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Il miracolo economico italiano (1955-1963)
1. Le tendenze dello sviluppo
Nel periodo compreso tra la seconda metà degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta l’Italia è attraversata da una immensa trasformazione del tessuto economico e produttivo, tanto che da paese prevalentemente agricolo nel giro di un brevissimo torno di tempo essa si affermerà come potenza industriale a livello mondiale. Se importanti sintomi di un processo di crescita economica si erano manifestati con un certa evidenza già nella prima metà del decennio, una sorprendente accelerazione, espansione e intensificazione di tale processo caratterizzerà invece il periodo compreso tra la seconda metà decennio e i primi anni Sessanta. Il periodo di massima espansione dell’economia italiana e al contempo di vera e propria trasformazione del suo tessuto produttivo sarà peraltro concentrato in un periodo ancora più breve, ossia nel quinquennio 1958/63, gli anni del cosiddetto “boom” economico. Se si considera inoltre ancora nel 1951 l’Italia risultava un paese prevalentemente agricolo, si può a ragione sostenere che sul finire dello stesso decennio in Italia si compì una sorta di “seconda rivoluzione industriale”, poiché fu solo a partire da quel periodo che in Italia si affermò il predominio dell’industria come settore trainante l’intero sistema economico. Alla luce di queste prime note introduttive è utile considerare ora le tendenze di sviluppo dei singoli settori industriali.
L’agricoltura
Il settore primario fu per certi versi la vittima sacrificale della grande trasformazione economica in atto. A partire dalla metà degli anni Cinquanta la campagna subì un progressivo quanto massiccio processo di spopolamento, fungendo da principale fornitore di manodopera a basso costo per l’industria in espansione. La “fuga dalla campagna” non derivava meccanicamente dall’aumento della domanda di manodopera nell’industria, ma dalla incapacità del settore primario di modernizzarsi e di integrarsi nel mercato internazionale. Gli effetti sortiti dalla riforma agraria si erano infatti rivelati insufficienti all’affermazione di competitive aziende agrarie di medie dimensioni con la conseguenza che il tessuto agricolo italiano aveva continuato a mantenere una struttura fortemente polarizzata tra poche, grandi aziende capitalistiche e numerosi piccoli proprietari terrieri capaci di produrre solo per l’autosostentamento. Soprattutto nel Mezzogiorno, a una grande proprietà poco interessata allo sviluppo dell’agricoltura continuava a fare riscontro una piccola proprietà poco produttiva, che non era in grado di garantire livelli di reddito sufficienti alle famiglie dei coltivatori diretti. Le prospettive di crescita e miglioramento delle condizioni di vita offerte dal lavoro nel settore dell’agricoltura parevano insomma ridursi drasticamente.
Alcune trasformazioni importanti si registrarono invece nel centro-nord del paese, dove già esisteva una tradizione di aziende capitalistiche di medie e grandi dimensioni – organizzate nella forma di aziende private, cooperative o consortili – che facilitò fortemente l’adeguamento dell’agricoltura ai principi del mercato. Meccanizzazione (impiego crescente di macchine e motori) e tecnologia (fertilizzanti, antiparassitari) furono impiegati con grande successo per l’aumento della produttività delle coltivazioni, sortendo effetti importanti anche per lo sviluppo dell’industria alimentare. Questo fenomeno riguardò tuttavia un numero molto circoscritto di regioni tra cui la Lombardia e l’Emilia Romagna in primo luogo. Esso non contrastava peraltro con le tendenze all’abbandono della campagna, poiché la meccanizzazione dell’agricoltura procurò inevitabilmente una progressiva riduzione del fattore lavoro.
L’industria
Le principali tendenze di sviluppo relative al settore industriale nella seconda metà degli anni Cinquanta si possono ricondurre a tre aspetti:
La distribuzione territoriale: Se la prima fase dell’industrializzazione italiana alla fine del XIX sec. aveva riguardato esclusivamente quello che è stato definito il “triangolo industriale” – Lombardia, Piemonte e Liguria – la “seconda rivoluzione industriale” italiana finì per coinvolgere, seppur in misura molto eterogenea, l’intero territorio nazionale. Le regioni di più antica industrializzazione si trasformarono in una sorta di epicentro di un moto di sviluppo industriale che si propagò in un primo tempo nelle regioni circostanti – Emilia Romagna, Veneto, Friuli – per poi continuare, in una seconda fase, ad estendersi verso sud sino ad interessare alcune aree del Mezzogiorno. Paradigmatico di queste tendenze di sviluppo fu indubbiamente il caso della Fiat: nel 1953 la direzione aziendale compì un enorme investimento con la creazione dello stabilimento di Mirafiori, dove una esemplare catena di montaggio inizierà la produzione in grande scala della Seicento, la prima vera utilitaria italiana.
L’espansione del settore automobilistico inizierà di conseguenza a coinvolgere un indotto sempre più ampio, composto da un numero crescente di imprese direttamente interessate dalla produzione di automobili. Nel nord-est iniziò a svilupparsi un tessuto di piccole e medie industrie, nella maggior parte dei casi a conduzione familiare o organizzate attorno ad un sistema di lavoro a domicilio spesso in nero. In Emilia Romagna, la parziale riuscita industrializzazione dell’agricoltura stimolò in misura importante lo sviluppo di una industria meccanica di piccole e medie dimensioni specializzate nella realizzazione di macchinari, motori e strumenti destinati all’impiego agricolo.
b) La diversificazione della produzione: Oltre all’espansione di settori già piuttosto consolidati nel tessuto economico italiano una novità degli anni del “miracolo” fu rappresentata dall’affermarsi di nuovi e competitivi settori, tra cui in particolare quello dell’industria leggera, specializzata nella produzione di elettrodomestici. Da segnalare anche il grande successo della produzione di macchine da scrivere, un settore che grazie soprattutto alle particolari capacità della Olivetti di Ivrea si affermerà rapidamente nel mercato internazionale. Anche la produzione di materie plastiche, direttamente connessa con lo sviluppo dell’industria chimica, subì una crescita letteralmente esponenziale. L’industria italiana iniziava pertanto a vantare una gamma di marchi e prodotti sempre più vasta. In alcuni casi riuscì inoltre e con successo l’industrializzazione di antiche vocazioni artigianali, ossia il passaggio di settori dell’artigianato alla produzione su grande scala.
c) Una più consapevole concezione dell’attività produttiva: in concomitanza, con la crescita, l’espansione, l’intensificazione e la diversificazione della produzione, in questo periodo iniziano a mutare anche l’organizzazione materiale dei processi produttivi così come la cosiddetta cultura imprenditoriale. Da piccole strutture a gestione familiare e basate su pochi e spesso ancora rudimentali macchinari – questo era soprattutto il caso delle aziende produttrici di elettrodomestici nel nord-est d’Italia alla fine degli anni Quaranta – l’apertura e l’espansione dei mercati stimolarono nel nuovo ceto imprenditoriale in formazione la ricerca di più efficaci metodi di gestione e organizzazione della produzione .
L’industrializzazione del sud
Il sud fu interessato dallo sviluppo economico solo in una seconda fase e in misura fortemente minore rispetto ai tassi di crescita del nord. Come si è già citato relativamente al disegno politico sotteso alla Cassa per il Mezzogiorno, l’industrializzazione del sud non era in effetti rientrato tra gli scopi della politica economica dei primi anni Cinquanta. Tale obiettivo iniziò tuttavia ad essere perseguito in maniera più mirata nella seconda metà del decennio. Nel 1957 il governo approvò un decreto che impegnava il settore pubblico raccolto nell’IRI a compiere almeno il 40% dei propri investimenti totali nel Mezzogiorno, mentre nel quinquennio 1961/65 la Cassa per il Mezzogiorno stanziava per la prima volta ingenti somme rivolte espressamente alla promozione dell’industria nel sud. Il paesaggio industriale meridionale subirà così incisivi mutamenti grazie agli investimenti pubblici della Finsider a Taranto e Bagnoli, dell’Anic – una sussidiaria dell’Eni – a Gela (Sicilia), dell’Alfa Romeo a Pomigliano d’Arco (Napoli), come pure agli investimenti privati dell’industria petrolchimica Sir in Sardegna (a Porto Torres e Cagliari), della Olivetti a Pozzuoli, della Fiat a Poggioreale, (Sicilia), o ancora della Montecatini a Brindisi. Obiettivo principale di tali “poli di sviluppo” era quello di stimolare l’economia meridionale e garantire occupazione alla massa crescente di lavoratori agricoli sottoccupati. Tuttavia il progetto sostanzialmente fallì. La capacità di assorbimento di manodopera da parte di queste grandi imprese si rivelò del tutto insufficiente rispetto agli altissimi livelli dell’offerta del mercato del lavoro meridionale. La produzione della maggior parte di queste imprese era inoltre destinata prevalentemente alle industrie del nord, così da non riuscire ad esercitare alcuno stimolo sulla crescita di un tessuto di medie imprese locali. Se si considera inoltre che l’erogazione del denaro pubblico non avvenne secondo rigidi criteri di efficienza e razionalità, risulta facile comprendere le ragioni per cui, nonostante gli importanti mutamenti cui si è accennato e l’innalzamento, nel decennio 1951/61, del tasso locale di crescita all’apprezzabile livello del 5,7%, l’industrializzazione del sud non riuscì a decollare con successo.
Seppur ancora decisamente agli albori rispetto allo sviluppo che registrerà nei decenni successivi, anche il settore dei servizi risentì positivamente dello sviluppo economico in corso. Un impulso notevole venne indubbiamente dalla crescita degli enti pubblici ed in particolare dell’industria statale, la gestione e organizzazione della quale richiedeva un ingente apparato amministrativo e burocratico. Nel settore privato iniziarono inoltre ad emergere gli effetti della crescente professionalizzazione gestionale delle imprese. Soprattutto le aziende di medie e grandi dimensioni iniziarono ad avvertire in misura crescente la necessità di più articolato settore amministrativo organizzato secondo funzioni e competenze diverse. Accanto alla domanda di addetti alla gestione contabile delle aziende, andava così aumentando la richiesta di personale sempre più specializzato in settori per certi versi del tutto “nuovi”, come le pubbliche relazioni, la pubblicità o le comunicazioni di massa. Nelle industrie più dinamiche di quegli anni – la meccanica, la chimica e l’automobilistica – acquistò un ruolo di grande rilievo la figura del tecnico (impiegato di primo grado) con competenze specifiche e sempre più specializzate a seconda delle esigenze aziendali. All’incremento quantitativo del ceto impiegatizio non corrispose tuttavia un accrescimento di riconoscimento o prestigio sociale della figura dell’impiegato. Il principio della parcellizzazione del lavoro non riguardava infatti solo gli operai addetti alla catena di montaggio, ma anche l’organizzazione gestionale delle imprese, così che le tra le categorie meno qualificate degli impiegati non erano insoliti sentimenti di disagio e alienazione rispetto al proprio lavoro. Dei sentimenti conflittuali che inquietavano il ceto impiegatizio nell’Italia del boom ci hanno lasciato testimonianze preziose alcune opere artistiche e letterarie particolarmente riuscite. Mentre il film di Ermanno Olmi, Il posto (1961) rendeva conto di quanto gretta potesse essere la vita di un impiegato, il romanzo di Goffredo Parise, Il padrone (1965) rivelava le più paradossali dinamiche psicologiche cui poteva incorrere un ingenuo e remissivo giovane di provincia alla sua prima esperienza come impiegato in una allettante “azienda commerciale”.
2. I fattori della crescita economica
Per spiegare quali furono e come incisero i fattori della crescita economica è opportuno distinguere tra due diverse fasi dello sviluppo scandite dall’evento-cesura dell’adesione dell’Italia alla Cee nel 1957. La prima fase, quella che va pertanto dall’inizio degli anni Cinquanta al 1957 è stata una fase definita “preparatoria”, nel corso della quale si sono consolidate le basi dello sviluppo successivo. In questo primo periodo la crescita economica dell’Italia fu principalmente favorita dall’integrazione del paese nell’area di influenza statunitense; ciò che aveva comportato l’adesione al sistema monetario internazionale di Bretton Woods, la possibilità di accedere alle risorse erogate dal Fondo monetario internazionale, oltre che la concessione di generosi finanziamenti e sapere tecnico (il cosiddetto know-how) erogati nel quadro del piano Marshall.
L’intervento dello Stato
Al ruolo favorevole esercitato da tali fattori, che potremmo definire “esogeni” al contesto italiano, l’innesco del processo di sviluppo economico fu favorito anche dalla concomitanza di alcuni fattori più specificamente endogeni, più attinenti cioè alla particolare struttura economica dell’Italia. Tra questi vanno segnalati in primo luogo l’intervento dello Stato, importante fu soprattutto per l’opera di promozione delle materie prime necessaria alla produzione industriale. In seguito alla creazione della Finmeccanica – voluta da Oscar Sinigaglia, un manager pubblico a cui si dovette il piano di ristrutturazione dell’intero settore siderurgico – l’acciaio italiano riuscì ad attestarsi su prezzi estremamente competitivi così da poter stimolarne una crescente richiesta da parte dell’industria meccanica privata. Analogo fu il tipo di intervento perseguito da altri due “bracci” dell’IRI, come la Finelettrica e la Fincantieri. Analogo fu anche l’effetto sortito dalla creazione dell’Eni e la messa a disposizione di combustibili competitivi all’industria privata italiana. Tramite questo sistema di imprese statali concentrato nei settori cruciali della siderurgia, della cantieristica, delle fibre tessili, della telefonia e dell’energia, lo Stato riuscì insomma a giocare un ruolo decisivo nel nuovo ciclo di espansione apertosi alla fine degli anni quaranta, garantendo alle imprese private prodotti di base – acciaio, carburanti, elettricità – a basso costo, che potenziarono le capacità competitive del sistema industriale italiano sui mercati internazionali, senza sovrapporsi al pieno dispiegarsi dell’iniziativa privata.
Le rimesse degli emigrati
Una importante fonte di risorse era inoltre costituita, in questa fase in cui l’Italia era ancora un paese che doveva fare i conti con vaste sacche di miseria e arretratezza, dalle rimesse degli emigrati. E’ importante infatti ricordare che in questo periodo l’Italia era ancora un paese di forte emigrazione – verso gli Stati Uniti sin dagli anni Venti e Trenta, e in misura crescente verso la Svizzera, il Belgio, la Francia e la Germania nei primi anni del secondo dopoguerra, poiché in questi paesi i salari erano notevolmente più elevati che in Italia. Ancora nei primi anni Cinquanta l’emigrazione favorì il drenaggio di risparmi e capitali verso l’Italia, stimolando in questo modo la domanda interna, ciò che nella prima metà del decennio si rifletté soprattutto nel dinamismo dei settori dell’edilizia (la situazione abitativa di milioni di persone era in quel periodo ancora estremamente precaria) e dell’industria alimentare.
Il 1957, si è detto, rappresenta una cesura importante per lo sviluppo dell’economia italiana, inaugurando la seconda fase di tale processo, quella della sua massima espansione. In seguito alla costituzione della Cee l’Italia riuscì infatti ad inserirsi pienamente e definitivamente all’interno della rete degli scambi internazionali con effetti fortemente percepibili già nell’immediato. L’impatto dell’adesione alla Cee provocherà inoltre importanti mutamenti rispetto ai settori portanti dell’economia, poiché l’abbattimento dei dazi doganali stimolò enormemente la produzione rivolta all’esportazione, una produzione orientata cioè a paesi ricchi e dunque alla domanda di beni di consumo privato e voluttuario. All’interno della produzione industriale tale nuovi orizzonti del mercato si tradussero nella crescita rapida e vastissima del settore dell’industria leggera. La produzione di elettrodomestici fu paradigmatica di tale tendenza: se ancora all’inizio del decennio si trattava di un settore assolutamente marginale e sostanzialmente arretrato, alla fine dello stesso decennio gli elettrodomestici italiani – Candy, Zoppas, Ignis e Zanussi per citare le marche più note – trovarono sbocchi sempre più grandi sul mercato internazionale, facendo dell’Italia uno tra i maggiori produttori di frigoriferi nel mondo dopo Stati Uniti e Giappone.
Un ulteriore, fondamentale fattore di promozione della crescita dell’economia italiana negli anni Cinquanta fu rappresentato un’eccezionale disponibilità di mano d’opera a basso costo. L’elevato tasso di disoccupazione soprattutto nella prima metà del decennio e il progressivo esodo dalle campagne cui già si è accennato provvedevano a garantire un afflusso continuo di forza lavoro prevalentemente giovane e disposta ad adattarsi anche alle più dure condizioni lavorative pur di riuscire a mantenere un posto sicuro. I più elevati tassi di disoccupazione si trovavano concentrati nelle regioni meridionali d’Italia così che la grande attrazione esercitata dalle aree più dinamiche della crescita economica produsse la formazione di un continuo e crescente drenaggio di forza lavoro in cerca di occupazione dal sud al nord e soprattutto al nord ovest del paese. Nella seconda metà degli anni Cinquanta le storiche regioni del triangolo industriale si sostituirono in parte considerevole alle mete della prima ondata migratoria. Gli impianti di Mirafiori, della Pirelli, dell’Alfa Romeo, della Magneti Marelli, della Montedison e di numerose altre industrie in espansione divennero i principali poli di attrazione dell’emigrazione meridionale.
Il clima politico che faceva da sfondo allo sviluppo economico era peraltro particolarmente favorevole ad una politica padronale estremamente libera di muoversi con massima discrezionalità a seconda delle esigenze produttive. La debolezza dei sindacati negli anni Cinquanta, divisi politicamente oltre che fortemente avversati sui luoghi di lavoro, non poteva che rivelarsi di grande vantaggio per i datori di lavoro. Di conseguenza il costo del lavoro rimase in Italia estremamente basso, consentendo facili profitti e maggiori investimenti agli imprenditori. Tra il 1953 e il 1960 i salari reali nell’industria erano leggermente diminuiti, passando da 100 (base 1953) a 99,4, mentre la produzione industriale era aumentata da 100 a 189 e la produttività operaia era salita da 100 a 162.
Una prova dell’enorme importanza esercitata dal basso costo del lavoro per la grande crescita economica italiana negli anni del boom si ebbe all’inizio degli anni Sessanta, allorché, per la prima volta e in conseguenza all’emergere di nuove forme di conflittualità operaia, i sindacati riuscirono ad ottenere consistenti aumenti salariali. Non fu un caso insomma se la prima recessione economica italiana degli anni 1963/64 si verificò immediatamente ad un generale aumento del costo del lavoro.
3. Gli effetti dello sviluppo
Tra gli effetti più immediati del tipo di sviluppo economico appena descritto si evidenziano:
a. Mobilità
Intesa nelle sue diverse declinazioni la mobilità è forse il concetto che con maggiore efficacia può rendere conto delle dinamiche profonde che negli anni del “miracolo” trasformarono il paese e i suoi abitanti. Circa le caratteristiche assunte dalla mobilità in senso geografico-territoriale si è già accennato alle migrazioni interne. Un aspetto finora trascurato riguarda invece il grande sviluppo della mobilità sociale e le conseguenze che ciò poteva comportare. L’esodo dalle campagne, l’emigrazione, la ricerca di un lavoro meglio retribuito nelle grandi città apriva alle più giovani generazioni un orizzonte di opportunità impensabile per quelle più anziane. Uno degli effetti più immediati di queste nuove possibilità di scelte di vita consistette nella rottura, non di rado conflittuale, di consolidati legami e tradizioni familiari. La possibilità di non dovere più essere contadino semplicemente perché nati in una famiglia contadina rappresentava insomma un elemento di novità per l’articolazione della società italiana, un elemento destinato a smantellare in maniera radicale e non sempre indolore gli universi valoriali e le strutture più tradizionali della famiglia italiana.
La Lambretta, la Seicento, le moto Ducati, Guzzi, Benelli e poi la Vespa della Piaggio ecc... queste sono le grandi marche che inaugurano l’avvio della motorizzazione della società italiana, con tanto di continuo ampliamento della rete dei collegamenti stradali, crescente aumento del traffico stradale e conseguenti mutamenti anche negli stili di vita degli italiani, tra cui in particolare le sue fasce più giovani. La possibilità di spostarsi autonomamente con auto o motorini infondeva un forte senso di libertà individuale, nella consapevolezza di poter finalmente infrangere i vincoli spaziali cui fino a metà degli anni Cinquanta avevano costretto la mancanza di mezzi di trasporto più veloci ed efficienti dei muli nelle campagne o delle biciclette in città – il cui enorme significato ancora nei primi anni del dopoguerra è stato artisticamente reso dal classico del neorealismo italiano, il film Ladri di biciclette (1948). Le scampagnate fuori città la domenica, la gita al mare o in montagna in estate, dunque non solo maggiore autonomia di movimento, ma anche una maggiore separazione tra vita quotidiana, lavorativa e tempo libero iniziarono così a scandire i ritmi delle famiglie operaie e dei ceti popolari in generale.
c. Benessere
Nonostante la profonda disomogeneità esistente tra i diversi livelli di sviluppo del paese anche nel periodo della sua massima espansione economica, si può comunque sostenere che nell’Italia del miracolo la popolazione italiana, o comunque ampi e crescenti strati di essa, conobbe un generale aumento del tenore di vita. Se l’approdo a una situazione di agio economico riguardava strati sociali relativamente circoscritti, il benessere sociale medio raggiunto dagli italiani si manifestava, soprattutto a partire dalla fine degli anni Cinquanta, non solo nell’aumento delle disponibilità economiche, ma in generale nei più diversi aspetti della vita quotidiana. Un oggetto di studio fortemente rivelatore di come e quanto stesse cambiando la società italiana in relazione alla crescita economica è offerto dal tema dell’alimentazione. Oltre a farsi più ricca e più varia, l’alimentazione degli italiani risentì fortemente delle trasformazioni indotte dall’industrializzazione. Grazie alla fittissima rete dei commercianti al dettaglio – ma negli anni Cinquanta iniziano a sorgere anche i primi supermercati – le innovazioni introdotte dall’industria alimentare, dunque i prodotti conservati, i preparati, gli inscatolati, ecc. – raggiungono rapidamente tutte le famiglie italiane.
L’abbandono delle campagne da parte di milioni di lavoratori agricoli ebbe l’effetto di fare sparire figure sociali che avevano costituito per secoli l’ossatura della società rurale italiana, come nel caso della drastica riduzione dei braccianti e dei salariati agricoli che avevano caratterizzato sia l’agricoltura capitalistica della valle padana, sia la cerealicoltura estensiva nei latifondi meridionali. Grandi mutamenti si registrarono inoltre anche nel settore della produzione industriale. L’afflusso di strati prevalentemente giovani di immigrati meridionali nelle fabbriche del nord e, parallelamente, l’entrata a pieno regime del sistema fordista di produzione nelle grandi fabbriche, aprirono un tumultuoso processo di ridefinizione della classe operaia, delle sue gerarchie interne e del relativo sistema delle qualifiche. Il grande sviluppo della piccola e media impresa, così come lo sviluppo, meno rapido ma costante, del settore terziario favorirono infine l’espansione dei ceti medi, sempre più differenziati e articolati al loro interno.
Rispetto alla composizione interna della classe operaia i mutamenti più incisivi riguardano i rapporti tra la figura tradizionale dell’operaio, ossia l’operaio di mestiere, con un elevato grado di qualificazione e competenze professionali, e la nuova figura che emerge dalle trasformazioni dei processi produttivi: l’operaio comune, non qualificato, addetto alle mansioni ripetitive e monotone della catena di montaggio, che non richiedono competenze se non una enorme capacità di resistenza e concentrazione nel seguire i ritmi incessanti del nastro trasportatore. La crescente divaricazione tra lavoro specializzato e lavoro bassamente qualificato si sovrapponeva inoltre a processi di stratificazione sociale fortemente discriminanti, poiché i posti di lavoro più qualificati e meglio retribuiti erano prevalentemente occupati dagli operai settentrionali, che generalmente potevano vantare una più lunga esperienza lavorativa in fabbrica, mentre i posti meno qualificati e peggio pagati, ma più numerosi, venivano via via assorbiti dalla forza lavoro meridionale di recente immigrazione e spesso con poca esperienza di lavoro nell’industria. In questo contesto andò pertanto affermandosi la figura dell’operaio-massa, quella che tanta attenzione, entusiasmo e speranze suscitò in una nuova generazione di sociologi e scienziati sociali interessati alla comprensione dei nuovi caratteri del capitalismo nell’Italia del secondo dopoguerra. Oltre al suo basso livello di qualificazione, che ne faceva il modello ideale di addetto alla catena di montaggio, l’operaio-massa si distingueva dalla figura classica dell’operaio di mestiere per la sua estraneità alle tradizionali forme di organizzazione dei lavoratori, i sindacati.
4. I costi dello sviluppo
L’estrema rapidità con cui si è compiuta la grande trasformazione dell’assetto economico dell’Italia repubblicana, la mancanza di una politica economica volta alla pianificazione dello sviluppo, i preesistenti squilibri del tessuto economico italiano, non potevano non influire su quelle che sono state definite le distorsioni che hanno accompagnato, per certi versi anche approfondendosi, la grande fase di crescita economica attraversata dall’Italia.
Il tessuto economico italiano si trascinava profondi squilibri sin dall’epoca dell’unificazione, squilibri che incisero anche sulla particolare dinamica economica che caratterizzò il boom degli anni Cinquanta e Sessanta. Nonostante gli enormi progressi compiuti dall’economia italiana in quest’ultimo periodo, anche nell’eccezionale congiuntura del “miracolo” tali squilibri non furono superati ma anzi, in alcuni casi approfonditi, le ampie sacche di arretratezza furono ridotte ma non eliminate, mentre altri squilibri emersero. Volendoli richiamare schematicamente, i principali “limiti” dello sviluppo economico italiano possono essere ricondotti ai seguenti aspetti:
Accentuazione di squilibri preesistenti:
Tra gli anni Cinquanta e Sessanta, il volto delle grandi città del nord come Milano e Torino subì una profonda trasformazione a causa del grande flusso migratorio interno. Migliaia di immigrati approdavano alle stazioni in cerca di lavoro e di un luogo dove abitare. Intorno a Milano, là dove ancora c’erano terreni di campagna privi di luce, acqua e di tutti i servizi essenziali, si crearono le “coree”, così chiamate dagli stessi immigrati, a indicare le condizioni di miseria simili a quelle di un popolo povero come i coreani negli anni della guerra tra Nord e Sud del paese. Lì gli immigrati abitavano in case sempre più affollate poiché i primi arrivati affittavano ai nuovi stanze e cantine. Oltre ai grossi disagi vissuti dai nuovi arrivati, in quegli anni i ritmi e le dimensioni dell’urbanizzazione erano tali da creare numerosi e nuovi problemi alle intere collettività e soprattutto alle amministrazioni cittadine, che si trovarono a dovere gestire situazioni di vera e propria emergenza, in cui il problema abitativo si sovrapponeva a pressanti quanto crescenti domande di infrastrutture, servizi, scuole, trasporti e tutto ciò che la vita in un contesto urbano può richiedere.
Una delle manifestazioni più palesi dell’aumentato tenore di vita degli italiani negli anni del boom economico si poteva riscontrare nella impetuosa crescita e diffusione dei consumi. Tuttavia, anche rispetto a questo elemento dello sviluppo economico non si riuscì ad armonizzare i diversi andamenti tra consumi privati e consumi pubblici. Mentre i primi crebbero in maniera estremamente rapida, poiché su di essi si riflettevano gli effetti della produzione fortemente orientata all’esportazione e concentrata soprattutto su beni di consumo durevoli e indirizzati ai privati, i consumi pubblici, quelli cioè promossi dagli enti e dalle istituzioni pubbliche, dunque le scuole, gli ospedali, i trasporti e i beni di prima necessità in generale, crebbero molto più lentamente.
Gli effetti indotti dalla trasformazione dell’economia del paese, tra cui il declino di alcuni settori tradizionali come l’agricoltura o l’industria tessile produssero un ulteriore effetto nel mercato del lavoro, ossia la crescente tendenza alla estromissione delle donne dal mercato del lavoro. Numerosi dei settori meno dinamici dell’economia di quegli anni coincidevano infatti coi settori a forte intensità di lavoro femminile. Ma a rendere difficile l’inserimento delle donne nel mercato del lavoro contribuivano anche fattori come la concorrenza esercitata dall’offerta di lavoro maschile; la scarsa mobilità delle lavoratrici meno giovani e scarsamente qualificate, espulse dai settori in declino. Lo scenario risultava inoltre ancora più sfavorevole se si considerano anche la scarsa tutela della maternità e l’insufficiente rete di servizi preposti all’assistenza di figli e/o anziani, che potessero facilitare la conciliazione di lavoro, cura dei figli e assolvimento di quelli che allora era considerati i “doveri domestici” delle donne sposate.
La rapidità con cui si compié la trasformazione dell’Italia da paese agricolo a potenza industriale innescò un processo altrettanto rapido di modernizzazione materiale del paese. Molto più lenti sarebbero stati invece i tempi della modernizzazione culturale della società italiana, poiché i tempi dei mutamenti profondi, a livello di sistemi di valori e di mentalità, sono tendenzialmente più lunghi dei processi economici. Per queste ragioni nell’Italia degli anni Sessanta era possibile riscontrare contrapposizioni molto marcate tra retaggi culturali tradizionali e nuovi orizzonti valoriali. Di queste accentuate discrepanze rendeva ampiamente conto il film-inchiesta Comizi d’amore di Pier Paolo Pasolini (1964), immediatamente a ridosso del boom economico. Nel suo viaggio dal Nord al Sud dell’Italia alla scoperta dell’opinione degli italiani in materia di costumi, morale e sessualità il regista scopriva un variegato quanto contraddittorio spettro di posizioni.
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Fonte: http://www.mlbianchi.altervista.org/boom_economico.doc
Sito web da visitare: http://www.mlbianchi.altervista.org
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