grado di apportare mutamenti anche sostanziali alle forme istituzionali comunali e del contado. Ma in questa fase pochi forzano la situazione, perché il loro potere, anche militare, è ancora fragile, e dunque è più che mai attuale la minaccia di una rivolta interna. Il consenso dei cittadini resta dunque un requisito necessario per la stabilità di questi regimi.
Tra ‘400 e ‘500 invece, quando le signorie saranno ormai stabili, alle preesistenti magistrature cittadine si affiancano o si sovrappongono uffici e cariche di diretta emanazione signorile, incaricati di rendere esecutiva la volontà del signore, e da questi strettamente controllate.
M a questo punto, i maggiori stati signorili della penisola hanno compiuto il passaggio al “principato”. Se sul piano effettivo, del potere di fatto, le differenze giuridiche fra signoria e principato non sono rilevanti, sul piano giuridico la distinzione è più evidente, e riguarda le forme di legittimazione: possiamo dire, con una certa approssimazione, che è simile alla differenza fra possesso e proprietà. Il complesso dei poteri giuridici dei signori aveva infatti portato a una situazione simile a quella dei feudali prima del periodo comunale: si trattava ora di aggiungere, per convalidare la loro condizione giuridica, una nuova e superiore dignità personale. La progressiva rinuncia dei Comuni, nella mani del signore, dei loro poteri, rendeva ora possibile l'unificazione giuridica del territorio: le norme emanate dal signore valevano per tutti i comuni di questo.
Lo strumento giuridico iniziale per l’acquisizione di una maggiore autonomia fu il titolo di vicario imperiale, ossia una “delega” di poteri dall’imperatore al signore, che poteva così estendere le sue competenze in ambito amministrativo e giurisdizionale. Più tardi, il titolo di “marchese” o “duca”, che molti signori italiani comprarono pagando alla cassa imperiale somme ingentissime, conferì loro una porzione di sovranità, anche se non li scioglieva ancora, sul piano formale, dal riconoscimento della supremazia imperiale soprattutto in caso di richieste di aiuto dell’Imperatore per la guerra contro i Turchi, o di controversie con altri principi o signori da lui dipendenti.
In questa fase tardo-medievale, l’erezione di una signoria in principato è sempre un atto unilaterale dell'imperatore o del papa. Se dal punto di vista fattuale si trattò di riconoscimenti di situazioni di potere già operanti, formalmente si trattò di vere abdicazioni e cessioni del potere imperiale o papale, che trovarono opposizione nei principi elettori e nella cancelleria dell'Impero.
Sul piano delle istituzioni, come si è già accennato, con il principato si indeboliscono, e vengono svuotate dal dentro, molte delle funzioni dei comuni, che diventano organi locali dell'amministrazione del nuovo “stato territoriale”.
Ma l’essenza del principato non sta tanto nel titolo, quanto nel distacco voluto del potere dall'autorità dello stesso concedente, quale riconoscimento di una situazione, di una dinastia, di un'organizzazione politica già da tempo esistente: e questo aveva, per chi aspirava al titolo di principe, un valore enorme sul piano della competizione internazionale, del confronto, diplomatico o militare, con gli altri stati e centri sovrani.
Nella penisola, i principati maggiori furono quello degli Sforza a Milano, degli Este a Ferrara, Modena e Reggio, dei Gonzaga a Mantova, e più tardi, a metà ‘500, quello dei Farnese a Parma e dei Savoia in Piemonte e Savoia.
Più travagliata la formazione del dominio dei Medici a Firenze, dove tra XIV e XVI secolo si alternano esperienze signorili e repubblicane, se pure sempre di segno oligarchico. Dopo il ritorno da un esilio trentennale (1434-1464), Cosimo de’ Medici fu di fatto signore di Firenze, e di quella gran parte della Toscana già sottoposta a Firenze (la caduta di Pisa è del 1406). I Medici si appoggiano sulle classi popolari ed evitano così lotte interne. Nel definire il regime di Cosimo gli storici oscillano tra l’idea della persistenza della vitalità del comune cittadino e quella di una “tirannide mascherata” sotto le forme cittadine. Il problema deriva dal divario fra le vecchie forme costituzionali e le nuove pratiche politiche: se è vero che i Medici lasciano sopravvivere le prime, è anche vero che tutto il gioco politico è profondamente alterato da meccanismi clientelari e da nuovi organi di governo che avevano il compito di assicurare la supremazia della potente casata, anche attraverso un capillare e non sempre ‘trasparente’ controllo delle cariche e delle elezioni a queste.
Nel 1471, ad esempio, Lorenzo de’Medici sostituisce ai vecchi Consigli del Podestà e del Popolo un Maggior Consiglio di cittadini a lui fidati, all'Esecutore degli antichi "Ordinamenti di Giustizia" il Bargello, vero capo di polizia, mentre Podestà e Capitano del Popolo sopravvivono con funzioni quasi esclusivamente giurisdizionali.
La revisione storiografica in corso riguarda anche l'origine degli Stati signorili: prima celebrati come prototipo dello stato moderno (Burchkardt), poi visti come responsabili primi del soffocamento delle libertà repubblicane e delle autonomie cittadine, si tende ora piuttosto a coglierne i motivi di fondo, sia come istanze a cui rispondevano, sia come forme di dominio che essi attivano nel territorio.
Gli stati territoriali si sovrappongono ad una fitta rete di nuclei di potere - comuni urbani e rurali, corporazioni, signorie rurali, rapporti clientelari e consortili, comunità alpine o di valle, signorie ecclesiastiche - e avviano un processo di ridefinizione del potere pubblico, spingendo in direzione del coordinamento stabile di questi nuclei di potere, e in certi casi del superamento dello stesso particolarismo.
Strumenti primi di questo processo di riordinamento dei rapporti di autorità furono i patti di dedizione, vale a dire i capitoli sottoscritti tra dominante e città subordinate, oltre che le nuove disposizioni per il governo del territorio emanate dal principe o dalla dominante.
Non si tratta in alcun modo di uno stato "moderno": vi è sì ora un potere centrale che coordina (o per lo meno ci prova) l'esercizio del potere pubblico su un ampio territorio; vi sono sì forme nuove di amministrazione, di esazione fiscale, di amministrazione della giustizia, di difesa militare. Ma lo stato territoriale resta pur sempre un sistema pluralistico, "un sistema di giurisdizioni particolari, di autonomie, di feudi, di privilegi, di immunità": un sistema in parte caotico, e sempre altamente conflittuale. Al punto che quando nel ‘700 i riformatori vollero metter mano ad una riforma complessiva dell’amministrazione del territorio, si meravigliarono di come certi sistemi amministrativi territoriali avessero potuto funzionale, bene o male, per tre o quattro secoli.
Dalle signorie e principati agli stati regionali
Sorte per esigenze di difesa e di pacificazione interna, le Signorie italiane sono protagoniste, fra Tre e Quattrocento, di una continua serie di guerre e conflitti per il controllo dei territori e delle risorse, e per l’estensione dei loro rispettivi domini. Non è qui possibile richiamare questi eventi. Ricordiamo solo, fra le vicende che maggiormente condizionarono l’evoluzione successiva della penisola, l’accanita lotta fra Visconti e Firenze all’inizio del ‘400, una vicenda importante per la formazione del ‘mito’ della libertà repubblicana di fronte alla tirannide signorile, ma anche perché la sconfitta dei Visconti impedì, forse, la formazione di un unico stato nell’Italia centro-settentrionale, che avrebbe potuto forse dar vita ad una monarchia unitaria.
Invece, a metà ‘400 la conflittualità continua, in una situazione di parità delle forze militari e delle risorse a disposizione, conduce ad una sorta di stallo, che porta alla celebre pace di Lodi (1454), con la quale si sancisce una specie di ‘equilibrio’ interno, il rispetto del quale è ora affidato, per la prima volta, all’azione di ambasciatori residenti. Protagonisti di questo equilibrio sono i 5 maggiori stati formatisi in questi secoli di convulsioni interne e di guerre:
Altri stati minori, come il ducato degli Este a Ferrara e Modena, o la signoria dei Gonzaga a Mantova, o il ducato di Urbino, figurano in veste di alleati degli stati maggiori, mentre il ruolo della dinastia dei Savoia è per ora marginale sulla scena italiana.
Il lungo periodo di pace fra il 1454 e il 1494, quando Carlo VIII di Francia muove alla conquista del regno di Napoli dando avvio alla stagione delle ‘guerre d’Italia’ (1494-1559), consente agli stati italiani di definire i propri sistemi di governo, di articolare meglio le funzioni pubbliche e gli uffici preposti a svolgerli, e di dar vita ad un sistema di ‘corti’ signorili, di cui oggi percepiamo soprattutto il lascito culturale e artistico, ma che furono anche una prima forma di concentrazione del potere da parte dei signori rinascimentali. Vedremo più avanti, parlando dell’antico regime, il ruolo politico e sociale della corte.
Alla fine delle guerre d’Italia (trattato di Cateau- Cambrésis, 1559), il predominio spagnolo su alcuni stati della penisola (Milano, regno di Napoli, stato dei Presìdi) dà vita ad una sorta di dualismo politico fra la monarchia spagnola e gli stati indipendenti della penisola. Ma vedremo più avanti vicende, istituzioni e caratteri del sistema di potere spagnolo e degli antichi stati italiani.
NB: lascio a voi fare una vostra sintesi delle lezioni con il Prof. Andreozzi, che potranno poi essere inserite in questa traccia.
Letture:
CHITTOLINI G., La formazione dello Stato regionale e le istituzioni del contado, Torino 1979.
CHITTOLINI G. (a cura), La crisi degli ordinamenti comunali e lo origini dello stato del Rinascimento, Bologna 1979.
G. CHITTOLINI, Alcune considerazioni sulla storia politico-istituzionale del tardo Medioevo: alle origini degli "stati regionali", in "Annali ISIG", II (1976).
Origini dello Stato. Processi di formazione statale in Italia fra medioevo ed età moderna, a cura di G. Chittolini, A, Molho, P. Schiera, Bologna, Il Mulino, 1994.
E. FASANO GUARINI, Gli stati dell’Italia centro-settentrionale tra Quattro e Cinquecento: continuità e trasformazioni, in “Società e Storia”, n. 21, 1983, pp. 627-639.
Premessa
Se osserviamo la carta dell’Europa del XVI secolo, vi troviamo stati e formazioni politiche alquanto diverse:
In particolare, al blocco delle tre monarchie occidentali, Inghilterra, Francia e Spagna, che per qualche storico presentavano già caratteri proto-nazionali, si contrapponeva la fascia mediana, dalle Fiandre al Mediterraneo, caratterizzata dal permanere di una elevata frammentazione degli ordinamenti politici, e dall’assenza di nuclei dinastici forti, in grado di aggregare le altre entità politiche: torneremo tra poco su questo aspetto.
A lungo la storiografia ha indicato nella formazione delle grandi monarchie europee una prima tappa della costruzione degli stati moderni: ma se spostiamo l’osservazione alla vita interna di questi ordinamenti politici, alle forme di governo e alle pratiche politiche e amministrative, possiamo dire che se esistono già alcuni elementi compresi nella definizione di stato moderno vista all’inizio, questi si presentano sparsi, slegati, non identificabili in alcuna progettualità politica, e molto spesso attivati per ragioni contingenti. Più in generale, i primi embrioni della burocrazia moderna, o le prime forme di esercito nazionale, o la centralizzazione di alcune funzioni amministrative, coesistono (e coesisteranno a lungo) con assetti sociali e politici popolati da diversi soggetti politici, da varie forme di potere, da diverse fonti di diritto, e in cui la maggior parte della attività tipiche di uno stato si svolgeva per via giudiziaria.
Vediamo in particolare di definire meglio le origini e il ruolo delle assemblee rappresentative, dato che a lungo in Europa, furono i loro poteri, le loro prerogative e la loro funzione effettiva a ‘limitare’ l’autorità regia.
Stato per ceti e istituzioni rappresentative.
Dopo la dissoluzione del sistema ‘politico’ feudale, secondo molti storici è possibile parlare di uno “stato per ceti”. Con il termine si intende indicare un ordinamento politico in cui il potere regio è fortemente limitato dalle presenza di altri soggetti e poteri politici che detenevano di quote rilevanti di influenza sociale e di potere politico, che esercitavano rilevanti funzioni pubbliche, e che avevano le loro forme rappresentative: tutti elementi in grado di arginare e limitare, sia di fatto che con precisi procedimenti e strumenti giuridici, l’autorità regia.
Ricordiamo anche che nella teoria politica medievale era contemplato un diritto di resistenza dei sudditi verso il sovrano in caso di inadempienza di questo verso i suoi doveri o di provvedimenti contro la legge. Questo diritto diede vita anche a vere deposizioni di sovrani, o a rivolte, ma in genere interpreti di questo diritto erano in primo luogo le istituzioni rappresentative, e ad esse spettava contestare i provvedimenti o dar vita a proteste in caso di violazione dei patti sottoscritti.
Gli studi recenti hanno però messo in luce come lo sviluppo dei poteri regi e quello delle assemblee dei ceti non siano successivi, o contrastanti, ma concomitanti. Fu il bisogno crescente di denaro dei sovrani, a sua volta dovute all’aumento dei costi delle guerre, a rafforzare di fatto le istituzioni rappresentative europee. Le loro origini poggiano infatti sul principio giuridico (presente nella raccolta di Giustiniano) “quod omnes tangit ab omnibus approbari debet”, che ancorava l’imposizione fiscale all’approvazione e al consenso di coloro che dovevano poi effettivamente pagare. Dal campo fiscale il principio è poi esteso ad altri settori della vita pubblica: nel 1302 Filippo il Bello convoca la riunione ‘costitutiva’ degli Stati Generali per trattare e decidere su “molte difficili questioni” in relazione al suo contrasto con Bonifacio VIII.
Poiché nel tardo Medioevo detentori di ricchezza sono non solo i ceti nobiliari, ma i mercanti e i borghesi, i sovrani ampliano nel XIV secolo l’accesso alle assemblee, chiamando a farne parte anche rappresentanti delle città: è questa l’origine in Inghilterra dei Comuni, e in Francia del Terzo Stato, che assieme a nobiltà e clero formava, appunto, gli Stati Generali. Secondo alcuni storici (ad es. Marongiu), la presenza o meno di rappresentanti cittadini o borghesi costituisce un criterio di distinzione tra le istituzioni rappresentative medievali e i parlamenti moderni. La prima partecipazione di rappresentanti cittadini ad un parlamento medievale sembra sia stata quella di Leon del 1182, seguita dalla Catalogna nel 1218. In Inghilterra i comuni sono ammessi dal 1295, in Piemonte nel 1286, mentre in Francia il Terzo stato è ammesso nel 1302: in Russia questo sviluppo si avrà solo nel 1613 (R. Howard -Lord, p. 107).
Un altro elemento per valutare la maturità delle istituzioni parlamentari sono la frequenza e regolarità delle loro riunioni, e le modalità della loro convocazione. Gli Stati Generali in Francia non ebbero mai caratteri stabili, né le loro riunioni un’alta frequenza: sei convocazioni nel XV secolo, 4-5 in quello successivo, una nel 1614, e poi nel 1789. Ma Blockmans ha fatto notare che l’assemblea territoriale di Bruges (detta “collegio dei 4 membri”) si riunì fra il 1385 e il 1506 almeno 4055 volte, con una media di più di 33 riunioni per anno. In Inghilterra il Parlamento si riunì 151 volte lungo il Xiv secolo, ma solo 20 fra il 1450 e il 1510.
Inoltre, lo storico Foreville ha notato che a lungo le rappresentanze cittadine intervengono solo per ratificare le decisioni prese dagli altri ordini, ad esempio per stabilire la ripartizione del carico fiscale approvato.
Nello sviluppo degli stati europei, il ruolo e il peso delle istituzioni rappresentative è una delle variabile più importanti nel determinare i diversi esiti delle trasformazioni politiche dell’età moderna. Perciò, altri aspetti delle istituzioni parlamentari saranno affrontati in relazione ai casi specifici che esamineremo tra poco.
Le monarchie: elementi comuni
Soffermiamoci ora sui caratteri comuni delle monarchie europee, e sulle vicende e percorsi specifici che tra fine ‘400 e metà ‘600 delineano modelli e forme di governo distinti.
Le monarchie dell’Europa occidentale poggiano su alcuni principi fondamentali, e tra queste l’immagine del re come ‘giudice’ supremo, e la legittimazione divina del potere regio, che in Francia e in Inghilterra si traduceva anche in riti e credenze peculiari (i “re taumaturghi”). Anche molte istituzioni, nella prima età moderna, presentano forte somiglianze. Assai diversa, invece, l’evoluzione nel tempo di queste istituzioni e, soprattutto, la dinamica fra sovrano e ceti, fra autorità regia e il resto del paese.
Tra gli elementi comuni vanno segnalati i consigli reali, che col tempo si specializzano ulteriormente, e che derivano dall’antica curia regis medievale. In essi sedevano alti dignitari, nobili e funzionari, che coadiuvavano il re nel momento decisionale, o si incaricavano di settori ben precisi del governo. Ben presto, per esempio, si creano da questo nucleo unitario dei consigli per le finanze, che saranno con il tempo i centri di coordinamento della politica fiscale. Una istituzione importante è la Cancelleria, presente oltre che nelle monarchie anche nell’Impero e nei possessi degli Asburgo, e che aveva come compito fondamentale quello di redigere gli atti regi garantendone l’autenticità attraverso i sigilli regi. Per questa funzione di ‘garanzia’, quella di cancelliere resta a lungo la prima carica dello stato. Con il tempo, dalla cancelleria si sviluppano le Segreterie di stato, incaricate del coordinamento degli atti e delle comunicazioni di governo. Da queste, tra Sei e Settecento, si formeranno segreterie particolari per i vari settori della vita dello stato (finanze, guerra, esteri ecc.), che in qualche modo anticipano, pur basandosi su principi giuridici diversi, i ministeri ottocenteschi.
Va però detto che anche dopo la separazione dall’unico nucleo originario della curia di funzioni e uffici specializzati, la corte continuò a svolgere importanti funzioni politiche, spesso con meccanismi informali o ‘familiari’, e attraverso una rete di relazioni cortigiane e clientelari che la storiografia più recente ha studiato e interpretato alla luce dell’idea che il potere d’antico regime, specie al vertice dello stato, sia essenzialmente di tipo “personale”, legato all’autorità, ai privilegi e alle posizioni dei singoli personaggi politici.
Per quanto riguarda il fisco, gli stati medievali non conoscono a tassazione diretta ordinaria, e i sovrani potevano contare, oltre che sulle rendite dei loro rilevanti patrimoni personali o della Corona, su una serie di imposizioni fiscali indirette (in primo luogo la tassa sul sale, o il ricavato della vendita del sale, dato che questo era spesso monopolio statale), e su alcune tasse straordinarie che dovevano negoziare con le rappresentanze territoriali o dei ceti. Per questo, lo sviluppo di una imposizione fiscale ordinaria è visto dagli storici come uno degli elementi di ‘modernità’ degli stati europei.
I poteri e gli uffici regi hanno dunque tratti simili, sia in quanto derivazioni delle antiche istituzioni medievali, sia per il fatto di e svolgere le stesse funzioni. Assai diverse invece le relazioni politiche interne, tra le istituzioni stesse, e tra il sovrano e i ceti, o meglio le loro istituzioni rappresentative, e diverse anche le forme dell’amministrazione fiscale, del governo locale, degli apparati giudiziari.
I diversi ‘modelli’ istituzionali europei sono frutto sia di processi sociali e di trasformazioni politiche di lungo periodo, sia di rotture e mutamenti più rapidi, che corrispondono alle congiunture critiche, o rivoluzionarie. Non sono dunque solo un diverso “assemblaggio” di poteri e istituzioni comuni, ma esiti del diverso rapporto fra corte e paese, sovrano e ceti, e di dinamiche sociali peculiari.
Le monarchie: i caratteri particolari
Vediamo in sintesi alcune vicende e alcuni tratti peculiari delle diverse monarchie europee, soffermandoci in particolare sul rapporto tra potere regio e rappresentanze cetuali e territoriali, e sui caratteri dell’amministrazione, sia regia che locale.
** Francia
Ricordiamo alcune avvenimenti e processi storici che ebbero un forte impatto sulle trasformazioni istituzionali:
Durante la lunga guerra con l’Inghilterra la dinastia dei Capetingi apparve come l’incarnazione della volontà di indipendenza e della stessa identità francese. Il radicamento della dinastia è spiegato anche dalla ininterrotta successione dinastica, dato che da Ugo Capeto (987) in poi la casata regnante aveva sempre avuto eredi maschi. Durante il suo lungo regno, Filippo II Augusto (1180-1223) inizia a riunire gran parte del territorio francese sotto il dominio regio, e riesce ad infliggere un colpo decisivo all’impero anglo-angioino.
Dopo la sconfitta degli albigesi e la riunione alla corona di ampi territori nel Sud della Francia, punto di forza della dinastia diventa il possesso diretto di ampie zone del paese, dalla Manica al Mediterraneo: “nessun potente feudatario è più in grado di contrastare veramente la supremazia del sovrano” (Finzi, p. 103).
Da qui l’esigenza di disporre di un apparato amministrativo in grado di far arrivare la volontà regia in tutto il paese: per ora regioni e province sono governati da “balivi”, che col tempo diventeranno i rappresentanti stabili del potere regio, riunendo nelle loro mani tutte le funzioni pubbliche in un dato territorio (finanze, giustizia, ordine pubblico ecc.).
Già dal XII secolo i bandi reali avevano il potere di derogare alle consuetudini del regno, a patto che fossero emanate per il ‘bene comune’ e con il consenso dei Consiglio regio, di cui facevano parte i maggiori signori feudali. Ma con il tempo i giuristi elaborano una teoria secondo cui in tutte le materia non regolate dalla consuetudine il consenso del Gran Consiglio non è necessario ai fini della validità delle ordonnances reali. “Da quel momento - e si badi che questa situazione durerà fino al 1789 - giuristi e teorici della politica considereranno intangibile il principio secondo cui il potere di fare le leggi costituisce l'attribuzione essenziale della sovranità monarchica. L'ordonnance royale divenne così il fondamento; di un diritto pubblico comune.” (Richet p. 20).
Secondo Richet, tra le ragioni di questa trasformazione vi sono l’indebolimento della legislazione signorile che, con l’eccezione della Borgogna e della Bretagna, è sempre più limitata a norme amministrativi minori; la tendenza delle consuetudini a limitarsi alle materie di diritto privato; la minore incidenza del diritto canonico. Il rafforzamento del potere legislativo del re fu poi favorito dallo sviluppo del diritto romano, che spinse i giuristi a recuperare la nozione romana di imperium (il potere assoluto dell'imperatore romano) assimilando a questa anche l'’utorità del re francese. Non si trattava solo di teorizzazioni astratte: i membri dei Parlamenti e in parte anche degli Stati generali erano prevalentemente giuristi: “una gran quantità di ordonnances furono elaborate a partire dai voti espressi dagli Stati. E quanto ai giudizi resi dal Parlamento di Parigi, si può dire che crearono una giurisprudenza fondamentale per la costituzione di un diritto pubblico imperniato sulle ordonnances regie” (Richet p. 21).
Ma dopo averlo riconosciuto, tutti i giuristi concordavano anche sulla necessità di limitare il potere legislativo del re, anche se questi limiti non trovarono strumenti stabili e sicuri, e furono dunque essi stessi oggetto di interpretazione e contrattazione fra corona e istituzioni francesi, in particolare quelle rappresentative. Condivisa da tutti, comunque, era la distinzione tra leggi fondamentali e leggi ordinarie, che nel 1586, rivolgendosi a Enrico III, fu così espressa dal presidente del Parlamento di Parigi: << Abbiamo, Sire, due tipi di leggi: da una parte vi sono le leggi e le ordinanze dei re; dall'altra vi sono le ordinanze del regno, che sono inviolabili e immutabili e per effetto delle quali voi stesso siete salito al trono. Dovete perciò osservare le leggi dello Stato, leggi che non possono essere disattese senza revocare in dubbio la vostra stessa potestà sovrana>> (cit. in Richet p. 22).
Le leggi fondamentali avevano natura consuetudinaria, e derivavano da tre fonti: i princìpi cristiani (ad es. il dovere del re di Francia di combattere gli eretici); principi etici e di diritto naturale (i dovere del re di essere giusto, di agire per il bene comune ecc.); e le norme sulla successione al trono e sul demanio regio. Queste ultime stabilivano la successione ereditaria maschile, l’indisponibilità della Corona (principio affermato contro il tentativo di Carlo VI, con il trattato di Troyes del 1419, di disporre del regno francese a favore della dinastia inglese), l’inalienabilità del demanio regio e la “cattolicità” del re francese (per cui, nel 1594, fu necessario a Enrico IV, per diventare re, convertirsi al cattolicesimo).
Ma se il re era tenuto all’osservanza di questo insieme di norme, nessuna sanzione era prevista in caso di sua inosservanza: sarà questo uno dei nodi del contendere tra Corona e Parlamenti nella Francia del ‘700.
I re francesi erano tenuti anche al rispetto delle leggi ordinarie: nonostante la dottrina affermasse che infatti, una legge era in vigore fin quando vivesse il principe che l'aveva promulgata, di fatto le ordonnances restavano in vigore finché non fosse stata espressamente abrogata da una successiva. “L'artificio (necessario) dei giuristi consisté nel considerare come adesione tacita la mancata revoca esplicita da parte di un re degli atti compiuti dai suoi predecessori” (Richet p.23).
Ma come si esercitava in concreto, e attraverso quali contestazioni, la supremazia delle ordonnances regie ? E’ esaminando nel dettaglio le procedure legislative francesi che possiamo cogliere nel concreto il funzionamento delle istituzioni e capire meglio la questione della compresenza di poteri e fonti del diritto distinti.
Secondo un giurista francese del ‘500, il diritto francese si compone di 4 elementi:
La volontà regia aveva tre modi per esprimersi : lettere patenti, lettere sigillate, deliberazioni del Consiglio regio. Mentre le prime erano soggette al sigillo reale e alla registrazione in Parlamento, le altre due forme evitavano queste procedure, e ciò spiega la loro enorme diffusione dalla metà del Seicento in poi, nel periodo di Luigi XIV.
Come ha messo bene in luce Richet, anche le modalità del procedimento legislativo sono importanti per capire il funzionamento del sistema. L’iniziativa legislativa, che avrebbe dovuto essere prerogativa regia, era spesso esercitata dai suoi consiglieri e funzionari, o anche dagli Stati Generali o dalle assemblee dei notabili. Anche la redazione del testo era affidata ad alcuni membri del Consiglio del re o anche a commissioni formate da giuristi o parlamentari: così accadde ad esempio per le grandi ordinanze di Colbert del 1667 e del 1670.
Per gli atti che necessitavano del sigillo regio, il cancelliere poteva esporre delle rimostranze e chiedere al re una modifica del testo. Ma questo genere di potere, come è noto, spettava soprattutto ai Parlamenti, che all’atto della registrazione potevano stendere osservazioni critiche al decreto in oggetto, chiedendone la modifica o a revoca. A quel punto, il re poteva ingiungere la registrazione e, in caso di ulteriori rimostranze del parlamento, poteva obbligare questo alla registrazione tramite un lit de justice. Era un sistema lungo e farraginoso, che creava una continua conflittualità tra il re, che riconosceva il diritto di rimostranza come una semplice formalità, e non come un vero potere legislativo, e i parlamenti stessi, che invece, e soprattutto nei momenti di scontro, facevano leva su questo potere per contrastare e arginare l’autorità del sovrano. Vedremo tra poco le vicende settecentesche che derivarono da questa caratteristica del regime francese.
Va anche tenuto presente che per tutta la seconda metà del Cinquecento il paese fu in preda ad una serie di conflitti civili e religiosi che assunsero particolare intensità sia per l’ambiguità della monarchia, sia perché si intrecciarono con la rivalità della maggiori famiglie nobili del regno. In quel periodo gli Ugonotti diedero vita ad un vero stato nello Stato, con una propria organizzazione militare, e anche la Lega cattolica sembrò sfuggire al controllo regio, dipendendo strettamente dagli aiuti degli spagnoli.
Le guerre di religione si chiusero con l’avvento al trono di Enrico IV di Borbone, dopo la sua conversione al cattolicesimo, e con l’Editto di Nantes del 1598.
Durante tutto il conflitto, il problema della tolleranza o repressione degli Ugonotti fu strettamente associato alla questione die poteri dei parlamenti, competenti, dal 1560, su questa materia. Dichiaratisi contrari alla diversità religiosa del regno i Parlamenti divennero per gli Ugonotti un aperto avversario, specie dopo che quello di Parigi si rifiutò di registrare l’editto di S. Germain del 1562 (cosa che fu poi obbligato a fare), che concedeva ai calvinisti alcune libertà di culto. La questione istituzionale si intrecciò così, concretamente, con le discussioni sull’estensione e sui limiti del potere regio, e sulle prerogative degli Stati Generali e dei Parlamenti. L’impossibilità della corona – anche per la rapida successione di re e di eredi al trono - di mettere freno alle violenze contro i calvinisti, era la prova, per questi ultimi, della incapacità regia a esercitare il suo primo compito, quello della giustizia per tutti i sudditi. Da qui le accuse al re di esser venuto meno al giuramento fatto, e dunque di aver sciolto il patto con i sudditi.
A partire da questi problemi, le guerre religiose videro l’affermarsi di una corrente dottrinale (i “politiques”) che proponeva come rimedio ai disordini civili una monarchia forte, ma temperata dalla presenza delle altre istituzioni del regno. Ma soprattutto, secondo questi autori, il sovrano doveva essere imparziale di fronte alle contese religiose. Scopo dello stato era amministrare bene il regno e preoccuparsi del benessere generale, anche economico: non rientrava nei suoi compiti orientare i sudditi in materia etica o religiosa.
Dopo l’uccisione di Enrico IV (1610), la Francia conosce nel primo Seicento una fase di instabilità dovuta alla reggenza, nella quale si affermano prima Richelieu e poi Mazzarino. Queste due figure, accanto ad altre come Olivares in Spagna, o l’Oxestierna in Svezia, hanno spinto alcuni storici a parlare di “ministeriato”, ossia la presenza, accanto ai sovrani o ai reggenti, di ministri dotati di un forte potere personale, che di fatto sostituiscono il re stesso in numerose funzioni. Le ragioni del fenomeno sono state indicate nelle reggenze, momenti in cui il potere monarchico è ovviamente assai fragile, nella stessa debolezza caratteriale di alcuni sovrani, ma anche in ragioni di natura politica. Si è infatti osservato che il “primo ministro” o “favorito” è chiamato a farsi carico del coordinamento di funzioni di governo sempre più ampie e complesse, in una fase, quella seicentesca, in cui altri strumenti del potere regio (gli intendenti per la Francia, o la burocrazia) sono ancora in via di costruzione. La presenza di queste figure segnalerebbe insomma il bisogno di una maggiore articolazione del potere regio in un momento storico in cui si avvio la ‘specializzazione’ tra le varie funzioni di governo. In realtà, Richelieu e Mazzarino devono essere considerati anche come i personaggi più in vista di catene di fedeltà e di clientela che legavano la capitale alle province, la nobiltà di corte e dei consigli alle nobiltà provinciali.
5. Una crisi istituzionale : La Fronda
La Francia aveva conosciuto nel XV secolo numerose sollevazioni di baroni e signori contro il sovrano a ragione della sua politica: nel 1465 la “Lega del Bene Pubblico”, nel 1485 la “Guerra folle” ecc. La seconda metà del Cinquecento è dominata come abbiamo appena visto dai conflitti religiosi. Ma l’ampiezza e la natura delle richieste dei rivoltosi durante la crisi di metà Seicento, fanno di questi avvenimenti un vero spartiacque della storia istituzionale francese.
Come ha ben messo in luce Richet, tutta la storia politica francese da Luigi XI a Luigi XVI può essere rappresentata come una serie di curve che segnalano un andirivieni continuo dell’autorità monarchica tra momenti di affermazione e periodi di crisi e contestazione. La rivoluzione francese può essere vista, seguendo questo schema, come la più radicale di queste crisi, che porta alla trasformazione stessa del sistema.
Già durante la reggenza la nobiltà aveva ripreso a condizionare la vita politica del paese, anche se il rafforzamento della corona ottenuto da Enrico IV non fu mai messo in discussione. Con Richelieu, la partecipazione della Francia alla Guerra dei Trent’anni aveva aperto nel pese una dibattito sulle prospettive della monarchia e sulle scelte di politica estera: il “partito devoto” sosteneva la necessità della pace con gli Asburgo per alleviare la stretta fiscale sul paese; il “partito dei Buoni Francesi” intendeva invece proseguire la guerra contro la potenza asburgica anche a costo di mantenere il pesante carico fiscale imposto dalle necessità belliche. L’affermazione di Richelieu portò ad una politica basata su un carico fiscale alto e protratto nel tempo, e su un più rigido controllo dell’operato dei funzionari, affidato alla figura dell’intendente, che vedremo più avanti. Il suo successore, Mazzarino, inasprì ulteriormente questa tendenza.
Non entriamo nel dettaglio del sistema fiscale francese, complesso e mutevole nel tempo. Ricordiamo solo che nelle entrate regie confluivano sia le entrate ordinarie, derivanti dalle rendite del demanio e dai tributi che spettavano al re in quanto signore feudale, sia imposte straordinarie che però, dal XV secolo, furono costituite soprattutto dalla taille, sottoposta in origine all’approvazione degli stati generali, e dalla quale i nobili erano esenti, essendo la sua introduzione legata al mantenimento dell’esercito, a cui i nobili partecipavano direttamente. Dopo il tentativo di Luigi XI di sciogliere la sua autorità dal consenso degli Stati, questi ultimi, riuniti a Tours nel 1484, ribadirono il loro potere di approvazione delle imposte, ma senza che gli esiti di quella riunione diventino permanenti.
La pressione fiscale richiesta dalla guerra, più ancora della guerra, fu secondo alcuni storici il “fattore decisivo per lo sviluppo delle pratiche assolutistiche” (Richet p. 74). Nel ‘500 la taille era passata da 2.700.000 lire tornesi nel 1490 a 7.120.000 nel 1576, una somma non eccessiva se si considera la fiammata inflazionistica del tempo. Ma con Richelieu si attua una vera “rivoluzione fiscale”, e l’imposta diretta aumentò di più del triplo tra il 1624 e il 1661, con un aumento del prelievo sul reddito fondiario lordo dal 6,2al 13 per cento. Oltre che la taille, crescono lungo il ‘600 anche le imposte dirette: tutto ciò al fine di assicurare fondi e mezzi alla politica espansionistica inaugurata da Richeliu e perseguita in misura ben maggiore da Luigi XIV.
Ma per essere efficace la rivoluzione fiscale necessitava di strumenti amministrativi agile e rapidi. Ci si rivolse quindi a dei finanzieri privati (fermiers) che anticipavano al re le somme di cui aveva bisogno e s'incaricavano poi di prelevare le imposte. Dopo una serie di rivolte antifiscali, Richelieu decise di potenziare il corpo dei «commissari» di cui i re francesi si erano sporadicamente serviti come longa manus del loro volere nei vari territori. Essi furono ora dotati di poteri e strumenti di intervento assai efficaci: da qui in poi, al posto dei vecchi commissari si imposero gli intendenti, autentici portavoce del re, che dava loro precise commissioni temporanee autorizzandoli ad una serie di controlli e funzioni destinati ad espandersi e rafforzarsi col tempo. Anche su questo torneremo.
Richet afferma che “l'assolutismo fu, in gran parte, figlio dell'imposta” (Richet, p. 74). La Fronda fu effettivamente in gran parte una rivolta anti-fiscale, diretta soprattutto contro le nuove modalità di esazione delle imposte. In una congiuntura resa già difficile dagli scarsi raccolti e dal raddoppio del prezzo del pane, nel maggio del 1648 i membri delle corti sovrane si riunirono a Parigi e stilarono una serie di richieste note come Proposizioni della Camera di San Luigi. Ulteriori richieste affinché il governo agisse contro tre potenti finanzieri di cui abitualmente si serviva fecero però scattare un tentativo di eliminazione dei capi dell'opposizione parlamentare. A quel punto, Parigi si ribellò in difesa del Parlamento, erigendo barricate (26-28 agosto 1648) e costringendo la corte a fuggire dalla città. Mazzarino riuscì comunque ad arrivare ad un accordo col parlamento (1649) ma il suo tentativo di arresto del principe di Condé portò ad una rivolta della nobiltà che si generalizzò poi, accomunando tutti gli scontenti. La Francia visse così due anni di completa anarchia, a partire dalla quale Luigi XIV, una volta maggiorenne, decise di impostare uno stile di governo personale e assoluto. Su questo torneremo tra poco.
Per Richet, la Fronda fu una rivolta ‘debole’, in cui furono in gioco elementi secondari del sistema, e che dunque non va intesa in alcun modo come anticipazione del 1789. Tanto nell'opposizione parlamentare, effettiva ma sempre prudente, quanto nella maggioranza dei pamphlets, non si ritrova altro elemento che la volontà di destituire il primo ministro e un'esplicita volontà di resistere alle innovazioni istituzionali (nuove imposte, sistema degli appalti per la riscossione, intendenti) che erano state favorite dalla guerra in atto” (Richet, p. 115).
Anche le richieste del parlamento contro i nuovi poteri degli intendenti, che spodestavano gli officiers de finances, sono per Richet una difesa di interessi di stampo marcatamente corporativi. Sulla vera posta in gioco, ossia la soppressione del sistema dell’appalto delle imposte e la riduzione del carico fiscale, si aprirono tra i rivoltosi posizioni diverse, e disponibilità al compromesso legate alle varie posizioni di ceto. E’ evidente che la nobiltà era interessata alla riduzione dei poteri dei ministri, ma meno alla questione fiscale, date le esenzioni di cui godeva in questo campo. Per i ceti borghesi che avevano appoggiato i parlamenti la questione stava in termini opposti.
L’eco europeo della vicenda fu ampliato dalla sua concomitanza con una serie di rivolte e rivoluzioni in tutta Europa. Merimann ha parlato delle “sei rivoluzioni contemporanee”:
La congiuntura di metà ‘600 è dunque l’apice di quella crisi generale del secolo che non è solo economica e sociale, ma anche politica e istituzionale. Segnala infatti la debolezza degli apparati statali a forte dei nuovi compiti imposti dalla guerra e dallo sviluppo economico. In alcuni casi, come in Inghilterra e in Francia, furono precise iniziative regie, o innovazioni istituzionali, a provocare la reazione dei corpi politici che tradizionalmente detenevano quote di potere e prerogative in grado di limitare e condizionare l’iniziativa regia. In ambedue i casi, la crisi di metà secolo innestò ulteriori dinamiche istituzionali, ma con esiti come è noto assai diversi. In Francia, in particolare, proprio il fatto di aver assistito direttamente alle rivolte e all’anarchia di età ‘600, spinse Luigi XIV, una volta al potere, ad un mutamento nello stile di governo che qualche storico ha voluto definire “rivoluzione monarchica”. Su questo torneremo tra poco.
** Inghilterra
Ricordiamo in sintesi alcuni avvenimenti che è bene tenere presenti per capire la dinamica istituzionale inglese:
Dopo la conquista normanna (1066), Guglielmo il Conquistatore aveva distribuito le terre dell’isola tra i suoi seguaci, dividendo il paese in contee. Era subito emerso un sistema amministrativo e giudiziario basato sulla direttiva scritta del monarca (writ) e su un principio di “tassazione universale”, che non ammetteva privilegi. Sono questi, nota il Bonini, “elementi precoci di costruzione dello stato”.
Gli elementi di forza della dinastia francese sopra richiamati, appaiono nel caso inglese per così dire rovesciati. Infatti, dall’XI al XIV secolo il potere monarchico fu in Inghilterra assai fragile: successioni contese, congiure e ribellioni costellano la storia medievale inglese. Inoltre, i re inglesi non riuscirono a creare attorno a loro un ampio consenso sociale, o a diventare la personificazione dell’autonomia dell’isola: stranieri, con una lingua diversa da quella della popolazione inglese, occupati ad ampliare i propri possessi sul continente (dove, in veste di duchi di Normandia, possedevano ampi domini nella Francia atlantica e meridionale).
I punti di forza della monarchia inglese furono invece altri. In primo luogo il fatto che per effetto della conquista tutto il suolo inglese divenne proprietà regia: anche le concessioni di terre ai seguaci non fecero mai venire meno il controllo regio sul territorio inglese. Inoltre, re e nobili condividevano l’impresa di espandere il regno, prima verso il Galles, poi in Irlanda. Ciò non evitò aspri scontri tra baroni e sovrani, ma come nota Finzi, se in Francia erano i sovrani a dover contenere il potere originario dei signori feudali, oltre Manica furono i baroni a preoccuparsi di arginare un potere regio fin dall’origine molto forte. Un momento fondamentale di questo processo è la famosa Magna Charta Libertatum concessa da Giovanni Senzaterra nel 1215 ed entrata a far parte degli ‘statuti’ del regno nel 1297. Anche se quelle qui elencate sono privilegi e ‘libertà’ di stampo medievale, il documento sancisce un controllo stabile dei feudatari sul re, e rafforza così il potere delle stesse assemblee inglesi, che da riunioni occasionali tendono a diventare istituzioni stabili. Nel corso del XIV secolo, il parlamento si divide nelle due assemblee dei Lords e dei Comuni e nonostante la sporadicità delle riunioni comincia ad essere percepito come una realtà istituzionale radicata e continua, al di là delle occasioni in cui è chiamato effettivamente a deliberare. Il passo successivo sarà appunto la richiesta del parlamento stesso di essere convocato con periodicità: una richiesta che sarà oggetto di ripetuti scontri tra parlamento e corona fino al Seicento.
Anche per il parlamento inglese prevale, in questo periodo tardo medievale, la funzione giudiziaria: non perché non competesse ai rappresentanti della nobiltà e dei comuni anche la funzione legislativa, ma perché quest’ultima era vista dalla dottrina del tempo come un aspetto particolare della funzione giudiziaria stessa. “Ci poteva essere, quindi, solo una ‘funzione’ di governo, la funzione giudiziaria; e tutti gli atti dell’autorità governante erano in qualche modo giustificati come aspetti dell’interpretazione e dell’applicazione della legge” (citato in Floridia p. 42). Ma questa veste di massima corte giudiziaria fu importante per la crescita del parlamento, perché gli offriva tutte le garanzie tradizionali degli organi giudiziari.
Tra ‘300 e ‘400, per assicurarsi i mezzi finanziari per la guerra contro la Francia, i sovrani fecero ripetute concessioni al parlamento: periodicità delle riunioni, affermazione della illegalità di ogni imposta priva del consenso del parlamento, diritto di inchieste sugli abusi regi, controllo sui conti pubblici, immunità dagli arresti.
Nella seconda metà del ‘400 la nobiltà inglese, divisa in due fazioni, si scontra in una guerra civile che si chiude nel 1485 con l’ascesa al trono dei Tudor. E’ questa una autentica cesura della storia inglese: la Guerra delle Due Rose vide infatti un’autentica decimazione della grande nobiltà inglese. Questo fatto spiega la relativa facilità con cui i sovrani, da Enrico VII in poi, poterono costruire un apparato regio ben organizzato. Punti di forza erano il Consiglio privato, che riuniva i principali dignitari e funzionari dello stato, oltre ai maggiori esponenti della Chiesa, e che aveva potere giudiziario, amministrativo e politico: un ruolo difficile da valutare, comunque, dato che il Consiglio agiva per via confidenziale, lasciando così poche tracce per lo storico.
Ma accanto e in collaborazione con la Corona, si rafforza anche il Parlamento. Enrico VII, che era stato riconosciuto come re dal Parlamento da lui convocato dopo la sua vittoria militare, continuò ad appoggiarsi ai Comuni per tutto il suo regno, periodo di ripresa civile ed economica del paese. E’ un passaggio importante per capire in che modo si intreccino nella storia inglese dinamiche sociali ed economiche e vicende politiche e istituzionali. Come scrive Floridia, da un lato il sovrano si appoggiò ai Comuni, concedendo loro libertà civile ed economiche, nella sua azione di ‘concentrazione’ burocratica del potere, a scapito della nobiltà; dall’altro anche la distribuzione delle ricchezze delle famiglie aristocratiche scomparse e delle istituzioni ecclesiastiche avvenne a favore della Corona e dei ceti borghesi.
Una tendenza, questa, che dopo lo scisma da Roma (1534) Enrico VIII rafforzò ulteriormente con la distribuzione dei grandi patrimoni fondiari ecclesiastici a favore di un gran numero di piccoli proprietari, favorendo la creazione di una nobiltà particolare detta gentry. Ciò comportò sia una profonda trasformazione della gestione dei possedimenti fondiari e dunque dell’agricoltura inglese, sia una dinamica sociale che vedeva alleati la corona e la gentry. La gentry divenne così il referente del re a livello locale, dove svolgeva funzioni di amministrazione e di giustizia. Al tempo stesso, essa era rappresentata ai Comuni, dove per tutto il ‘500 agì spesso in sintonia con la corona.
La separazione da Roma e l’incameramento e ridistribuzione delle terre della Chiesa avvennero con il pieno appoggio di parlamento che votò tutti i provvedimenti che segnarono la rottura con Roma (1529-1536). Ma subito dopo Enrico VIII, anche grazie all’utilizzo dei beni ecclesiastici, riuscì a ristabilire le finanze regie, rendendo la corona indipendente dal parlamento.
Lungo il ‘500 si rafforza comunque il principio del King in Parliament, ossia l’idea che a governare l’Inghilterra siano le due istituzioni insieme. Una cooperazione che proseguì sotto Elisabetta I, quando il Parlamento si riunì 13 volte esaminando questioni religiose e finanziarie, mentre la sovrana sottolineò più volte la non competenza del parlamento sui temi politici. Sempre nel ‘500 si delinea una ripartizione territoriale dei seggi che rimarrà invariata fino alla riforma elettorale del 1832.
Il periodo della riforma religiosa è anche una fase in cui la Corona cerca di ridimensionare numerose libertà e ai privilegi tradizionali.
Ricordiamo che lo scacchiere, la cancelleria, la casa reale e, dal XVIII secolo, l'ammiragliato, sono i settori portanti dell’amministrazione centrale inglese. Nel ‘500 la monarchia inglese sviluppa alcune istituzioni peculiari, tra cui la Star Chamber, ossia un consiglio privato regio allargato a due magistrati con funzioni di giustizia politica: sarà poi abolita durante la rivoluzione su richiesta del Parlamento. Anche il settore finanziario inglese (lo scacchiere) fu organizzato razionalmente sotto la guida di un Lord tesoriere. Lo Scacchiere, il ramo più corposo dell'amministrazione inglese, mescolavano funzioni amministrative e giudiziarie: nel '500 queste ultime sono scorporate, e lo Scacchiere diventa organo di esazione e controllo delle entrate.
Anni della riforma religiosa sono anche gli anni in cui la politica regia muove attacchi seri alle libertà e ai privilegi tradizionali. Con Atto di unione del 1536 ad opera di Cromwell anche Galles, prima caratterizzato da ampie autonomie, è assoggettato al diritto inglese, provocando modifiche profonde nel sistema di concessioni di terreni e nell'istituto delle giurie.
Queste innovazioni attribuite a Cromwell sono note come "la rivoluzione Tudor nell'amministrazione" e in esse si è visto l'inizio di un governo moderno: ma poiché molte funzioni furono poi diversamente riorganizzate con Elisabetta I, la tesi è poco difendibile. Infatti con la nomina di William Cecil a segretario di Stato, si torna nuovamente alla preminenza della persona e non dell’ufficio. "Era la persona, e non ancora l'ufficio, ad avere la gestione degli affari e quando Cecil divenne Lord del tesoro, ritenne la maggior parte degli affari di governo che erano stati in sua mano, lasciando a chi gli successe come segretario poteri presso che nulli. Il potere poi dipendeva dall'avere la fiducia della regina e non dall'essere titolari di questo o quell'ufficio..." (Russel p. 235). "Forse l'effetto più duraturo delle innovazioni ricordate va visto nell'incremento degli incarichi amministrativi. E la cosa ebbe die conseguenze: il drenaggio delle finanze del re e l'aumento dei suoi poteri di patronato clientelare" (Russel p. 181).
Ricordiamo anche che a fine '500 vi fu una ripresa dei diritti signorili sui sudditi (“feudalesimo bastardo”): i nobili disponevano ancora di grandi riserve di armi, seguaci, fortezze. Il governo emanò delle leggi per limitare gli obblighi di vassallaggio: ma nel corso del '500 Corona aveva anche sviluppato la milizia, e con essa nuovi posti e nuovi uffici per i gentiluomini, contribuendo così all’inflazione dei titoli nobiliari.
4. Il governo locale
Circa il governo locale, va notato che fin dal XIII secolo accanto agli sceriffi, cui i re normanni avevano affidato il governo delle contee, si afferma la figura del giudice di pace. Scelti all’interno dei ceti dirigenti locali (gentry) e nominati direttamente dalla Corona, i giudici di pace esercitavano la giustizia e l’amministrazione, con compiti che dal ‘500 in poi si ampliano progressivamente fino ad includere l’intera vita locale (ordine pubblico, assistenza e controllo dei poveri, licenze per esercizi pubblici, cura delle strade ecc.). “I giudici di pace dunque sono insieme magistrati e incaricati della polizia, dotati di una competenza quasi universale: ricco, stimato, indipendente, rappresenta gratuitamente e direttamente l’autorità dello Stato” (Bonini, p. 57).
Inoltre, nota sempre Bonini, fu proprio l’indipendenza di questa magistratura a permettere la sua sopravvivenza e la confusione tra funzioni amministrative e funzioni giudiziarie fino alla metà dell’Ottocento. La situazione inglese ha suggerito a qualche storico l’espressione ‘governo di dilettanti’: con ciò si intende sottolineare l’assenza in Inghilterra di una burocrazia numerosa e ramificata come quella di molti stati continentali. Gratuite e prestigiose, le cariche amministrative erano distribuite, specie nel periodo della supremazia parlamentare dal Settecento in poi, attraverso canali clientelari, a sostegno di fedeltà e legami politici, secondo il criterio del patronage che caratterizza questa fase della vita inglese.
Ma questa doppia presenza politica della gentry, nelle contee e al Parlamento, favorì anche il collegamento tra interessi locali e interessi del regno, portando alla formazione di una precoce identità nazionale, che alcuni provvedimenti legislativi (come la creazione di un mercato del lavoro con regole omogenee, o la soppressione dei dazi interni) avrebbero poi rafforzato ulteriormente.
5. Gli Stuart e il conflitto con il parlamento
Punto di forza del parlamento, la necessità del consenso di questo per l’imposizione di nuove tasse sarà invece uno dei maggiori elementi di debolezza della monarchia inglese.
Nel frattempo, era cresciuta tra i membri del parlamento la consapevolezza del ruolo che erano tenuti a volgere, anche a difesa della nazione, nei confronti della nuova dinastia: a questo contribuirono anche i numerosi dibattiti sulle questioni religiose che caratterizzano il primo Seicento inglese. La crescita del ruolo del Parlamento si intreccia ed è favorita, in Inghilterra, dall’emergere delle prime forme di opinione pubblica. Prima ancora che nei fatti, il ruolo del parlamento crebbe nella considerazione dei ceti medi inglesi, che trovarono nei Comuni un sollecito interprete delle loro tendenze politiche e delle loro proposte concrete. Ricordiamo che nel ‘500 il ruolo del parlamento era stato in parte indebolito dalla sporadicità delle riunioni e da altre elementi. Ricordiamo ad esempio che fino al '500 ogni riunione del parlamento durava poche settimane, e che pochi dei loro membri avevano casa a Londra, e dunque la stessa partecipazione di tutti i membri alle sedute era irregolare e difficoltosa. Tanto che nel 1515 una legge vietò loro di tornare a casa senza licenza del presidente della Camera dei Comuni (Russel p. 75). Inoltre, dal secondo ‘400 la Corona controllava le sedute attraverso il diritto di nomina dello Speaker dei Comuni, a cui versava un onorario. Solo nel 1679 la Camera dei Comuni riacquistò il diritto di nomina del suo presidente. Infine, la Camera dei Comuni fu per tutto il ‘500 fortemente influenzata dall’altro ramo del parlamento: attraverso le pratiche clientelari, i Lords riuscivano a far sentire la loro presenza sia sulle elezioni ai Comuni, sia sui lavori e le posizioni di questa camera.
Con l’avvento degli Stuart, come è noto, si aprì una frattura fra dinastia e paese, per ragioni religiose, fiscali e anche in ragione dei comportanti di Giacomo I e di Carlo I. In particolare, le richieste dei puritani per la libertà di coscienza e il diritto delle comunità ad eleggere i propri parroci, si saldarono facilmente con richieste di natura politica sulla sovranità popolare e sul diritto di rivolta dei sudditi contro la tirannide regia (Giacomo I era autore di un libello sul diritto divino dei re). Sotto il regno di Giacomo I il Parlamento rifiuta di concedere al re una somma annuale, e con Carlo I afferma la sua autorità anche in materia di dazi e imposte indirette. Nella riunione parlamentare del 1628 furono avanzate alcune richieste (Petition of right) al re, tra cui la consultazione obbligatoria del parlamento per ogni questione fiscale. Dopo l’assassinio del suo favorito (duca di Buckingham), nel 1629 Carlo I sciolse forzatamente le camere e per oltre un decennio governò senza convocare il parlamento, imponendo tra l’altro a tutto il paese la Ship money. Ma non avendo risolto i problemi finanziari della Corona, e bisognoso di entrate per debellare la rivolta scozzese, Carlo I fu costretto a riconvocare l’assemblea, che impose al re, per assicurargli il suo consenso, la revoca della ship money, l’abolizione della Camera Stellata, oltre a riproporre le richieste fatte dal parlamento nel 1628 con la Petition of Right. Ciò spinse il re a sciogliere di nuovo le camere (Corto Parlamento, aprile-maggio1640), salvo riconvocarle quando gli Scozzesi passarono la frontiera. Si aprì allora uno scontro radicale tra il sovrano e i parlamentari: non possiamo qui fermarci sulle vicende della guerra civile (1642-1649), del protettorato di Cromwell e della Restaurazione monarchica. Ricordiamo solo che fu durante la prima rivoluzione inglese che affiorarono tra i Levellers e altri protagonisti della rivoluzione le prime richieste di un assetto democratico moderno. Durante i dibattiti di Putney del 1647, molti esponenti dell’esercito di Cormwell stilarono il Patto del popolo, un programma che prevedeva la sovranità popolare, il suffragio universale, la separazione tra stato e chiesa, l’abolizione di ogni privilegio per nascita e una forma di uguaglianza delle proprietà privata.
Saranno poi le vicende e le idee della seconda rivoluzione, nel 1688-89, a dare stabilità al sistema inglese, facendone un autentico modello per la riflessione degli Illuministi. Dopo l’ascesa di Guglielmo III, infatti, quella inglese si qualifica come una vera monarchia costituzionale : ma su questo torneremo più avanti.
Come conclusioni parziali, possiamo riprendere quanto afferma Bonini, ossia che la storia istituzionale inglese presenta due elementi originali, legati alle due nozioni di «King in Parliament» e di «self-government».
<< Invece che uno Stato, è una classe sociale che dirige la Gran Bretagna, un establishment imperniato sull'aristocrazia, che non ha mai disposto dei privilegi fiscali che hanno caratterizzato quella francese ed è stata in grado di esercitare una durevole egemonia sociale. Una aristocrazia fortemente gerarchizzata, fino alla piccola nobiltà di campagna (la gentry), cui tuttavia la trasmissione al solo primogenito del titolo comporta uno strutturale movimento di ramificazione sociale. D’altro canto un precoce emergere del centro politico, intorno alla monarchia, non porta alla necessità di quella lunga rincorsa di unificazione che caratterizza il caso francese. Permette invece di ridurre al minimo l'apparato burocratico. L’aristocrazia si è ben presto impegnata come agente locale dell'amministrazione e della giustizia del re; i titolari delle cariche dell'amministrazione sono stati a lungo ‘dilettanti’ appartenenti alle élites; il parlamento inglese rappresenta e gestisce, a livello politico, l’insieme degli interessi di una aristocrazia, che comprende e asseconda i circuiti dello sviluppo economico e gli interessi borghesi: in questo senso si comprende come la Riforma (e gli interessi che essa sviluppa) trovi nel Parlamento un convinto sostegno.
Nonostante gli spunti «assolutistici» dei Tudor, e, in modo ancor più evidente, degli Stuart, la nascita precoce e relativamente equilibrata del capitalismo inglese, favorisce la tendenza ad una “debole statalizzazione”, alla creazione cioè di strutture statali poco interventiste. In più questa classe dirigente era ridotta, coesa e soprattutto ben distinta dalla gran massa della popolazione, dei sudditi. Attraverso il duplice passaggio rivoluzionario, nel loro stesso interesse riconobbero la sovranità del re, nella misura in cui fosse controllata dal parlamento >> (Bonini, pp. 46-47).
Letture
F. BLOUCHE, L’ancien régime. Institutions et société, Paris 1993.
F. BONINI, Lezioni di storia delle istituzioni politiche, Giappichelli, Torino 2002.
R. FINZI, L’Europa: dalla formazione all’espansione al di là degli oceani, Zanichelli, Bologna 1991
G.G. FLORIDIA, La costituzione dei moderni. Profili tecnici di storia costituzionale, vol. I: Dal Medioevo inglese al 1791, Giappichelli, Torino 1991.
HOWARD-LORD R., I parlamenti del Medioevo e della prima età moderna, in D'AGOSTINO G. (a cura di), Le istituzioni parlamentari nell'Ancien Régime, Napoli 1980.
H. LAPEYRE, Le monarchie europee del XVI secolo, Mursia, Milano 1994.
D. RICHET, Lo spirito delle istituzioni. Esperienze costituzionali nella Francia moderna, Laterza, Roma-Bari 1973.
C. RUSSEL, Alle origini dell'Inghilterra moderna. La crisi dei Parlamenti 1509-1660, Il Mulino, Bologna 1988
7. La monarchia composita e il “contrattualismo” d’antico regime
Premessa
In questa lezione e nella successiva cercheremo di capire come funzionavano nel concreto gli stati europei, dato che l’affermazione di forti monarchie non è la regola, ma l’eccezione. Un’altra monarchia importante, quella degli Asburgo di Spagna, si forma con caratteri piuttosto peculiari a causa della dispersione dei suoi domini. La nozione di “monarchia composita” vuole indicare quegli stati che si compongono di formazioni territoriali diverse, che a volte sono veri e propri ‘regni’ o principati precedentemente autonomi o sottoposti ad altri sovrani. La “monarchia composita” è in certi casi anche la risultante della conflittualità e delle guerre tra gli stati, che tra il XVI e il XVIII secolo provocano continui mutamenti e aggiustamenti della carta geo-politica dell’Europa.
In realtà, possiamo definire come ‘compositi’ molti degli stati europei dell’età moderna, perché quasi tutti presentano una formazione territoriale composita e diversificata, dall’Impero alla Confederazione elvetica, dai regni scandinavi (Unione di Kalmar) a quello di Polonia, che comprendeva anche il Granducato di Lituania, fino ai domini degli Asburgo d’Austria. E questo vale anche per stati minori come il ducato di Savoia, composto da varie entità territoriali, la repubblica di Venezia con la sua Terraferma distinta dalla capitale, o il Granducato di Toscana, che aveva assorbito e metà ‘500 lo stato di Siena.
Secondo alcuni, “persino nella Francia pre-rivoluzionaria si ritrovano i tratti di una monarchia composita, dal momento che regioni periferiche come la Bretagna, la Linguadoca, la Provenza, il Delfinato, la Borgogna possedevano un particolare status giuridico e a volte una propria assemblea dei ceti” (Reinhard, p. 47).
Per gran parte dell’età moderna (e nel caso della compagine austriaca anche oltre), questi diversi territori continuano ad essere considerati come unità separate, con diritti, istituzioni e consuetudini proprie. Come vedremo nei casi concreti esaminati, l’unione di territori e formazioni politiche diverse in un unico stato ha alla sua base una serie di accordi, contratti e ‘patti di dedizione’ che tendono a limitare il potere del sovrano, e a stabilire un sistema di poteri e prerogative condivise tra istituzioni centrali e forme di governo locale, tra sovrani e ceti dirigenti cittadini o territoriali. Oltre che dalle leggi fondamentali, i sovrani sono così condizionati dal rispetto dei patti sottoscritti al momento in cui assumono il governo di un regno o di un territorio, e dall’osservanza delle consuetudini, norme e istituzioni locali. Ciò vale per l’Imperatore, per il re spagnolo, o per signorie come quella della Serenissima o di Genova sui rispettivi domini. Il “contrattualismo” d’antico regime comprende allora non solo i limiti derivanti dalla presenza, a fianco del re, di istituzioni generali rappresentative e consultive, ma anche dalla stessa natura dei domini politici, che sono spesso la risultante di un ‘assemblaggio’ di territori, città e ordinamenti assai diversi tra loro, acquisiti per via diplomatica, militare o matrimoniale.
Anche in questo caso, a differenziare il percorso istituzionale degli stati europei fu il grado maggiore o minore di rispetto per queste formazioni territoriali originarie, e, a rovescio, la capacità del centro politico di imporre una legislazione e un’amministrazione unica all’insieme dei territori sottoposti per dar vita, appunto, ad uno stato accentrato (e dunque ‘moderno): ma questa affermazione sarà lenta e parziale, e mai definitiva, fino allo Stato burocratico e amministrativo dell’Ottocento. Come afferma Reinhard, solo i sovrani illuminati si proposero, con più o meno successo, una unificazione pianificata dei loro domini. Ancor prima, alcuni passaggi formali danno il segno di questa trasformazione: “la corona regia prussiana nel 1701, l’unione anglo-scozzese del 1707, la soppressione dei diritti speciali dell’Aragona nella Nueva Planta nel 1707-16, l’accordo degli Sasburgo con l’Ungheria nel 1711 furono tutti passi in questa direzione” (Reinhard p. 50).
Ricordiamo, perché non si generino equivoci, che in relazione alla Spagna nel momento della sua massima potenza (da metà ‘500 a metà ‘600) i contemporanei parlavano della minaccia di una nuova “monarchia universale” (termine che nel Medioevo si applicava solo all’Impero germanico), intendendo con ciò la possibilità di una dominazione su tutta o gran parte dell’Europa. La stessa espressione sarà poi usata per Luigi XIV e il suo espansionismo europeo. Ma come si vede è un uso polemico del termine, che a sua volta indica il timore di un processo di espansione, mentre con “monarchia composita” si fa invece riferimento al sistema interno di governo degli stati o monarchie, per segnalare la loro disomogeneità spaziale, politica e sociale, e sottolineare che si tratta di ‘unioni’ di territori distinti sotto la stessa dinastia.
** Spagna
La Spagna è nel XVI secolo la maggiore potenza europea, sia per le risorse che le derivano dall’afflusso dei metalli preziosi dalle colonie americane, sia per la consistenza della sua flotta e del suo esercito. Ma la monarchia degli Asburgo di Spagna presenta, rispetto a Francia e Inghilterra, una maggiore dispersione territoriale: proprio il dominio su zone e territori europei così lontani, oltre che profondamente diversi tra loro per origini e forme sociali e politiche (si pensi ad esempio alla diversità tra le Fiandre e il regno di Napoli), pose ai sovrani problemi organizzativi e amministrativi del tutto inediti. Ne derivarono forme di governo, e modalità di amministrazione finanziaria, giudiziaria e territoriale, piuttosto diversi tra loro, sulla base di un principio sempre riconosciuto di ‘contrattazione’ continua con i ceti e le istituzioni locali.
La Spagna è dunque un esempio chiaro di “monarchia composita”, e questo anche a prescindere dal possesso di territori esterni alla penisola iberica. All’interno di questa, infatti, troviamo fin dal tardo Medioevo tre entità distinte: il regno di Portogallo; il regno di Castiglia; la corona di Aragona, a sua volta composta dal regno di Aragona, dal regno di Valenza, dal principato di Catalogna e dalle isole Baleari. La ragione di questa frammentazione sta nel fatto che questi regni non si sono formati all’epoca delle grandi migrazioni dei popoli nell’Alto Medioevo, ma durante la Reconquista della penisola a danno dei musulmani, tra il IX e il XIV secolo (l’ultimo regno ‘moro’ a cadere fu, come è noto, quello di Granada, lo stesso anno – 1492 – in cui Colombo prende il mare per la sua impresa).
Se in Europa si parlava già dal ‘500 di Spagna, all’interno di usò la denominazione “rey de las Espanas” fino al secolo XIX.
Ricordiamo alcuni eventi salienti dell’età moderna :
Per tutto il XV secolo, sia il regno di Aragona che quello di Castiglia furono caratterizzati da un situazione di instabilità dinastica e di forte conflittualità tra sovrani e nobiltà. Alla metà del ‘300, sotto il regno di Pietro IV, le Cortes avevano ottenuto dal re un decreto in cui erano elencati tutti diritti e le prerogative dell’assemblea che il re si impegnava a rispettare attraverso un giuramento solenne al momento dell’incoronazione. A metà ‘400 Alfonso il Magnanimo aveva dichiarato di rinunciare al principio del re ‘sciolto dalle leggi’ e di sottomettersi agli usi, consuetudini e costituzioni delle Cortes e del regno di Aragona. Di fronte ad alcune violazioni del patto, i nobili non esitarono a richiamare il re al rispetto del patto: ne derivò una rivolta che fu sanata solo con un nuovo accordo tra i successori e le Cortes aragonesi.
La Castiglia fu scossa nel XV secolo da due guerre civili: dopo la prima, provocata dalle accuse di tirannia rivolte a Enrico IV, anche l’elezione di Isabella diede luogo a uno scontro di fazioni e solo nel 1479 i due sovrani poterono unire nelle loro persone le due corone di Aragona e Castiglia. “L’unione delle due corone era una riunione di eguali: ogni parte conservava proprie istituzioni e costumi” (De Benedictis p. 75). Ma Isabella cercò comunque di restaurare l’autorità monarchica, anche attraverso la Reconquista, che fu affiancata da un’opera di controllo religioso rivolto alla difesa della fede cristiana. Braccio operativo di questo processo fu come è noto il Tribunale dell’Inquisizione, controllato a sua volta da un Consiglio regio “della Suprema e Generale Inquisizione”. Il Tribunale giudicava i conversos (convertiti) per accertare l’autenticità della loro fede cristiana. Nel 1492 fu decretata l’espulsione di tutti gli Ebrei dai territori spagnoli. In tal modo, l’unità dei territori spagnoli, diversi per origine, lingua e usi giuridici, fu in primo luogo una unità ideologica di natura religiosa. Vorrei sottolineare questo aspetto, perché come diremo a suo luogo, la “cattolicità” della Spagna sarà uno dei valori fondamentali che si cercherà di affermare anche nel periodo costituzionale.
Molto diversa la situazione della Castiglia per quanto riguarda le Cortes, che nel ‘400, a causa dei continui conflitti politici, avevano perso gran parte del loro peso. I sovrani avevano perciò governato attraverso “prammatiche”, editti regi che non richiedevano l’approvazione delle assemblee rappresentative. Inoltre, le proteste dei nobili contro la legislazione regia, comportò l’assenza dei nobili dalle Cortes, e il predominio in queste delle rappresentanze delle città, che finirono così per diventare l’ordine sociale più consultato dai sovrani. Nelle Cortes di Toledo del 1480, Isabella accolse alcune richieste delle città per evitare che le cariche cittadine diventassero monopolio dei nobili, o che si creassero forme di dipendenza delle città dai signori territoriali. Durante la Reconquista, le città diedero un forte contributo finanziario all’impresa. A fine ‘400 erano 18 le città rappresentate alle Cortes. “Così la maggior peculiarità del regno di Castiglia consisté nel fatto che il suo potere fu monopolizzato da uno solo dei suoi componenti, le città” (De Benedictis, p. 78). Nelle città, ove la componente corporativa era molto forte e si esprimeva nelle hermandades (fratellanze), l’autorità regia era rappresentata dai corregidores, che affiancavano i consigli municipali nel governo cittadino.
Dopo la morte di Isabella, Ferdinando subentrò nel regno di Castiglia, irritando con i suoi provvedimenti la grande nobiltà. E’ un periodo di continue tensioni, dovute alla questione della successione, e al forte impegno spagnolo nelle guerre d’Italia. Nel 1512 il sovrano riuscì a conquistare la Navarra: la decisione di aggregarla alla Castiglia, anziché alla più vicina Corona d’Aragona, fu una scelta deliberata, per evitare che gli abitanti della Navarra avanzassero richieste eccessive di autonomia e libertà.
Una testimonianza eloquente della complessità dei domini spagnoli fu l’insediamento al potere di Carlo d’Asburgo, nipote ed erede di Ferdinando. Carlo dovette ripetere il giuramento più volte, di fronte alle istanze rappresentative dei vari regni, prima di diventare Carlo I di Spagna. Assai delicato fu il suo insediamento in Aragona, dove le Cortes di Saragozza (maggio 1518) riuscirono a negoziare l’accettazione del nuovo sovrano in cambio di importanti privilegi e contropartite sul piano dell’autonomia. In quella sede si dichiarò che il re era un ‘mandatario’ del popolo, e si chiese un freno alle esportazioni di oro e argento fuori del regno, una incisiva lotta agli abusi giudiziari, udienze giornaliere da parte del nuovo sovrano. Inoltre, Carlo doveva riservare agli spagnoli le cariche politiche, parlare spagnolo, e concedere alle città la facoltà di riscuotere direttamente le imposte, senza passare attraverso gli appaltatori. In cambio fu concesso a Carlo un donativo di 600.000 ducati.
Nel 1519 Carlo divenne Imperatore: da quel momento, scopo primo della sua azione fu la lotta contro i Turchi nel Mediterraneo, la contesa con Francesco I per i domini italiani, e la repressione della religione riformata. Iniziò così una fase di governo dominata dall’irritazione delle istituzioni spagnole per le frequenti e lunghe permanenze del re fuori dalla Spagna, cui si aggiunsero alcuni provvedimenti fiscali che provocarono la reazione congiunta delle città e degli esponenti del clero cittadino. Ad aumentare il distacco tra castigliani e sovrano contribuirono anche la concessione di numerose cariche e funzioni spagnole a fiamminghi e stranieri. Esito dello scontro fu la rivolta dei comuneros in Castiglia (1520-1521), che chiedevano il ripristino dell’antico diritto. Nei “Capitoli del regno” dell’ottobre 1520, i ceti castigliani chiesero costumi regi più semplici (di contro al fasto imperiale che caratterizzò lo stile di Carlo V), la presenza del re nel regno, la riduzione delle imposte, la riduzione degli abusi nelle Nuove Indie, e una migliore organizzazione delle Cortes, con nuovi rappresentanti, sedute periodiche, una remunerazione fissa per i membri di queste, e la libertà di dibattito. Ciò costrinse Carlo, che pure era riuscito a stroncare la ribellione, a consultare più spesso le istituzioni rappresentative del regno. A fianco delle Cortes fu creato un comitato permanente (la Diputacion) che ebbe funzioni di controllo della vita pubblica castigliana, di esecuzione dei deliberati delle Cortes, e di gestione fiscale.
Consigli e segretari
Dal 1522 al 1529 Carlo si fermò in Spagna, dove organizzò un sistema di governo assai complesso. La natura stessa del potere imperiale, per il quale i regni spagnoli erano una componente di un insieme assai più vasto, obbligò Carlo V ad esercitare il suo potere affidandosi ad intermediari e consiglieri fidati. Fu così impiantato quel sistema di consigli che è una delle caratteristiche di fondo del governo spagnolo: il Consiglio di Stato, il Consiglio delle finanze, quello per le Indie, uno per l’Inquisizione, il Consiglio d’Aragona, uno per la Navarra, uno per la Crociata. Il lavoro dei consigli era coordinato da altrettanti segretari, in genere giuristi, che assunsero col tempo un grande potere, influenzando direttamente le decisioni prese in quelle sedi. Questo aspetto ha portato alcuni storici a parlare di precoce burocratizzazione della monarchia spagnola: in realtà, i segretari vanno visti come funzionari del re, non del regno, e dunque più vicini alle figure dei consiglieri o dei ‘ministri’, che non a quelle di un funzionario moderno. Anche i segretari, come più tardi i ‘validos’, traevano grandi vantaggi dal loro potere, e i più importanti di loro riuscirono a crearsi una rete clientelare e un potere personale assai rilevanti.
Con Filippo II (1556-1598) la monarchia spagnola si separa dall’Impero: all’inizio del suo regno Madrid diventa la capitale e la sede della corte. Filippo fu un sovrano solerte, che riuscì a controllare personalmente una macchina di governo assai complessa. A quelli già esistenti si aggiunsero infatti i consigli destinati al governo dei vari domini esterni alla Spagna: il consiglio d’Italia, quello di Fiandre, uno per il Portogallo. Come si può notare, il vertice del governo rispecchiava la composizione territoriale della monarchia, mettendo così in luce la difficoltà, o l’impossibilità, ad integrare i distinti domini in forme organizzative, giuridiche e amministrative uniche. Ogni territorio manteneva infatti i suoi preesistenti organi di governo, le sue rappresentanze, le sue norme giuridiche, che i sovrani accettavano e giuravano o si impegnavano a rispettare al momento dell’assunzione del potere.
In particolare, la Spagna si erano consolidate nel tempo numerose consuetudini locali (fueros) che costituivano altrettanti ordinamenti territoriali distinti. In essi era affermato il primato della legge, e in quelli di Aragona alcune norme particolari erano dirette a regolare il rapporto col sovrano. “Di questi fueros, che includevano il diritto di deporre un re ingiusto e quello di eleggerne un altro in suo luogo, si diceva che fossero la realizzazione dell’immemorabile patto di fondazione tra re e signori, che costituissero il compendio delle libertà aragonesi” (De Benedictis p. 88). In Aragona esisteva una istituzione (Justicia), che aveva come compito il controllo dell’osservanza dell’ordinamento aragonese da parte del re, e che esercitava questa funzione attraverso una serie di processi “forali”. Anche i territori italiani della monarchia ebbero proprie norme particolari: a Milano base del governo erano le Nuove Costituzioni approvate da Carlo V nel 1541. Vedremo più avanti il caso napoletano.
A queste autonomie giuridiche e istituzionali faceva riscontro una visione della sovranità che dichiarava il re non sciolto, ma ‘legato’ dalle leggi. Sarà soprattutto il pensiero della Seconda Scolastica (Suarez, de Soto, de Mariana) a diffondere l’idea del fondamento ‘pattizio’ della sovranità e del regno come “comunità di città”, “corpo di corpi”, “respublica”, che il re doveva tutelare e le cui norme doveva osservare. Se in Castiglia molte leggi poterono essere emanate anche senza l’approvazione delle Cortes, altrove avevano bisogno di questo consenso per essere valide e concretamente applicate.
Nel XVII secolo, dopo un paio di decenni di relativa pace, con il rinnovarsi del conflitto contro l’Olanda e le necessità finanziarie a ciò legate, prese piede in Spagna il fenomeno del “valimiento”, ossia l’ascesa, a fianco del re, di ministri (favoriti, o ‘validos’) dotati di un enorme potere personale. Dopo il duca di Lerma, la scena spagnola sarà dominata per più di vent’anni dalla figura del duca di Olivares. A lui si deve un tentativo di maggiore coordinazione dei domini spagnoli attraverso l’uso del diritto castigliano, con l’obiettivo di garantire un più equilibrato riparto dei carichi fiscali e degli impegni militari (“Unione delle armi”), fino a quel momento sostenuti soprattutto dalla Castiglia. Ma questo disegno riportò al centro del dibattito la questione del potere regio e dei suoi rapporti con le istanze rappresentative, che Olivares aveva consultato, ma con esiti non sempre positivi. In risposta ai pesanti oneri della guerra, nel 1640 si ebbe una violenta rivolta in Catalogna, in cui fu assassinato il viceré (che per la prima volta dopo lungo tempo era un catalano, il conte di Santa Coloma). Dopo essersi riunite senza il re, le Cortes si posero sotto la protezione francese e l’anno dopo proclamarono Luigi XIV re di Catalogna. Impegnato nella guerra dei Trent’anni, Filippo IV potrà recuperare Barcellona solo nel 1652. Va ricordato che anche nel 1591-92 vi era stata una rivolta in Aragona: la discussione sui limiti del potere regio che si era allora avviata fu una delle basi dottrinali della grande rivolta del 1640.
** L’Impero
Ricordiamo che dopo il periodo di anarchia seguito alla morte di Federico II (1250), nel 1273 gli Asburgo ottengono per la prima volta il titolo imperiale, che poi perderanno, per riassumerlo nel 1437 e mantenerlo fino alla fine dell’Impero all’inizio dell’800. Già nel XIV secolo la casata asburgica, anche in virtù della collocazione geografica dei suoi domini, tende ad espandersi verso Est (Boemia, Ungheria, paesi danubiani): una politica che sarà perseguito per tutta l’età moderna, sia come Imperatori, che come sovrani austriaci.
Le istituzioni imperiali furono durante il Medioevo piuttosto fluide: ogni imperatore fissava la sua capitale e organizzava il suo entourage e il suo sistema di governo. Nel 1356 poteri e prerogative imperiali furono regolate dalla Bolla d’Oro, che stabiliva anche le modalità di elezione dell’imperatore, affidata a sette principi elettori (gli arcivescovi di Colonia, Magonza e Treviri, il re di Boemia, il marchese di Brandeburgo, il duca di Sassonia, il conte palatino del Reno). Inoltre fu regolato il Reichstag, la dieta generale dell’Impero, di cui facevano parte le città. Le regole della Bolla furono la “costituzione” dell’Impero fino alla pace di Westfalia, un trattato internazionale che ebbe anche valore di diritto pubblico per l’Impero. Vi si affermava infatti il diritto dei principi dell’Impero di stringere alleanze con gli stati europei (tranne che per muovere guerra all’Imperatore), l’obbligo dell’Imperatore di deliberare per alcune materie assieme alla Dieta, e altre norme tese a ‘limitare’ il potere imperiale. Dopo Westfalia, l’Impero venne sempre più configurandosi come una sorta di ‘confederazione’ con a capo gli Asburgo, il cui accesso alla corona imperiale, pur restando elettivo, divenne di fatto ereditario.
Anche se gli Imperatori tenteranno a più riprese di affermare i loro diritti ‘universali’, su tutti i territori dell’antico impero medievale, dal tardo ‘400 si iniziò a usare la formula “Impero della Nazione Tedesca”, a segnalare come il potere imperiale avesse vigore ormai solo entro quell’ambito geo-politico.
Un nuovo tentativo di rafforzamento delle istituzioni imperiali fu fatto a fine ‘400 da Massimiliano I, che creò un tribunale supremo, delle circoscrizioni militari, e decretò alcune imposte comuni: ma neppure i suoi sforzi evitarono il declino del potere imperiale, di fronte al quale, invece, si rafforzarono lungo tutta l’età moderna i poteri territoriali dei vari principi e città tedesche. La costruzione dello stato fu in Italia come in Germania un processo contraddittorio e secolare, che si affermò non a livello nazionale, ma territoriale.
Dunque, anche l’Impero è un ordinamento politico “composito”, una sorta di confederazione. G. Durant propone di considerare l’Impero come una sorta di ONU ante-litteram, un potere sovranazionale basato su alcune norme comuni, ma che governa entità sovrane a tutti gli effetti. In realtà, come diremo, anche la sovranità degli stati territoriali tedeschi fu un’acquisizione dell’età moderna.
** La confederazione elvetica
La politica espansionistica degli Asburgo aveva trovato non poche resistenze: proprio per sottrarsi alla subordinazione imperiale, i territori forestali svizzeri cercarono fin dal ‘300 di creare una lega difensiva contro ogni ingerenza straniera nei loro territori. Dopo la vittoria sugli Asburgo di Morgarten (1315), il patto è reso perpetuo, e fra XIV e XV secolo la confederazione si amplia fino a comprendere città floride come Lucerna, Zurigo e Berna. Al fondo dell’autonomia di questi territori sta, lungo l’età moderna, la loro compattezza e la loro agguerrita organizzazione militare, che mettevano al servizio, in veste di mercenari, anche delle altre potenze europee, con una rete di alleanze che fu anch’essa un elementi importante nella difesa della sovranità (riconosciuta poi con la pace di Westfalia, 1648).
Letture :
A. De Benedictis, Politica, governo e istituzioni nell’Europa moderna, Il Mulino, Bologna 2001.
F. Benigno, L’ombra del re. Ministri e lotta politica nella Spagna del Seicento, Venezia 1992.
J.H. Elliot, A Europe of composite monarchies, in “Past and Present”, 137 (1992), pp. 48-71.
J.H. Elliot, La Spagna imperiale, 1469-1716, Il Mulino, Bologna 1982.
A. Musi, L’Impero spagnolo, in “Filosofia politica”, XVI (2002), pp. 37-61.
E. R. Papa, Storia della Svizzera. Dall’antichità ad oggi. Il mito del federalismo, Bompiani, Milano 1993.
G. Parker, Un solo re, un solo impero. Filippo II di Spagna, Bologna 1998.
W. Reinhard, Storia del potere politico in Europa, Il Mulino, Bologna 2001.
H. Schilling, Ascesa e crisi. La Germania dal 1517 al 1648, Il Mulino, Bologna 1999.
8. Le repubbliche : esperienze, modelli e istituzioni
Premessa
L’Europa moderna fu fondamentalmente monarchica. Dopo la diffusa fioritura medievale delle città-repubbliche, gli stati repubblicani furono pochi: Venezia, Genova e Lucca nella penisola italiana, Ginevra e altre città svizzere, alcune città tedesche e l’Olanda. Eppure, nonostante la marginalità effettiva di questi ordinamenti, l’idea di repubblica fu uno dei fili rossi del pensiero politico e della riflessione civile moderna. A partire da una idealizzazione della vita cittadina e repubblicana, il cosiddetto “repubblicanesimo” formulò un insieme coerente di posizioni, principi e valori fondati sulla partecipazione dei cittadini alla vita pubblica, sull’indipendenza da poteri esterni, sull’uguaglianza dei cittadini, sulla distribuzione del potere. Uno dei momenti di avvio di un discorso repubblicano è la lotta di Firenze contro i Visconti all’inizio del ‘400, quando i fiorentini cominciarono a percepire il proprio ordinamento come una forma di governo basata sulla libertà, contro la ‘tirannide’ dei signori milanesi. L’idea che la repubblica fosse il migliore dei governi, e che assicurasse una completa uguaglianza fra i cittadini, fu poi alimentata dal ‘mito’ di Venezia, considerata per più di due secoli come un esempio di perfetto “governo misto”.
Ma anche il mito di Venezia fu poi sottoposto a verifica e critica, dando vita ad una visione contraria dell’ordinamento veneziano(l’anti-mito), che ne metteva in luce la chiusura oligarchica, il controllo poliziesco sulla società, la farraginosità delle procedure legislative.
Nel XVIII secolo, quando gli stati monarchici svilupparono efficienti apparati pubblici e un capillare controllo della vita interna e della politica estera, le repubbliche sembrarono a molti ‘residui’ dell’ordinamento medievale, formazioni politiche superate dalle nuove esigenze di potenza e di sviluppo mercantile legate alla crescita dei ceti borghesi. L’Illuminismo, salvo poche eccezioni, ebbe scarsa simpatia per la forma repubblicana, e i philosophes preferirono affidare i loro progetti politici a sovrani ‘illuminati’, che potevano far calare dall’alto riforme e trasformazioni per le quali la società non era sempre pronta.
Nel Dictionnaire de l'Académie, edito nel ‘700, si spiega: "Repubblicano: chi vive in una repubblica... Significa anche colui che predilige il tipo di governo repubblicano... Si assume talvolta con accezione negativa; e significa: Ribelle, sedizioso, che ha dei sentimenti contrari allo stato monarchico, nel quale egli vive". Come si nota, qui il termine ha un significato negativo, e proporsi l'instaurazione della repubblica equivale ad essere sedizioni e ribelli.
Ciò effettivamente ha un riscontro nella storia: dai catalani nel 1640 ai napoletani nel 1647, fino agli stessi inglesi dopo la prima rivoluzione, la messa in discussione o l’eliminazione fisica di un sovrano furono spesso accompagnate da progetti di stampo repubblicano.
La repubblica di Venezia
La repubblica più celebre è senza dubbio quella di Venezia, se non altro per la sua lunga esistenza, che iniziò nell’Alto Medioevo quando i primi abitanti si rifugiarono in laguna per difendersi dalle scorrerie dei “barbari”. La città fu protagonista di una rapida espansione commerciale, che portò la città ad acquisire il monopolio dei traffici dell’Adriatico. Contrariamente a molte città padane e toscane, la città lagunare non fu dilaniata da conflitti interni e da contrapposizioni di fazioni o di famiglie. Ciò consentì un precoce ‘compattamento’ del suo ceto dirigente, che si trasformò in un gruppo oligarchico chiuso (patriziato), modellando le stesse pubbliche istituzioni sulle proprie esigenze di controllo del potere. Va detto che il rafforzamento di un gruppo dominante compatto fu favorito . Al consolidamento di quest’ultimo aveva contribuito la collaborazione economica tra lo stato e i mercanti: gli scambi commerciali che avevano il loro centro nel porto di Rialto, l’organizzazione dei convogli per i viaggi in Levante, le merci in entrata e in uscita dalla città, erano tutte attività controllate direttamente dal governo veneziano, che esercitava un vero e proprio monopolio sull’Adriatico.
Un primo effetto di questa predominanza delle famiglie più importanti fu la “serrata del Maggior Consiglio” nel 1297, che riservava la partecipazione al più importante organo di governo solo alle famiglie che ne avevano già fatto parte, mentre norme assai rigide vigilavano su eventuali nuovi accessi. I tentativi dei ceti medi e popolari per evitare la loro esclusione dal governo della repubblica non ebbero alcun successo: da quel momento, la “costituzione” veneziana restò immutata nei suoi principi fondamentali fino alla caduta della repubblica.
Come era governata Venezia secondo questa ‘costituzione’ ?
Al vertice del governo stava il Doge (il nome deriva da quello di un antico magistrato di origine bizantina), i cui poteri furono precocemente limitati da precise norme. All’inizio, esisteva anche un’assemblea popolare convocata per ratificare le leggi fondamentali e per acclamare il doge, che veniva eletto da un’apposita commissione: ma quest’organo di partecipazione allargata decadde col tempo, sostituito da altri e più ristetti consigli.
Il Maggior Consiglio, in cui erano rappresentate tutte le famiglie del patriziato, eleggeva tutti i magistrati e i membri degli altri consigli, votava le leggi, decretava le punizioni, concedeva le amnistie. Accanto a questo, alcuni organi che si riunivano e deliberavano con maggiore frequenza: la Quarantia con funzioni finanziarie, monetarie, e con un ruolo anche di corte di appello suprema; il Senato (o Pregadi), che si occupava di commercio, ambasciate, e della flotta, e che se necessario si riuniva assieme alla Quarantia.
Esisteva poi una “Consiglio ducale” che si riuniva sotto la presidenza del doge per coordinare una serie di altri consigli, di cui doveva comunque rispettare le decisioni. Esso era formato da sei membri – uno per ogni sestiere in cui era divisa la città – e dai tre capi della Quarantia.
Consiglio ducale e doge riuniti insieme formavano la “Signoria”, che costituiva il governo vero e proprio, da cui dipendevano le linee politiche generali, e alla quale spettava, a seconda del problema in oggetto, la convocazione del consiglio idoneo a esaminarlo. La Signoria controllava il lavoro degli altri organi e uffici, sovrintendeva al buon funzionamento della giustizia, nominava i comandanti delle flotte, designava i membri dei consigli e degli organi amministrativi all’interno del Maggior Consiglio.
Particolare cura fu dedicata alle procedure elettorali, allo scopo di evitare divisioni in fazione. La nomina dei membri alle diverse cariche si svolgeva in due tempi: dopo la nomina, l’approvazione definitiva era affidata ad apposite commissioni, spesso costituite tramite sorteggio.
Basta dare uno sguardo alla complicata procedura dell’elezione dogale, stabilita nel 1268, per rendersi conto della ‘macchinosità’ della costituzione veneziana: dal Maggior Consiglio venivano scelti per sorteggio 30 membri, che erano poi ridotti a 9 tramite sorteggio; questi 9 ne eleggevano poi 40, a loro volta portati a 12 con un altro sorteggio; questi 12 ne eleggevano 25, poi ridotti per sorteggio a 9; i 9 ne eleggevano 45, ridotti per sorteggio a 11; infine, questi 11 eleggevano i 41 membri del vero proprio collegio elettorale, cui era affidata la scelta del nuovo doge.
Con il XVI secolo, anche Venezia accentua i suoi tratti oligarchici: ne è segno la creazione del Consiglio dei X, vero consiglio ristretto che acquista con i decenni poteri sempre più vasti, fino a che nel secolo successivo sarà ridimensionato proprio per evitare il consolidarsi di un organo con un potere soverchiante gli altri. Da allora, la dialettica tra oligarchia e richieste di una maggiore uguaglianza all’interno del patriziato sarà costante fino alla fine, e porterà nel ‘700 ad alcuni tentativi di riforma, peraltro falliti.
Al di sotto del patriziato nella piramide sociale, il ceto dei cittadini, esclusi dalla cariche politiche, costituiva l’ossatura della burocrazia, con competenze tecniche e una preparazione professionale molto elevate.
Ricordiamo che vi era una netta separazione tra governo veneziano, nelle cui varie magistrature sedevano solo nobili veneziani o, nella burocrazia esecutiva, cittadini veneziani, e governo della Terraferma, che era diviso tra rappresentanti di Venezia (o ‘rettori’, con funzioni soprattutto fiscali e militari) e organi di governo locale (consigli e tribunali cittadini, altre magistrature locali, organi del contado ecc.). Solo in rarissime occasioni Venezia accettò di inserire tra il patriziato alcune famiglie della Terraferma o del Friuli, dietro pagamento di enormi somme. Ciò avvenne in primo luogo a metà ‘600, quando la lunga guerra di Candia (Creta) costrinse la repubblica ad attingere a qualsiasi fonte finanziaria possibile.
Nel corso della lunga lotta contro la Spagna, le province settentrionali dei Paesi Bassi avevano formato fin dal 1579 l’Unione perpetua di Utrecht, che aveva regolato la conduzione della guerra, il suo finanziamento e altre materie comuni. Nel 1581 l’Unione proclamò l’indipendenza delle Sette Province olandesi, che formarono un nuovo stato, di fatto accettato dalla Spagna già nel 1609, ma riconosciuto a livello internazionale con il trattato di Westfalia del 1648.
Il nuovo stato ebbe un'organizzazione piuttosto fluida e incostante, in sintonia del resto con la lunga tradizione di autogoverno delle città e delle province di quella regione. In realtà, la struttura del nuovo stato fu una sorta di ‘governo misto’, con al vertice uno stadhouder con funzioni militari, mentre le funzioni di governo (limitate alla politica estera e alla ripartizione delle imposte) erano esercitate dall’assemblea degli Stati generali (stabili dal 1594), composti dai rappresentanti delle sette province. Rappresentanze a volte molto numerose, e per lunghi periodi composte dalle stesse persone. Assai diverse tra loro per abitanti, ricchezza, economia e struttura sociale, ogni provincia disponeva di un solo voto e tutte le decisioni più importanti dovevano essere prese all'unanimità.
In quanto provincia più ricca e importante, l’Olanda esercitava di fatto una specie di supremazia culturale e politica sulle altre. Il suo primo funzionario (Gran pensionario) svolte col tempo importanti compiti anche nel governo generale della repubblica. Del resto, l’Olanda forniva all’Unione il 58% circa delle entrate complessive. “Gli stati provinciali dell'Olanda, che si riunivano nello stesso edificio, partecipavano talvolta al completo agli stati generali. Ogni provincia aveva un voto, cosicché erano necessarie discussioni preparatorie nelle delegazioni quando non si disponeva di alcuna istruzione. Si potevano chiedere istruzioni da parte dei poteri locali o concordare con riserva di approvazione da parte degli stati provinciali. Nelle questioni importanti era richiesta l'unanimità, poiché la sovranità noti risiedeva nell'Unione ma nelle Province che eventualmente potevano andare per la loro strada. I Paesi Bassi erano un'unione di stati e non uno stato federale” (Reinhard p. 302).
Un aspetto, questo, che avrebbe potuto ostacolare la vita politica in un momento in cui la giovane repubblica si avviava a diventare una potenza coloniale, se non si fossero insediate a fianco degli Stati Generali alcuni organi esecutivi permanenti (commissioni) incaricati di dirimere le questioni più spinose. Importante fu sempre il legame tra istanze centrali e istituzioni provinciali, alle quali continuò a spettare tutto ciò che esulava dai compiti di difesa dello stato (diplomazia, grande commercio internazionale, guerre, esercito, politica estera). All’interno delle province, il potere politico era di fatto in mano ai patriziati cittadini: solo Frisia e Groningia avevano nelle loro assemblee provinciali anche delle rappresentanze contadine. L’oligarchia cittadina fu chiamata con il tempo “i reggenti”: vedremo più avanti come anche l’Olanda assista a fine ‘700 al tentativo degli esclusi dalle cariche di modificare la costituzione della repubblica in direzione di una maggiore partecipazione e uguaglianza.
Ricordiamo infine che la carica di stadhouder fu di fatto monopolizzata dagli Orange-Nassau, con una tendenza sempre più marcata a diventare ereditaria. Lasciata vacante per alcuni periodi, la sua copertura fu imposta spesso con la minaccia delle armi. Poi, dopo il congresso di Vienna, gli Orange riuscirono a trasformare la carica in un titolo monarchico a tutti gli effetti.
Letture
C. COSTANTINI, La repubblica di Genova, Utet, Torino 1986.
G. COZZI – M. KNAPTON, Storia della repubblica di Venezia, Utet, Torino 1987.
J. HUIZINGA, La civiltà olandese del XVII secolo, Sansoni, Firenze 1965.
F.C. LANE, Storia di Venezia, Einaudi, Torino 1978
W. REINHARD, Storia del potere politico in Europa, Il Mulino, Bologna 2001.
J.G.A. POCOCK, Il momento machiavelliano. Il pensiero politico fiorentino e la tradizione repubblicana anglosassone, Il Mulino, Bologna 1980.
9. Due vie allo stato moderno ? Il mito dell’assolutismo e la monarchia francese
Premessa. Il termine assolutismo
Con il termine assolutismo si indica un potere monarchico privo di limiti e condizionamenti giuridici, nonché un processo di concentrazione dei poteri nelle mani del sovrano stesso. Ma come tutti i concetti storiografici, il termine non è neutro. Esso entra in uso nella prima metà del secolo XIX, soprattutto tra i liberali, ed è spesso accostato ai termini tirannide e dispotismo, regimi monocratici autoritari, caratterizzato il primo dall’idea di un vantaggio personale del sovrano, l’altro assimilato alla relazione tra padrone e schiavi, totalmente arbitrario e normalmente brutale, per molti associato ai regimi asiatici.
Ma cosa significa “assoluto”, in riferimento al potere monarchico ?
Come abbiamo visto, pur in assenza di vincoli di diritto pubblico o di costituzioni, era insita nella teoria del potere monarchico, fin dal Medioevo, l’idea che esso fosse limitato nella pratica, e condizionato nelle forme, dall’esistenza di altri poteri e di altre fonti di diritto. La dottrina politica medioevale non contempla l’unicità e l’esclusività del potere del sovrano: nella società medievale il potere è policentrico, composto da una concatenazione gerarchica di signori feudali, comuni, città, ceti, corporazioni, ciascuno detentore di un proprio ambito di sovranità riconosciuto dagli altri. Funzione essenziale del re, come abbiamo detto sopra, è quella di rendere giustizia, ossia dirimere i conflitti e governare la società nel rispetto delle norme e delle consuetudini già esistenti, mentre il suo potere di fare nuove leggi è subordinato al consenso dei sudditi, che si manifesta in modi e tempi diversi a seconda delle diverse realtà territoriali.
Il potere del re medievale, e anche dei sovrani della prima età moderna, è dunque limitato in alto dalla legge divina, di cui la Chiesa è detentrice e interprete; e dal basso dalla norme tradizionali del regno (che possiamo anche chiamare “costituzione”), dalle procedure legali, dai poteri e privilegi riconosciuti agli altri corpi sociali. Il re è dunque subordinato non solo a Dio, ma anche alla legge: è solo il rispetto di questa che ne assicura la legittimità (lex supra regem, quia lex facit regem.). Questa limitazione non è solo una auto-limitazione del sovrano, ma prevede precise forme di controllo, e può far vita, se violata, ad alcune reazioni: la mancata registrazione delle ordinanze regie da parte degli organi a ciò preposti, rivolte popolari o dei ceti, rifiuto di applicare le leggi.
Il superamento di questa concezione avvenne in modo chiaro solo nella dottrina, mentre la prassi di governo non poté mai essere del tutto sciolta da limiti. Sono infatti alcuni giuristi e autori politici a teorizzare la condizione del sovrano ab-solutus, vale a dire “sciolto” dalla subordinazione nei confronti della legge e da ogni obbligazione nei confronti di altri soggetti istituzionali, discostandosi in ciò dalla monarchia medioevale, che non conosce l’idea di sovranità nel senso di pienezza, unicità ed esclusività del potere statuale. Una chiara espressione di questa condizione si coglie nelle parole di Claude de Seyssel (1450-1520), membro del Consiglio del re di Francia, che in riferimento a Francesco I (1494-1547), scrive : "E benché egli abbia tutta la forza e l’autorità di comandare e di fare ciò che vuole, questa immensa libertà è regolata, limitata e vincolata da buone leggi e ordinanze, e dalla moltitudine e varietà di funzionari che stanno vicino alla sua persona, o preposti nei diversi luoghi del suo regno".
Si attribuisce a Jean Bodin (1529-1596), giurista e funzionario regio, la prima formulazione chiara della sovranità come potere supremo potere svincolato dalle leggi (summa in cives ac subditos legibusque soluta potestas), che non ammette controlli politici o giurisdizionali. Per Bodin, inoltre, la sovranità è indivisibile e non ammette dunque, entro gli stessi ambiti di governo, la concorrenza di più poteri. Ma come abbiamo detto, la dottrina di Bodin va compresa nella fase convulsa delle guerre civili francesi e in relazione alla corrente dei ‘politiques’: dunque, è una proposta politica diretta al rafforzamento della prerogativa legislativa regia in un momento storico in cui la monarchia di Francia era particolarmente fragile.
Anche il più celebre tra i teorici dell’assolutismo, Thomas Hobbes (1588-1679), scrive il Leviatano a ridosso delle guerre civili inglesi: anche in questo caso, l’accento sul potere absolutus del re è funzionale al ripristino di un’autorità sovrana dopo i disordini e il ‘vuoto di potere’ della prima rivoluzione inglese. Hobbes era stato parecchi anni in Francia, e aveva conosciuto le dottrine dei ‘politiques’, ma anche lo scetticismo francese, corrente questa che sembrava mettere in discussione i fondamenti e la legittimità dello stesso potere politico. Di fronte ai disordini civili, Hobbes propone un’istanza suprema “assoluta” in vista della conservazione della società umana, che nello stato naturale è minacciata da una conflittualità endemica. Il confine tra un potere così concepito e il dispotismo sta nel fatto che il sovrano di Hobbes deve agire in vista della salvaguardia della vita e della sicurezza di tutti, sulla base di un patto stipulato da tutti, con il quale ciascuno rinuncia all’uso della forza che viene ora conferito al sovrano. Nella società teorizzata da Hobbes il rapporto politico diventa un legame diretto tra sovrano e individuo, in cui non trovano più ragion d’essere le antiche articolazioni della società medievale.
E’ quest’ultimo aspetto – ossia l’azzeramento del potere politico dei corpi intermedi (città, corporazioni, assemblee territoriali e di ceto, nobiltà) – quello che sarà effettivamente perseguito, anche se mai realizzato, nella fase matura dell’assolutismo, che coincide col cosiddetto “dispotismo illuminato” del XVIII secolo. E’ solo con le riforme del ‘700, infatti, che emerge un chiaro intento di centralizzazione del potere e delle funzioni, a scapito degli altri detentori tradizionali di poteri e di funzioni amministrative. In Prussia e nei domini degli Asburgo di Vienna, la fase dell’assolutismo illuminato consentì perciò di recuperare il ‘ritardo’ rispetto alla monarchia francese, che fin dal ‘500 aveva sviluppato un capillare apparato pubblico, se pure nelle forme della venalità delle cariche. Anche in questi stati, con il ‘700 si assiste ad una estensione delle funzioni pubbliche, svolte ora da una burocrazia stabile e professionale, e si realizza l’affermazione del diritto regio (raccolto in ordinate ‘consolidazioni’) sul diritto comune e sulle interpretazioni dei giuristi. Con la fase matura dell’assolutismo illuminato, che coincide con il regno di Giuseppe II in Austria, e con quello di Pietro Leopoldo in Toscana, anche le autonomie locali e le forme della rappresentanza territoriale e cetuale saranno fortemente limitate e in certi casi completamente ripensate dall’alto.
Per la Francia invece, studi recenti hanno ridimensionato la portata delle innovazioni della monarchia di Luigi XIV sui corpi sociali e sulle comunità locali. Una delle prime analisi storiche che aveva posto l’accento sullo svuotamento, da parte del sovrano, delle prerogative e delle autonomie locali e cetuali, era stata la celebre opera di Tocqueville sull’antico regime, dove l’autore parlava di una continuità tra il "dispotismo ministeriale" dello stato francese e le istituzioni amministrative realizzate dalla rivoluzione, e notava che l’amministrazione regia era già riuscita nell’opera di livellamento sociale poi continuata dalla rivoluzione. Un giudizio che vari storici hanno condiviso: tra questi François Furet quando afferma che "la monarchia amministrativa svuota la società d’ordini di ogni sua vera sostanza e spiana la strada non tanto all’uguaglianza delle condizioni quanto all’egualitarismo come valore".
Sul piano storiografico, vi è oggi un vivace dibattito sulla natura e la realtà concreta dell’assolutismo. Mentre è caduta l’indicazione che vedeva nell’assolutismo una ‘fase’ dell’intera storia europea, e si fa riferimento per dare concretezza al termine ad alcuni casi ben precisi, il dibattito si è concentrato sulla questione del funzionamento effettivo dei regimi assolutistici, e della traduzione in prassi di governo dei dettami delle teorie sull’assolutismo.
Al posto della tradizionale contrapposizione tra monarchia assoluta da un lato e i corpi sociali e le componenti territoriali dall’altro, si tende oggi a cercare di capire in che modo queste diverse istanze si integrassero e riuscissero anche a cooperare per gli obiettivi comuni. E si tende a evidenziare che le stesse tendenze all’assolutismo vanno sempre considerate nel contesto sociale dell’antico regime. In una società in cui i privilegi, le posizioni di status, i legami e le reti di relazioni personali contavano più dei decreti o delle leggi, il monarca utilizzava proprio queste forme a suo vantaggio: e comunque non venne mai meno, da parte dei re francesi, il riconoscimento dei privilegi aristocratici o delle norme giuridiche consuetudinarie. Anzi, molte delle consolidazioni promosse da Luigi XIV altro non erano che raccolte di disposizioni già vigenti, e i tribunali francesi furono sempre molto attenti a difendere i diritti acquisiti.
Recentemente, Henshall ha parlato di ‘mito’ dell’assolutismo, e ha osservato che i monarchi erano spesso più tolleranti delle repubbliche, citando ad esempio il caso di Venezia, che nel 1746 vieta le discussioni pubbliche, o di Ginevra, che condanna Rousseau.
Giustamente, Henshall osserva che i monarchi europei sono sempre stati assoluti, hanno cioè sempre monopolizzato il potere, là dove potevano farlo senza incorrere in recriminazioni o rivolte da parte dei ceti; e hanno sempre ‘spartito’ il potere ove i rapporti di forza o le circostanze lo consigliassero. “La maggior parte dei monarchi facevano entrambe le cose. Essi erano assoluti quando esercitavano le loro ampie prerogative ed erano costituzionali quando negoziavano sui diritti dei sudditi. La consultazione e il consenso erano importanti sia nell’Europa “assolutista” che nell’Inghilterra amante della libertà” (Henshall, p.31). Inoltre, non va dimenticato che la distinzione tra gubernaculum (sfera di intervento del sovrano) e iurisdictio ( sfera governata dal diritto e dalle leggi fondamentali o costituzionali) vale per i sovrani inglesi come per gli altri sovrani europei, sia pure con tutte le particolarità dei vari paesi. Nel primo ambito, anche la dottrina medievale aveva concesso ai sovrani ampie libertà di intervento e di decisione.
La contrapposizione tra la libertà inglese e l’assolutismo francese va perciò vista anche alla luce della contrapposizione fra modelli dottrinali distinti che caratterizza il dibattito politico dell’Illuminismo, oltre che come esito di visioni storiografiche spesso viziate da posizioni ideologiche e da schematismi.
Ciò non toglie che i due paesi abbiano a lungo costituito modelli di governo distinti: la Francia dotandosi precocemente di un diritto pubblico e di un ramificato sistema amministrativo, che sarà poi completato da Napoleone; l’Inghilterra perfezionando attraverso due rivoluzioni gli strumenti e le forme di limitazione e spartizione del potere regio, e affermando la prerogativa parlamentare a condividere col re le funzioni di governo.
E’ ad ogni modo indubitabile che fin dall’inizio del suo regno Luigi XIV introduce alcuni mutamenti rilevanti nello stile di governo del paese. Parlare di “rivoluzione monarchica” del 1661 per segnalare la ‘rottura’ costituita dalla volontà del nuovo sovrano di governare personalmente e direttamente il regno, può forse essere esagerato. In realtà, fu lo stesso Mazzarino, ormai prossimo alla fine, a consigliare a Luigi di non nominare un successore. Il re accolse l’indicazione anche per liberare il paese dalla ramificata clientela finanziaria che il cardinale aveva imbastito negli anni del suo governo (e il capro espiatorio di un intero sistema di abusi sarà come è noto Foquet): ma la stessa opera di risanamento di Colbert non fu altro, secondo alcuni, che la sostituzione di una clientela con un’altra, e vi fu una sostanziale continuità di metodi nella gestione delle finanze.
Anche la celebre espressione “l’Etat c’est moi”, diventata un vero mito storiografico per la sua capacità di condensare in una battuta un intero sistema di governo, va letta nel contesto in cui fu pronunciata, ossia in risposta al presidente del Parlamento che aveva appena detto, per difendere la volontà della istituzione che rappresentava, che il Parlamento agiva per il bene dello stato. Non si sa se Luigi abbia allora detto, appunto, che lo stato era lui, o più probabilmente che lo stato era ‘suo’. Ciò poco importa: conta rilevare che le vere novità del regno di Luigi XIV furono l’avvio di alcune decenni di espansionismo francese in Europa, al punto da pensare di contendere agli Asburgo la corona imperiale, e dunque un mezzo secolo abbondante di conflitti e guerre continue, che stremarono il paese e fecero più di un milione di morti. Anche in circostanze diverse, anche senza la qualifica di ‘assoluto’, qualunque sovrano avrebbe agito, in una situazione di guerra permanente, in modo da assicurarsi la lealtà dei sudditi e la regolarità delle entrate fiscali, o dei prestiti.
Luigi XIV fu il primo artefice della propria immagine, costruita appositamente per impressionare le altre corti europee spingendole ad una rincorsa sul piano della magnificenza e degli onori che alla lunga fu impossibile da reggere. Fu insomma un’operazione di propaganda, i cui elementi salienti furono la corte, il mecenatismo artistico, la protezione di letterati, il teatro di corte, il cerimoniale, la fondazione di Accademie.
Cosa resta allora, sul piano istituzionale, del mito dell’assolutismo francese ? Goubert ha parlato addirittura di “colpo di stato monarchico” per sottolineare come, nonostante l’impossibilità di governare senza appoggiarsi ai corpi sociali, Luigi abbia effettivamente messo a tacere alcuni meccanismi di controllo prima presenti nel regno. Potremmo così sintetizzarli:
Tre i pilastri del governo regio con Luigi XIV:
Riprenderemo il discorso sull’importanza degli intendenti quando parleremo della burocrazia moderna: ricordiamo che è proprio osservando l’estensione dei loro poteri, e la capillarità della loro azione sulla vita locale francese a partire da Luigi XIV, che Tocqueville minimizzerà la portata delle rivoluzione amministrativa della rivoluzione, osservando che agli occhi di un comune abitante di un villaggio francese, poco era cambiato prima e dopo la rivoluzione (ma su questo torneremo).
A questi aspetti si potrebbe aggiungere l’enorme potere di Colbert in materia economica e finanziaria: ma dopo la sua morte nel 1683, nessuno porterà avanti l’opera di riordino delle finanze da lui avviata, e la strada della guerra imboccata dal sovrano produrrà un deficit sempre più pesante nelle casse regie.
Ricordiamo anche l’azione di riordino del diritto avviata da Colbert con le celebri Ordonnances, che sistemarono in modo coerente alcuni settori della vita giuridica: quello civile (1667), penale (1670), commerciale (1673), il settore delle acque e foreste (1669), e la Marina (1681).
Il regno di Luigi XIV è un periodo di affermazione della Francia a livello europeo: ricordiamo solo le guerre di devoluzione contro la Spagna, le guerre contro le Province Unite, in alleanza con l’Inghilterra, la guerra della Lega di Augusta e la guerra di successione spagnola. Sotto la guida dei due segretari alla guerra Le Tellier (padre e figlio) la Francia si dotò di un’imponente macchina militare: se negli anni ’60 del secolo l’esercito ammontava a 40.000 unità, nel 1691 raggiunse i 446.000 uomini. Anche la flotta conobbe un notevole sviluppo, raggiungendo nel 1680 le 250 unità dotate di una moderna artiglieria.
Ma lo sforzo militare prolungato finì per stremare il paese, e per aggravare i preesistenti problemi finanziari e fiscali: l’assolutismo va visto anche alla luce della necessità di controllare risorse e popolazione del regno per utilizzarle allo scopo di ingrandimento e affermazione della potenza francese che Luigi XIV perseguì costantemente, e alle quali aveva legato la sua stessa immagine e la sua ricerca di “gloria”.
Letture
R. MOUSNIER, Les institutions de la France sous la monarchie absolue, Puf, Parigi 1974 e 1980.
D. RICHET, Lo spirito delle istituzioni. Esperienze costituzionali nella Francia moderna, Laterza, Roma-Bari 1973
G. RUOCCO, Lo Stato sono io. Luigi XIV e la “rivoluzione monarchica” del marzo 1661, Il Mulino, Bologna 2002.
H. TAINE, L’Ancien Régime, Torino 1961 (e altre edizioni).
A. de TOCQUEVILLE, L’antico regime e la rivoluzione, Bompiani, Milano 1990 (anche altre edizioni).
10. Monarchia, parlamento e costituzione in Inghilterra
Della prima rivoluzione inglese, già abbozzata in una lezione precedente, vanno qui sottolineati alcuni elementi fondamentali, che sono il lievito di molte dottrine politiche inglesi, e in particolare del repubblicanesimo. Ci riferiamo alle posizioni radicali espresse dai movimenti dei levellers e dei diggers, ampiamente diffuse all’interno dell’esercito di Cromwell, che ne discusse nei famosi dibattiti di Putney. Ambedue i movimenti, con toni più o meno radicali, rivendicavano il suffragio universale, l’eguaglianza, la forma repubblicana dello stato. Ma prevalse alla fine un compromesso tra queste tendenze e i gruppi sociali che restarono fedeli alla monarchia. Il potere di Cromwell riposava soprattutto sulla forza del suo esercito, anche grazie alla vittoriosa repressione in Irlanda. Dopo la morte del re, Cromwell procedette a ripetute epurazioni del Parlamento per ottenerne il controllo. Ciò non evitò frequenti scontri con la componente lealista, pur avendo la repubblica decretato la fine del potere dei Lords. Base della repubblica inglese fu lo Strumento di governo che delineava un modello repubblicano e riconosceva Cromwell quale capo dello stato con il titolo di Lord Protettore. Il paese fu diviso in 11 distretti militari posti sotto il comando di altrettanti generali.
Quello repubblicano fu un regime che stabilì un equilibrio tra repubblicani e monarchici: un equilibrio che il figlio Richard, subentrato al padre nel 1558, non seppe conservare. L’esercito prese allora l’iniziativa di richiamare gli Stuart al trono. Un apposita Convenzione parlamentare riconobbe la sovranità di Carlo II, che aveva già sottoscritto un solenne impegno a rispettare la libertà religiosa e le prerogative del Parlamento (dichiarazione di Breda).
Il regno di Carlo II fu contrassegnato da un certo equilibrio con il Parlamento, al quale il Triennal Act del 1664 riconosceva un tempo minimo di tre anni tra una sessione e l’altra. In cambio del rispetto delle prerogative delle camere, al re fu concesso il controllo dell’esercito e una rendita fissa annuale. Durante il regno di Carlo iniziò anche l’abitudine di riunioni congiunte fra il re e i principali ministri: il termine cabinet che indicava questa prassi derivava dal salotto in cui si svolgevano gli incontri. Nuovi contrasti insorsero comunque sia per motivi religiosi sia per la decisione del re di allearsi con Luigi XIV contro gli olandesi. Circa il primo punto, ricordiamo che con il Test Act voluto dal Parlamento nel 1673, per essere ammessi ad incarichi pubblici occorreva giurare di non credere alla transustanziazione: una norma che sarà eliminata solo nel 1829 con il Catholic Emancipation Act che riconosceva ai cattolici libertà di culto e di coscienza.
Ma fu con l’ascesa di Giacomo II, cattolico, che la crisi giunse al culmine, soprattutto dopo la nascita di un figlio che faceva prevedere l’avvento di una monarchia ‘cattolica’ in un’Inghilterra che aveva fatto dell’anti-papismo, dallo scisma in poi, un tassello della propria identità nazionale. Si profilava una situazione di scontro, dato che il Parlamento non aveva consolidato, dopo la prima rivoluzione, prerogative e un’autonomia tale da arginare l’iniziativa regia. I due schieramenti politici già presenti nel panorama inglese – whigs, di tendenza repubblicana e parlamentare, e tories, filo-monarchici e più conservatori – decisero concordemente di chiamare al trono Guglielmo d’Orange, stadhouder olandese che aveva sposato Maria Stuart, figlia di prime nozze di Giacomo.
Si trattò dunque, come il termine glorious suggerisce, di una rivoluzione pacifica, anche se va ricordata la contemporanea feroce repressione delle rivolte scoppiate in Scozia e in Irlanda a favore degli Stuart.
Restava però il problema di legittimare un mutamento di regnante con il re precedente ancora in vita. Fu allora convocato un Parlamento-convenzione che dichiarò che la fuga del re di fronte all’arrivo di Guglielmo equivaleva ad un’abdicazione, e che stabilì il divieto di successione al trono inglese per i cattolici. Per essere accettato come sovrano, Guglielmo dovette sottoscrivere il Bill of Rights, uno dei testi più importanti della storia costituzionale inglese.
Queste in sintesi le norme fondamentali previste da questo documento:
Ma accanto a questo, anche alcuni documenti successivi vanno considerati come parte integrante della “costituzione” del 1688-89. Poco dopo, il Toleration Act stabilì la libertà di culto (escludendo però i cattolici). La libertà parlamentare fu rafforzata prima dal Triennal Act del 1694 che fissava in tre anni la durata di ogni Parlamento (nel 1716 con il Septennial Act saranno sette). Nel 1694 fu creata la Banca d’Inghilterra, e nel 1701 fu varato l’Act of Settlement, che per evitare un ritorno degli Stuart assicurava la successione alla seconda figlia di Giacomo, Anna, e dopo questa alla dinastia di Hannover (anche questa legata per ragioni parentali agli Stuart), che mantenne un’unione personale tra i due stati fino al 1837.
Importante è anche la decisione, nel 1707, di unire i due regni di Inghilterra e Scozia in un “Regno Unito” o “Gran Bretagna”: da quel momento a Westminster furono accolti anche rappresentanti della Scozia.
Si completava così la transizione verso un regime politico di condivisione del potere tra Re e Parlamento: la decisione sulla successione al trono mostra d’altra parte che era quest’ultimo il vero centro della sovranità inglese. Nell’Act of Settlement è infatti riconosciuta alle camere una ampia competenza in materia di politica estera, ed è previsto l’impegno del re a discutere di affari di stato con tutto il consiglio di stato, e a ottenere il consenso delle camere prima di entrare in guerra.
Gli storici hanno qualificato quella inglese dopo il 1689 come una monarchia costituzionale, ossia una monarchia in cui i poteri del re sono limitati non da principi generali astratti ma da chiare prerogative parlamentari e dall’esistenza di precise libertà civili che il re non può violare: nel Settecento, poi, l’antico principio del King in Parliament si avvia a trasformarsi in una autentica Supremacy of the Parliament, e si impone la controfirma dei ministri per gli atti regi, l’organizzazione collegiale del governo (cabinet), e il controllo parlamentare su tutta la vita finanziaria e fiscale.
Va anche tenuto presente che l’avvento degli Hannover, così come era accaduto per gli Stuart, significò il trapianto di una dinastia straniera, i cui primi esponenti non parlavano neppure bene l’inglese, e che trascorrevano lunghi periodi nel loro paese d’origine, in terra tedesca. Fu perciò naturale, per loro, appoggiarsi all’azione dei primi ministri, che assunsero un ruolo fondamentale nella vita politica: Robert Walpole, ad esempio, restò al governo dal 1721 al 1742, all’interno di una lunga fase di maggioranza whig. Sempre più i ministri, specie nelle assenze del re, si appoggiarono al Parlamento, cercando in questo un punto di riferimento e di legittimazione del proprio operato. Il rapporto fiduciario tra primo ministro e Parlamento che si viene così ad instaurare è comunque il frutto di convergenze empiriche e momentanee, spesso venate da meccanismi clientelari e fenomeni di corruzione, e non indica ancora l’affermazione piena dell’istituto della ‘fiducia’ tipico delle monarchie parlamentari ottocentesche (che in Inghilterra si affermerà in modo chiaro attorno al 1830, alla fine del regno di Giorgio IV).
Il problema politico fondamentale dell’Inghilterra del ‘700 sarà quello elettorale. Le ripartizioni elettorali erano ancora quelle delineate nel XVI secolo, mentre il numero dei componenti la Camera dei Comuni era stato fissato nel 1673 in 558. Per tutto il Settecento, la popolazione crescerà in misura più che doppia rispetto all’aumento dell’elettorato, e le nuove e popolate città industriali saranno sotto-rappresentate rispetto agli antichi borghi cui la ripartizione elettorale del ‘500 aveva assicurato un adeguato numero di rappresentanti. In altre parole, la ripartizione geografica dei seggi dei Comuni non appariva più rispondente ad un trend demografico in cui gli abitanti dei distretti rurali calavano e gli abitanti delle città aumentavano. La mancata riforma elettorale, da più parti richiesta, farà sì che quando con il Reform Bill del 1832 l’Inghilterra si darà un sistema elettorale più vicino alla situazione effettiva del paese, il rapporto tra popolazione ed elettorato sarà del 4,2%, ossia vicino a quello dell’inizio Settecento (4,7%).
Certamente, quello inglese resta comunque un sistema fortemente oligarchico, con una base elettorale ristretta, circa 300.000 elettori a fronte di una popolazione di circa 5 milioni e mezzo di abitanti. “Il prolungamento della durata della legislatura a sette anni, le elevate condizioni di eleggibilità fissate nel 1711, il costo delle campagne elettorali, caratterizzano il sistema politico, fortemente controllato da reti clientelari e di influenza familiare, dunque caratterizzato costituzionalmente da corruzione” (Bonini p. 54).
Nonostante i suoi limiti, quello inglese diverrà nel ‘700 un autentico modello da imitare o a cui far riferimento nella critica ai regimi continentali. Molti osservatori indicheranno nel suo sistema politico le ragioni del successo economico dell’Inghilterra, che nel ‘700 sarà la potenza marittima e coloniale dominante, per poi proporsi quale primo paese industrializzato d’Europa.
Si crea così all’interno dell’Illuminismo, un vero e proprio “mito inglese”, così come in precedenza vi era stato un mito olandese e, prima ancora, un mito veneziano.
Letture :
F. BONINI, Lezioni di storia delle istituzioni politiche, Giappichelli, Torino 2002.
G. GARAVAGLIA, Storia dell’Inghilterra moderna. Società, economia e istituzioni da Enrico VIII alla Rivoluzione industriale, Cisalpino, Milano 1998.
G.G. FLORIDIA, La costituzione dei moderni. Profili tecnici di storia costituzionale, vol. I: Dal Medioevo inglese al 1791, Giappichelli, Torino 1991.
11. L’assolutismo illuminato e lo stato amministrativo nel ‘700. Le riforme istituzionali negli stati italiani
Premessa
Secondo molti storici, lo ‘stato moderno’ trova una sua vera realizzazione solo con il modello e le pratiche della monarchia ‘amministrativa’, tipica di molti stati europei del Settecento, e poi ripresa anche dagli ordinamenti della Restaurazione. Per capire cosa si intende con questo termine, occorre ricordare quanto fin qui detto a proposito del funzionamento del potere e degli apparati pubblici in antico regime: sono questi modi di esercizio delle funzioni di governo ad rivelarsi inefficaci e fragili di fronte ai nuovi compiti che gli stati si assumono nel ’700, anche per effetto dell’influenza della filosofia illuministica, di stampo razionalistico, e che assegna ai sovrani, come primo compito, quello del benessere generale. Accanto a questi interventi per razionalizzare la macchina dello stato, altri cercano di ridurre gli squilibri fiscali ed economici, o di dare voce ai nuovi ceti borghesi, anche se tutto ciò avviene senza mettere in discussione l’assetto sociale e i fondamenti del potere della società stessa.
Così, se per certi versi gli storici parlano di “due vie” allo stato moderno, intendendo sottolineare i diversi percorsi inglesi e francesi fra Sei e Settecento, anche la crisi e il superamento dell’antico regime passa attraverso forme distinte, e alcuni storici hanno parlato di una alternativa fra ‘riforme’ e ‘rivoluzione’. In realtà, le cose sono più complesse e sfumate: come diremo, neppure i deputati agli Stati Generali dell’89 avevano in mente, all’inizio, una rivoluzione, ma erano convinti di essere lì per fare una ‘grande riforma’ dell’intero sistema di governo.
La vera ondata di trasformazioni istituzionali e amministrative che investe quasi tutti gli stati europei si dipana soprattutto nella seconda metà del secolo, dopo la fine delle numerose guerre che avevano segnato il primo cinquantennio del Settecento, caratterizzato da una estrema instabilità politica e diplomatica, e da ricorrenti conflitti fra le dinastie. Fu proprio questa instabilità, oltre che gli alti costi delle guerre, a mettere in rilievo la fragilità degli apparati pubblici, l’insufficienza del sistema degli appalti cui molti stati affidavano l’esazione fiscale, l’iniquità della tassazione, l’impossibilità per i sovrani, con i mezzi di cui disponevano, di controllare interamente la vita pubblica del loro stato.
Come per i secoli precedenti, la necessità di reperire sempre maggiori entrate da destinare alla guerra e alla competizione internazionale, che nel Settecento si sposterà anche alle colonie e al controllo dei traffici marittimi, resero necessaria una seria valutazione dell’efficienza dei sistemi fiscali e finanziari dello stato: sta qui la radice prima delle tante riforme avviate da sovrani e repubbliche, con esiti assai diversi.
A questo va aggiunto il clima culturale del Settecento, caratterizzato dalla diffusione della filosofia dei Lumi, i cui esponenti portarono un duro attacco ai sistemi di governo preesistenti, e soprattutto ai loro sistemi giuridici e giudiziari, avanzando dettagliati progetti di trasformazione degli assetti esistenti in direzione di una maggiore diffusione del benessere economico, di migliori condizioni di vita, di un fisco più equo, di una più ampia scolarizzazione e educazione delle masse popolari.
Il pensiero dell’Illuminismo è ricco e differenziato, non riconducibile a opzioni o alternative nettamente contrapposte. La complessità delle società settecentesche, esito del riaprirsi di vivaci dinamiche sociali (fortune di gruppi mercantili e finanziari, ascese sociali di alcune famiglie, rivendicazioni di gruppi corporativi o di ceti ecc.), si riflette nella ampia articolazione di analisi, critiche, progetti, che sono al centro del dibattito pubblico e delle opere del tempo.
Fondamentale è anche l’affiorare di un’idea di Europa come insieme di stati, con una serie di caratteri comuni che erano però mutuati dagli stati più avanzati: sviluppo economico e sociale, forte integrazione dei commerci, ceti dirigenti uniti da una stessa cultura, da un solo stile di vita, da valori assai simili.
Un’Europa che molti autori non esitarono a definire come la punta più avanzata della civiltà, soprattutto per la ‘raffinatezza’ dei costumi e delle forme di vita raggiunte negli stati più avanzati, come Francia e Inghilterra.
Vedremo a proposito della rivoluzione francese le idee fondamentali che hanno influenzato il dibattito pubblico sulla natura della monarchia e sui rimedi alla situazione francese.
Ma ricordiamo anche altri temi presenti nella varie correnti dell’Illuminismo europeo che hanno diretta attinenza con le riforme del secolo, o perché riguardano, appunto, le modificazioni da apportare agli assetti del tempo, o perché ispirarono l’azione di alcuni sovrani riformatori:
Le idee e le proposte degli Illuministi influenzarono profondamente molti sovrani: molti degli uomini dei Lumi furono anzi consiglieri, o direttamente partecipi, in qualità di funzionari o ministri, all’opera di riforma. Il termine “assolutismo illuminato” indica appunto il connubio tra le idee dei Lumi e l’opera di centralizzazione delle funzioni e del potere avviata dai governanti. E’ un’espressione ambigua, perché molti dei protagonisti dell’Illuminismo erano critici verso le esperienze monarchiche del passato, e alcuni proponevano una moderna separazione dei poteri. Nonostante ciò, nella fase iniziale dell’Illuminismo molti intellettuali scelsero di affidare le loro proposte a sovrani forti, in gradi di ‘modernizzare’ dall’alto lo stato e la società. Loro obiettivo era infatti di superare ogni opposizione alle riforme da parte dei ceti tradizionali: l’azione decisa di un sovrano investito di ampi poteri legislativi, giudiziari e amministrativi sembrò, nella prima fase delle riforme, lo strumento migliore per mettere a tacere l’opposizione nobiliare e dei ceti privilegiati.
Ma in un secondo tempo, negli anni ’70 e ’80 del Settecento, emersero più nettamente concezioni e proposte che andavano in direzione della divisione dei poteri, della rappresentanza politica, della distinzione tra stato e società, e dunque del riconoscimento di più ampie libertà politiche e civili per tutti i sudditi. Ma accogliere queste proposte avrebbe significato per le monarchie europee capovolgere la tradizionale legittimazione del loro potere, visto come il vertice di una piramide gerarchica di poteri e privilegi, che il sovrano condivideva con i ceti privilegiati, escludendo invece la maggioranza della popolazione.
Per questo, se le riforme portarono a profonde trasformazioni in molti settori della vita politica e sociale, dagli apparati di governo alle amministrazioni locali, dai sistemi fiscali alle istituzioni educative, fino all’assistenza, alla sanità e così via, nessuna riforma intervenne a modificare gli assetti sociali di fondo degli stati d’antico regime, togliendo i privilegi ormai ingiustificati di gruppi sociali dominanti, e allargando la partecipazione alla vita politica a strati più ampi della popolazione.
Si tratta di un ‘limite’ del movimento riformatore che sarà percepito dagli stessi intellettuali e dall’opinione pubblica del tempo: ciò spiega, specie in riferimento alla penisola, l’adesione convinta alla rivoluzione francese che si diffuse presso i ceti borghesi di molti stati europei. Il limite del riformismo sembrò allora superato dall’azione dei rivoluzionari francesi: salvo ricredersi poi nuovamente di fronte alla durezza dell’occupazione napoleonica. Ma su questo torneremo.
Per tornare ora all’avvio delle riforme, va detto che come in altri momenti della storia europea, furono in primo luogo le esigenze fiscali e finanziarie a portare i sovrani alle prime riforme. Il bisogno di maggiori entrate, dovuto alle numerose guerre europee del primo Settecento, combattute da esercito meglio organizzati e meglio equipaggiati, e dunque più costosi, fu alla base dei primi tentativi di razionalizzare i sistemi fiscali, sia attraverso un accertamento più preciso dell’imponibile, sia tramite la revisione del sistema degli appalti e la creazione di uffici e funzioni fiscali controllate dal centro.
Ricordiamo allora, in sintesi, i conflitti che maggiormente incisero nella trasformazione della carta geo-politica d’Europa, e in particolare degli stati italiani:
- la guerra di successione spagnola per l’eredità spagnola. Si chiude con i trattati di Utrecht e di Rastad (1713-1714). Oltre a riconoscere all’Inghilterra una serie di vantaggi sul piano commerciale, il trattato di Utrecht assegna ai Savoia il possesso della Sicilia (e il relativo titolo regio), e sancisce il dominio degli Asburgo su Milano e sul Regno di Napoli. Ma già con la pace dell'Aja (1720) i Savoia perdono la Sicilia (che va all'Austria), un dominio che non avevano difeso dall'invasione spagnola nel 1717, e in cambio ricevono la Sardegna; Filippo V di Spagna ottiene per il figlio Carlo di Borbone il diritto di successione nel Ducato di Parma e Piacenza e nel Granducato di Toscana.
- la guerra di successione polacca, che si chiude con la Pace di Vienna (1738): si garantisce a Francesco Lorena, marito di Maria Teresa d'Austria, il possesso della Toscana, mentre già nel 1736 gli Austriaci avevano perso i Regni di Napoli e di Sicilia, che si ricostituivano in un unico Regno meridionale sotto la corona di Carlo di Borbone. Parma e Piacenza vanno agli Asburgo.
- la guerra di successione austriaca, che si conclude con il trattato di Aquisgrana (1748): è questo il trattato che assicura agli Stati italiani quella sistemazione che solo le guerre napoleoniche modificheranno di nuovo, ma per breve tempo: perciò i confini di Aquisgrana si manterranno pressoché stabili fino all'Unità d'Italia. Dopo il 1748 l'Italia appare divisa in due zone diverse: Lombardia, Firenze, Mantova e Modena sotto la dominazione diretta o l'influsso asburgico; il Mezzogiorno e il Ducato di Parma e Piacenza sotto il dominio dei Borbone. Anche il Piemonte attua in questo periodo importanti acquisizioni territoriali (le Langhe, il Novarese, Vigevano), così che i suoi confini tendono a coincidere con quelli "naturali".
Le riforme “senza illuminismo”
a) La Russia
Alcuni processi di trasformazione degli apparati pubblici, del diritto e delle forme amministrative furono avviati anche da sovrani che non furono per nulla influenzati, anche per semplici ragioni cronologiche, dalle idee dei Lumi.
Tra queste “riforme senza illuminismo” ricordiamo due casi: il primo è quello della Russia di Pietro il Grande, che proprio nei primi due decenni del ‘700 fu avviata dallo zar verso un processo di modernizzazione economica, militare e burocratica senza precedenti.
La Russia aveva vissuto a lungo ai margini dell’Europa: molti intellettuali europei si erano anzi posta la questione se e in che misura quell’immenso paese fosse “Europa”. Dopo l’avvio, con lo zar Michele, della dinastia dei Romanov, il figlio Alessio aveva emanato nel 1649 un Codice che separava la società russa in tre ceti: “uomini di servizio”, tra cui la nobiltà; “uomini del borgo”, ossia mercanti e artigiani; e “uomini del distretto”, vale a dire i contadini, sia liberi che servi. Il provvedimento segnò un deciso arretramento delle condizioni di vita dei contadini russi, e pose pesanti vincoli all’attività dei ceti mercantili. Tra le numerose rivolte scoppiate in tutto il paese, la più celebre è forse quella del 1670, quando i cosacchi del Don guidati da Stenka Razin insorsero col proposito di liberare i contadini: per sedare la ribellione estesasi in intere regioni l’esercito ricorse a veri e propri massacri.
L’ingresso della Russia nel ‘sistema’ degli stati europei si deve a Pietro il Grande (1682-1725), che si pose come obiettivo la trasformazione del paese in uno stato in grado di reggere il confronto economico e militare con le altre potenze europee. Numerose le riforme avviate e realizzate dallo zar: dalla riforma dell’esercito alla creazione di una moderna marina militare, dall’occidentalizzazione dei costumi all’istruzione, dall’avvio dell’industrializzazione al protezionismo commerciale.
Tra le riforme di Pietro va segnalata la cosiddetta “Tabella dei Ranghi”, che prevedeva 14 classi (o ranghi) di servizio pubblico, ai quali corrispondevano funzioni e onori distinti: in tal modo anche la piccola nobiltà fu attirata al servizio dello stato, nel campo militare come in quello civile. Lo zar poté quindi contare, per il governo dell’immenso territorio russo, su un apparato fedele e preparato: il paese fu diviso in governatorati, e accanto all’amministrazione civile si creò un parallelo controllo militare con il distaccamento di truppe nella varie province. Creò poi un Senato (al posto dell’antica Duma dei nobili russi), formato da membri da lui designati, oltre che dai delegati delle amministrazioni provinciali. Anche la Chiesa ortodossa fu sottoposta ad un ferreo controllo statale.
Quella di Pietro fu una immensa opera di ‘modernizzazione dall’alto’ di un paese rimasto fino a quel momento ai margini della storia europea. Ma proprio la velocità delle trasformazioni (anche dei costumi sociali) e la loro imposizione dall’alto, resero assai fragile la costruzione dello zar: nel secondo Settecento, con Caterina II, la grande nobiltà russa tornerà ad esercitare un forte potere e riacquisterà alcuni dei suoi antichi privilegi.
b) Le riforme in Piemonte
Anche nel caso dei Savoia, le riforme dirette a snellire e razionalizzare gli antichi consigli ducali, produssero alla fine la creazione di una nuova nobiltà di servizio, frutto della scelta di Vittorio Amedeo II di incoraggiare la formazione di un ceto burocratico a lui fedele, esautorando le famiglie aristocratiche più antiche.
Mosso prima dalle necessità della guerra, e poi della nuova collocazione internazionale del suo regno, Vittorio Amedeo II concepì un vasto piano di riforme tese ad assicurare al sovrano il pieno controllo ed utilizzo di tutte le risorse economiche dello stato, anche al prezzo di attuare una politica di forte contenimento sia del potere nobiliare e feudale, sia delle autonomie comunitative. All’inizio del suo regno, Vittorio Amedeo tenta di riprendere il controllo diretto sull’apparato fiscale, che nel Seicento era stato a varie riprese appaltato ai gruppi finanziari e mercantili piemontesi, e la cui efficienza era fortemente limitata dagli ampi privilegi del clero, della nobiltà e dei cortigiani. L'avvio delle riforme si può datare dagli ultimissimi anni del Seicento, quando prende inizio l'opera di perequazione fiscale (nuova misurazione dei terreni e loro nuova stima sotto lo stretto controllo di commissari centrali), e si affidano agli intendenti più ampi compiti fiscali, amministrativi, e di controllo sull'ordine pubblico.
L'esito di quest'impresa su larga scala si consolida nel 1717, quando l'intero vertice dello stato fu riformato per renderlo più snello e celere. Oltre a dotarsi di tre distinte Segreterie di Stato (Guerra, Interni ed Esteri), Vittorio Amedeo II affida ad un Consiglio generale delle Finanze il controllo di tutte le entrate e le uscite dello Stato, ponendo sotto la sua direzione anche l'opera degli intendenti periferici. Cardini del riformismo sabaudo sul piano sociale furono una politica economica di stampo mercantilistico, volta a favorire le imprese di trasformazione locali e le esportazioni; la riforma dell'università di Torino, concepita come la "fucina" dei funzionari che dovevano collaborare con la monarchia nel governo dello stato; una politica di assistenza ai poveri (ospedali, ospizi) che tendeva a togliere alla Chiesa il monopolio da sempre detenuto nel campo dell'assistenza e delle opere pie.
Sul piano legislativo, Vittorio Amedeo II mira al controllo e al riordino delle giurisdizioni ancora in mano ai feudatari o alle comunità. Ma poiché questo problema era strettamente intrecciato a quello dell'accumulo e della dispersione delle norme, spesso provenienti da fonti diverse, il sovrano incaricò una apposita commissione di compilare una raccolta e una revisione delle leggi vigenti. Nel 1723 furono così emanate le Leggi e costituzioni di Sua Maestà il Re di Sardegna, primo esempio nella penisola di "consolidazione legislativa". In esse non vanno cercati principi e orientamenti giuridici di tipo "illuminato": esprimono piuttosto l'intento del sovrano di porsi come fonte principale (ma non ancora esclusiva) della legge, che secondo le istruzioni date ai giuristi della commissione doveva rispondere ai requisiti della chiarezza, della semplicità, della sistematicità. Nuovi non sono insomma i contenuti della consolidazione legislativa, che lasciava tra l'altro del tutto inalterati i rapporti sociali e di proprietà: nuova è l'idea che la legge del principe così risistemata debba essere applicata come norma superiore in tutto lo stato. E' questo in sintesi un primo e ancora rudimentale tentativo di superamento del particolarismo giuridico che abbiamo visto caratterizzare tutte le esperienze politiche d'antico regime.
Ci siamo soffermati sulle riforme piemontesi non solo per la loro precocità, ma anche perché esse costituiscono una caso in parte anomalo, essendosi generate da esigenze fiscali e finanziarie interne allo stato sabaudo, senza essere influenzate da altri modelli dottrinali. Sono insomma "riforme senza Illuminismo", un tentativo di riorganizzare l'assetto dello stato in modo funzionale alle esigenze di un sovrano, nel quale qualche storico ha intravisto più la personificazione della "ragion di Stato" che l'anticipazione delle istanze illuministiche.
Il riformismo asburgico: l’età di Maria Teresa
Piuttosto marginale nei giochi politici europei dei Seicento, dove se mai gli Asburgo contavano in quanto Imperatori, la casata viennese conobbe una notevole espansione territoriale dal tardo Seicento in poi, dopo che nel 1683, respinto l’assedio dei Turchi a Vienna, molti territori dell’Europa orientale furono sottratti all’Impero ottomano e inglobati nei domini degli Asburgo.
Stato ‘composito’ per eccellenza, la monarchia asburgica aveva con il tempo riunito attorno ai domini più antichi (la Bassa Austria) una serie di province e territori assai diversi e sparsi ovunque: Stiria, Carinzia, Boemia, Trieste, Friburgo, Borgogna, Ungheria. Questi territori erano uniti tra loro solo dalla comune appartenenza alla stessa dinastia; ciascuno conservava norme, usi sociali e regole politiche distinte, e nei maggiori vi era la presenza di vivaci rappresentanze dei ceti (Diete). In particolare, la monarchia asburgica non fu mai uno ‘stato’: e anche se rari furono i casi di contestazione del diritto a governare acquisito dagli Asburgo in varie forme (conquista, unioni pattizie, accordi matrimoniali).
Fu Leopoldo I a fare della monarchia asburgica una grande potenza: grazie ad una prima riorganizzazione fiscale e militare, Leopoldo seppe far fronte contemporaneamente alla duplice minaccia turca e francese. L’esercito guidato da Eugenio di Savoia seppe difendere bene le ragioni asburgiche nella contesa per la successione spagnola, che assicurò a Vienna il controllo del Milanese, del regno di Napoli e del ducato di Mantova. Fallì anche, durante quel conflitto, un tentativo ungherese di sottrarsi al dominio degli Asburgo: fu confermata la Dieta dei nobili, ma questi persero il controllo su alcune zone del paese, che furono governate direttamente da Vienna.
Dopo la pace di Utrecht, Carlo d’Asburgo dovette rinunciare al trono spagnolo e tornare a Vienna, dove si circondò di italiani e spagnoli, organizzati in un Consiglio permanente con un segretario che usava solo il castigliano. La vita di corte era regolata sul cerimoniale spagnolo, con un deciso rifiuto del brillante modello francese, allora in voga in mezza Europa. Circa il governo, Carlo decideva tutto da solo, provocando una lentezza nella gestione degli affari politici che esasperava osservatori e rappresentanti stranieri.
La sua prima preoccupazione fu quella di sostenere i settori commerciali e di avviare l’Austria ad una attiva politica marittima. Per questo creò la Compagnia per il commercio con il Levante, furono creati i porti di Trieste e di Fiume, furono creati nuovi collegamenti stradali tra i domini austriaci e l’Adriatico (ad esempio, la strada che univa Vienna e Trieste fu trasformata in una carrozzabile). Anche nel Milanese Carlo VI avviò una attenta ricognizione dello stato del paese per procedere poi alle riforme necessarie.
Non avendo figli maschi, Carlo VI cercò di assicurare la successione alla figlie attraverso la “Prammatica Sanzione” (1713), che cercava di porre su precise basi giuridiche l’unione dei domini asburgici (l’ereditarietà in capo agli Asburgo della corona boema era stata assicurata nel 1627, quella ungherese nel 1687). Le Diete territoriali accettarono la Prammatica Sanzione: in particolare, l’accettazione del documento da parte della Dieta ungherese significò l’accorpamento di quel regno al patrimonio degli Asburgo, e restò alla base della legittimità del dominio asburgico sull’Ungheria fino al 1918.
Più arduo fu far accettare il documento alle potenze europee.
La monarchia asburgica, autentico mosaico di territori e popoli, aveva allora fondamenta finanziarie assai fragili: se la mancanza di denaro assillava in modo ricorrente tutti i sovrani europei, nel caso degli Asburgo la carenza era cronica e strutturale. Ciò dipendeva sia dalla mancanza di risorse economiche derivanti dal commercio o dalle colonie, sia dalla natura pattizia della monarchia stessa, che aveva lasciato ai vari territori ampia autonomia di votazione dei tributi e di distribuzione dei carichi fiscali. Proprio per questo, già dal primo Settecento, si scelse di aumentare le contribuzioni indirette (cameralia), non soggette all’approvazione delle varie assemblee dei ceti. Ma mancò, durante il regno di Carlo VI, un serio disegno di riforma finanziaria, che potesse portare la compagine austriaca ad una competizione alla pari con le altre monarchie europee.
Tutto ciò emerse appunto nella guerra di successione: “Maria Teresa poteva passare per usurpatrice nel momento in cui il padre la nominò sua legataria universale, senza lasciarle i mezzi per difendere quel magnifico dono” (Bérenger, p. 83). Approfittando della debolezza della giovane sovrana, Federico II di Prussia, sostenuto dalla Francia, occupò la Slesia, una delle zone più ricche e popolose della monarchia, con importanti giacimenti minerari e una industria tessile già sviluppata: una regione che forniva almeno il 20% delle entrate ordinarie di Vienna. Pur di conservare la Slesia, Maria Teresa giunse a proporre la cessione dei Paesi Bassi e del Milanese: ma fu tutto inutile, e anche dopo la Guerra dei Sette anni, in cui l’Austria, pur di riavere la regione, si alleò con la nemica di sempre, la Francia, la Slesia restò alla Prussia. In quella guerra, la monarchia viennese fu salvata da esiti peggiori dall’azione dell’Inghilterra, che dal 1743 formò una coalizione antifrancese e fece del conflitto una guerra europea, oltre a fornire concreti aiuti finanziari a Vienna. Questo momento di crisi mise comunque in luce le debolezze strutturali dei domini asburgici, e i limiti che l’azione del sovrano vi incontrava. “Era necessario togliere ai “ceti” … il potere esorbitante di rendere esecutivi i decreti del sovrano e creare infine un’amministrazione dipendente dalla sola autorità del principe” (Bérenger, p. 89).
Perciò la prima riforma, già verso la fine della guerra, fu quella che tolse ai ceti territoriale la percezione delle imposte, anche se fu lasciato loro il privilegio di discutere sulla cifra da versare. Convinte dal consigliere Haugwitz, autore della riforma, della necessità di questa per la salvezza stessa della monarchia, le Diete accettarono la grande trasformazione, oltre che gli aumento fiscali che la accompagnavano. Subito dopo, fu creato un Directorium in publicis et cameralibus diviso in sette sezioni, per la direzione degli affari della monarchia: era un primo passo per una più organica unione di Boemia e domini austriaci, mentre gli altri territori conservavano per ora le loro istituzioni. Ed era anche un primo passo importante per la separazione delle funzioni amministrative da quelle giudiziarie: il tradizionale Consiglio che affiancava il sovrano a Vienna fu infatti svuotato di molti poteri, ora ridistribuiti fra Directorium e organi giudiziari secondo precisi criteri di competenza funzionale. Anche i consigli che nei vari territori esprimevano il vertice del governo locale (Consiglio di Boemia, o del Tirolo) furono trasformati in tribunali d’appello o aboliti.
Per Bérenger, dal 1750 in poi si può parlare di “burocrazia austriaca”. In luogo degli organi di ceto, nei territori si insediarono ufficiali pagati e nominati dalla corona, con funzioni esecutive e di controllo della esazione fiscale. In tal modo, tra il 1740 e il 1763 i funzionari raddoppiarono (da 5.000 a 10.000, e poi verso il 1780 circa 20.000). E’ dunque l’origine di quella burocrazia austriaca che sarebbe diventata nell’Ottocento famosa per la sua precisione, fedeltà e per lo zelo professionale dei suoi membri. Agli ufficiali erano ora chieste una serie di conoscenze culturali e di competenze professionali: a tale scopo si aprirono nuove cattedre di “scienze camerali”, un’espressione che indica il sapere pratico e amministrativo che si era formato nei territori tedeschi già dal tardo Seicento, e che aveva dato alla cultura politica prussiana e asburgica uno stile caratteristico e un approccio empirico e razionale alla vita pubblica e ai problemi dello stato.
“Le riforme del 1749 rappresentano una piccola rivoluzione all’interno della monarchia austriaca, perché segnano realmente la nascita di uno Stato austriaco e la conferma dell’esistenza di un regno di Ungheria totalmente autonomo rispetto al blocco austro-boemo” (Bérenger p. 96).
Dopo la Guerra dei Sette anni, il ministro Kaunitz fu artefice di una seconda ondata di riforme. Fortemente indebitata per un conflitto che non aveva ottenuto la restituzione della Slesia, la monarchia vide un nuovo assetto ai vertici: fu creato un Consiglio di Stato come supremo organo di direzione per gli affari austro-boemi, e il Direttorio fu sostituito da sei ministeri collegiali, i cui presidenti lavoravano di concerto col consiglio di Stato, e nei quali lavorava la nuova burocrazia creata negli anni ’40. Questo sistema di governo resterà tale fino alla rivoluzione del 1848.
Anche il settore finanziario fu oggetto di un profondo riordino: fu creata una Corte dei Conti, una Cassa centrale per tutte le entrate e le spese, e un Consiglio per lo sviluppo del commercio e delle manifatture.
Fallì invece il tentativo di togliere alcuni privilegi alla nobiltà ungherese: ma su questo terreno Maria Teresa si muoveva con cautela, avendo ammesso più volte la sua riconoscenza verso la nobiltà ungherese, che nel 1741, accogliendo l’invito a mobilitarsi della sovrana, aveva contribuito non poco alla salvezza dell’intera compagine asburgica.
Riforme dell’arruolamento militare e dell’esercito, miglioramento nelle condizioni delle masse contadine, una politica economica attiva, la cura per l’istruzione scolastica, riforme dell’insegnamento universitario, e per una certa libertà di stampa, che permise la circolazione della cultura dei Lumi anche nei territori della monarchia: queste le iniziative che completano il quadro del “riformismo” teresiano. Al quale vanno ascritti, secondo gli storici, non pochi successi: un aumento della popolazione del 28 %, una notevole espansione delle risorse dello stato (22 milioni nel 1740 – 50 milioni nel 1780), un indebitamento , un indebitamento pubblico inferiore a quello francese e inglese dello stesso periodo, un esercito accresciuto e meglio organizzato.
Maria Teresa è giudicata come una sovrana ‘materna’, influenzata, più che dai Lumi, dal riformismo cattolico di Ludovico Antonio Muratori, che ebbe ampia fortuna nei territori asburgici. Per altri, seppe coltivare “l’arte del possibile”, senza coltivare velleità di trasformazione radicali che potevano alienarle il consenso dei sudditi.
E’ invece questo che accadde con il figlio, Giuseppe II, autentico esempio di “despota illuminato”.
Il dispotismo ‘illuminato’ di Giuseppe II
Associato al governo fin dal 1765, Giuseppe II salì al trono nel 1780, alla morte della madre, determinando una autentica ‘frattura’ nella politica e nello stile di governo. Imbevuto di idee illuministiche, convinto che il re fosse il primo funzionario dello stato, ma anche avverso alle tradizioni e autoritario di carattere, Giuseppe II cercò di trasformare la compagine dei suoi domini in uno stato moderno e centralizzato, ispirandosi più al Leviatano di Hobbes che alla filosofia dei Lumi: libertà era per lui sinonimo di ordine.
Proseguendo l’opera della madre, accentrò ulteriormente la direzione degli affari dello stato in un’unica cancelleria, mentre nelle varie regioni vennero inviati dei governatori a lui fedeli. Stati, ceti, diete persero quasi tutti i poteri, ad eccezione dell’Ungheria che vide invece rafforzata la sua autonomia finanziaria, mentre anche in quel regno furono creati dieci distretti per il governo del territorio. Rifiutata l’incoronazione a Budapest, per dare più rilievo al dominio asburgico Giuseppe fece trasportare a Vienna la corona di Santo Stefano.
Per uniformare e far funzionare meglio la burocrazia, impose il tedesco come lingua ufficiale di tutti i territori : fu una decisione controversa, che in Ungheria e in Galizia (da poco annessa) provocò anche dei tumulti.
Ma l’azione più radicale dell’imperatore fu quella riguardante i rapporti fra Stato e Chiesa. Le sue riforme in questo settore diedero vita ad una serie di provvedimenti che gli storici sintetizzano col termine “giuseppinismo”: il placet regio ad ogni decreto papale prima della sua pubblicazione nei domini asburgici, la soppressione di oltre 400 conventi, le cui proprietà furono usate per finanziare le spese della Chiesa, la creazione di nuove parrocchie e diocesi con scopi di controllo della popolazione, un forte intervento dall’altro sulla vita religiosa, la trasformazione di fatto dei sacerdoti in ‘funzionari dello stato’, la soppressione dei seminari e dei collegi religiosi e anche di pratiche popolari come le processioni e i pellegrinaggi.
Particolarmente pesante fu l’intervento di Giuseppe II sul sistema di istruzione: con l’obiettivo di aumentare la scolarizzazione delle masse contadine, pose sotto stretto controllo gli insegnanti e privò le università di ogni autonomia, finendo così per impoverire l’insegnamento superiore, dove cercò di privilegiare materie tecniche e utili allo stato.
La politica illuminata di Giuseppe si rivelò alla lunga un fallimento, suscitando un’ondata di proteste ovunque, che sfociarono in alcuni casi in autentiche rivoluzioni. In Belgio, le richieste insoddisfatte portarono alla rivendicazione dell’indipendenza (1789), e nonostante la repressione imperiale, con l’arrivo dei francesi i Paesi Bassi furono definitivamente perduti. “Quanto all’Ungheria, era al limite della rivolta aperta: l’aristocrazia si era scatenata e i nobili bruciavano i catasti. Prima di morire Giuseppe II promise di convocare la Dieta” (Bérenger, p. 160). Lo stesso imperatore, prima di morire, volle abrogare alcuni dei provvedimenti più impopolari, mantenendo però l’editto di tolleranza, con cui aveva concesso ai protestanti e agli ortodossi libertà di culto, l’abolizione della servitù della gleba, e le riforme ecclesiastiche. Lui stesso, prima della sua morte (1790), volle scrivere il proprio epitaffio: “Qui riposa un principe le cui intenzioni erano pure, ma che ebbe la sfortuna di vedere fallire i suoi progetti”.
Come afferma Bérenger, questa frase mostra come anche nell’imperatore si stesse facendo strada la convinzione che non si può realizzare la felicità dei sudditi contro la loro volontà. “Non si può cambiare il corso della storia se non si gode del potente sostegno delle élite e/o dell’adesione delle popolazioni, a meno di stabilire una dittatura sanguinosa, cosa che non era certo nelle intenzioni del sovrano” (Bérenger, p. 161). E questo appoggio, effettivamente, gli mancò, o gli venne da gruppi troppo ristretti. Nonostante i suoi tratti moderni, la burocrazia era ancora poco sviluppata, la nobiltà era divisa e avversa a molti dei provvedimenti, il clero decisamente ostile alle sue riforme, la borghesia era ancora un ceto minoritario e debole.
Toccherà a Leopoldo, lasciata la Toscana per assumere la corona imperiale, stabilire alcuni compromessi per continuare a governare il vasto dominio senza ulteriori scossoni: ma Leopoldo morì nel 1792, proprio nel momento in cui si apriva il grande conflitto fra i rivoluzionari francesi e le varie coalizioni europee.
Il riformismo asburgico nella penisola
Anche nella penisola il secondo Settecento è caratterizzato da un nuovo clima culturale. Dopo la prevalenza, nel primo Settecento, delle idee moderate di Ludovico Antonio Muratori (Della pubblica felicità, 1748), per le quali si è parlato di “illuminismo cattolico” ma anche di “tardo umanesimo”, nei decenni successivi si sviluppa un movimento illuministico che ha i suoi centri maggiori a Milano, Napoli e in Toscana, e i cui esponenti più noti furono i fratelli Alessandro e Pietro Verri, Cesare Beccaria, Gaetano Filangieri.
Le proposte di riforma riguardano un po’ tutti i settori della vita politica e sociale, ma grande attenzione fu data al settore penale: dopo la critica di Muratori alla giurisprudenza dei secoli passati (Dei Difetti della Giurisprudenza, 1742), sarà Cesare Beccaria (Dei delitti e delle pene, 1764), a delineare i cardini fondamentali di un sistema pensale moderno, il cui scopo doveva essere non la vendetta pubblica, e dunque l’efferatezza della pena, ma la rieducazione civile del reo. Affermando che il vero potere deterrente della pena non sta nella sua durezza, ma nella sua ‘certezza’, Beccaria indica ai governi un obiettivo che resta ancor oggi da realizzare.
I progetti e le riforme più incisivi furono comunque quelli che andarono ad intaccare il secolare tessuto politico territoriale, in cui convivevano città grandi e piccole, contadi, e altre giurisdizioni minori, per cercare di creare forme di amministrazione locale più moderne e uniformi. Lo storico Anzilotti ha efficacemente parlato, per questo tipo di riforme, di "tramonto dello stato cittadino".
Due sono i principali movimenti riformatori all’interno degli stati italiani: il primo è quello asburgico-lorenese, che investe soprattutto il Milanese e la Toscana, con forme di intervento che in certi casi ricalcano ma in altri ‘anticipano’ gli interventi che la monarchia austriaca stava approntando in altre parti dei suoi domini; l’altro è quello borbonico a Napoli e in Sicilia, dove maggiori saranno le difficoltà e le opposizioni rispetto ai tentativi di riordino del sistema giudiziario e di riforma degli assetti sociali, di stampo ancora ‘feudale’.
Le riforme nel Milanese
L’azione di Maria Teresa d’Austria in Lombardia fu caratterizzata dalla ricerca di una continua collaborazione coi ceti di governo locali, ancora organizzati nelle magistrature tradizionali, e rappresentati nel Senato di Milano.
Uno dei primi obiettivi dell’azione asburgica fu la creazione di un nuovo catasto, strumento indispensabile per procedere a successive riforme fiscali e amministrative. Nel 1749 fu nominata una Giunta con il compito di portare a termine l'opera, e a presiederla fu chiamato il fiorentino Pompeo Neri, convinto sostenitore dell'idea che il sistema fiscale dovesse basarsi su una sola imposta fondiaria, abolendo ogni altra gabella. La riforma fiscale entrò in vigore nel 1760, ma già nel 1755 si era proceduto alla riforma delle amministrazioni municipali, ora elette sulla base del censo e della proprietà e dunque aperte anche ai nuovi ceti borghesi.
Un nuovo impulso alle riforme venne dato dall’arrivo a Milano, in veste di plenipotenziario, del conte di Firmian (1759): sotto la sua guida furono emanati una serie di provvedimenti per limitare le ingerenze della Curia romana sulle diocesi della Lombardia e a sottoporre l'immenso patrimonio ecclesiastico al controllo dello Stato. Nel 1765 fu creata una apposita Giunta per gestire la politica ecclesiastica: in pochi anni questo organismo emanò gli editti sulle manomorte (1767) e sulla censura (1768). Fu soppresso il Tribunale dell'Inquisizione, abolite le immunità ecclesiastiche, il diritto di asilo nei luoghi di culto, e fu riformata l'Università di Pavia, disciplinando in modo nuovo anche gli studi di teologia.
Una terza fase dell’azione di riforma, la più creativa e la più vivace dal punto di vista dell'opinione pubblica e dell'elaborazione teorica, vide coinvolti i fratelli Verri, Cesare Beccaria, Alfonso Longo, e altri riformatori lombardi che si riunivano attorno al periodico "Il Caffé" (1764-1766). Dalle pagine di questi autori uscirono decine di proposte per la trasformazione degli assetti sociali lombardi: come nota di cronaca, ricordiamo che questi intellettuali erano in molti casi figli di famigli aristocratiche, e le loro prese di posizione finirono per configurare anche, all’interno della cultura italiana, un vero e proprio ‘scontro generazionale’, tra i padri che difendevano gli antichi privilegi del patriziato, e i figli che proponevano una sua radicale modifica.
La collaborazione tra riformatori e monarchia asburgica non fu comunque priva di contrasti: pur convinti sostenitori di una politica di intervento attivo del sovrano per correggere abusi e ingiustizie secolari, i riformatori lombardi, anche per la loro provenienza sociale, erano anche strenui difensori dell'autonomia del Ducato nei confronti delle tendenze accentratrici di Vienna. Il contrasto si farà autentica rottura dopo la fase più acuta delle riforme, che vede Giuseppe II impegnato ad estendere al Milanese riforme decise e sperimentate a Vienna, con l'obiettivo di fare dell'antico Ducato una vera e propria provincia imperiale.
Accanto ad una vasta azione in favore dell'alfabetizzazione dei ceti popolari e della riforma del sistema scolastico, Giuseppe II soppresse il Foro ecclesiastico e riformò il clero secondo un modello di controllo statale sulla Chiesa già sperimentato in Austria ("giuseppinismo"). Nel 1781 fu pubblicata anche in Lombardia la legge sulla tolleranza religiosa.
Importanti e fortemente avversate dal patriziato milanese le riforme attuate in campo amministrativo: abolizione di tutte le antiche istituzioni municipali, che avevano conservato il potere effettivo nelle mani della nobiltà lombarda, e creazione di un Consiglio di Governo articolato in Dipartimenti, mentre il territorio fu diviso in 8 circoscrizioni provinciali a capo di ciascuna delle quali fu posto un intendente, con funzioni di collegamento tra Consiglio di Governo e amministrazione periferica, affidata alle Congregazioni municipali.
Importante anche la riforma del settore giudiziario, e l'avvio di un'opera di codificazione che non giungerà a produrre un codice autonomo, determinando l'introduzione in Lombardia dei codici di procedura civile e penale austriaci.
Sostenitore di una concezione del potere regio di tipo statalistico che nulla concedeva al tradizionale potere dei "corpi intermedi", Giuseppe II si alienò dunque la fiducia e la collaborazione dei ceti locali. Si spezzò quindi il rapporto di fiducia tra ceti lombardi e potere imperiale che aveva caratterizzato gli anni di Maria Teresa, e che era stato decisivo per il decollo di molte riforme. Proprio per questo, si formerà negli anni una sorta di ‘mito’ del “buon governo” teresiano, che sarà contrapposto al dispotismo di Giuseppe II.
Le riforme lorenesi in Toscana.
L'arrivo in Toscana del gruppo dirigente lorenese incaricato da Francesco Stefano di Lorena del governo dello stato, determina l'avvio di una stagione politica di riforme tra le più significative del Settecento europeo. Accanto ad un'azione politica anticuriale e giurisdizionalistica, tra i primi obiettivi della nuova dirigenza vi fu quello di incentivare il settore economico e commerciale con una serie nutrita di provvedimenti: bonifica della Maremma, liberalizzazione del commercio dei grani, diminuzione dei vincoli sulla terra.
Durante il regno di Pietro Leopoldo (1765-1790) seguì l'abolizione della Ferma privata, la gestione statale delle imposte, e l'abolizione dell'Annona.
Anche qui, alcuni dei provvedimenti più significativi riguardarono l'amministrazione periferica dello stato: importanti competenze furono affidate all'autogoverno locale. Recenti studi hanno mostrato come il significato complessivo di questa operazione sia in parte opposto a quello della riforma comunitativa lombarda: sulla scia di una cultura riformatrice di stampo liberistico, e in accordo con le idee di un sovrano educato nelle idee dei philosophes e dell'Illuminismo austriaco, si cercava qui di restituire alle comunità locali un'autonomia che il regime Mediceo aveva in parte limitato a favore di organi centrali (ad es. i Nove Conservatori del Contado e della Giurisdizione di Firenze creati nel 1560, che accorpavano a loro volta in un unico organo precedenti magistrature repubblicane preposte al "controllo comunitativo").
Assai importante, anche se mai realizzato, il progetto di “costituzione” che il sovrano affida da ultimo a Francesco Maria Gianni: completato nel 1782, prevedeva una monarchia costituzionale con un'assemblea nazionale elettiva a cui era affidato parte del potere legislativo, e delineava una prima separazione dei poteri, e la determinazione di una serie di vincoli all'autorità del sovrano. Il principe restava comunque il vero motore dello stato e della costituzione, e la natura della rappresentanza era ancora in gran parte di stampo cetuale e ‘corporativo’. Scrive il Gianni che "il grande scopo della nuova instituzione consisteva nel far pervenire dalla nazione al trono la cognizione dei bisogni delle piccole comunità, delle maggiori provincie e dell'universale dello stato", perché "un principe che voglia ben governare non ha maggior bisogno né oggetto più importante che quello di conoscere dove il popolo sente un male e dove chiede un bene". Il sistema rappresentativo è perciò un modo per far conoscere al sovrano i bisogni del suo popolo, verso il quale il Gianni manifesta invece diffidenza e giudizio pessimistico: consiglia infatti il sovrano di anticipare le riforme più importanti, nel timore che dopo l'entrata in funzione delle assemblee rappresentative i tempi per le innovazioni potessero allungarsi di molto. Al fondo di questo progetto - l'unico progetto "costituzionale" del riformismo nella penisola - non stanno ancora le libertà fondamentali dell'individuo, ma la "libertà dei privati", ossia la tutela della proprietà e dell'iniziativa economica, assicurata anche, dall'alto, da un'amministrazione centrale robusta ed efficiente, e da una ampia serie di misure di tutela dell'ordine pubblico.
Ma l'azione di riforma toscana darà i suoi frutti più maturi, a partire dal 1771, nel settore della giustizia. La Riforma della legislazione criminale toscana del 1776 (nota appunto con il nome di "Leopoldina"), risente in modo marcato delle idee dell'opera di Beccaria, la cui prima edizione era uscita nel 1764 proprio a Livorno. Quest’opera è concordemente considerata il primo codice penale moderno in Italia: sono infatti abolite la tortura giudiziaria, la pena di morte, la pena della mutilazione delle membra, la confisca dei beni, e il reato di "lesa maestà", pene e reati che erano stati i cardini dei sistemi repressivi d'antico regime.
Nel complesso, l'esperienza riformistica lombarda e toscana muovono da avanzate posizioni teoriche e filosofiche, fatte proprie dai sovrani e dai loro più stretti collaboratori nell'ambito del cosiddetto "dispotismo illuminato", tipico appunto della monarchia asburgica e di quella prussiana.
Anche l'azione degli Austriaci nel Regno di Napoli negli anni tra il 1707 e il 1734, e in quello di Sicilia tra il 1720 e il 1734, seguì sostanzialmente le stesse direttive: riordino dell'apparato fiscale, in sintonia con le motivazioni di ordine economico e finanziario sottostanti alle prime riforme asburgiche; politica giurisdizionalistica, tesa a limitare al massimo il potere della gerarchia ecclesiastica. Fallimentare, in Sicilia, l'azione austriaca per rinvigorire e ridare slancio ai processi economici, e per sostituire al blocco di potere costituito da baroni ed ecclesiastici un ceto di governo nuovo, fatto di funzionari, mercanti e produttori. Fallì insomma il tentativo di dare all'isola un tipo di governo “interventista”, del tutto diverso dal precedente modello spagnolo.
Il riformismo borbonico.
Assai robusta fu all'inizio l'azione di riforma intrapresa da Carlo di Borbone a partire dal 1734. Assieme al sovrano giunse a Napoli un gruppo di tecnici e funzionari spagnoli e toscani, tra i quali la figura di maggior spicco fu quella di Bernardo Tanucci, che diventerà uno dei massimi esponenti del riformismo meridionale, e che nella veste di segretario di giustizia si dimostrò subito un rigoroso interprete dell'orientamento anticuriale della dinastia borbonica.
Anche il riformismo borbonico conobbe fasi ben diverse.
Nella prima, i tradizionali equilibri del Regno non furono sconvolti, e il ceto dirigente locale appoggiò il nuovo corso, avendo conservato le antiche rappresentanze e tutti i precedenti istituti, ad esclusione del Consiglio del Collaterale, ora sostituito dal Consiglio di Stato.
Sulla scia della lezione di Giannone, e più tardi di Antonio Genovesi, i riformatori napoletani tendevano a modernizzare gli apparati del Regno, e in particolare miravano ad alcuni obiettivi essenziali per contenere lo strapotere baronale e curiale: sradicamento della corruzione dei tribunali; snellimento della giustizia e delle leggi; efficienza nell'amministrazione pubblica; una maggiore equità fiscale; il rilancio delle attività produttive e del commercio; il contenimento del potere della Chiesa.
Rispetto a questi obiettivi di fondo, l'azione dei riformatori conobbe nella prima fase ripiegamenti ed anche sconfitte, per poi riprendere più vigorosa verso la metà del secolo. A fare ostacolo alle riforme era qui non il singolo centro di pressione, o un ceto in particolare, "quanto piuttosto la società meridionale nel suo complesso, così come si era aggregata nei secoli precedenti". Il vero ostacolo stava insomma "in quell'irrisolto connubio tra feudalesimo e Stato moderno che caratterizzava i rapporti sociali nel Sud" (D. Carpanetto - G. Ricuperati, p. 226).
Lo scontro più acceso fu quello con la Chiesa. La volontà riformatrice fu in questo caso in sintonia con l'orientamento anticuriale che aveva caratterizzato la cultura napoletana del primo ventennio del Settecento, e che aveva individuato nelle ingerenze, nei privilegi e nelle immunità ecclesiastiche uno dei mali maggiori del Regno. Tre erano le immunità di cui godeva la Chiesa: locale, personale e reale. Era la prima ad essere più avversata dai riformatori: grazie ad essa, infatti, chiunque si rifugiasse in un luogo sacro poteva sottrarsi alla giustizia civile, ed essere giudicato dai tribunali ecclesiastici. L'immunità “locale” diventava in tal modo una vera limitazione al fondamento stesso del potere regio, appunto la giustizia. Chiese e luoghi sacri erano diventati veri rifugi di banditi e delinquenti: si calcola che nel 1740 i rifugiati fossero almeno 20.000. L'immunità “personale” sottraeva alla giurisdizione civile tutti gli ecclesiastici, mentre quella “reale”, che assicurava a tutti i loro beni l'esenzione fiscale, era da sempre fonte di privilegi e abusi, come ad esempio l’uso di intestare tutto il patrimonio familiare ad un figlio chierico, salvo poi precisare con scritture private la ripartizione dello stesso tra gli altri membri della famiglia.
Questa posizione della Chiesa era stata già oggetto di attacchi e tentativi di riforme sotto il dominio austriaco: con i Borbone si avviò una politica di demarcazione delle reciproche competenza tra Stato e Chiesa che trovò una conferma nel concordato del 1741 che disciplinava i rapporti tra i due ordinamenti sotto il profilo economico, giuridico e fiscale. A questa soluzione contribuì l'azione dell'abate Celestino Galiani, altra importante figura del riformismo meridionale, e la personalità di Benedetto XIV (papa dal 1740), pontefice conciliante, che mirava ad una soluzione dei conflitti con gli Stati cattolici. Effetto di questo accordo fu l'abolizione a Napoli, nel 1746, del Tribunale del Sant'Uffizio.
Assai più arduo fu l'obiettivo di ridimensionare gli enormi poteri economici dei feudatari, che dominavano pressoché incontrastati la vita delle comunità locali e delle campagne. A partire dall'esigenza di arginare la dilagante criminalità, furono prese alcune misure di contenimento e di controllo delle giurisdizioni feudali (1738), avviando nel contempo una revisione a scopi fiscali dei feudi, degli uffici e delle rendite feudali (1734-1735).
Il censimento degli uffici preparò il provvedimento del 1735, con cui si escludeva dalla venalità delle cariche il settore giudiziario. Come il successivo provvedimento del 1738 sulla giustizia baronale, questa decisione mirava a spezzare l'intreccio tra mondo feudale e mondo forense che si era creato nei secoli del dominio spagnolo. Come ha scritto Venturi, avvocati e magistrati erano piuttosto i "giustificatori" dei soprusi baronali, che i loro "giustizieri".
Nel settore fiscale, si avviò una politica di riacquisto degli "arrendamenti", ossia di quei complessi di diritti statali (dogane, gabelle, monopoli ecc.) ceduti ai feudatari, e che di fatto costituivano uno strumento di grande peso politico nelle loro mani. Nel 1739 fu istituito il Supremo Magistrato del Commercio, con lo scopo di favorire la circolazione delle merci e incentivare l'esportazione dei prodotti nazionali.
Nel 1740 un editto concedeva agli ebrei di abitare e di esercitare attività economiche nel regno, e l'anno dopo iniziava l'opera di revisione del catasto, che in parte era la conseguenza dell'accordo con Roma dello stesso anno: il concordato riconosceva infatti allo stato il diritto di censire e tassare le proprietà ecclesiastiche, e il catasto era l'indispensabile strumento di questa operazione. Ma anche per le altre proprietà fondiarie del Regno la stima era ferma al 1669: attorno al catasto si addensarono perciò attese di giustizia fiscale e di sgravio dei ceti più colpiti.
L'operazione non fu però coronata da successo, e lo stesso accadde per le iniziative di politica economica già considerate, che caddero sotto i colpi di difficoltà economiche e politiche. Negli anni Quaranta finirono per essere riviste tutte le scelte compiute in questo settore nei primi anni di regno di Carlo di Borbone: fu annullata la legge del 1738 sulla giurisdizione feudale, fu bloccato il Supremo Magistrato del Commercio, fu tolto l'editto a favore degli ebrei.
Non sortirono alcun risultato neppure tentativi avviati dal sovrano per una revisione delle fonti del diritto, che doveva portare ad un codice per l'intero regno. A causare l'insuccesso della prima ondata di riforme a Napoli fu l'ostilità del blocco di potere feudale-ecclesiastico, cui si aggiunse, nel momento della guerra di successione austriaca, la forza dell'opposizione interna filo-austriaca.
Sul piano politico, occorre ricordare che nel 1759 Carlo di Borbone lasciò Napoli per il trono spagnolo, e in attesa che il figlio Ferdinando uscisse dalla minore età affidò il governo del Regno ad una Reggenza, di fatto guidata da Bernardo Tanucci, ma animata dall'apporto di molti intellettuali e riformatori di indirizzo scopertamente anticuriale. Frutto di questo nuovo approccio ai problemi della società meridionale fu, nel 1762, il provvedimento che imponeva ad ecclesiastici e titolari di benefici di versare un terzo delle loro rendite a favore dei poveri. Un provvedimento assai radicale, che dovette però essere ritirato l'anno dopo a causa delle violentissime opposizioni che aveva suscitato.
La carestia che tornò ad attanagliare il Sud nel 1764-1765 può essere considerata un vero spartiacque nella storia del riformismo napoletano, e non solo di questo. Tornarono nelle strade fame, morti ed epidemie: riformatori e intellettuali videro in questa drammatica situazione l'emblema dei tanti problemi e delle varie strozzature del sistema produttivo, che le prime riforme non avevano minimamente intaccato. La carestia funzionò insomma da acceleratore della presa di coscienza del tanto che restava ancora da fare, e dei problemi irrisolti della società meridionale: baronaggio, rapporti di produzione feudali nelle campagne, strapotere delle gerarchie ecclesiastiche, ingiustificati privilegi di ceti e corpi sociali.
Emersero anche non poche contraddizioni nella gestione politica della Reggenza, impigliata in un complesso gioco di contrappesi che imbrigliava la volontà di cambiamento. Ma soprattutto, la crisi economica del 1764-65 spinse gli intellettuali ad un nuovo interesse per le realtà periferiche del regno: l'opera di Giuseppe Maria Galanti, Nuova descrizione storica e geografica delle Sicilie è un'autentica inchiesta sulla realtà del Mezzogiorno, e sui mali causati dal potere baronale. L'obiettivo del movimento riformatore finì per spostarsi dal vertice dello Stato all'amministrazione periferica, alle realtà locali, ai rapporti di produzione. Fu proprio in due regioni lontane da Napoli, la Calabria e la Sicilia, che si sperimentò un disegno di divisione e di vendita delle terre ecclesiastiche di impronta decisamente radicale.
A proposito della debolezza del riformismo borbonico, gli storici hanno rilevato lo scollamento tra le riflessioni anche originali degli illuministi meridionali, e un governo cui mancavano solidi appoggi tra le forze sociali del paese. Da una parte vi erano insomma enormi potenzialità intellettuali e grandi capacità di progetto; dall'altra vi era però un governo incapace di calare dall'alto le riforme necessarie per far uscire il Mezzogiorno dai suoi mali secolari. Mancò in definitiva quel raccordo tra governanti e riformatori, che altrove trovò invece canali efficaci per attuarsi (Accademie, circoli culturali, giornali ecc.).
Ma la cultura delle riforme proseguì nel Sud per tutto il secolo, dando i suoi frutti più maturi quando altrove il movimento riformatore già mostrava segni di esaurimento: ricordiamo tra le altre la figura di Gaetano Filangieri e la sua Scienza della legislazione (1780), una delle opere più significative dell'Illuminismo europeo. Veicolo di diffusione delle idee illuministiche fu nel regno di Napoli la Massoneria, che preparò il terreno al giacobinismo degli anni Novanta.
La questione culturale si propose anche al governo dopo la decisione di sciogliere la Compagnia di Gesù: si apriva infatti, con la cessazione del ruolo da sempre svolto dai Gesuiti nel campo dell'istruzione, la possibilità per il governo di incidere in modo nuovo anche in questo fondamentale settore della vita civile. Ma il governo non fu abbastanza innovatore, riconfermando per oltre un decennio l'impostazione degli studi che era stata dei Gesuiti, e cogliendo quindi troppo tardi e in forma assai debole le innovative proposte avanzate in proposito dal Genovesi.
In Sicilia fu chiuso il tribunale dell'Inquisizione che era stato uno degli strumenti fondamentali del dominio baronale in epoca spagnola. Ma assai più radicale fu l'azione di Domenico Caracciolo durante il suo viceregno (1781-1785), che seguiva un periodo di crisi, la cui punta massima era stata la rivolta di Palermo nel 1773 e la cacciata del viceré Fogliani. Abituato a frequentare gli ambienti europei più aperti all'Illuminismo, il Caracciolo scelse subito una linea politica di scontro con il potere baronale, pur in una situazione di isolamento e con scarsissimi appoggi tra le forze sociali dell'isola. Anche la sua azione non sortì dunque alcun effetto concreto.
Osservazioni finali
Possiamo in sintesi dire che le esperienze riformistiche attuate nella penisola sono di diversa natura e perseguono finalità diverse. Al fondo di queste esperienze sta una diversa combinazione tra critica al vecchio regime sulla scia di un'impostazione individualistica e potenziamento dell'azione dello stato (principio statalista). Seguendo una proposta di Allegretti possiamo delineare questa tipologia degli interventi riformatori:
1. riforme economico-civili > mirano al cambiamento delle condizioni sociali ed economiche, così da favorire la libera circolazione della terra, e la formazione di un nuovo ceto imprenditoriale e agrario. Tra queste, importanti furono l'abolizione del fedecommesso, e la lotta contro la feudalità. Su quest’ultimo punto, la soluzione più avanzata fu quella proposta a Napoli, che prevedeva la divisione dei beni sottratti alla nobiltà e al clero in tanti piccoli lotti, da rivendere poi ai contadini. Ma fu anche questa una riforma fallita, e la mancata assegnazione delle terre demaniali ai contadini continuerà ad essere uno dei problemi insoluti del Sud. Contemporaneamente, l'abolizione degli usi civici privava i contadini delle poche risorse su cui avevano contato nei secoli per il loro sostentamento.
Sempre in questo gruppo vanno annoverate l'abolizione dei privilegi cittadini in materia annonaria, lo scioglimento delle corporazione, le riforme fiscali, miranti a ridistribuire i carichi tra città e campagna.
2. riforme amministrative e giudiziarie > a ispirare le riforme amministrative è in primo luogo l'intento di dar vita ad un sistema di ordinamenti locali tendenti a favorire la proprietà fondiaria e il ceto dei proprietari, che sono i veri soggetti attivi del reggimento delle comunità locali. Occorre ricordare che le riforme delle comunità sono sempre attuate onde rendere effettiva l'introduzione dei nuovi catasti, con scopi dunque di carattere finanziario.
Ricordiamo tra i provvedimenti di riforma più significativi:
a) gli editti di Carlo Emanuele III per il "buon reggimento delle comunità" del 1733 e 1738;
b) la riforma teresiana per lo stato di Milano del 1755;
c) il "regolamento dei pubblici" di Vittorio Amedeo III del 1775;
d) i regolamenti per le comunità toscane del 1773-1777.
Al fondo di tutti questi regolamenti sta l'idea che a governare le comunità locali doveva essere la classe detentrice della terra, formata in questo periodo dalla nobiltà ma anche dai gruppi borghesi che lungo il Settecento si era irrobustiti grazie alle prime riforme e alla ridistribuzione delle terre dopo i provvedimenti contro la proprietà ecclesiastica e feudale. In tal modo, la proprietà diventa il fondamento dei diritti di partecipazione alla vita politica locale, in base al presupposto che solo i proprietari siano veramente co-interessati al ‘buon governo” della comunità locale.
Si può dire che le riforme degli ordinamenti locali consentono una maggiore partecipazione al governo della comunità dal punto di vista soggettivo; ma al tempo stesso riducono il ruolo degli ordinamenti locali dal punto di vista oggettivo, trasferendo allo stato una serie di attività prima svolte dalle comunità.
Anche il controllo statale sulle comunità, proprio per il rilievo che queste assumono ora nel garantire le entrate finanziarie dello stato, aumenta considerevolmente. In Toscana gli antichi Conservatori del Contado sono nel 1769 sostituiti con una "Camera delle comunità"; in Lombardia le comunità sono affidate ai "cancellieri del censo"; in Piemonte sono rafforzati prerogative e compiti di controllo degli Intendenti, e si introduce la figura del "segretario del pubblico", rappresentante del governo nelle comunità.
3. riforme ecclesiastiche e culturali > si tratta di un insieme di misure tendenti a "laicizzare" lo stato, muovendo dal presupposto che il potere del sovrano non deve essere limitato da altri poteri, nobiliari, corporativi o ecclesiastici che fossero. Perciò le restrizioni dei poteri fin lì goduti dalla Chiesa e dal clero attuate dai sovrani illuminati, mirano in primo luogo a rendere effettiva e valida per tutti i sudditi l'autorità statale, estendendola a quelle autentiche "zone franche" fin lì costituite dai privilegi e dalle immunità ecclesiastiche. Tra le misure più importanti vanno ricordate l'assoggettamento dei beni della Chiesa all'imposizione fiscale; il ridimensionamento delle immunità del clero; la pretesa statale di ingerirsi nelle nomine ecclesiastiche e nel processo di formazione del clero; la soppressione di ordini monastici e religiosi; l'abolizione dell'Inquisizione.
Ma il potere degli enti ecclesiastici risulta indirettamente ridimensionato anche dalla crescente assunzione da parte dello stato di servizi e settori della vita civile fin lì controllati dalla Chiesa: ospedali, opere pie, assistenza, sanità, istruzione.
Per quanto attiene alle riforme culturali, diretta espressione delle idee più originali dell'Illuminismo, vanno ricordate l'abolizione della censura, la creazione di Accademie e la riforma degli studi universitari, le riforme scolastiche, la creazione di nuove cattedre. Permane peraltro anche nelle coscienze più critiche l'idea che l'istruzione debba rispondere alle esigenze differenziate di una società composita, ancora legata all'idea di ceto. Lo stesso Filangieri scrive che l'educazione "dev'essere universale, ma non uniforme; pubblica, ma non comune", e che ciascuno deve essere educato "secondo le sue circostanze e la sua destinazione".
L'esperienza delle riforme conosce in Italia alcuni limiti di fondo che si possono così sintetizzare:
- frammentazione delle esperienze di riforma, che dipendono più dall'influenza di modelli stranieri che da un'attenta valutazione dei dati di partenza relativi ai singoli Stati della penisola;
- debolezza degli esiti delle riforme, rimessi in discussione già all'indomani della loro realizzazione, e spesso azzerati dalle reazioni dei ceti privilegiati toccati dalle riforme;
- assenza di progetti "politici", oltre che amministrativi e giurisdizionali, in grado di produrre mutamenti importanti nella dinamica delle classi sociali e nei fattori di produzione; come si è visto per il caso toscano - che in qualche modo è forse il più avanzato -, le riforme favoriscono l'ascesa di nuovi ceti proprietari e imprenditoriali, ma non incidono a fondo nella struttura sociale.
Si può perciò parlare per il Settecento italiano di un "riformismo civile-amministrativo", che ha come primo scopo quello di consentire il pieno esplicarsi dell'azione dello stato tramite il contenimento o l'azzeramento dei privilegi e del peso politico dei ceti nobiliari. A proposito del caso lombardo, si è appunto scritto che le riforme teresiane e giuseppine rappresentano "il passaggio dalla società per ceti alla statualità moderna".
Ricordiamo infine che il movimento riformatore ebbe un’ampia diffusione in tutta Europa, interessando anche la Spagna e il Portogallo, i paesi scandinavi, e gli stati minori (Venezia, Ginevra, Genova) con obiettivi ed esiti distinti a seconda dei contesti. Ovviamente, non è qui possibile accennare a tutte le vicende specifiche, che possono essere oggetto dei vostri approfondimenti, e che sono comunque dettagliatamente analizzate nei vari volumi dell’opera Settecento riformatore di Franco Venturi, lavoro fondamentale su questo secolo e sulle sue dinamiche e trasformazioni politiche e sociali.
Delle riforme prussiane ci occuperemo invece più avanti, parlando della formazione della burocrazia moderna.
Letture :
D. CARPANETTO - G. RICUPERATI, L'Italia del Settecento. Crisi, trasformazioni, lumi, Laterza 1986.
G. GALASSO, Potere e istituzioni in Italia, Einaudi, Torino 1974 (e altre edizioni).
W. MARSHALL, Pietro il Grande e la Russia del suo tempo, Il Mulino, Bologna, 1999.
A.M. RAO, Il Regno di Napoli nel Settecento, Guida, Napoli 1979.
Storia della società italiana, Teti editore > volume relativo al periodo
B. SORDI, L’amministrazione illuminata. Riforma delle comunità e progetti di costituzione nella Toscana leopoldina, Giuffré, Milano 1991.
V.L. TAPIE’, L’Europa di Maria Teresa, Mondatori, Milano 1982.
F. VENTURI, Settecento riformatore, Einaudi, Torino, 1969, voll. I, II, e V.
12. La nascita degli Stati Uniti e la Costituzione americana
Premessa
Mentre in Europa i sovrani tentavano di dare maggiore coerenza ed efficienza agli apparati statali, per farne docili strumenti del controllo e della promozione delle società e delle economie, ma senza intaccarne i principi di fondo, dall’altra parte dell’Oceano Atlantico maturavano eventi destinati a dare una svolta alla concezione del potere e dello stato, e a tradurre in pratica molte delle richieste di limitazione e divisione del potere da tempo avanzate da filosofi, opposizioni e politici.
I contrasti con la madrepatria.
Occorre partire da un aspetto spesso trascurato: le colonie non rappresentavano, nel Settecento, una realtà politica unita e omogenea, ma piuttosto un mosaico di ordinamenti diversi, spesso rivali tra di loro per questioni economiche, di confine, di identità religiosa (i puritani del New England, ad es., nutrivano un profondo disprezzo per i coloni del Sud). Più che di una realtà americana, occorre parlare, per il periodo prima del 1750, di una realtà imperiale: fondamentali restano, nel bene e nel male, i legami con l'Inghilterra, dalla quale derivano possibilità di commercio, idee, mode, stili di vita: lo stile di vita americano costituiva, come lo ha definito Bonazzi, una sorta di "agire mimetico", che rappresentava un punto di riferimento psicologico fondamentale per non sentirsi sradicati. Da qui la partecipazione costante dei coloni per gli avvenimenti della madrepatria, e la fedeltà indiscussa alla Corona.
Allo scoppio della Rivoluzione americana, l'opinione pubblica europea era convinta che sarebbe stato impossibile uno stato unitario in America, date le profonde differenze tra colonia e colonia, sia geografiche e climatiche, sia religiose, sia etniche. Sulla scia di Montesquieu, si riteneva infatti che le "nazioni-continente" fossero per loro natura portate al dispotismo, come mostrava l’esempio degli imperi asiatici.
Possiamo distinguere tre tipi di colonie, corrispondenti a tre fasce territoriali ben precise:
Alla luce di queste considerazioni, possiamo dire che il processo di unificazione fu lento e veloce al tempo stesso: lento se consideriamo che tra le prime proteste per lo Stamp Act e la Rivoluzione passano nove anni, durante i quali l'idea dell'indipendenza non affiora se non alla fine; veloce se pensiamo al tempo che passa tra la convocazione del Primo Congresso Continentale (settembre 1774) e lo scoppio delle ostilità nella primavera successiva. Ancora per un anno comunque, gli insorti si batterono contro le vessazioni del Parlamento, mantenendo intatta la fedeltà al re, da loro invocato come "garante" dei diritti coloniali lesi dalla legislazione parlamentare.
Come giungono allora gli americani alla consapevolezza o alla volontà di essere una sola nazione ? Secondo molti storici già la guerra contro la Francia aveva dato ai coloni la coscienza degli interessi comuni in gioco, anche sulla scia del "millenarismo" che aveva percorso la vita religiosa americana a seguito del "Grande Risveglio", convincendo molti che l'America avrebbe realizzato una società perfetta e giusta. Ma l'elemento catalizzatore fu probabilmente la protesta contro lo Stamp Act organizzata dai Sons of Liberty, comitati informali sorti per coordinare le iniziative nelle varie colonie, e lo Stamp Act Congress dell'ottobre 1764 che unì per la prima volta la maggioranza delle colonie in un'azione comune di opposizione alla madrepatria. Da allora il senso di identità degli americani non fece che crescere, fino agli sbocchi del 1774 e successivi.
A monte di questa presa di coscienza sta comunque la grande espansione demografica ed economica avviatasi con gli anni '30 del secolo, che causò le prime frizioni con la madrepatria e la prima presa di coscienza delle limitazioni allo sviluppo americano derivanti dalla politica mercantilistica di Londra: le stesse norme che avevano fino ad allora protetto le colonie parevano ora impedirne l'ulteriore espansione.
Intanto, nel Settecento i ceti dirigenti coloniali consolidarono la loro guida nelle rispettive società locali attraverso il ruolo delle "Camere basse", di cui si servivano per controllare l'azione dei governatori, e l’operato delle "Camere alte", i Consigli non elettivi delle colonie. Ma la capacità rappresentativa di questi gruppi dirigenti era messa in discussione proprio dalla mancanza di una autonomia economica: di qui la loro crescente attenzione nei confronti dei provvedimenti inglesi verso le colonie. Sono queste élite a maturare col tempo irritazione e delusione per l’atteggiamento del Parlamento britannico, e ad avvertire con chiarezza: “la discrepanza fra la loro crescente capacità di guidare la situazione interna e la frustrante posizione subordinata nell'impero" (Bonazzi, p. 37).
Va ricordato che la presenza nelle colonie di un ceto medio diffuso, rendeva le relazioni fra ceti dirigenti e popolazione assai diversa che sul continente europeo. I ceti superiori non esitavano a rendere pubblici dibattiti e problemi, e la popolazione era abituata a mettere continuamente in discussione ricchezza e autorità: in tal modo, il tasso di partecipazione alla vita politica era assai più alto che in Europa, e la ricerca di un compromesso tra gruppi e posizioni diverse era normale. Era una struttura socio-economica non certo egualitaria, ma flessibile e aperta: e fu proprio questo originale assetto sociale a rendere possibile l'unione di gruppi economici, sociali e religiosi assai diversi durante tutto il periodo della rivoluzione.
Ma per portare alla luce tensioni e aspirazioni latenti, si dovette arrivare alla svolta della politica coloniale inglese del 1763, quando, dopo la vittoria nella guerra dei Sette anni, l’Inghilterra si affermò come la prima potenza marittima. Dopo quella affermazione, la dimensione ormai ‘imperiale’ dei possedimenti inglesi impose una riorganizzazione dell'apparato amministrativo coloniale, allo scopo soprattutto di ripagare il forte debito pubblico accumulato durante gli ultimi conflitti.
Il pacchetto di provvedimenti che si riversò sulle colonie prese effettivamente l’aspetto di una vera offensiva commerciale. Senza ricordarli tutti, citiamo però lo Sugar Act del 1764, e lo Stamp Act dell’anno dopo, perché furono i provvedimenti che suscitarono una più immediata e decisa reazione. Nel 1765 Londra decise l'acquartieramento delle truppe in case private a spese dei coloni, e l’anno successivo il ministro Townshend impose dei dazi su vari articoli di importazione, provocando i noti tumulti di Boston del 1770. Nel dicembre 1773 fu emanto il Tea Act, autentico punto di non ritorno nel conflitto con la madrepatria.
Di fronte a questa ondata di provvedimenti, l'élite coloniale si appellò dapprima al principio costituzionale inglese "no taxation without representation" (traduzione del principio giuridico medievale “quod omnes tangit…”, che abbiamo già visto), secondo il quale il Parlamento non aveva la facoltà di imporre tasse ai coloni in assenza di rappresentanti americani a Londra. Questa obiezione fu avanzata soprattutto a proposito dello Stamp Act, che imponeva un’imposta di bollo su tutti i documenti della vita interna delle colonie (contratti, atti notarili ecc.). I coloni distinguevano infatti tra imposte esterne, che, in quanto destinate a regolare l’intero commercio imperiale, il Parlamento aveva il diritto di stabilire, e imposte interne, riguardanti la vita interna delle colonie, che solo le assemblee legislative locali potevano deliberare. Ma la distinzione venne respinta dal Parlamento inglese col Declaratory Act del 1766. Anche la proposta di una rappresentanza coloniale al Parlamento cadde ben presto per le ovvie difficoltà di trasporto e comunicazione con la madrepatria.
2. Le leggi coercitive e il Congresso Continentale.
Il passo decisivo per la rottura tra colonie e madrepatria furono gli Intolerable Acts approvati il 20 maggio 1774, emanati dopo il Tea Party, la sollevazione con cui, nel 1773, i coloni avevano distrutto un carico di tè della Compagnia delle Indie, alla quale il Tea Act aveva assegnato il monopolio della vendita per le colonie. Tra le misure comprese nel provvedimento ricordiamo il Massachusetts Government Act, che annullava la carta della colonia affidando tutti i poteri ai funzionari inglesi; e l'Administration of Justice Act, che toglieva potere ai giudici americani passandolo ai tribunali inglesi.
Fu allora che James Wilson e Thomas Jefferson dichiararono che i coloni non erano più vincolati alle decisioni inglesi, perché non rappresentati al Parlamento, e che l'unica rappresentanza politica dei coloni erano le loro assemblee. Con ciò gli americani andarono elaborando un'immagine federativa dell'impero, qualcosa di simile al commonwealth del nostro secolo: un insieme di società inglesi sparse per il mondo, ciascuna con la propria rappresentanza politica autonoma, e unite dal vincolo di fedeltà al re. Il rifiuto inglese di fronte a questa ipotesi fece scattare un mutamento di tono nello scontro: da quel momento gli americani abbandonarono le motivazioni giuridiche in favore dell'appello ai diritti naturali e al contratto sociale, che saranno poi al centro della Dichiarazione d'Indipendenza.
Questi argomenti consentivano di fare il salto dalla posizione subordinata delle colonie all'affermazione di diritti naturali dell'uomo che legittimavano, se lesi, il diritto alla ribellione. La convocazione del primo Congresso continentale (1774) fu il primo atto della rivoluzione. Il passo successivo, che maturò per tutto il 1775, fu quello di convincersi che il governo inglese aveva effettivamente leso quei diritti naturali attraverso le imposizioni fiscali degli anni precedenti. La prima esplicita affermazione di questa idea si ha con il proclama dell'Assemblea del Massachusetts del 23 gennaio 1776 per giustificare la resistenza armata; l'affermazione più radicale dello stesso principio è quella di Thomas Paine in Common sense, dello stesso anno, in cui si accusava il re inglese di tirannia, e si legittimava la ribellione come un autentico dovere.
Dopo i primi scontri armati (1775), nel biennio 1774-76, la rivoluzione matura soprattutto nelle singole colonie: cacciati i governatori inglesi, tutti i poteri furono affidati alle assemblee locali, anche se il quadro si presenta diverso da colonia a colonia. Le colonie restarono per tutto il periodo rivoluzionario il centro di ogni iniziativa politica: nonostante i Comitati di corrispondenza e le lettere circolari che tenevano uniti i fili delle relazioni reciproche, le diversità religiose, economiche e politiche tra le colonie restarono immutate, dettando così la forma del futuro assetto costituzionale. Il Congresso Continentale funzionò quindi più come una riunione permanente di ambasciatori di stati sovrani che come assemblea politica unitaria: ogni decisione doveva, prima di essere ratificata, passare al vaglio delle singole assemblee statali.
A guerra già iniziata, fu il secondo Congresso continentale a votare la celebre Dichiarazione di Indipendenza (4 luglio 1776), opera in primo luogo di Thomas Jefferson. In questo celebre testo appaiono chiari riferimenti alle idee dei "Lumi", dai diritti naturali degli uomini alla ricerca della felicità come uno di questi diritti, fino al diritto di ribellione se il governo non adempie ai compiti per cui è stato posto. Il richiamo alla dottrina del contratto sociale è chiaro, ma quel richiamo non serve a fondare un diverso governo in Nord-America, quanto a difendere il governo americano da un nemico esterno, che è l'Inghilterra. Le idee e gli accenti illuministici non sono quindi, come in Europa, strumento di critica di un assetto vigente, ma strumento a sua difesa: il nemico è fuori, è il Parlamento, e poi anche il re, colpevoli, come denuncia la seconda parte della Dichiarazione, di violazione del contratto sociale. Secondo questa visione, all'America basta diventare indipendente per trasformarsi nel regno della ragione e della libertà: il riferimento al contratto sociale serve infatti non solo come garanzia contro il potere, ma anche come fondamento di un miglioramento morale che avrebbe condotto i cittadini ad una vera societas e al conseguimento del bene comune.
Si manifesta comunque in questo dibattito l’originalità della vita politica americana, così come si era sviluppata dai primi covenant dei puritani, fino alle prime forme costituzionali coloniali. Un’esperienza che aveva utilizzato strumenti giuridici, politici e religiosi: giuridici, in quanto i coloni avevano portato con loro la consapevolezza della common law come corpus di norme in grado di difendere i loro diritti in quanto cittadini inglesi; politici, per le ragioni già dette relative alla partecipazione e al decentramento politico; religiosi, poiché nella Rivoluzione americana confluiscono le radici del puritanesimo, e la consapevolezza degli americani di essere un popolo eletto, con una missione da compiere nei confronti dell'umanità intera.
Dal punto di vista politico, gli americani utilizzarono categorie e concetti dei real Whigs, dissidenti politici inglesi che, proprio nel momento in cui la dinastia degli Hannover pareva avviare l'Inghilterra ad una fase di equilibrio politico e di stabilità, oltre che all'affermazione internazionale, misero in discussione quell'equilibrio denunciano la corruzione, i mezzi illegali, il lusso della classe politica inglese. Il passaggio del potere politico al Parlamento non era per questi pensatori condizione sufficiente a difesa della libertà dei cittadini inglesi: la crescita incontrollata dei poteri pubblici, non importa come dislocati, e l'affermarsi di un ceto finanziario e affaristico dedito esclusivamente al guadagno sembravano, ai loro occhi, minare in profondità la tradizionale libertas inglese.
Dopo che il trattato di Versailles del 1783 ebbe riconosciuto l'indipendenza delle 13 colonie, le vecchie assemblee coloniali si trasformarono in Parlamenti di stati sovrani, e i collegi elettorali furono riorganizzati a favore delle zone interne del paese. Il modello ovunque prevalente affidava il massimo potere ad un parlamento unicamerale, riducendo quello dei governatori, espressi dal partito dominante nelle assemblee, e riordinava la rappresentanza a favore delle zone di frontiera, cercando di controllare i deputati anche attraverso mandati fissi, scritti e di breve durata. Il sospetto verso il potere esecutivo fin lì incarnato dalla figura dei ‘governatori’ era tale da spingere molti stati ad affidare alle assemblee sia il potere esecutivo che quello legislativo. Dopo tutto, il Congresso aveva condotto la guerra e portato il paese alla vittoria senza disporre di un proprio organo esecutivo: le tendenze più radicali resteranno sempre fedeli a questa impostazione iniziale.
Ma con il tempo apparve chiaro che le assemblee legislative, se lasciate senza freni, potevano trasformarsi in un tiranno poco attento al bene comune: è in relazione a questi timori, che i pensatori americani tornarono a riflettere sulla dottrina del governo misto, anche se le conseguenze di questa nuova fase del pensiero rivoluzionario si faranno sentire solo più avanti, nel processo che conduce alla Costituzione del 1787.
Alla ricerca di nuove soluzioni: gli “Articoli di Confederazione”.
Le due tendenze - volontà di pensare a soluzioni comuni e timori per l'incontrollato potere dei legislativi -, pur derivando da situazioni distinte, si intrecciarono nella volontà dell'élite americana più giovane di orientare la propria azione verso un rafforzamento del potere del Congresso Continentale, compito non facile in un momento in cui ancora predominante sembrava essere la volontà di ciascuna colonia di difendere la propria autonomia. Una riprova della difficoltà del progetto confederale si ebbe nel 1777, quando gli articoli della prima costituzione nazionale, i cosiddetti Articoli di Confederazione, furono sottoposti alle assemblee coloniali: ci vollero ben 4 anni per la loro ratifica ed entrata in vigore, nonostante il testo assegnasse ben scarsi poteri al Congresso, che doveva limitarsi a deliberare in materia di politica estera e di difesa, che non disponeva ancora di un suo esecutivo, e nel quale la votazione avveniva per stati.
Esigenze di coordinamento del commercio, necessità di una comune politica economica, e la volontà di procedere rapidamente allo sfruttamento dei vasti territori ad Ovest, spinsero alcuni a chiedere una politica comune agli stati. Possiamo dire che tutto il dibattito che accompagna il processo costituzionale americano consiste nella ricerca di un compromesso tra due tendenze: da un lato l’esigenza di assicurare ai nuovi stati strumenti appropriati per l’affermazione economica e per la competizione commerciale, e la volontà di rafforzare una comune politica finanziaria; dall’altro il “repubblicanesimo” americano, che vedeva nella piccola proprietà, nella difesa dello stile di vita tradizionale, e nell’auto-governo locale, le matrici originarie dell’esperienza americana, da difendere contro ogni stravolgimento.
Si faceva strada la convinzione che la limitazione del potere dovesse iniziare a monte, non essendo sufficienti i tradizionali meccanismi dell'equilibrio dei poteri e del governo misto. Occorreva invece consentire ai governati di controllare il potere e coloro che lo esercitavano: ma solo l'uguaglianza, permettendo a ciascuno di partecipare allo stesso grado alla vita politica, avrebbe permesso di erigere ostacoli efficaci contro le degenerazioni del potere. Questa ideologia "repubblicana" non va peraltro confusa con la democrazia, che continua ad avere un significato negativo agli occhi delle élites coloniali.
Tipico dell’ideologia repubblicana americana è l’idea di un ‘bene comune’ (res publica) da difendere anche dal potere stesso. Solo uno stretto controllo dei governati poteva indurre i governanti al perseguimento del bene comune, lo scopo in vista del quale gli uomini istituiscono i governi. Ciò spiega la mancanza assoluta di esitazioni nel scegliere la forma repubblicana, unico antidoto al dispotismo e all'assolutismo dell'Europa.
In secondo luogo, l’idea della partecipazione come base della repubblica stessa: il costituzionalismo americano pone l’accento sui diritti politici dei cittadini, anche a scapito dei diritti individuali dei singoli, muovendo dalla convinzione che non vi possa essere contrasto tra libertà politica e libertà individuale. Ciò spiega le misure restrittive nei confronti degli interessi privati poste in atto durante la Rivoluzione americana, dalla regolamentazione rigida dell'economia al blocco di prezzi e salari, fino alle più radicali proposte per la fissazione di limiti alla proprietà terriera. A rovescio, l’obbedienza dei cittadini era vista come una condizione liberamente scelta, un convincimento profondo che scaturiva dal loro essere partecipi del governo e dell'amministrazione della cosa pubblica, e dal consenso. Difficile da ottenere, una volta ottenuta la virtù repubblicana offriva però un vincolo sociale assai forte per la costruzione del nuovo stato: come disse Adams nel 1776, "dovrà esserci un sentimento di Modestia, Rispetto e Venerazione per le persone al potere di qualsiasi rango sociale, oppure saremo rovinati".
Infine, l’uguaglianza, principio di fondo del pensiero repubblicano, non era intesa come livellamento sociale, ma come costruzione delle distinzioni sociali sulla sola base delle capacità, delle disposizioni e delle virtù dei singoli. Non si respingeva dunque l'idea di un'aristocrazia di cittadini: ma questa, a differenza che in Europa, doveva essere costituita solo attraverso le capacità individuali e la dedizione al bene comune, così da impedire l'ereditarietà delle posizioni di ricchezza o preminenza sociale.
Sul piano degli ideali enunciati, la rivoluzione si chiudeva con uno “scacco” destinato a pesare come un macigno sulle vicende successive: non fu infatti abolita la schiavitù, che cozzava contro tutti i principi affermati dai rivoluzionari. Gli inglesi avevano a più riprese offerto la libertà ai negri che avessero combattuto contro i coloni: alla fine, anche questi ultimi dovettero fare promesse simili, ma ciò avvenne solo al Nord, dove si avviò un primo movimento abolizionista, che nel 1804 condusse all'abolizione della schiavitù in tutto il Nord del paese. Nel Sud abolire la schiavitù avrebbe significato demolire l'intero edificio socio-economico della piantagione: nel riconoscere la libertà degli stati del Sud di mantenere quel sistema, la Rivoluzione americana sancì l'accettazione degli equilibri e delle strutture sociali preesistenti. Il principio federalista significava anche l'impossibilità di costringere gli stati a mutare in profondità i loro equilibri sociali ed economici, e il riconoscimento del non intervento reciproco negli affari interni. Interessi locali e nazionali si allearono in questo caso per impedire che nella Dichiarazione d'Indipendenza fosse inserita una clausola sulla libertà dei negri redatta da Jefferson. Del resto, anche il Nord, che aveva accettato l'abolizione della schiavitù, non realizzò mai l'integrazione dei negri nell'assetto sociale e politico delle varie colonie, adottando da subito un atteggiamento di segregazione e discriminazione che permasero fino alla guerra civile e oltre.
Come è noto, la rivoluzione segnò anche una profonda frattura fra la maggioranza, e quella minoranza di coloni (i “lealisti”), che decisero di restare cittadini inglese sia per motivi politici che per gli interessi economici che li legavano alla madrepatria.
"Intensamente religioso ma non clericale, individualista ma nell'ambito di una profonda socializzazione, antiautoritario ma conformista nella sua dedizione alla comunità, democratico ma non egualitario, il 'mondo alla rovescia' istituzionalizzato dalla Rivoluzione americana si pose in contraddizione con tutto quanto l'Europa era e si preparava ad essere.... Contemporaneamente si pose anche in contraddizione con se stesso, autodelimitandosi brutalmente come 'universo' solo bianco, e con ciò riprese la continuità con tutta la civiltà occidentale, approfondendo ulteriormente la barriera che quella aveva creato fra sé e il mondo che la circondava, il mondo della 'barbarie' e dei 'senza Dio'" (BONAZZI 1977, p. 96).
La Costituzione americana e il periodo “federalista”
Già durante la guerra, erano emersi chiari gli aspetti di debolezza della Confederazione americana, dovute in primo luogo all'assenza di un vero esecutivo, alla scarsa partecipazione di alcuni stati alle riunioni, così che spesso mancava il numero legale per le votazioni, ai problemi economici legati al commercio, alla moneta e all'inflazione, che avrebbero richiesto una politica comune tra tutti gli stati. Il congresso che si tenne nel 1786 ad Annapolis per risolvere problemi commerciali e doganali tra alcuni degli Stati membri obbligò l'Assemblea federale a votare una risoluzione per una più ampia libertà di commercio, e richiese una nuova assemblea costituente per dare all'unione un diverso testo costituzionale.
Alla Convenzione federale di Philadelphia (25 maggio- 17 settembre 1787) parteciparono rappresentanti di tutti gli stati, tranne il Rhode Island. I membri erano in prevalenza giuristi (31 su 55). I lavori si organizzarono attorno ad alcune proposte: le più note furono il Virginia Plan e il New Jersey Plan. Il nodo cruciale era quello della rappresentanza nazionale, che alcuni volevano paritaria per stati, altri proporzionale sulla base degli abitanti di ogni stato. Alla fine prevalse un compromesso: il Congresso federale sarebbe stato bicamerale, con rappresentanza per stati al Senato, e proporzionale alla Camera. Anche sul problema della schiavitù vi fu una soluzione di compromesso. Gli stati del Sud volevano che nel computo degli abitanti ai fini della determinazione del numero di rappresentanti fossero inclusi anche gli schiavi, che però avrebbero dovuto non essere inclusi quando si trattava di stabilire il patrimonio tassabile. Si stabilì alla fine che uno schiavo contava come tre quinti di una persona libera.
Si trovò invece subito un’intesa sul problema della separazione dei poteri, attraverso un rigido sistema di freni e contrappesi, che funzionava sia nel bilanciamento tra potere federale potere statale (legislativo di Stato e federale, Presidente federale e governatori di Stato, magistratura federale e locale), sia al livello federale. In quest’ultimo i tre poteri erano circoscritti, e l'uno poteva funzionare solo in cooperazione con gli altri. la Camera poteva destituire il Presidente attraverso una procedura di impeachment, ma il Presidente aveva un potere di veto sulle leggi del Congresso. Le misure finanziarie erano di esclusiva competenza della Camera; quelle di politica estera del Senato. Il nuovo testo costituzionale realizzava dunque un sistema di bilanciamento verticale e orizzontale dei poteri: è il sistema federale, che tanta ammirazione suscitò poi nel giovane Tocqueville, pur non ritenendo egli possibile la sua applicazione sul continente europeo (cfr. le pagine della Democrazia in America: libro primo, cap. VIII).
Dopo lo scioglimento della Convenzione, si aprì un vivace dibattito in tutti gli stati per l'approvazione del nuovo testo costituzionale. I più attivi nel sostenere la necessità del sistema federale furono Hamilton, Madison e Jay, che in una serie di articoli apparsi sulla stampa di New York esaminarono a fondo vantaggi e rischi del nuovo regime, esortando l'opinione pubblica all'approvazione del nuovo testo costituzionale. Gli scritti saranno poi raccolti sotto il titolo Federalist, e costituiscono un classico del pensiero politico. La nuova costituzione entrò in vigore il 1 gennaio 1789.
Nel 1789 furono altresì indette le elezioni che diedero ai federalisti la maggioranza del governo, e videro l'elezione di Washington a primo presidente degli USA. Convinto che il nuovo stato dovesse accreditarsi in modo consono rispetto al consesso internazionale, Washington diede ampia importanza alle forme esteriori della presidenza, e alle forme simboliche del potere (protocollo, cerimoniale, decoro ecc.).
Ma il problema fondamentale che i federalisti dovettero affrontare fu quello di colmare le lacune del testo costituzionale, soprattutto nella sfera dei diritti individuali. Nel dicembre 1791 entrarono in vigore i primi dieci emendamenti della Costituzione (Bill of Rights), ove era sancito il principio della libertà di religione, di parola, di stampa, di riunione, il diritto di portare armi, quello di inoltrare ricorsi, l'immunità contro perquisizioni e arresti arbitrari, la garanzia contro punizioni crudeli, il divieto per il governo di acquartierare truppe presso privati, mentre l'ultimo emendamento riservava agli stati tutti i poteri non espressamente delegati al governo federale.
Per il completamento del regime previsto dalla costituzione fu importante l'istituzione di un sistema di corti federali facenti capo alla Corte Suprema, composta da un giudice capo e da 5 giudici associati: sotto di questa operavano tre corti circoscrizionali e 13 corti distrettuali. La legge affidava alla Corte Suprema il sindacato di costituzionalità delle leggi: anche questo è un aspetto che differenzia profondamente le vicende costituzionali americane da quelle europee.
Ma anche a proposito della Dichiarazione dei diritti occorre fare un rilievo di carattere generale, poiché è proprio l'inclusione di questo testo nella Costituzione che, a giudizio di molti storici, e tra questi il Tarello, rende del tutto originale la soluzione politica e costituzionale americana. Il Tarello parla anzi di due modelli contrapposti di costituzionalismo, quello continentale e quello americano. Il primo si caratterizza per l'accentramento di poteri nello stato, "anzi si risolve in un processo di identificazione delle fonti del diritto con la sovranità statale in un quadro di dissoluzione delle autonomie", mentre il tratto dominante dell'esperienza americana consiste in "un processo di razionalizzazione bipolare, al livello dei singoli Stati (ex colonie) ed al livello dello Stato federale", che sfocia in un modello di organizzazione del potere politico e del diritto completamente nuovo. Ciò che differenzia in modo particolare l'esperienza americana è l'inclusione della dichiarazione dei diritti nel testo costituzionale, mentre in Francia i diritti di libertà e proprietà sono sanciti da un “codice” di diritto privato ben distinto dai testi costituzionali che si succedono dal 1791 in poi. In altre parole, mentre nell'esperienza rivoluzionaria francese si ha una separazione di privato e pubblico che tende a superare la confusione dei poteri dell'antico regime, nella Rivoluzione americana si ha una confluenza di diritto privato e diritto pubblico: la migliore garanzia dei diritti individuali è vista risiedere in un assetto istituzionale che assicura la divisione dei poteri, e in una costituzione che mette in atto tutti gli strumenti politici e giuridici indispensabili per il pieno rispetto dei diritti dei singoli.
Gli "Alien and Sedition Acts" e l'opposizione repubblicana.
Il decennio federalista fu dominato dalla personalità e dall’azione di A. Hamilton, ministro del tesoro, cui si deve l’avvio dell’industrializzazione americana, e una serie di provvedimenti per le finanze e il commercio.
Ma il governo Adams dovette affrontare anche il problema degli infiltrati e della propaganda giacobina francese, su posizioni affini a quelle del partito repubblicano. Nell’estate 1798 furono perciò emanati gli Alien and Setidion Acts, che ponevano dure restrizioni all’immigrazione di perseguitati e rifugiati politici europei, innalzavano gli anni chiesti per l’ottenimento della cittadinanza americana, si dava al presidente il potere di espulsione degli stranieri pericolosi, si censurava la pubblicazione di scritti tendenziosi. I repubblicani denunciarono i provvedimenti come una violazione della Dichiarazione dei diritti e come una arbitraria estensione del potere federale. Madison e Jefferson fecero approvare dalle assemblee rispettivamente della Virginia e del Kentucky delle risoluzioni di protesta che sostenevano la tesi dell'incostituzionalità delle leggi, e rivendicavano per ogni stato il potere di giudicare le violazioni della Costituzione e di annullare le norme ad essa contrarie. La Costituzione, argomentavano, era un patto tra stati, che si riservavano però la sovranità ultima. Ma al tempo stesso i due stati ribadivano la loro fedeltà all'Unione e non fecero nulla per disapplicare le norme contestate.
L'opposizione a quelle norme divenne la parola d'ordine dei repubblicani nella campagna elettorale del 1800, caratterizzata anche dall'ostilità verso le pesanti misure fiscali varate dai federalisti, e organizzata dai repubblicani in forme nuove, che già facevano presagire il futuro assetto nazionale del partito (riunioni nazionali, giornali, campagne di stampa ecc.). L'esito fu l'elezione di Jefferson alla presidenza, dopo un testa a testa che mise in luce un'ulteriore lacuna del testo costituzionale. Jefferson e Burr, i due candidati repubblicani, ottennero ciascuno 73 voti: toccava perciò alla Camera, dove i federalisti avevano la maggioranza, la decisione finale. Jefferson fu eletto solo alla 36° votazione, e per evitare in futuro il ripetersi di simili episodi, il Congresso votò il XII emendamento della Costituzione, che prevedeva votazioni distinte per due cariche di presidente e vice-presidente.
BIBLIOGRAFIA :
AA.VV., La rivoluzione americana, a cura di T. BONAZZI, Bologna 1986.
A. AQUARONE, Due costituenti settecentesche, Pisa 1959.
B. BAILYN - G.S. WOOD, Le origini degli Stati Uniti, Il Mulino 1987.
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13. La rivoluzione francese: nazione, sovranità e costituzioni
Premessa
Gli eventi francesi sarebbero incomprensibili senza il riferimento al dibattito politico che li accompagna e a volte li determina. Molto forte, nel Settecento francese fu infatti il ruolo dell’opinione pubblica, dei giornali e delle prese di posizione dei vari attori politici, che la stampa e l’editoria provvedevano a diffondere ovunque.
Dal punto di vista delle istituzioni, uno degli autori che hanno maggiormente influenzato l’Illuminismo politico è sicuramente Montesquieu. Nel suo Esprit des Lois egli distingue tre forme di governo (repubblica, monarchia e dispotismo), analizzandone i caratteri, le vicende storiche e il principio costitutivo. In particolare, Montesquieu separa il governo monarchico, dove il re governa nel rispetto “di leggi prefissate e stabili”, dal dispotismo, dove il potere del sovrano è senza regole e limiti. In questo Montesquieu non si rifà alla teoria aristotelica, ma compie un’indagine storica che aggiorna, per così dire, la tipologia di forme di governo con cui nel passato si erano interpretati gli stati europei. In tal modo, egli può concentrare la sua attenzione sulla monarchia e sulle sue modalità di funzionamento ‘legali’, che risiedevano nella presenza di ‘corpi intermedi’ in grado di arginare il potere regio. La nobiltà e le sue forme rappresentative erano da Montesquieu considerati una componente essenziale della costituzione monarchica, che la distingueva appunto dal dispotismo. Sarà una tesi ripresa in più occasioni da parte dei Parlamenti francesi, che nel ‘700 si porranno come i rappresentanti ‘di fatto’ dell’intera nazione.
In sintesi, nel dibattito politico francese del ‘700 si possono individuare tre posizioni fondamentali:
Ma si deve anche aggiungere che al di là delle distinte posizioni e dei contrastanti interessi, esiste un clima culturale di fondo che accomuna le diverse opposizioni alla monarchia : « il liberalismo, quali che ne siano le formulazioni, si ritrova dappertutto come il nerbo fondamentale (RICHET, p. 152). Né va dimenticato l’effetto ‘moltiplicatore’ dell’illuminismo. Nel corso del ‘700 il numero di francesi che sanno leggere quadruplica, e ciò spiega in parte la vivacità e l’intensità del dibattito che accompagna prima la crisi dell’antico regime e poi la rivoluzione.
“Dopo il 1750 prende forma un corpo coerente di critiche e di contro-proposizioni. In tal modo, quando nel 1787 i notabili daranno inizio al loro grande movimento riformatore, si troveranno armati di un modello teorico di formidabile efficacia“ (Richet p. 151).
La Francia nel primo Settecento
Il periodo della Reggenza che segue alla morte di Luigi XIV (1715) rappresenta per la Francia un momento di ripresa del potere nobiliare, che si manifesterà in forme diverse fino alla Rivoluzione. Non si trattò solo degli antichi poteri dell’aristocrazia di spada, ma in primo luogo delle prerogative e del predominio sociale della nobiltà di toga, che aveva occupato le cariche e gli uffici pubblici, e in particolare i Parlamenti. Questi ultimi diventano proprio nel Settecento gli interpreti e i rappresentanti delle aspirazioni non solo dei ceti togati ma in certe occasioni anche di altri gruppi sociali che vedono nelle battaglie parlamentari contro la corona e i suoi ministri uno strumento di riforma dell’intero assetto francese. Secondo Egret, ottenere l'appoggio dell’opinione pubblica francese fu il "capolavoro politico" di quelle corti. Possiamo aggiungere che un’altra abilità di quelle corti fu di inserire le loro richieste e posizioni politiche nella cornice della filosofia dei Lumi.
E’ comunque difficile separare le diverse rivendicazioni sociali e politiche della Francia settecentesca: si tratta di una società complessa, in cui convivono ceti diversi, ciascuno a sua volta composto da gruppi distinti, e in cui l’emergere di una moderna economia mercantile e capitalistica porta all’accelerazione di una dinamica sociale in cui aspirazioni all’ascesa sociale e recriminazioni sui privilegi si saldano alle critiche che l’Illuminismo conduce, sul piano filosofico e culturale, agli assetti politici esistenti. La ‘complessità ‘ dell’antico regime francese nel ‘700 si esprime in un coacervo di interessi, posizioni, principi e aspirazioni che a tratti si congiungono in una critica generale al regime (come alla vigilia della rivoluzione), a tratti invece danno vita a posizioni e richieste distinte e tra loro contrapposte.
Tutto ciò è amplificato dalla diffusione dell’alfabetizzazione, soprattutto presso i ceti medi, e dalla moltiplicazione dei mezzi di informazione, che fanno da cassa di risonanza ai dibattiti, alle critiche, alle richieste della società, dei ceti e delle istituzioni parlamentari.
Nonostante i contrasti sociali e le difficoltà finanziarie, il lungo regno di Luigi XV è per la Francia un periodo di prosperità economica, di espansione commerciale e coloniale, di crescita dei ceti medi e borghesi. Permane però una pesante crisi finanziaria, che le numerose guerre del settecento non faranno che accentuare. Espedienti finanziari per risolvere il problema non diedero gli effetti sperati, mentre una serie di crisi agricole peggiorarono le condizioni di vita della masse contadine, sulle quali ricadeva più pesantemente il carico fiscale.
L’esito della Guerra dei Sette anni finì per fare da detonatore della crisi dell’antico regime francese. La perdita del Canada e di altre base coloniali e il pesante indebitamento pubblico, resero indilazionabile una riforma del sistema fiscale e una attenuazione dei privilegi. La crisi fu resa ancora più acuta dallo scollamento fra monarchia e società, e dalla percezione dei ceti medi di non avere strumenti per rappresentare le proprie opinioni, e dunque influenzare le decisioni della corte e dei ministri regi.
Quella dell’antico regime francese fu dunque una crisi allo stesso tempo politica, sociale, di consenso, finanziaria ed economica. Nei diversi momenti, prevalsero uno o l’altro di questi aspetti, ma sul medio periodo le questioni furono sempre strettamente intrecciate: resta poi da vedere se e in che misura le difficoltà di lungo e medio periodo possano essere considerate le ‘cause’ della rivoluzione francese, o se questa non trovi in se stessa le sue cause. In altre parole, resta da capire se quella francese fosse una crisi irreversibile (il cui sbocco non era comunque necessariamente una rivoluzione), o se un sovrano più accorto, ministri più stabili e influenti, una opposizione parlamentare più ‘flessibile’ non avrebbero potuto traghettare la Francia alla modernità anche senza un rivolgimento di quella portata.
I ministri che in rapida successione prendono in mano la direzione delle finanze francesi, si resero conto che solo mettendo mano al sistema dei privilegi fiscali si poteva ottenere un sistema più equo, in grado di risolvere il deficit dello stato senza perdere il consenso dell’opinione pubblica. Un elemento, quest’ultimo, che non va sottovalutato. La ricchezza di aspettative, la diversità di posizioni e l’articolazione del dibattito pubblico della Francia settecentesca rendevano ormai impossibile governare senza un consenso della società e dell’opinione pubblica.
Ma tutte le proposte di riforma e di riduzione del privilegio si scontrarono con una ferma opposizione parlamentare. Il contrasto tra Corona, con i suoi ministri, e Parlamenti, è il filo rosso della storia politica e istituzionale francese lungo il Settecento e prima della rivoluzione.
I Parlamenti aveva riacquistato con la Reggenza il diritto di rimostranza che Luigi XIV aveva loro tolto: sarà proprio appoggiandosi a questa prerogativa che queste istituzioni sosterranno per tutto il secolo un serrato confronto e in molte occasioni un aperto scontro contro le varie proposte di riforma che, come nelle altre monarchie europee, anche in Francia erano giudicate dai ministri regi ormai non più rinviabili. Secondo Alatri, il recupero del diritto di rimostranza da parte dei parlamenti fu la base su cui si innestarono tutte le crisi politiche della Francia del ‘700.
Ragioni di varia natura motivano l’azione dei parlamenti contro i tentativi di riforma dei ministri delle finanze:
- la salvaguardia dei privilegi fiscali della nobiltà;
- la difesa della dignità e delle funzioni dell’istituzione parlamentare;
- la pretesa di dare espressione alla pubblica opinione e di rappresentare la nazione in assenza di altre istituzioni rappresentative.
Ovviamente, alla base del sostegno dell’opinione pubblica all’azione di protesta dei Parlamenti, sta un equivoco: i membri delle corti agivano infatti, in primo luogo, a difesa dei loro tradizionali privilegi fiscali: ma come abbiamo detto, l’abilità fu quella di ammantare questa protesta con toni patriottici, presentandola come una aspirazione alla libertà. "L'aspirazione alla libertà politica e quella all'uguaglianza si dissociarono: quando troveranno il loro reincontro, sarà la fine dei parlamenti e di tutto il sistema d'ancien régime" (Alatri p. 30).
Voltaire, sostenitore dell’assolutismo ‘illuminato’, comprese bene l’equivoco della presunta difesa della libertà contro l'assolutismo attuata dai Parlamenti, mettendo in evidenza la confusione che in quel tempo si era generata nel dibattito francese tra i corpi giudiziari francesi e il corpo rappresentativo inglese a cui le corti dicevano di ispirarsi.
Palmer ha evidenziato, d’altra parte, il ruolo dei Parlamenti e delle loro posizioni nell’educazione politica del paese, dato che le loro rimostranze, che ebbero una larga diffusione a mezzo stampa, parlavano di “leggi fondamentali”, di “nazione”, di “cittadini”, di “costituzione”. Possiamo dire che una larga parte del lessico politico della rivoluzione francese si forgiò attraverso il dibattito pubblico sulle posizioni parlamentari e sulle tesi che a queste si contrapponevano. “Fino al 1760 le espressioni dominanti erano “monarchia legittima’’, “leggi fondamentali’’, “deposito delle leggi’’, “corpi intermedi’’. Dopo il 1760 parole come “diritto’’, “nazione’’, “costituzione’’ tradussero una precisa istanza politica : il controllo dell’attività legislativa e dell’imposizione fiscale “ (Richet p. 158).
Inoltre, l’affermarsi dell’idea che ogni Parlamento fosse, per quanto concerneva il controllo politico, un anello di un’unica catena (teoria dell’union des classes), fece da sfondo ad una serie di solidarietà incrociate, che portarono le corti a manifestare congiuntamente ogni qualvolta una di loro era messa sotto accusa o limitata dal potere regio.
Il più celebre di questi momenti di azione solidale fu il cosiddetto “colpo di stato di Maupeou“, dal nome del cancelliere che nel febbraio 1771 aveva promulgato, sostenuto dal sovrano, un editto che istituiva dei Consigli superiori di giustizia che di fatto si sostituivano ai Parlamenti. I Parlamenti reagirono insieme, parlando di violazione della costituzione della Francia e di dispotismo regio. Già in quell’occasione, come anche in alcune circostanze precedenti, i Parlamenti chiesero la convocazione degli Stati Generali, l’unica istituzione che potesse esprimere l’opinione e le richieste della nazione intera. Fu questa richiesta a far schierare l’opinione pubblica dalla parte dei parlamentari, nonostante fosse chiara la natura corporativa della loro protesta. E fu la percezione di quanto fosse avvertita dalla società francese la necessità di una rappresentanza, che spinse Luigi XVI, appena salito al trono, a ripristinare le funzioni dei Parlamenti e a licenziare Maupeou.
Da questo momento in poi, l’opposizione parlamentare riuscirà a far fallire i progetti riformatori prima di Turgot (1774-1776) e poi di Necker (1778-1781), sicuramente i tentativi più seri e di maggior respiro fatti dalla monarchia per risolvere i problemi finanziari ed economici del paese.
Turgot e il progetto ‘fisiocratico”
Con Turgot alle Finanze la crisi delle istituzioni dell’ancien régime sembra toccare un punto di non ritorno. In quegli anni, per voce degli esponenti della ‘fisiocrazia’, di cui Turgot è uno dei massimi interpreti, prende corpo un progetto di società borghese alternativo a quello della monarchia.
Turgot procede allo smantellamento di numerose strutture caratteristiche della società corporativa d’antico regime: le corporazioni delle arti e dei mestieri, l’economia morale che si incentrava sul meccanismo dell’annona, le corvée, l’idea della “solidarietà fiscale” delle comunità.
E’ un progetto ‘borghese’ che punta alla sostituzione dei legami feudali e dell’ordine sociale cetuale con rapporti sociali e politici fondati sulla proprietà e sul contratto, rivendicando il diritto dei proprietari alla partecipazione alla gestione cosa pubblica, e una limitazione delle funzioni dello stato. Il solo legame tra gli individui avrebbe dovuto essere l’interesse, e l’intero spazio sociale doveva strutturarsi come spazio economico. Ciò richiedeva una ‘omogeneità’ territoriale e legislativa di segno opposto al particolarismo d’antico regime. In particolare, Turgot intendeva istituire forme di collaborazione tra la monarchia e il paese attraverso un serie di assemblee provinciali dove dovevano essere rappresentati i proprietari terrieri.
Ma l’ordine borghese di Turgot si scontrò con la difesa dell’assetto costituito da parte dei Parlamenti. Quando il ministro, ad esempio, volle abolire la corvée royale, ossia il lavoro che i contadini erano obbligati a prestare per la manutenzione di strade e per altre opere pubbliche, il Parlamento di Parigi non esitò a dichiarare che “la prima regola di giustizia è di garantire ad ognuno ciò che gli è dovuto“, richiamandosi tra l’altro al “diritto naturale“. Ma cosa era dovuto, e a chi ?
E’ interessante leggere alcune frasi della rimostranza del Parlamento in quella occasione, perché in essa si riprendono le argomentazioni da sempre usate in difesa dell’ordine gerarchico della società. Secondo i parlamentari, il diritto naturale imponeva non solo il rispetto della proprietà, ma anche la salvaguardia dei diritti “derivanti dalle prerogative di nascita e di stato“. Era pericoloso, proseguiva la rimostranza, “sotto un’apparenza di umanità“, distruggere le distinzioni sociali e assegnare a tutti gli uomini gli stessi doveri. Una scelta simile significava “sconvolgere la società civile, la cui armonia riposa soltanto sulla gerarchia dei poteri, delle autorità, delle dignità e distinzioni, che tiene ogni uomo al suo posto e salvaguarda tutte e classi dalla confusione. Quest’ordine… trae la sua origine dalle istituzioni divine; un’infinita e immutabile saggezza nella struttura dell’universo, ha dispensato in modo ineguale la potenza e il genio … E questa legge dell’universo, … si conserva in ogni impero e regge l’ordine per opera del quale sussiste“ (Palmer, p. 494). Il contrasto fra le due visioni delle cose e della società non potrebbe essere più netto di quanto appaia da queste affermazioni. Ma Palmer fa anche notare la sproporzione fra l’oggetto e i toni della rimostranza, che dà l’idea del clima e della “retorica“ politica di quegli anni: “per discutere su una settimana di lavoro stradale dei contadini, si rifece (il Parlamento) all’essenza della monarchia francese, alla costituzione, ai privilegi di nascita, ai tre ordini, alla giustizia divina“ (Palmer, p 495). Ma ciò dimostra quanto l’assetto d’antico regime fosse un ‘tutto’ le cui parti erano ugualmente necessarie per conservare l’intero sistema. Lo stesso Palmer afferma efficacemente che se tutte le istituzioni politiche e giuridiche dell’antico regime furono abolite in blocco nel 1789, è proprio perché tutto fu difeso in blocco almeno dagli anni ’70 in poi.
In sintesi, il disegno di Turgot rappresenta il ‘punto massimo’ delle riforme francesi, e indica un progetto politico che non lascia spazio ad alcuna ipotesi di “monarchia illuminata“.
I problemi sopra delineati si aggravarono durante il regno di Luigi XVI, salito al trono nel 1774. La Francia contava allora circa 28.000.000 milioni di abitanti, mentre 130.000 circa erano i membri del clero e circa 300.000 i nobili.
Lungo tutti gli anni ’70 e ’80 i vari ministri alle finanze tentarono di rimediare al deficit finanziario con provvedimenti contraddittori, di cui il più importante fu quello di Calonne che prevedeva un’imposta sul reddito terriero che doveva essere pagata da tutti, nobili e clero compresi. Il consenso alla distribuzione e all’esazione del carico fiscale era affidato a delle assemblee provinciali elette dai contribuenti in quanto ‘proprietari’ e non più in base all’ordine sociale di appartenenza. Un progetto che colpiva alle radici la società d’antico regime, tanto più che Calonne aveva previsto un reddito terriero piuttosto basso per essere eletti alle assemblee rappresentative.
Consapevole dell’opposizione che i Parlamenti avrebbero opposto ad una simile riforma, il ministro sottopose il suo progetto ad una assemblea di notabili, ossia di personaggi di spicco nominati dal re. Anche questo tipo di ‘consultazione’ era ormai desueto in Francia, essendo stato utilizzato l’ultima volta nel 1626. Nel 1787 i notabili furono integrati da una rappresentanza del Terzo Stato, e tra questi circa 40 era parlamentari. Di fronte a Calonne che parlava di abolizione dei privilegi, l’assemblea difese riprese il linguaggio dei Parlamenti, lanciando le consuete accuse di ‘dispotismo’, e chiedendo la convocazione degli Stati Generali, perché le assemblee volute da Calonne, prive di distinzione tra nobili e popolani, sarebbero diventate ‘democratiche e dispotiche’.
A maggio 1788 il re abolì di fatto i Parlamenti, privandoli del loro potere di rimostranza e registrazione, che fu affidato ad una Corte Plenaria con sede a Parigi. Immediata e concorde fu la reazione dei parlamentari francesi, che si espresse in un numero elevato di scritti e libelli, più di 500 tra maggio e settembre, e nei quali i Parlamenti ribadirono la loro funzione di baluardi della libertà. Senza entrare in tutte le vicende che precedono la rivoluzione, è importante ricordare che nel ‘clima’ e nello spirito di quegli anni, in cui la rivoluzione americana fu un modello e un oggetto costante di discussione, i Parlamenti riuscirono a porsi come ‘voce’ dell’opinione pubblica e anche dei ceti borghesi, avocando a se stessi il ruolo di difensori dei diritti e di alcuni principi costituzionali tradizionali, come quello che prevedeva il consenso alla tassazione. Il legame tra rappresentanza e tassazione, che era stato alla base della ribellione dei coloni americani, fu effettivamente il tema cruciale delle rivendicazioni che animarono molte delle rivolte e delle rivoluzioni di fine ‘700.
Palmer afferma che se per rivoluzione intendiamo “una sfida deliberata al governo“, la Rivoluzione francese iniziò nell’estate 1788, con la grande agitazione di tutti gli organi ufficiali contro il re contro gli Editti di maggio. Una rivolta strisciate ma generalizzata, che gli storici chiamano la “rivolta aristocratica“: una sorta di messa in pratica, se vogliamo, delle teorie di Montesquieu sulla nobiltà come corpo sociale in grado di contrastare il dispotismo.
La mobilitazione fu generale, ma in ogni provincia francese diede vita ad episodi, posizioni dottrinali e alleanze sociali diverse. Sarà questo equivoco di fondo, ossia il coalizzarsi contro la Corona di ceti e interessi tra loro contrapposti, che darà poi il via ai grandi conflitti ‘dentro’ la rivoluzione. Esito della mobilitazione fu la convocazione degli Stati Generali, eletti tra il gennaio e l’aprile 1789 da tutti i cittadini francesi maschi che avessero compiuto 25 anni e che pagassero un minimo di tasse. Fu in pratica il primo suffragio universale maschile della storia francese, anche se il procedimento elettorale era indiretto, con assemblee locali che eleggevano i deputati alle assemblee provinciali da dove scaturirono i delegati agli Stati Generali. Si decise inoltre di raddoppiare il numero dei deputati del Terzo Stato, così da assicurare una rappresentanza più consona al peso dei ceti medi, tra i quali prevalenti erano i nobili di toga e i giuristi.
Le elezioni furono animate da un serrato dibattito, anche sulla scia del pamphlet che l’abate Sieyès aveva pubblicato a gennaio, Cos’è il Terzo Stato? , nel quale, rovesciando la visione della società sopra considerata, affermava che il Terzo Stato era la nazione francese, mentre coloro che abusavano dei privilegi erano contro, e dunque ‘fuori’ della nazione.
Durante le elezioni furono anche stesi i cahiers de doléance, in cui i francesi stesero un infinito elenco di recriminazioni e di richieste da affidare ai deputati. Restava ancora viva negli strati popolari francesi un’idea mitica del re, che si riteneva in grado, una volta che il popolo gli avesse mostrato le ingiustizie patite, di porre rimedio alle sofferenze dei suoi sudditi. In altre parole, il popolo era convinto che le colpe fossero dei finanzieri, degli esattori e dei ministri, e che il sovrano fosse dalla parte dei suoi ‘figli’. Scrive un nobile provenzale il 28 marzo ’89 “I principi dati al popolo sono che il re vuole che tutto sia eguale, che non vuole più signori né vescovi, né distinzioni di ranghi; più niente decime e diritti signorili”.
Questa grande mobilitazione psicologica cadeva in una situazione di fermento sociale e causa della carestia degli anni ’88 e ’89. Le elezioni furono il momento della presa di coscienza popolare dei mali della nazione e dei possibili rimedi. Attorno ad alcuni temi, come la necessità di una più ampia rappresentanza e il bisogno di dare alla Francia un nuovo assetto politico, si formò una straordinaria convergenza di posizioni, e un vero e proprio “partito patriota”.
Dopo l’apertura degli Stati Generali il 5 maggio, più di un mese di lavori fu dedicato alla questione della procedura di voto. Un problema non formale, visto che votare per ‘ordine’ significava dare nuovamente un peso maggiore alla convergenza di nobiltà e clero. Si giunse così alla richiesta del Terzo Stato di riunioni congiunte e di votazioni ‘per testa’. Di fronte alle resistenze del re, tra il 17 e il 20 giugno i deputati del Terzo Stato, cui si era unita una parte del clero e alcuni nobili, si riunirono nel salone della Pallacorda e giurarono di non separarsi prima di aver dato alla Francia una nuova costituzione. L’assemblea si proclamò quindi Assemblea nazionale costituente.
E’ questo un passaggio fondamentale, anzi è per alcuni il passaggio decisivo del processo rivoluzionario, in quanto si ribaltano i principi dell’antico regime ponendo l’assoluta supremazia della nazione e del suo potere costituente, che nessuna norma precedente prevedeva e regolava. Neppure i cahiers facevano alcuna menzione dell’ipotesi costituente, anche se è presente in molti di questi documenti un esplicito richiamo alla rivoluzione inglese del 1688-89 come esempio da seguire. Nell’abbandonare la distinzione fra i tre “stati“ i deputati fanno dunque un salto concettuale rilevante, lasciandosi alle spalle tutto un sistema di rappresentazioni e di procedure che aveva le sue radici nel Medioevo francese.
La rivoluzione avvenne dunque silenziosamente, nella sala degli Stati Generali di Versailles, attraverso un mutamento di percezione e di linguaggio politico di cui furono interpreti i deputati. I nuovi principi politici e costituzionali maturano a partire da un mutamento di sensibilità e percezione collettiva, che porta i delegati ad accettare come naturali e necessarie trasformazioni che prima del loro arrivo all’assemblea avrebbero probabilmente respinto come troppo radicali e arrischiate (Tackett).
Al tempo stesso, il processo di trasformazione non fu indolore né immediato, e fondamentale fu la percezione del valore sostanziale di alcuni aspetti procedurali, e precise richieste di modifica di tali procedute da parte dei deputati del Terzo Stato, come ad esempio la verifica comune dei poteri, riunioni congiunte, la denominazione “conferenza dei comuni“ che i deputati del Terzo si attribuirono, il richiamo costante alla volontà generale della nazione come ‘mandante’ dei lavori dell’assemblea. Fu proprio il richiamo al primato e alla illimitatezza della nazione che consentì ai deputati di superare la formula del ‘mandato imperativo’ tipica dell’antico regime, e di proclamarsi Assemblea nazionale costituente. “E se l’assemblea costituisce l’unica e totalizzante rappresentanza della nazione, della nazione essa esercita tutti i poteri, a cominciare da quello supremo e fondamentale: il potere costituente“ (Floridia, p. 117).
L’andamento dei lavori dell’Assemblea, già turbato dalla resistenza del re, fu poi travolto dagli eventi che ebbero come protagoniste le masse popolari, dalla creazione della Comune a Parigi alla presa della Bastiglia, dalla sollevazione nelle campagne alla costituzione di Municipalità provvisorie in tutta la Francia, fino alla ‘marcia delle donne’ su Versailles dell’ottobre 1789.
Gli storici hanno parlato delle “tre rivoluzioni“ del 1789: quella degli Stati Generali, convinti di potere rivoluzionare l’assetto francese per via costituzionale e pacifica; la rivoluzione parigina, che porta alla creazione di una amministrazione autonoma che difese l’Assemblea; e la rivolta nelle campagne, con obiettivi fiscali e anti-feudali. Furono queste agitazioni e rivolte in tutta la Francia a spingere l’Assemblea ad affrettare alcuni provvedimenti decisivi, che dovevano dare il segnale della direzione in cui ci si voleva muovere. “Per gli uomini dell’Assemblea, dunque, questo non è l’incontro dell’armonia prestabilita, bensì quello delle sorprese. Chi li ha consultati, d’altronde ? Nessuno. Non è per loro che Parigi è insorta, e le campagne gli forzano apertamente la mano. …. Ma la loro sola forza, di contro al re e agli aristocratici, consiste nell’accettare tutto in blocco“ (Furet – Richet, p. 114). Per questo si spingeranno molto più lontano di quanto volessero e agiranno in fretta : “l’intervento popolare trasforma i ritmi della rivoluzione“, più tardi imporrà anche i suoi contenuti.
Il 4 agosto l’Assemblea decretò l’abolizione dei diritti feudali, immediata per alcuni diritti, e dietro riscatto per altri. Il 26 agosto 1789 fu approvata la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino autentico manifesto programmatico e ideologico del nuovo assetto che si voleva fare alla Francia, i cui contenuti sono riassunti nella celebre formula ‘égalité, liberté, fraternité“, ma in cui il richiamo al diritto naturale, di stampo lockiano, è bilanciato dalla funzione fondamentale assegnata alla legge anche in relazione alla proclamazione e difesa di questi diritti.
Importante è l’articolo 16, che parla espressamente di separazione dei poteri come criterio di validità di ogni costituzione. La rivoluzione americana e quella francese recepiscono entrambe – sia pure in forme diverse - l'affermazione dell’idea secondo cui non può esservi un sistema politico che non preveda la garanzia dei diritti dei cittadini, e forme precise di limitazione del potere politico. Un’idea che l'articolo 16 della Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino esprime in questa formula: "Una società nella quale la garanzia dei diritti non è assicurata e la separazione dei poteri non è definitivamente determinata, non ha costituzione", mentre Thomas Paine afferma nei Rights of man (1791) che "un governo senza una costituzione è potere senza diritto".
Pur con la presenza di un re, che però si opponeva con ogni mezzo alle decisioni dell’Assemblea, e dei suoi ministri, il vero organo di governo fu in questa fase l’Assemblea costituente e i vari comitati interni a questa, incaricati di esaminare le singole questioni e di preparare gli interventi legislativi per ridisegnare l’assetto della Francia. Si verifica così il paradosso di un’assemblea che è ‘costituente’ ma governa, generando una confusione di poteri che accompagnerà tutto il periodo rivoluzionario, durante il quale sarà sempre l’assemblea legislativa, comunque questa fosse denominata, unitamente ai suoi comitati, la sede effettiva anche del potere esecutivo, amministrativo e in certi momenti anche giudiziario.
Se a partire da questa domanda - chi governa ? – volessimo schematizzare le tappe fondamentali della rivoluzione, potremmo allora distinguere tre fasi:
Facendo ora riferimento alla cronistoria della rivoluzione in appendice a questa lezione, vediamo alcuni aspetti delle trasformazioni istituzionali francesi nel decennio rivoluzionario, rinviando alla lezione successiva la questione del nuovo assetto amministrativo territoriale.
Le altre rivoluzioni in Europa
Dunque, attraverso una decennale elaborazione e sperimentazione, le vicende rivoluzionarie mutano radicalmente i principi di fondo della politica, le forme istituzionali, l’idea di costituzione, la visione stessa dello stato e del rapporto stato-società.
Alcuni autori hanno parlato di “età delle rivoluzioni“ per indicare la contestualità dei numerosi rivolgimenti di fine ‘700, di qua e di là dell’Atlantico (Palmer), che coinvolsero molti paesi o territori (come ad esempio la Corsica), dando vita ad una intensa attività di richiesta e stesura di testi costituzionali.
Nel 1768 c’era stata una sollevazione antiaristocratica a Ginevra, che fu risolta dai patrizi di quella città grazie all’intervento francese. Nel 1785 fu il movimento patriottico olandese formato in prevalenza da borghesi a sollevarsi contro la concentrazione del potere nelle mani dei ‘reggenti’ e dello statholder. Anche in questo caso fu una mediazione europea, da parte dell’Inghilterra e della Prussia, a permettere il ritorno dell’Orange.
Anche in Polonia vi fu un movimento riformatore teso a togliere privilegi alla nobiltà, che portò nel 1791 ad una Costituzione che prevedeva l’abolizione del ‘liberum vetum’, la concessione di maggiori diritti alle città, una monarchia di tipo ereditario. Ma per lo stato polacco era troppo tardi: già oggetto dagli anni ’70 delle mire espansionistiche di Prussia, Russia e Austria, la Polonia fu completamente smembrata tra questi tre stati fra il 1793 e il 1795.
Nel 1789 anche i Paesi Bassi si ribellarono contro la politica di Giuseppe II, che intaccava profondamente le loro libertà consuetudinarie: la rivolta belga ebbe forti ripercussioni sugli Stati Generali francesi, che temevano l’intervento austriaco alle frontiere. Quella belga fu comunque una rivoluzione di segno ‘conservatore’, contro un sovrano che non rispettava accordi e patti sottoscritti con quelle regioni.
APPENDICE - Cronistoria minima della rivoluzione
1787 > assemblea dei notabili
maggio 1788 > agitazione della nobiltà di toga e richiesta Stati Generali > rivoluzione aristocratica
1789
5 maggio > apertura Stati Generali
20 giugno > Assemblea nazionale (poi costituente)
14 luglio > presa della Bastiglia
luglio > rivoluzione nelle campagne (la ‘grande paura’)
4 agosto > abolizione dei diritti signorili
26 agosto > Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino
5-6 ottobre > marcia popolare su Versailles > l’Assemblea e la corte si spostano a Parigi
1790
maggio > lottizzazione e vendita beni ecclesiastici
giugno > abolizione nobiltà ereditaria
luglio > costituzione civile del clero
1791
20-21 giugno > fuga del re
13 settembre > costituzione
30 settembre > elezioni per la nuova assemblea
1 ottobre > apertura assemblea legislativa
1792
aprile > guerra con Austria (alleata a Prussia, Spagna e regno Sardegna)
10 agosto > insurrezione alle Tuilleries > Comune insurrezionale e deposizione del re > è necessaria un’altra costituzione
estate > elezioni a suffragio universale della Convenzione
21 settembre > prima seduta della Convenzione nazionale, che abolisce monarchia e proclama la repubblica
1793
21 gennaio > morte del re
marzo > rivolta in Vandea
6 aprile > Comitato salute pubblica e Tribunale rivoluzionario
31 maggio – primi di giugno > alleanza montagnardi- sanculotti > questi circondano Convenzione costringendola a votare l’arresto dei girondini
giugno-luglio > rivolta federalista promossa dai girondini
24 giugno > costituzione dell’anno I, repubblicana e democratica
5 settembre > agitazioni popolari a Parigi > inizia il Terrore > creazione di un esercito rivoluzionario parigino (20.000 sanculotti)
10 ottobre > sospensione della costituzione > Francia è retta da un governo rivoluzionario fino alla pace > avvio dittatura del Comitato > 17.000 esecuzioni + 128.000 morti in Vandea
1794
marzo- aprile > Robespierre elimina alcuni avversari tra cui Danton e suoi seguaci (gli ‘indulgenti’) che volevano chiudere il Terrore
19 giugno > inizia il Grande Terrore > in un mese e mezzo 1376 esecuzioni capitali a Parigi
26 giugno > vittoria francese e conquista del Belgio
27-28 luglio (9-10 termidoro) > arresto e messa a morte di Robespierre e dei suoi collaboratori
12 novembre > chiusura club Giacobini
1795
21 febbraio > libertà dei culti e separazione stato / Chiesa
maggio-giugno > Terrore Bianco
agosto > costituzione anno III (con Dichiarazione diritti assai più moderata e una dichiarazione dei doveri).
5 ottobre > insurrezione realista contro la Convenzione > repressione da parte di Barras e Bonaparte
26 ottobre > sciolta la Convenzione e nuova costituzione in vigore
31 ottobre > elezione del Direttorio
1796
marzo > Bonaparte nominato generale dell’armata d’Italia (il 15 maggio è a Milano)
maggio > congiura degli Eguali (giacobini) > instabilità politica
settembre > colpo di stato anti-realista del Direttorio
1798
aprile > affermazione elettorale dei giacobini
maggio > colpo stato dei Consigli e del Direttorio contro i giacobini
maggio > spedizione in Egitto contro il commercio inglese in Levante
1799
aprile > nuova maggioranza giacobina e nuovo colpo di stato
novembre (18-19 brumaio) > colpo di stato di Bonaparte > triumvirato (Bonaparte, Sieyès e Ducos).
nuova costituzione > Bonaparte primo console > potere esecutivo, iniziativa legislativa, nomine dei ministri e di quasi tutti i funzionari pubblici.
LETTURE
M. BARBERIS, Sette studi sul liberalismo rivoluzionario, Torino 1989.
F. BLUCHE- S. RIALS- J. TULARD, La Rivoluzione francese, Tascabili economici Newton, Roma 1994.
P. COLOMBO, Governo e costituzione. La trasformazione del regime politico nelle teorie dell’età rivoluzionaria francese, Giuffré, Milano 1993.
G.G. FLORIDIA, La costituzione dei moderni. Profili tecnici di storia costituzionale, vol. I: Dal Medioevo inglese al 1791, Giappichelli, Torino 1991
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R. MARTUCCI, L’ossessione costituente. Forma di governo e costituzione nella Rivoluzione francese (1789-1799), Il Mulino, Bologna 2001.
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T. TACKETT, In nome del popolo sovrano. Alle origini della rivoluzione francese, Carocci, Roma 2000.
14. Lo stato amministrativo: dall’epoca rivoluzionaria alla Restaurazione. La nascita della burocrazia moderna
Come abbiamo detto sopra, gli studi recenti hanno messo in luce come l’assolutismo non si consolidi contro la società corporativa ma insieme e grazie a essa. Il re si serve della società corporativa per ottenere risorse e uomini per i suoi scopi, assicurando come contropartita il rispetto dei privilegi e dello status dei ceti nobiliari. Il governo del re finisce così per appoggiarsi sulla catena di poteri e intermediazioni propria della società corporativa.
Ciò non toglie, come ha ben intuito Tocqueville, che nelle funzioni, ma anche nelle forme e nelle procedure, si assista dal Seicento in poi ad un processo di modernizzazioni e razionalizzazione dell’apparato dello stato, che mette in discussione l’ordinamento per ceti. La rivoluzione militare, infine, accentua le dimensioni razionali e le forme amministrative “istituzionali”, mettendo in discussione il primato delle forme “giurisdizionali” e corporative.
Né vanno dimenticate le trasformazioni economiche, sociali e culturali. Sia l’economia di mercato che l’ascesa di ceti borghesi che l’emergere dell’opinione pubblica borghese mal si raccordavano con una società di ‘ordini’ di stampo corporativo.
Con Luigi XIV e Colbert si registrano dei mutamenti di non poco conto: l’accrescersi delle competenze amministrative del Consiglio regio e degli altri Consigli, il potere di “tutela generale” sulle comunità affidato agli intendenti, dipendenti direttamente dalle Finanze, una più assidua ‘legislazione’ regia e la sistemazione del diritto in alcuni ambiti importanti della vita pubblica francese. La rete degli office di giustizia aveva suo portavoce presso il re nel cancelliere: ma con Luigi XIV la sua importanza sarà minore, mentre il Controllore generale e il Dipartimento delle finanze vedranno notevolmente ampliati i loro poteri, diventando di fatto il canale di trasmissione della volontà del re per la police générale du royaume. In tal senso, la “rivoluzione” monarchica del 1661 apre una fase nuova, in cui l’État de justice sarà progressivamente ridimensionato a favore dell’État de finance. Gli ampi poteri di Colbert, e la prevalenza della commission sull’office sarà lo strumento di questa svolta.
Ciò che manca, e mancherà per tutto l’antico regime, è l’idea di una amministrazione pubblica come ‘esecuzione’, come potere separato dagli altri, come apparato statale finalizzato alla cura degli interessi pubblici. Pensiamo ad esempio al potere dei Parlamenti: anche se l’editto Saint-Germain del 1641 aveva loro vietato l’intromissione negli “affaires d’État, administration, et gouvernement”, le corti continueranno ad esercitare funzioni amministrative fino a Rivoluzione.
La separazione dell’amministrazione dalla giurisdizione sarà un esito, faticoso e lungo, del decennio rivoluzionario, e si affermerà in forme chiare solo con Napoleone. La storia dell’amministrazione francese procede in parallelo ma con passaggi non sempre coincidenti con gli eventi politici e costituzionali. Si può dire che la crescita degli apparati pubblici e, contemporaneamente, del controllo del centro sulla vita locale, vede una continuità tra l’avvio del regno di Luigi XIV (1661) e il 1884, quando è emanata la Charte des communes, che definisce l’assetto dell’amministrazione periferica destinato a rimanere fino al 1982, quando una nuova riforma dell’amministrazione locale ridefinisce la figura del prefetto, che non è più un organo esecutivo, e si conclude quindi un intero ciclo storico dell’amministrazione francese.
Tocqueville parla della “gouffre” (abisso) della Rivoluzione, per segnalare la discontinuità tra il processo di crescita appena citato e quanto accade nel decennio rivoluzionario. Fu un decennio di consolidamento dell’accentramento amministrativo o un decennio in cui tutto si arresta, per riprendere con Napoleone ? In realtà, all’inizio l’Assemblea costituente perseguì un disegno di rottura con l’antico regime anche per gli apparati e le forme amministrative. Tocqueville parla per la Rivoluzione di intenti decentralizzatori, ma di sistema “necessariamente” di accentramento.
Già con Necker era stata tentata l’introduzione di assemblee provinciali a titolo sperimentale in Berry (1778) e Haure-Guyenne (1779): questi organismi avrebbero dovuto dar voce ai proprietari terrieri in tema di ripartizione delle imposte e di spese locali. E’ questa la prima esperienza concreta di partecipazione e di pubblicità amministrativa in Francia, tanto più che per l’occasione fu concesso al Terzo Stato il raddoppio della sua rappresentanza. Calonne riprese l’esperimento nel 1787 e lo sottopose all’assemblea dei notabili dell’88. Ma il provvedimento incontrò l’opposizione solidale dei Parlamenti, della burocrazia regia, e degli intendenti.
Dopo l’avvio della rivoluzione, il provvedimento più importante è quello del 22 dicembre 1789 che ridisegna le circoscrizioni amministrative francesi sulla base di un principio di omogeneità territoriale sconosciuto alla Francia d’antico regime e al suo intrico di comunità, città e territori, ciascuno distinto dagli altri per la sua storia, le tradizioni giuridiche, i poteri dei ceti (si pensi alla distinzione tra ‘paesi di stato’, ove esistevano e funzionavano le assemblee provinciali, e ‘paesi d’elezione’, ove prevaleva il controllo regio). L’idea di una sola indistinta nazione consente ora la divisione della Francia con criteri quasi ‘geometrici’ : 83 dipartimenti, a loro volta divisi in distretti e municipi (44.000), che si tentò di ritagliare secondo criteri di equivalenza territoriale e di popolazione.
L’amministrazione locale fu organizzata all’inizio sulla base di un principio elettivo che prevedeva la scelta da parte dell’elettorato dei governanti, funzionari e giudici locali: ma nel corso della rivoluzione prevalsero le necessità di controllo politico e l’elettività fu soppressa. Il Dipartimento, cardine dell’amministrazione territoriale, è affidato a un Consiglio generale elettivo, non permanente, con compiti di riparto delle imposte, e ad un Direttorio più ristretto che doveva amministrare concretamente sulla base delle leggi centrali. Al di sopra di questi organi di governo locale, un Procuratore generale vigilava sulla osservanza delle leggi da parte degli amministratori locali.
Una organizzazione simile era replicata al livello inferiore, quello del distretto.
Durante il Terrore, la necessità per i giacobini di controllare direttamente la vita locale portò alla soppressione del direttorio e del consiglio, e all’attribuzione di pieni poteri a dei commissari governativi straordinari, che diventarono la ‘longa manus’ del governo centrale. Lo stesso accade nei distretti, dove i commissari governativi erano tenuti ad inviare regolarmente a Parigi dettagliati rapporti sulla situazione locale: i loro compiti fondamentali furono quindi il controllo della vita locale e la sorveglianza politica.
La costituzione del 1795 confermò la tendenza all’accentramento e la presenza di un commissario del governo con estesi compiti di vigilanza: senza entrare in tutti i dettagli, le amministrazioni locali vennero a dipendere rigidamente dal governo centrale, che poteva anche sospenderle in caso di necessità. Ma non dimentichiamo che si affacciarono durante la rivoluzione anche modelli di natura federativa, specie nel Sud e Sud-Ovest del paese, che furono duramente repressi dal governo centrale. I rivoluzionari francesi guardavano ormai con sospetto ad ogni differenza territoriale e ad ogni particolarismo, che richiamava loro i principi e la natura dell’antico regime. L’opzione della ‘unità’ e ‘indivisibilità’ della Francia, e poi della repubblica, non furono mai messi in discussione, e furono le argomentazioni addotte per la spietata repressione dei moti federalisti e municipali, e della rivolta in Vandea.
L’età napoleonica
Se molte innovazioni amministrative della rivoluzione ebbero vita breve, la tendenza all’accentramento caratteristica della storia francese dal ‘600 in avanti fu perfezionata e portata a compimento dal regime napoleonico.
Due furono, in particolare, le innovazioni napoleoniche che rafforzarono il potere centrale e l’esecutivo.
La prima fu la creazione di un Consiglio di Stato composto da personaggi nominati dal Primo console, con il compito di predisporre i provvedimenti legislativi e i regolamenti amministrativi, che il Tribunato poteva solo approvare o respingere, senza alcun potere di modifica.
La seconda fu la legge 17 febbraio 1800, che introduceva la figura del prefetto quale capo dell’amministrazione del dipartimento, assommando nella sua figura sia i compiti prima assegnati agli organi di governo dipartimentale, sia le funzioni di controllo dei commissari. In tal modo si poneva tutta la vita pubblica dipartimentale sotto il diretto controllo del governo, e quindi dello stesso Napoleone. “Il prefetto cessava di essere, diversamente dai rappresentanti governativi che l’avevano preceduto, un supervisore del governo, sia pure con ampi poteri; diventava lui stesso il responsabile delle operazioni, prendendo a dirigere gli uffici della prefettura, che in pratica sostituivano la deposta amministrazione centrale del dipartimento“ (Antonielli, p. 17). Così, sottoponendo il governo locale alla discrezionalità del potere centrale, era d’un colpo solo superato il limite ‘strutturale’ delle intendenza d’antico regime, in cui i rappresentanti del re non potevano sottrarsi ad un continuo confronto – scontro con i corpi e le autorità locali dotate di un qualche potere.
Si è infatti spesso confrontato il prefetto napoleonico e l’intendente d’antico regime. Ma va ricordato che la monarchia, pur pressata da esigenze finanziarie che la spingono fin da Richelieu a cercare strumenti efficaci e celeri di controllo e intervento nelle periferie, soprattutto per quanto attiene al settore fiscale, non mise mai in discussione il sistema di privilegi e di libertà giuridiche della società di ordini francese, né pretese di sostituirsi ai soggetti sociali nelle tante funzioni e poteri che questi conservarono fino alla rivoluzione. “Per questo gli intendenti, che pure erano strettamente sottoposti al re, da lui liberamente nominati e rimossi, godevano sul posto di una notevole libertà d’azione, in quanto la loro posizione non era rigidamente collegata a un sistema amministrativo che ne dirigesse e al tempo stesso ne limitasse i movimenti“ (L. Antonielli, p. 11) I
Inoltre, come nota lo stesso autore, gli intendenti diventarono col tempo dei “potenziali viceré, dall’autorità teoricamente quasi illimitata, ma i cui effettivi poteri furono inscindibilmente legati alla capacità dei singoli e alla forza del potere centrale nei diversi momenti“ (ibid., p. 12). Pertanto sia i poteri degli intendenti che le loro competenze effettive furono di volta in volta molto estesi o assai ridotti.
Il tipo di accentramento realizzato dal sistema napoleonico muove dagli esiti della rivoluzione, che aveva già fatto piazza pulita di ogni potere intermedio, riorganizzato le circoscrizioni amministrative e abolito ogni tipo di privilegio locale o personale. Diventa ora possibile un controllo territoriale che giunge su ogni angolo dell’impero, e un tipo di amministrazione in grado di imporsi come forza immediatamente esecutiva in ogni ambito della vita pubblica.
Il richiamo all’intendente come punto di avvio dell’accentramento francese deve essere perciò visto come l’indicazione di una linea di tendenza, che però troverà con Napoleone, inevitabilmente, meccanismi d’azione, forme di intervento e regole assai diversi da quelli d’antico regime.
Lo stato amministrativo prussiano
Prima di capire quanto sopravvive alla Restaurazione del sistema impiantato da Napoleone, vediamo brevemente un’altra esperienza europea in cui la creazione di uno stato accentrato avviene proprio attraverso l’impianto e l’utilizzo di solidi apparati amministrativi e di un’etica del servizio pubblico che diventa parte stessa dell’identità nazionale. Ci riferiamo alla Prussia, stato che si forma a partire dal XVI secolo con il passaggio al luteranesimo del Gran Maestro dei Cavalieri teutonici, mentre nel 1618 con l’estinzione del ramo principale, la Prussia passa sotto il dominio del ramo del Brandeburgo, dando vita ad uno stato composito. Dopo la guerra dei Trent’anni, in un momento che vede l’indebolimento del potere imperiale, Federico Guglielmo (1640-1688), detto il “Grande elettore“ riformò il sistema fiscale rafforzando le imposte indirette (accise) e esautorando ceti e città da ogni potere in quel settore. In cambio, confermò i privilegi della nobiltà e il suo potere sui contadini, che furono assimilati ai ‘servi della gleba’. Così, in cambio della sottomissione al sovrano, gli Junker prussiani ebbero un pieno controllo sulle campagne e si avviarono a diventare un ceto di funzionari militari e civili legato alla dinastia e allo stato.
A fine ‘600 il carico fiscale crebbe notevolmente, per consentire la creazione di un moderno esercito permanente (25-30.000 uomini anche in tempo di pace).
Così come accade per i Savoia, la Prussia interverrà da quel momento in tutti i maggiori conflitti europei, ottenendo ogni volta acquisti territoriale e una crescita del prestigio internazionale. Anche la sua partecipazione alla guerra di successione spagnola ha un parallelo con le vicende sabaude: fu infatti per l’aiuto dato all’Imperatore in quell’occasione che quell’insieme di territori fu elevato a regno, e Federico I fu il primo ‘re’ di Prussia. Una politica di stampo assolutistico, una costante ricerca della crescita economica e l’acquisto della Slesia fanno del regno una grande potenza europea: l’azione illuminata di Federico II fu in molti settori niente più che una rafforzamento di tendenze già in atto, mentre in altri, come l’istruzione, la cultura e il diritto, il sovrano fu più influenzato dall’Illuminismo verso un vero e proprio progetto di modernizzazione del paese. Un progetto che aveva però basi già solide. Per governare i tanti territori accumulati dalla dinastia nel corso del tempo, che non avevano continuità geografica, i sovrani prussiani avevano rafforzato il collante istituzionale e militare, attraverso la figura dei “commissari“ (commissarius loci), che risiedevano nelle città e controllavano l’amministrazione militare, le entrare fiscali e le spese locali. In tal modo, l’amministrazione militare diventò di fatto il ‘motore’ di istituzioni e procedure agili e moderne, “e fu capace di congiungere rapidamente i singoli territori in un superiore intreccio ‘filo-prussiano’ di persone e di istanze“ (Schilling, p. 487). Anche l’origine militare dei funzionari prussiano avrebbe avuto conseguenze di lungo periodo sulla percezione del servizio pubblico e della burocrazia, vista come un corpo coeso e disciplinato, l’appartenenza alla quale era fonte di distinzione e orgoglio.
Accanto a questa amministrazione controllata dal re, sopravviveva nelle campagne una amministrazione di tipo cetuale: ma all’inizio del ‘700 anche questa fu riformata e ogni circolo territoriale fu affidato ad un consigliere nominato dal re. Dagli anni ’60 del Settecento, al vertice dell’amministrazione militare fu posto un Commissariato generale di guerra con sede a Berlino. Muovendo dalla convinzione che un’economia sana e fiorente fosse la migliore garanzia di entrate stabili, il Commissariato finì per diventare il motore del governo prussiano, e l’artefice di una politica commerciale di stampo mercantilistico. Nel 1722 fu creato un Direttorio generale, che assorbì le funzioni militari e il controllo del vasto Demanio regio, e al quale facevano capo i dipartimenti provinciali. Questo organo restò il motore del governo prussiano fino alle riforme di fine XIX secolo.
“A metà del XVIII secolo il Brandeburgo-Prussia possedeva così un’amministrazione centrale moderna ed efficiente, articolata in parte secondo ambiti di lavoro specializzati e in parte territoriali. A l vertice delle competenze c’era un ministero al quale erano subordinati parecchi consigli. Le decisioni del Direttorio generale dovevano essere prese nel Collegio complessivo e confermate dal re“ (Schilling, p. 491). Anche le procedure erano razionali: il sovrano comunicava con il Direttorio e con il Consiglio per gli esteri (Kabinettsministerium) solamente con una serie di comunicazioni scritte. Come nota Bonini, è una forma di governo di ‘gabinetto’ speculare e opposta a quella inglese: mentre nell’Inghilterra del primo Settecento questo sistema di governo collegiale esprimeva il rafforzamento del sistema rappresentativo, qui esso era legato al perfezionamento della forma burocratica in se stessa.
La nascita della burocrazia moderna
Quello prussiano è un caso interessante anche per i criteri che presiedono all’organizzazione della funzione pubblica.
Nel 1722-23 era stato riformato il reclutamento militare, prevedendo per gli ufficiali, dopo il servizio militare, un accesso privilegiato alla pubblica amministrazione, secondo un principio che sarà costantemente ripreso e perfezionato. Nel 1737 e poi ancora nel 1755 furono emanati dei regolamenti per la pubblica amministrazione che generalizzavano il criterio della selezione sulla base delle competenze e del merito. Già nel 1713 era stato previsto il tirocinio negli uffici per gli aspiranti all’impiego pubblico: un ‘servizio preparatorio’ che ancor oggi distingue la funzione pubblica tedesca. “Il superamento di un esame infatti permette l’accesso ad un servizio preparatorio, che è coronato da una seconda selezione sotto forma di esame, che abilita alla diverse carriere o professioni“ (Bonini, p. 81).
Si creava così un ceto burocratico professionale, preparato nelle università e addestrato nel tirocinio, e si giungeva assai vicino alla definizione di una burocrazia moderna.
Preparata dallo sviluppo degli apparati statali lungo il Settecento, esito dell’acquisizione da parte dello stato di nuovi compiti, o dell’estensione delle funzioni precedenti, la crescita del numero dei funzionari pubblici configura un tipo di servizio diverso da quello che abbiamo esaminato per l’antico regime.
Nello stato amministrativo per eccellenza, la Francia, vigeva come abbiamo visto una diffusa ‘personalizzazione’ degli uffici. Come afferma Richet, in Francia “ciò che attualmente chiamiamo la «funzione pubblica» faceva blocco con il suo titolare, a tal punto che sarebbe impossibile ricostruire la storia di un dato istituto - si tratti di un Consiglio o di un ufficio giudiziario, finanziario o amministrativo - senza descrivere la vicenda dei personaggi che ne furono alla guida” (p. ). Si crea così una ‘nobiltà di toga’ che assume il monopolio degli uffici finanziari e giudiziari, e che operando all’interno di alcune istituzioni fondamentali come i Parlamenti, sarà lungo il XVIII secolo il vero centro dell’opposizione ai progetti di riforme della monarchia.
Anche altrove, con l’eccezione inglese, le cose non andavano molto diversamente.
E’ proprio con l’assolutismo illuminato e con le riforme del ‘700 che si viene sviluppando una burocrazia di tipo moderno, articolata per funzioni, organizzata in gerarchie e carriere, basata su competenze tecniche e professionali ben precise.
Qualunque sia l’attività che svolge (scuola, sanità, imposte ecc.), l’amministrazione pubblica si basa oggi su alcuni principi fondamentali, che insieme formano il diritto amministrativo. Il più importante, forse, di questi principi, è quello che afferma che queste attività sono svolte da chi le svolge “nonin quanto persone, ma in quanto titolari di uffici; vale a dire, tali persone agiscono alla luce e al servizio di interessi non loro propri, ma di natura pubblica, che quegli uffici devono custodire e perseguire" (Poggi, p. 117).
E’ evidente che quanto è accaduto negli ultimi dieci anni in Italia ci induce ora ad affermare che la seconda parte di questa affermazione è del tutto astratta, e che l’utilizzo di uffici pubblici per scopi privati o per un tornaconto personale è stato nel nostro paese un fenomeno se non ‘normale’, per lo meno assai diffuso. Ma anche al di là della ‘corruzione’ degli uffici pubblici, la burocrazia non gode oggi di grandi simpatie, né di considerazione. Lungaggini, procedure complicate, linguaggi formalistici e specialistici, sovrabbondanza di personale rispetto a funzioni che con le nuove tecnologie potrebbero essere semplificate: questi alcuni dei mali denunciati da chi si occupa oggi del fenomeno burocratico. Vorrei ricordare che anche sociologi e politologi guardano ai sistemi amministrativi del passato per cercare di capire analogie e differenze con l’oggi, e per rintracciare modelli amministrativi più flessibili, aperti, e dunque più in sintonia con la “velocità” e i continui mutamenti delle società contemporanee (cfr. ad es. Crozier).
Ma per capire la funzione della burocrazia moderna, il confronto va fatto evidentemente con il modo di svolgimento delle funzioni pubbliche prima del ‘700, non con ciò che segue.
Secondo Max Weber, la formazione di apparati amministrativi burocratici sono un tratto caratterizzante l’affermazione del potere “razionale-legale”. Un apparato burocratico di tipo moderno è quindi connotato da criteri e modalità d’azione ben precise:
“Se e in quanto questo principio viene effettivamente realizzato, nello stato moderno il potere politico viene sistematicamente spersonalizzato, e la béte noire dell'illuminismo politico – l’arbitrio dei prìncipi e dei loro servitori - viene definitivamente messo a tacere” (Poggi 117).
Inoltre, la prevedibilità delle azioni della pubblica amministrazione rende possibile anche per i privati “disporre delle proprie risorse, orientare le loro private attività, in base ad assunti consapevoli, plausibili circa il modo in cui tali attività verranno appoggiate o ostacolate da quelle pubbliche proprie appunto dello stato” (Poggi 117).
Più in generale, Weber distingue tra amministrazione ‘indiretta’ e amministrazione ‘diretta’: nella prima, tipica dell’antico regime, lo stato persegue i suoi fini prevedendo un atto coercitivo verso chi si sottrae all’obbligo previsto, e gli apparati pubblici fondamentali sono quelli di tipo giudiziario, che svolgono quindi anche funzioni amministrative per via ‘indiretta’ (ad esempio: lo stato non interviene nella pulizia delle strade, ma impone ai residenti questo obbligo, punendo chi si sottrae). Nell’amministrazione diretta, invece, lo stato agisce in proprio, con propri apparati e uffici, per raggiungere lo scopo che si prefigge: in questo caso, “l’ordinamento coercitivo compare solo in forma mediata” (Weber, Il primato del parlamento, p. 152). Negli stati che agiscono attraverso un’amministrazione diretta è essenziale, evidentemente, disporre di una macchina statale ‘pesante’ e ramificata, in grado di farsi carico dei numerosi compiti pubblici.
Va qui notato che la ‘natura’ del rapporto di servizio cambia notevolmente nel passaggio dall’amministrazione indiretta a quella diretta: per garantire l’esecuzione dei compiti, è necessario instaurare una ‘catena di comando’ basata su principi di funzionamento chiari e omogenei, sul raccordo tra uffici centrali e periferici, sulla prevedibilità delle azioni del singolo ufficiale. Tutti requisiti che mancano alle amministrazioni d’antico regime.
LETTURE
L. ANTONIELLI, I prefetti dell’Italia napoleonica, Il Mulino, 1983.
C. CAPRA, L’età rivoluzionaria e napoleonica in Italia, Loescher, Torino 1978.
L. VANDELLI, Poteri locali. Le origini nella Francia rivoluzionaria, le prospettive nell’Europa delle regioni, Bologna 1990.
15. Costituzioni e amministrazione: il Triennio giacobino in Italia.
La rivoluzione e la penisola italiana
Il periodo napoleonico rappresenta un'autentica frattura nella storia della penisola una vera e propria ‘frattura’, che investe le strutture statali, la mentalità, la cultura, gli assetti economici e sociali. Nonostante il ristretto arco cronologico - un decennio circa - in cui si situa la vicenda dell'Italia giacobina e napoleonica, quel periodo assume un valore paradigmatico per le trasformazioni politiche e istituzionali che determina, e per il più generale mutamento sociale.
Sotto la spinta della Rivoluzione francese, il pensiero politico italiano subisce una sorta di accelerazione: da una concezione riformistica di impronta moderata, fondata sulla fiducia nel principe e nell'azione dall'alto, si passa ad un'idea costituzionale del potere. Il fallimento dell'Illuminismo riformatore produce una rapida affermazione delle dottrine costituzionali e democratiche, con una veloce radicalizzazione delle idee e dei progetti. Mentre governi e sovrani illuminati fanno marcia indietro, intellettuali e riformatori trovano nelle idee democratiche il terreno su cui impostare in modo nuovo il rapporto tra stato e società.
Fioriscono progetti costituzionali che si ispirano alla repubblica giacobina francese: ad esempio quello di Giuseppe Zamboni del 1794, Saggio di governo di una repubblica, che proponeva il suffragio universale, ma conservava al tempo stesso gli organi municipali della tradizione aristocratica; o quella di Filippo Buonarroti, Schema di costituzione politica di ogni repubblica italiana.
In Italia non si avviano esperienze rivoluzionarie autonome: i valori della rivoluzione sono ‘importati’ nella penisola dalle armate rivoluzionarie, e il modello che viene recepito è quello della costituzione dell'anno III (1795), che rispetto a quella giacobina del 1793 rappresenta un'attenuazione delle libertà fondamentali, e una restrizione politica della partecipazione democratica, con la negazione delle esperienze precedenti di democrazia diretta e di suffragio universale. "Dunque, il volto del primo costituzionalismo italiano è determinato da questo incontro tra dipendenza dalla Francia e tendenza all'autoritarismo, e passa attraverso varie fasi, strettamente legate alle fortune belliche e alla guida politica francese" (Allegretti, p. 324).
Dopo la creazione in Italia di alcune ‘repubbliche’ autonome, che però cadono ben presto sotto il diretto controllo di Napoleone e dei suoi uomini di fiducia, si procede anche nella penisola alla stesura di alcune costituzioni, che in realtà non furono mai applicate, poiché si preferì applicare direttamente la costituzione francese, prima quella del 1795, poi quella del 1800.
Ma la stagione delle costituzioni fu l’occasione per un serrato confronto politico fra intellettuali e responsabili delle repubbliche italiane a proposito dei nuovi principi di governo. Uno dei primi banchi di prova delle proposte e delle idee per delineare un nuovo assetto per la penisola fu il concorso bandito nel 1796 dall’Amministrazione provvisoria della Lombardia e intitolato Quale dei governo liberi meglio convenga …. , al quale parteciparono
Contemporaneamente, furono avanzati alcuni progetti di costituzione per le varie repubbliche italiane, sorte fra il 1796 e il 1799, quando poco prima della fine della prima dominazione francese si costituì la Repubblica napoletana.
Le caratteristiche delle carte costituzionali italiane possono così essere sintetizzate:
1) restrizione delle libertà fondamentali: le dichiarazioni dei diritti del cittadino sono copie di quella della costituzione francese dell'anno III (unica eccezione: quella di Mario Pagano per la repubblica napoletana del 1799);
2) non è previsto il suffragio universale: il voto ristretto favorisce un regime oligarchico;
Da questa influenza francese restano fuori le isole, la Sardegna sotto il dominio dei Savoia che vi si rifugiano dopo l'invasione dei loro domini, e la Sicilia sotto il dominio dei Borboni, legati all'Inghilterra (a cui si ispirerà la costituzione siciliana del 1812).
In sintesi, si può dire che la Rivoluzione francese funziona come una cartina al tornasole, in grado di portare alla luce le diverse correnti presenti nella penisola (reazione monarchica e clericale, moderatismo, democrazia), e costringendole ad uscire allo scoperto con proposte e progetti costituzionali. Tra queste, sono le correnti moderate a diventare ben presto egemoni. Figura significativa è quella di Giandomenico Romagnosi, sostenitore di una monarchia nazionale rappresentativa in cui l'unico vero potere dello stato era il sovrano, mentre per gli altri organi era previsto un mero potere di controllo.
Ma ciò che dell'eredità del Settecento non va perso - lungo l'epoca post-rivoluzionaria e poi in parte nella Restaurazione - è appunto il riformismo civile-amministrativo. Come abbiamo sopra rilevato, le riforme attuate nella penisola nel Settecento furono soprattutto di ordine amministrativo, ossia tendenti a ridisegnare gli assetti territoriali onde favorire i ceti proprietari a livello locale, e sopra questi il controllo del sovrano.
Le età seguenti accentuano se mai questa tendenza. La costituzione dell'anno III che è recepita nella penisola prevede infatti che le amministrazioni municipali siano fortemente subordinate alle amministrazioni dei dipartimenti e queste ai ministeri. Già con questa costituzione si attua quella impostazione "geometrica" dell'amministrazione pubblica, sulla base dell'idea che non vi possono essere corpi e territori privilegiati rispetto ad altri. Tutto il territorio nazionale è diviso con criteri quantitativi, e sottoposto ad un'unica gerarchia amministrativa. E' in pratica le negazione dell'idea stessa di partecipazione in nome del principio della nomina statale delle cariche amministrative. Viene meno il primo requisito dell'autonomia locale, quello dell'elettività. Il controllo statale sugli enti locali trova il suo cardine nella figura del prefetto, erede dell'intendente, ma con poteri assai più incisivi.
Dopo il ritorno di Napoleone nella penisola (1800) a seguito della sconfitta degli austriaci, le repubbliche fanno posto ad alcuni ‘regni’ controllati da vicerè legati al generale, dando vita ad un decennio e oltre di consolidamento istituzionale e di profonde trasformazioni del rapporto fra stato e società.
La nostra penisola conosce in questi anni una prima esperienza di “unificazione amministrativa“, che si basa sull'imposizione di un modello istituzionale unico e alquanto semplificato rispetto ai farraginosi e complessi sistemi amministrativi d'antico regime. L'amministrazione funziona come strumento di modernizzazione di una società ancora legata alle antiche distinzioni di ceto: possiamo dire che in età napoleonica è l'apparato statale ad essere più avanzato rispetto alla società civile, inducendo in questa, se pure con tempi diversi da una regione all'altra, mutamenti sociali ed economici di ampia portata. Quello che si consolida negli stati italiani in età napoleonica è uno stato amministrativo e razionale, basato sul primato della legge, sul rispetto della proprietà, su una burocrazia centralizzata e ben disciplinata, sulla presenza capillare dell’esercito, su una classe dirigente costituita da un amalgama tra nobiltà e borghesia emergente, sul ruolo fondamentale dei proprietari terrieri nella gestione locale.
"Per la prima volta, nella storia delle istituzioni, lo Stato si fa carico in modo massiccio di compiti nuovi, si sente indotto a fornire una gamma più dilatata di servizi, è portato ad accrescere il proprio intervento normativo ed operativo in aree sociali ed economiche lasciate, per l'addietro, alla autonoma gestione di strutture private ed extra-istituzionali" (Aimo, p. 542). Sul piano di compiti e degli strumenti, l'amministrazione napoleonica interviene in settori prima ai margini dell'attività dello Stato: costruzione del sistema viario, controllo delle acque pubbliche, rilevazioni statistiche, creazione del servizio di stato civile.
Sul piano invece dell'organizzazione degli uffici, lo stato napoleonico segna l'affermazione della burocrazia moderna, caratterizzata dall'impiego pubblico a tempo pieno e regolarmente retribuito, dalla definizione di precisi diritti e doveri dell'impiegato, da un rapporto gerarchico tra gli uffici, da curricula e carriere prestabilite, dalla separazione tra ufficio e funzionario che lo occupa. L'amministrazione si divide poi per settori, ciascuno con una propria gerarchia di uffici, dipendenti dal rispettivo ministero.
Fondamentale, anche perché mantenutasi nel corso degli anni, fu l'organizzazione amministrativa territoriale definitasi durante questo periodo, basata sulla divisione dei vari Regni italiani in province e comuni, ambedue saldamente controllati dal centro. Nel Regno d'Italia, ad esempio, fu creata nel 1807 una Commissione del Consiglio di Stato sull'amministrazione dei comuni, allo scopo di scoprire gli abusi e i disordini delle amministrazioni locali, e per vagliare i bilanci preventivi dei comuni maggiori. La Commissione fu artefice negli anni seguenti di una vasta gamma di provvedimenti sull'amministrazione provinciale e locale (sulle spese, sulle opere pie, sui cimiteri, sulle strade, sull'illuminazione pubblica, sugli stipendi degli impiegati comunali ecc.).
A questi connotati, corrisponde sul piano costituzionale la prevalenza dell'esecutivo sugli altri poteri dello Stato, a scapito soprattutto del potere legislativo-rappresentativo. Nuova è anche la formazione di appositi organi giudicanti per le vertenze tra lo Stato e i privati, che segna l'avvio della giustizia amministrativa tipica dello Stato ottocentesco.
Va detto subito che l'accettazione più o meno consapevole del modello napoleonico non fu uguale in tutte le regioni. Al Sud, ad esempio, vivaci furono le reazioni e le ostilità verso un modello che sovvertiva totalmente gli antichi equilibri sociali e politici. Positivo fu il ridimensionamento che il sistema napoleonico seppe operare dell'egemonia di Napoli sul resto del regno, attraverso una nuova dimensione provinciale guidata dal prefetto, mentre fu alquanto malvista la fine della tradizionale autonomia dei Municipi, ora sottoposti, appunto, al controllo dei prefetti. Ma è tutta l'impalcatura dello Stato amministrativo ad essere sotto accusa, responsabile di affossare sotto mille leggi e mille cavilli burocratici gli antichi equilibri territoriali e sociali. Di conseguenza, a Restaurazione avvenuta, i giuristi tenderanno a ricostruire le vicende del Regno di Napoli sotto il segno della continuità borbonica, considerando la Rivoluzione francese e il regime napoleonico come delle parentesi che avevano turbato un assetto politico poi ricompostosi nelle sue forme originarie.
LETTURE
P. AIMO, L'Italia napoleonica. Introduzione, in "Archivio ISAP", n.s., n. 3, Milano 1985, I.
U. ALLEGRETTI, Profilo di storia costituzionale italiana. Individualismo e assolutismo nello stato liberale, Bologna 1989.
L. ANTONIELLI, I prefetti dell’Italia napoleonica, Il Mulino, 1983.
C. CAPRA, L’età rivoluzionaria e napoleonica in Italia, Loescher, Torino 1978.
C. GHISALBERTI, Storia costituzionale d'Italia 1848/1948, Bari 1981
M. MERIGGI,
16. Nazione e costituzione a Cadice. La costituzione napoletana del 1821
La logica amministrativa del regime napoleonico e la filosofia dello stato che la sorregge sono recepite in pieno anche dai regimi restaurati. Non così per la tutela dei diritti civili e politici e per l'idea costituzionale uscite dalla Rivoluzione francese, che la Restaurazione tenterà invece di cancellare.
Gli ordinamenti amministrativi della Restaurazione non fanno che perfezionare le tendenze all'accentramento espresse nel periodo napoleonico. In tal senso, la restaurazione non è un processo di segno solo "restauratore": utilizza se mai a scopi illiberali gli strumenti amministrativi e di governo usciti dall'esperienza delle riforme prima, e napoleonica poi. I governi restaurati ritengono insomma che gli strumenti del regime napoleonico siano i più efficaci anche per i loro scopi: ma ritengono di poterli conservare anche al di fuori di ogni limitazione costituzionale del potere regio, che la pubblicistica europea del primo Ottocento nuovamente riteneva di origine divina e fondato sulla legittimità dinastica e sulla tradizione storica.
Ideale comune a tante esperienze istituzionali della Restaurazione, dal Regno sabaudo a quello dei Borboni a Napoli, è il modello della “monarchia amministrativa“, vale a dire l'ideale di un ordinamento politico che utilizzava gli strumenti napoleonici per conseguire efficienza e funzionalità nel governo dello stato, e che si avvaleva per ottenere in necessario consenso della collaborazione tecnica dei ceti nobili e soprattutto borghesi. Restava fermo il principio che solo all'autorità regia spettasse il governo dello stato, con l’esclusione non solo di ogni forma moderna di rappresentanza ma anche di ogni possibilità di auto-governo locale.
In Lombardia, ad esempio, il testo legislativo del 1816 sugli ordinamenti locali in parte riprende i precedenti provvedimenti teresiani, in parte conserva gli istituti napoleonici. Gli enti locali sono definiti in termini generali, superando ogni carattere particolare dei singoli comuni, salvo quello della distinzione dei comuni stessi i tre classi distinte. I consigli comunali sono eletti con un sistema di cooptazione-designazione che lascia il potere di scelta dei consiglieri praticamente in mano al governo. Nelle città e capoluoghi di provincia è presente un podestà proposto dal consiglio comunale e di nomina imperiale. A livello periferico agivano poi per conto del governo il delegato provinciale (erede del prefetto) e il commissario distrettuale (capo della polizia).
Anche in Piemonte, prosegue durante questo periodo la tendenza ad un governo fortemente accentrato: in tal senso sono significativi la nomina dall'alto degli amministratori locali; la distinzione delle spese dei comuni in ordinarie e straordinarie, queste ultime soggette all'autorizzazione regia; la creazione della provincia presieduta dall'intendente. Sono tutte misure che in qualche modo si trasferiranno dopo l'Unità allo stato italiano, connotandolo in senso accentratore e statalista: da qui il fatto che la lotta per un ordinamento "liberale" degli enti locali si concentri fin dal 1847 sull'obiettivo della libera scelta elettorale degli amministratori locali, che sarà perseguito dalle correnti democratiche fino alla fine del secolo.
Caratteri della Restaurazione piemontese dal punto di vista istituzionale sono anche lo sviluppo di una burocrazia ministeriale, la riassunzione da parte del re del settore della giustizia, il mantenimento di una certa confusione tra amministrazione e giurisdizione.
Anche il ceto burocratico e militare cresciuto durante l'esperienza napoleonica costituisce un motivo di continuità con la Restaurazione: è un ceto che in certi casi diventa indifferente al mutare dei regimi, e costruisce la sua identità sociale, oltre che le sue possibilità economiche e professionali, nel riferimento all'ufficio e al servizio dello Stato. Va anche registrato un momentaneo ritorno della nobiltà nelle cariche pubbliche di maggiore rilevanza, salvo poi un suo ridimensionamento nel corso del primo Ottocento.
"Ma l'idea di una monarchia amministrativa, nella quale si riservavano alla Corona le decisioni politiche e si utilizzavano gli apporti delle altre classi sociali in un'attività amministrativa considerata fine a se stessa e priva di agganci con le scelte fondamentali e qualificanti che interessavano i diversi Stati, era destinata a rivelarsi illusoria. Era assurda, infatti, la concezione di un'amministrazione distinta dalla politica, perché l'attività dello Stato e dei suoi organi doveva, allora come in ogni tempo, essere considerata di carattere politico in quanto le scelte amministrative e tecniche rispondono sempre a finalità generali e per ciò stesso politiche, anche se apparentemente di mero ordine esecutivo" (Ghisalberti p. 10).
Si spiega perciò il carattere delle rivoluzioni del 1820-21, nelle quali una delle richieste fondamentali era appunto la concessione di una costituzione, sola garanzia per i nuovi ceti borghesi di una effettiva partecipazione alla gestione dello Stato. Una richiesta che resterà immutata fino al 1848, e che sarà il filo rosso, assieme all'idea dell'unificazione, dell'intero periodo del Risorgimento.
Un aspetto interessante dei moti del 1821 in Italia fu il convergere di molte richieste sulla concessione di una costituzione come quella spagnola del 1812: vale la pena dunque di capire che tipo di costituzione fosse quella emanata a Cadice, anche per distinguere, nell’esperienza costituzionale del primo ‘800, fra modelli costituzionali piuttosto diversi, a loro volta esito e rappresentazione di società profondamente diverse.
Tra queste, ricordiamo anche la costituzionale siciliana del 1812, stesa sotto l’influenza del plenipotenziario inglese lord Bentinck, che riprendeva il modello inglese adattandolo alla realtà dell’isola, prevedendo due camere, una ereditaria, assegnata ai baroni e all’alto clero, come nell’antico Parlamento siciliano, e l’altra dei Comuni, elettiva su base censitaria. Il Re convocava il Parlamento almeno una volta l’anno, designava i ministri, responsabili solo verso la Corona, e poteva respingere le leggi approvate dalle Camere. Tuttavia, il Re non poteva ingerirsi nel processo legislativo, e le Camere potevano chieder conto ai ministri del loro operato e sottoporli a indagine per azioni contrarie all’interesse nazionale.
Era un tentativo di conservare i vecchi poteri baronali, privandoli però dell’egemonia sociale. L’articolo XI prevedeva infatti l’abolizione del feudalesimo, norma che però fu disattesa per quanto riguardava i diritti personali (monopoli, prestazioni d’opera contadina ecc.), e che non riuscì comunque a mutare i rapporti sociali dell’isola. I baroni, liberati dai vincoli feudali, diventarono proprietari dei vasti latifondi siciliani, privatizzando anche le terre comuni e gli usi civici che fin lì avevano consentito ai contadini una sorta di economia di sussistenza collettiva.
La mancata riforma sociale fece dunque pendere dalla parte della tradizione l’applicazione, peraltro breve, di un testo che oscillava ambiguamente tra costituzionalismo antico e costituzionalismo moderno.
La costituzione di Cadice.
Nello stesso anno di quella siciliana, fu emanata la costituzione di Cadice, un altro testo che testimonia della diversificazione delle soluzioni costituzionali del primo ‘800, e dell’utilizzo che si poteva fare della costituzione anche per l’affermazione di valori e visioni della società abbastanza vicine all’antico regime.
Le istanze di modernizzazione dell’apparato statale avviate con Filippo V, tese a rendere possibile la ripresa della Spagna come ‘grande potenza’, non ebbero sbocchi concreti lungo il Settecento, e continuarono ad alimentare richieste e progetti di riforma per tutto il XIX secolo. Oltre alla Corona, anche la Chiesa manteneva in Spagna un potere enorme. nella triplice veste di proprietaria terriera, di istituzione assistenziale e di istituzione ‘lavorativa’, tutti aspetti che assumevano un’importanza ancora maggiore in una società con una economia tradizionalmente povera come quella spagnola. Nonostante l’espulsione dei Gesuiti nel 1767 (anche dall’America spagnola), la reazione cattolica era subito riuscita a imporsi nuovamente, e a riportare la società ad una visione tradizionale.
Tra fine ‘700 e primo ‘800 la lotta politica spagnola divenne anche guerra tra fazioni, combattuta con le armi dell’intrigo e del complotto. Il 17 marzo 1808 ad Aranjuez un tumulto popolare spinge Carlo IV ad abdicare in favore del figlio Ferdinando VII. Carlo IV cerca poi di riprendere il potere e si apre una fase che vede i due sovrani cercare legittimità presso i francesi. Napoleone stesso cercò di usare queste divisioni a suo vantaggio e convocò le rappresentanze dei ceti a Bayonne perché giurassero fedeltà al nuovo regime, provocando però il primo tentativo concreto di insurrezione contro i francesi, il 2 maggio 1808. Inizia da quel momento la lotta del popolo spagnolo contro i francesi.
Dalle organizzazioni locali spontanee create per la lotta anti-francese, nacque poi il nuovo sistema delle Juntas che subordinerà a sé le vecchie autorità, e che pose non pochi problemi di legittimità, dato che al di fuori delle Province Basche e della Navarra la Spagna del ‘700 non conosceva forme di organizzazione territoriale e di esercizio del potere dal basso. Il vuoto di legittimazione fu colmato da una vera e propria dottrina della “Nazione”, in cui la nazione è vista in modo ‘romantico’ come un’identità collettiva, frutto di un cammino di secoli, in quel momento minacciata da un tentativo di omologazione storica e culturale. Prevalse allora un’immagine della ‘nazione in armi’ che si rifaceva all’epopea della Reconquista per porre una netta distinzione tra la nazione spagnola e quella francese della Rivoluzione. Fu questa democratizzazione sperimentata sul campo a consentire in Spagna il passaggio da uno stato territoriale ad uno stato nazionale.
Il rischio di frammentazione legato all’auto-organizzazione locale, di tipo spesso spontaneo, e le ipotesi di tipo ‘federalista’ che circolavano portarono alla convocazione delle Cortes, unico organo rappresentativo della nazione.
Dal maggio 1809 in poi, ne sortì un ampio dibattito su ruolo e i poteri delle Cortes, che vide alla fine la prevalenza dell’idea di una rappresentanza nazionale dotata di un legittimo potere costituente: un potere, si argomentò, “che trovandosi depositato da sempre nella universitas associativa dei patres familias, poteva essere esercitato nei momenti critici di dissoluzione del patto sociale” (Portillo, p. 32), e che fu definito come potere di supremazia, con un termine che rinviava alla funzione “di perpetua vigilanza e tutela sull’ordinamento” affidato alle Cortes. La rappresentanza nazionale monocamerale fu vista perciò come una proiezione sociologica della nazione come conglomerato di collettività locali (pueblos) e padri di famiglia.
L’interesse di questo testo costituzionale sta appunto nella definizione della nazione, che precede quella dell’individuo: prima sono affermati i diritti nazionali (indipendenza, libertà e sovranità), poi quelli individuali, la cui protezione è affidata alla nazione stessa. L’art. I recita: “La nazione spagnola è l’unione di tutti gli spagnoli di entrambi gli emisferi”. In tal modo, la nazione era vista e definita come un ‘corpo’ che esisteva prima e al di sopra del testo costituzionale, “che in tal modo finiva con l’essere ridimensionato nelle proprie capacità costituenti” (ibid., p. 62). In nessun luogo del testo finale si trova infatti una dichiarazione dei diritti dell’individuo, e il solo riferimento a questi è nell’articolo sui diritti della nazione ora visto.
Fra il 1808 e il 1812 si ha quindi il passaggio dalla monarchia cattolica ad una nazione cattolica: un passaggio che non investe la forma di governo, dato che la forma monarchica è impressa nella storia stessa della nazione. Dunque, prima che di individui, l’esperimento costituzionale spagnolo del 1812 si occupa di comunità nazionale, della sua libertà, indipendenza, sovranità, territorio e confessione religiosa. La nazione diventa il vero soggetto di diritto dell’ordinamento, e si sovrappone agli individui che la compongono. L’art. 13 esplicita che “l’oggetto del governo è la felicità della nazione, visto che il fine di ogni società altro non è che il benessere degli individui che la compongono”. La felicità della nazione e il benessere di ogni individuo diventano qui la stessa cosa.
Al tempo stesso, si ponevano le premesse per una nuova storia civile, distinta da quella delle dinastie che avevano governato il regno. Una storia costituzionale della “nazione” che poggiava su una visione della Spagna come “soggetto politico complessivo”, come aggregato di popoli e di capifamiglia. Si attribuiva così un retroterra storico a un soggetto nazionale politicamente più dotato dell’antica monarchia “e quindi abilitato a una profonda operazione di riforma costituzionale” (Portillo, p. 54).
E’ evidente che la supremazia della nazione deriva dalla urgenza della lotta di liberazione contro i francesi allora in corso. Ciò nonostante, resta vero che anteporre i diritti nazionali – indipendenza, libertà e sovranità – a quelli individuali, significa far dipendere questi da quelli. Come dire che “per vedersi garantiti i diritti individuali, gli individui sono presi in considerazione solo in quanto appartenenti alla Nazione” (ibid., p. 84).
Un secondo momento di interesse di questo testo sta nella definizione della nazione spagnola come “nazione cattolica“. L’articolo XII della costituzione parla della religione cattolica, apostolica e romana come un bene nazionale, protetta dalle leggi. E’ la religione della “Nazione cattolica”, e con questo la cattolicità cessava di essere il tradizionale attributo della monarchia, per diventare un tratto della stessa identità nazionale. Proprio per questo, l’esperienza di Cadice si allontana “da quella interpretazione intimistico-privatistica della dimensione religiosa che nell’area atlantica aveva svolto una fondamentale funzione di impulso per la genesi di una dottrina dei diritti fondamentali” (Scuccimarra, Introduzione al volume di Portillo, p. LXXXI).
I costituenti si chiesero se fosse opportuno includere la religione fra i diritti garantiti da costituzione: ma farlo significava ammettere la tolleranza, perché la religione avrebbe dovuto essere un diritto individuale, libero. Si optò così per la formula che indicava che era tutta la nazione ad essere cattolica, con una evidente negazione del diritto di scelta religiosa per il singolo.
Recita l’art. XII: “La Religione della nazione cattolica è e sarà per sempre quella cattolica, apostolica e romana, unica vera. La Nazione la protegge tramite leggi sagge e giuste, e proibisce l’esercizio di qualsiasi altra”. Dunque: il cittadino spagnolo è per definizione cattolico, e si arriverà poi a chiedere l’appartenenza alla Chiesa cattolica per godere della cittadinanza. Questa religione non è allora dei singoli, ma della nazione: l’individuo non può sceglierla. Ma ciò implicava anche che gli atti contro la religione fossero visti anche come atti contro la nazione, da punire con pene civili.
Permane insomma una visione dell’ordine politico concepito in termini teologici e morali: il vescovo di Jaen nella pastorale che spiegava la costituzione disse : “Qui potete vedere un’immagine della società, di una società di cristiani” (ibid., p. 102). E ammonisce i fedeli che quelle costituzionali “non vanno considerate come obbligazioni puramente politiche, ma soprattutto religiose” cui si è vincolati non solo come spagnoli ma come cattolici. La costituzione era vista come il mezzo per realizzare la società cristiana: la bontà della costituzione non poteva essere giudicata con criteri solo politici. Nel pensiero liberale spagnolo del 1812 la costituzione ha dunque un fondamento non civile ma religioso, e la stessa libertà civile era circoscritta al suo ambito specifico di virtù morale. Lo spagnolo era sì libero, ma anche soggetto alle leggi eterne ed immutabili; libero, ma destinato alla vita sociale; libero ma necessariamente subordinato alla testa o al capo della comunità civile. “Ne conseguiva che i suoi cittadini fossero prima di ogni altra cosa dei fedeli”.
Cadice in Italia
Ci siamo soffermati su questa costituzione per l’influsso che quel testo ebbe sulla cultura politica italiana durante i moti del 1820-21, in molti dei quali si chiese appunto una costituzione simile a quella spagnola del 1812.
I moti napoletani del 1820, guidati da alcuni ufficiali, si svolgono all’insegna dello slogan “Dio, Re e costituzione”, che compendia efficacemente il riferimento ai tradizionali valori religiosi, uniti alla scelta monarchica e alle aspirazioni costituzionali. Il Re promette una costituzione sul modello di quella spagnola di Cadice, che nel frattempo fa tradurre da alcuni giuristi. Si fissa anche la data per le elezioni a suffragio universale maschile (con i tre gradi di Cadice: parrocchia, circondario, provincia): è questa la prima forma di rappresentanza moderna nell’Italia meridionale e l’unica svoltasi in Italia nell’800 a suffragio universale maschile. Nel frattempo, le aspirazioni siciliane ad una maggiore autonomia provocano una aperta rivolta nell’isola, che sarà subito repressa dal governo provvisorio napoletano.
Ferdinando di Borbone fece però marcia indietro rispetto alle promesse iniziali, e cercò l’appoggio della Santa Alleanza, che nell’incontro di Lubiana decise per l’intervento. Il 23 marzo 1821 Napoli era sotto il controllo degli Austriaci.
Anche in Piemonte, dopo alcuni tumulti universitari fondati su sentimenti anti-austriaco e su aspettative costituzionali, scoppia nel marzo 1821 una vera insurrezione. La Corona accetta l’idea di una costituzione modellata su quella inglese: ma la rivolta dilaga, e gli insorti proclamano la costituzione spagnola.
A questo punto occorre chiedersi le ragioni di queste comuni richieste costituzionali, che avevano come modello il testo di Cadice. La prima ragione è l’assenza, nel pensiero politico italiano del primo ‘800, di una cultura politica si stampo “repubblicano”, che fa sì che quella monarchica resti la sola forma di governo contemplata. Inoltre, come si è detto le insurrezioni sono guidate da ufficiali dell’esercito, che non intendono mettere in discussione la tradizionale fedeltà alla Corona come figura di vertice delle forze armate.
Per il caso napoletano vanno anche considerati i legami tra i due rami della dinastia borbonica, che fanno della Spagna un punto di riferimento costante della vita politica. Anche il riferimento all’autorità papale e ai valori cattolici contemplati nel testo spagnolo, sono elementi fondamentali per la cultura politica italiana del tempo. Infine, Cadice è nella cultura del tempo un riferimento ‘simbolico’ essenziale della lotta dei popoli europei contro i francesi e i valori della rivoluzione.
Durante la Restaurazione, anche la cultura cattolica aveva mostrato un vivo interesse per il costituzionalismo, considerato “quale mezzo di affermazione di un ordine nuovamente basato sulle gerarchie sociali e su una visione paternalistica del potere” (cfr. le costituzione octroyées).
Quella di Cadice era dunque una costituzione in grado di rispondere a molte attese: la sua natura democratica la rende però inaccettabile ai sovrani della Santa Alleanza. Ma perché non si scelse l’elaborazione di un testo costituzionale proprio, originale ? In realtà, nei moti italiani del 1820-21 la costituzione più che un punto d’arrivo fu vista come uno strumento della rivolta, e dunque era necessario che essa esistesse già, e fosse conosciuta, per funzionare da richiamo e da parola d’ordine degli insorti.
Si verifica così il caso, ricorrente nel laboratorio politico del primo ‘800, di una nazione che finisce per riconoscersi nella costituzione di un’altra. In questo senso, la costituzione assume la funzione di una “ideologia di riconoscimento”, di insieme di principi (già affermati) capaci di orientare l’azione comune. E’ per questo che non si decise per una costituzione nuova: “Appunto perché in gioco non c’è già più l’ideologia costituzionale – che ‘pospone’ la costituzione al cambiamento – ma la costituzione come ideologia, la quale viene ‘preposta’ al mutamento da realizzare e non ne è il frutto, è la natura stessa della costituzione a rivelarsi trasformata” (Colombo, p. 155). La costituzione non è più prodotto del cambiamento ma suo presupposto, arma di battaglia e di trasformazione politica. “La costituzione è la bandiera ideologica che precede le più disparate schiere dei fautori del cambiamento e le aggrega attorno a sé, anche quando appaiono così poco compatibili tra loro come nel caso dei moti italiani” (ibid., p. 156).
Come per gli altri vessilli ideologici, dietro la bandiera della costituzione si aggregano anche quelli che stavano nel campo opposto. Le costituzioni finiscono così per servire anche alla Restaurazione.
Tra le costituzioni della restaurazione ricordiamo la Carta francese del 1814, primo esempio dell’accettazione del liberalismo da parte di una dinastia, anche se riafferma diritto divino dei re. E’ un testo che segna anche un compromesso tra concezione monarchica antico regime e principio sovranità popolare : il re divide il potere con le due Camere, ma una sola è elettiva. Il sovrano controlla l’esecutivo e la giustizia, partecipa al potere legislativo con una propria iniziativa di legge, che le Camere possono solo discutere, mentre per le modifiche possono solo presentare delle suppliche. Inoltre, spetta al re la convocazione e la proroga delle Camere, la decisione sulla data delle elezioni, la nomina dei membri della Camera alta. Non è prevista la fiducia parlamentare verso i ministri. Nel 1830 un accordo tra Luigi Filippo e la Camera dei deputati porta ad una nuova Costituzione, che attenua il principio della legittimità dinastica con quello della sovranità nazionale, sottrae al re il potere di ordinanza, concede alcuni diritti civili e la libertà di stampa, estende il suffragio, rende elettivi anche i rappresentanti alla Camera alta e introduce il rapporto di fiducia parlamento /governo.
In sintesi, nel corso dell’Ottocento l’idea di un ‘potere costituente’ si indebolisce, fino ad apparire come un sinonimo di ‘rivoluzione’, e le monarchie fanno propria la nuova ideologia attraverso la concessione di costituzioni dall’alto, spesso stese con una sorta di ‘collage’ dei testi costituzionali in vigore negli altri paesi. E’ ciò che accade in Piemonte con la concessione dello Statuto Albertino, che sarà poi la prima carta costituzionale dell’Italia unita e che, come vedremo, fu modellata più alla Carta del 1814 che a quella del 1830.
Letture
P. COLOMBO, Costituzione come ideologia. Le rivoluzioni italiane del 1820-21 e la costituzione di Cadice (in appendice a PORTILLO VALDES).
A. DE FRANCESCO, Rivoluzioni e costituzioni. Saggi sul democratismo politico nell’Italia napoleonica 1796-1821, ESI, Napoli, 1997.
R. MARTUCCI, Partecipazione e costituzione: la regola impossibile, in D. Gallingani (a cura di), Napoleone e gli intellettuali. Dotti e ‘hommes des lettres’ nell’Europa napoleonica, Bologna, Il Mulino, 1996, pp. 49-82.
J. PENA, Historia politica del costitucionalismo espanol, Madrid, C.E.C. 1995.
J. M. PORTILLO VALDES, La Nazione cattolica. Cadice 1812: una costituzione per la Spagna, Laicata, Manduria-Bari-Roma, 1998.
L. SCUCCIMARRA, L’invenzione della politica. José Maria Portillo Valdése la cultura costituzionale di Cadice (saggio introduttivo al volume di PORTILLO VALDES).
17. Rivoluzioni e costituzioni nel 1848 italiano. Lo Statuto Albertino
Premessa
Rispetto ai moti del 1820-21, le agitazioni del 1830-31 appaiono maggiormente legate alla situazione internazionale e all’evolversi della situazione francese dove, dopo le giornate di luglio, Filippo d’Orléans aveva concesso ai francesi una nuova costituzione e aveva dichiarato il principio del non intervento, ossia l’intenzione della Francia di opporsi ad ogni tentativo della Santa Alleanza di reprimere i moti con la forza.
Già dopo il fallimento dei moti liberali del 1821, i moderati italiani, ormai egemoni sul resto del movimento di opposizione ai governi restaurati, avevano trascurato la questione della costituzione e della rappresentanza democratica, privilegiando la richiesta di riforme civili e legislative all'interno dei singoli Stati.
Nella penisola i moti del 1830-31 nascono da una base sociale più ampia di quella del 1820-21, e partono dalla speranza di un aiuto francese, che poi non venne. Anche se nessuna costituzione è ora concessa, i sovrani sono in alcuni casi deposti: così accade a Modena con Francesco IV d’Este. La rivolta si estende poi fino alla formazione di un governo delle provincie unite che comprendeva anche le Marche e l’Umbria. La stessa dinamica si ripete a Parma e nel resto dell’Italia centrale.
Dopo la sconfitta di queste nuove agitazioni liberali, la Carboneria perde la sua funzione iniziative a favore delle proposte e delle forme organizzative messe in piedi da Mazzini. In Italia, gli eventi del 1848 furono preparati da un decennio di progetti, dibattiti, organizzazione di movimenti (Gioberti, d’Azeglio, Balbo) sotto la guida dei ‘moderati’, che avevano come loro obiettivi, secondo quanto definito da d’Azeglio nella sua “Proposta d’un programma per l’opinione nazionale italiana”, l’uniformità dei codici e dei sistemi militari, e un progetto di unione ferroviaria, monetaria e doganale che unisse gli stati italiani. In questo testo non si dava spazio alla richiesta di un regime costituzionale, ma si avanzavano una serie di richieste di riforma amministrativa (elezione popolare dei consigli comunali e provinciali) e legislativa (riforma in senso liberale dei codici civili), e una serie di modifiche delle norme sulla stampa, sulle monete, sull'università ecc.
Solo dopo l'elezione di Pio IX nel giugno del 1846 si determina, prima nello Stato pontificio, poi negli altri Stati, una nuova fase di richieste costituzionali, che ha come esito l'emanazione di costituzioni liberali in tutti gli Stati della penisola. La rivoluzione scoppiò dapprima nell’Italia meridionale, sorprendo la stessa opinione pubblica europea, per poi dilagare a Venezia e a Milano.
Non entreremo nei dettagli delle rivoluzioni del 1848, espressione in Europa di sentimenti nazionalistici già maturi, oppure, negli stati occidentali, delle richieste e di programmi politici dei movimenti liberali, animati ora da un ceto borghese diffuso e in crescita. Né vedremo tutte le vicende italiane del 1848: ricordiamo solo che l’insuccesso finale delle rivoluzioni veneziana e milanese, e la sconfitta di Caro Alberto da parte di Radetzky, tutte le speranze dei moderati italiani si appuntarono sullo stato sabaudo. Ebbe un'enorme importanza per gli eventi successivi il fatto che dopo la repressione del '48 il Piemonte avesse conservato la costituzione allora emanata: lo Statuto albertino divenne dopo l'unificazione il testo costituzionale dell'Italia unita. Gli storici hanno spiegato questa "fedeltà" sabauda alla costituzione non solo con la forza ormai acquisita dal gruppo liberale moderato piemontese (Cavour, d'Azeglio ecc.), ma anche con la consapevolezza della dinastia che quella fosse l'unica strada per conservare la guida del movimento di indipendenza. La "fedeltà costituzionale" di casa Savoia sarebbe dunque una fedeltà strumentale: un'ipotesi che trova conferma anche nel celebre proclama di Moncalieri (1849), ove la Corona tentò (riuscendoci) di condizionare l'elettorato per ottenere un Parlamento favorevole alla politica della Corona stessa.
"L'ipoteca che gli avvenimenti del '49 pongono sulla storia liberale italiana non si chiude presto: anzi peserà sempre su di essa l'idea che i mutamenti elettorali e parlamentari sono leciti solo se accettati dalla corona e quindi solo se non varcano quei limiti di conformità all'indirizzo politico, estero ma anche interno, che la corona è disposta a condividere" (Allegretti, p. 389).
Le speranze riposte nello Statuto dai liberali italiani derivavano anche dal suo carattere ‘flessibile’, vale a dire modificabile con la legge ordinaria, anche se da parte regia ci si riferiva piuttosto, per evitare ulteriori interpretazioni liberali, al preambolo del testo, ove era definito come “legge fondamentale, perpetua ed irrevocabile”.
Lo Statuto prevede per il re ampi poteri, indicandolo quale capo dello stato, capo del governo, e capo dell’amministrazione, al quale gli altri poteri erano perciò subordinati. Il sovrano svolge la funzione esecutiva, è capo delle forze armate, ha il potere di guerra e pace (art. 5), e nomina le alte cariche dello stato. Ma ha anche ampi poteri legislativi: può svolgere attività normativa tramite decreti e regolamenti (art. 6), ha il potere di sanzionare e promulgare le leggi (art. 7), ha un potere legislativo in concorrenza con le camere (art. 8). I ministri sono considerati come organi della volontà regia, mentre la responsabilità politica dei ministri verso le Camere non è citata, ma
neppure esclusa a priori (artt. 65, 66, 67).
Le Camere sono formate da un Senato vitalizio a numero non limitato, con senatori scelti con le ‘infornate’ tra esercito, burocrazia, clero e personaggi dotati di altri meriti, lasciando comunque spazio anche all’immissione di borghesi (art. 33); e da una Camera, eletta con un sistema non definito, la determinazione del quale era rinviata dallo Statuto ad una legge successiva (art. 39), elemento questo che permise ai liberali di nutrire qualche speranza in merito alla questione del suffragio.
Con la legge elettorale 17 marzo 1848 si stabilì un sistema basato su un collegio uninominale e si determinarono per l’elettorato requisiti tali da favorire l’elezione di esponenti della borghesia, di professionisti e notabili, e in parte di proprietari terrieri. I politici sabaudi non ritenevano infatti che la società subalpina fosse pronta per un suffragio più ampio, che avrebbe posto gli elettori sotto l’influsso delle forze reazionarie. “Queste posizioni mostrano la tendenza, tipica del pensiero moderato, a concepire il liberalismo costituzionale necessariamente oligarchico nelle origini, ma tendenzialmente democratico nell’obiettivo” (Ghisalberti, p. 55).
La rapida evoluzione del sistema piemontese da monarchia costituzionale a monarchia parlamentare- rappresentativa non fu dunque prevista dallo Statuto ma si impose nella prassi, grazie anche all’operato di brillanti ministri come d’Azeglio e Cavour. Questi sviluppi sono però decisivi per comprendere il nuovo comune orientamento dei movimenti moderato e democratico italiano, alla fine degli anni ’50, in direzione dell’ipotesi dell’unione con casa Savoia, già del resto auspicata da gran parte di questo movimento all’indomani del 1848, quando il regno di Sardegna fu l’unico a salvaguardare la costituzione emanata in quegli eventi.
Dopo il 1848, la ‘modernizzazione’ economica, politica e giuridica del Piemonte subì un’accelerazione. Una serie di riforme e di provvedimenti riordinarono lo stato sancendo fra l’altro l’abolizione della primogenitura, l’inamovibilità dei magistrati, lo stipendio ai giudici, la creazione di appositi tribunali per le controversie commerciali. Ma, soprattutto, si era accentuato il profilo laico dello stato con l’abolizione del foro ecclesiastico e del diritto di asilo nelle chiese, la limitazione delle pene per il mancato rispetto delle festività religiose, il divieto per le istituzioni ecclesiastiche di accettare donazioni e lasciti senza l’autorizzazione regia e del Consiglio di Stato.
Per questo insieme di provvedimenti d’Azeglio si era appoggiato solo sul Parlamento, evitando di compromettere la Corona: è l’avvio di un effettivo regime parlamentare, che con Cavour sarà poi ulteriormente rafforzato attraverso il ruolo del Consiglio dei Ministri, ora inteso come organo collegiale che rappresenta al re e alle Camere l’indirizzo politico fondamentale.
Alla fine del 1859, lo stato sabaudo si presenta come un ordinamento in evoluzione dal punto di vista costituzionale: il dettato dello Statuto albertino è stato infatti superato da un'interpretazione "estensiva" dei suoi principi che ha fatto del Parlamento subalpino il potere supremo. Ma le sue istituzioni conservano in pieno i caratteri burocratici e militaristici tipici della Restaurazione, e questo peserà non poco ad unificazione avvenuta.
Letture
U. ALLEGRETTI, Profilo di storia costituzionale italiana. Individualismo e assolutismo nello stato liberale, Bologna 1989.
C. GHISALBERTI, Dall’antico regime al 1848, Laterza, Bari 1978.
R. MARTUCCI, Storia costituzionale italiana. Dallo Statuto Albertino alla Repubblica (1848-2001), Carocci, Roma 2002.
M. MERIGGI, Gli stati italiani prima dell’Unità. Una storia istituzionale, Il Mulino, Bologna 2002.
18. L’Unificazione legislativa e amministrativa italiana
Nonostante i suoi limiti, la carta sabauda del 1848 divenne il punto di riferimento dei moderati italiani durante il cosiddetto “decennio di preparazione”, periodo dominato dall’azione e dalla figura di Cavour, vero artefice della modernizzazione del Piemonte e delle scelte decisive per l’unità italiana.
Gli storici sono ormai concordi nel preferire il termine “unificazione nazionale” a quello di “unità”: si tratta infatti non di un preciso avvenimento, ma di un lungo processo costituente (il Risorgimento) nel quale si dibattono e si definiscono le linee e i principi della nuova formazione politica. In particolare, si parla di "unificazione" per l’intero periodo 1859-1865: la "costruzione dello stato italiano" come fase successiva e distinta dall'unificazione comportò infatti una serie di scelte legislative che diedero vita ad un ampio e vivace dibattito, che può essere considerato come la fase conclusiva del processo risorgimentale.
Va subito detto che il processo di unificazione si compì in forme che furono l'esito di precise scelte politiche, a loro volta determinate dall'egemonia nel liberalismo italiano del gruppo moderato. Ma altri gruppi liberali ebbero fin dall'inizio altri intenti: il gruppo lombardo, che mostrava una forte nostalgia per l'esperienza teresiana e per quella del Regno Italico, e il gruppo toscano, legato alla tradizione leopoldina, temevano una mera trasposizione all'Italia intera delle istituzioni piemontesi, cosa che poi realmente avvenne.
L'esito del processo di unificazione è espresso dagli storici con i termini prevalenti di "annessione", "unione per incorporazione", o "piemontesizzazione", proprio per indicare l'estensione al nuovo stato unitario dei caratteri costituzionali e amministrativi dell'ordinamento piemontese, e la scomparsa delle diverse ipotesi al centro del dibattito: repubblicana, costituente, federalista. A condurre a questa soluzione fu appunto l'egemonia di lunga data dei moderati all'interno del liberalismo italiano, favorita anche dalla preoccupazione piemontese di conservare utili legami diplomatici e internazionali.
Il nuovo regno si apre all'insegna della continuità dinastica: Vittorio Emanuele II diventa "re d'Italia", ribadendo con il mantenimento del numero dinastico la continuità con il Regno di Sardegna e con le sue istituzioni e il suo ordinamento giuridico, rivisto e completato proprio nel 1859 in occasione dell'annessione della Lombardia. Va detto che l’accettazione di questa soluzione fu preparata sia dal consolidamento delle istituzioni del regno di Sardegna lungo gli anni ’50, sia dalla convinzione che la supremazia parlamentare affermatasi nel regno sabaudo avrebbe consentito una piena rappresentanza anche dei territori nuovi, sia dalla flessibilità dello Statuto, che si riteneva per questo estensibile al nuovo regno senza bisogno di assemblee costituenti.
Alla vigilia dell’unificazione, inoltre, il governo Lamarmora aveva adottato alcune misure che andavano al di là dei poteri di guerra conferitigli: revisione e completamento del codice civile, penale-militare e penale (1859); misure di riorganizzazione in tema di pubblica amministrazione, giustizia, amministrazione locale e provinciale, pubblica istruzione (legge Casati), sicurezza, opere pie, sanità, lavori pubblici, miniere, contabilità pubblica, contenzioso amministrativo ecc.; nuova legge elettorale.
Come si vede, è un imponente complesso di norme, che sarebbe poi stato la base per l’unificazione legislativa e amministrativa del nuovo stato.
E’ un momento in cui salta, evidentemente, ogni principio di divisione dei poteri, mettendo fra parentesi lo stesso dettato costituzionale. Si attuò in sostanza una sorta di delega al governo per tutti gli aspetti del processo unitario. Ma la cosa non destò troppo scandalo, sia per l’omogeneità del ceto politico piemontese rispetto alla società, sia per la consonanza tra azione del governo e orientamento del parlamento. Come sottolinea Ghisalberti, l’assoluto predominio della borghesia nella vita politica piemontese del tempo, rendeva meno rigida la necessità della separazione dei poteri tra monarchia / aristocrazia (Senato) e borghesia stessa (Camera). In definitiva, lungo tutti gli anni ’50 e alla vigilia dell’unità, l’accentramento dei poteri nell’esecutivo rese più facile quel processo di modernizzazione degli apparati subalpini che determinò poi il favore con cui l’opinione pubblica italiana guardò all’ipotesi dell’unificazione col Piemonte sabaudo.
Le annessioni furono come è noto ratificate col sistema del plebiscito popolare, che servì anche ad assicurare la "legittimità" del nuovo ordinamento: con il plebiscito, vale a dire, il popolo si esprimeva allo stesso tempo sull'annessione del proprio Stato al Piemonte e sulla accettazione della monarchia sabauda a guida del nuovo ordinamento. Furono invece respinte le proposte dei liberali democratici di indire delle "costituenti" per sancire l'annessione, e per discutere della forma politica e costituzionale del nuovo stato. Già all'indomani della proclamazione dell'Unità, emerge la consapevolezza degli enormi problemi del nuovo ordinamento, e dei profondi squilibri tra una regione e l'altra: è celebre la frase del d'Azeglio quando disse che fatta l'Italia occorreva ora "fare gli Italiani".
Il processo di unificazione legislativa e amministrativa avvenne attraverso tappe assai complesse, diverse da territorio a territorio, che possono essere così schematizzate:
Ricordiamo inoltre, dopo le elezioni del ’65 che segnarono l’avvio della decadenza della Destra storica, i provvedimenti di soppressione delle corporazioni e delle congregazioni religiose e la vendita dei loro beni per risolvere il problema del deficit pubblico: una decisione che maturò in quel clima politico culturale che vedeva la Chiesa come ‘nemica’ del processo risorgimentale. La mancata emanazione di norme sull’assistenza pubblica che compensassero la diminuzione dell’assistenza affidata alle istituzioni religiose fu una delle cause della disaffezione della masse popolari verso lo stato liberale italiano.
Si è trattato di un processo di “piemontesizzazione” della penisola ? in realtà, anche gli altri apparati amministrativi della penisola derivano dallo stesso modello francese, e difficilmente si sarebbe potuto prescindere dal centralismo in un momento in cui la classe dirigente moderata sentiva come urgente la questione dello sviluppo del Sud e delle altre zone depresse della penisola.
Inoltre, il liberalismo moderato aveva da tempo fatta propria un’idea dell’Italia come ‘una e indivisibile’. Da qui l’insuccesso dei progetti regionalistici di Farini e di Minghetti e la scarsa incidenza delle idee federalistiche di Cattaneo e di Ferrari, e anche i duri giudizi del ceto dirigente piemontese sulle proteste e le rivendicazioni del Sud, viste come ‘conservatrici’.
Nel complesso, la legislazione del 1865, estranea alla cultura e alla tradizione giuridica degli Stati preunitari, realizzò un regime politico a metà tra il sistema parlamentare inglese e il regime accentrato francese. Limite forte - e subito avvertito - dell'opzione in favore dell'accentramento amministrativo, fu il fatto che il governo non disponeva in periferia degli strumenti efficaci per attuare quel controllo sui comuni che rientrava tra i suoi compiti.
In conclusione, ci sembra utile riflettere su un'osservazione di Allegretti, che giudica l'unificazione così attuata responsabile di un vero e proprio “dualismo giuridico e istituzionale” tipico ancor oggi della nostra penisola, e parallelo al suo dualismo economico e sociale. "Si tratta di una situazione per cui l'uniformità legislativa, applicata stolidamente ad una società così accentuatamente disuniforme nella dimensione territoriale e in quella socio-economica (con sovrapposizione assai forte delle due) e concepita per lo più, anche nei pochi episodi progressisti, sulla base delle tradizioni e dei bisogni delle regioni del centro-nord, si converte nella pratica applicazione in una diversa concreta valenza, in una differenza di regolazione giuridica effettiva, nel centro-nord e nel sud e, se si vuole, nella società contadina e in quella urbana ed industriale" (Allegretti, pp. 405-406).
Letture
U. ALLEGRETTI, Profilo di storia costituzionale italiana. Individualismo e assolutismo nello stato liberale, Bologna 1989.
C. GHISALBERTI, Dall’antico regime al 1848, Laterza, Bari 1978.
C. GHISALBERTI, Storia costituzionale d'Italia 1848/1948, Bari 1981
R. MARTUCCI, Storia costituzionale italiana. Dallo Statuto Albertino alla Repubblica (1848-2001), Carocci, Roma 2002.
F. MAZZANTI PEPE, Profilo istituzionale dello stato italiano, Carocci, Roma 2004.
G. MELIS, Storia dell’amministrazione italiana, Il Mulino, Bologna 1996.
Fonte: http://www.luciorizzotto.it/testi/sTORIA%20DELLE%20ISTITUZIONI%20PUBBLICHE%20DAL%20MEDIOEVO%20ALL'EPOCA%20MEDERNA.doc
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