I riassunti , gli appunti i testi contenuti nel nostro sito sono messi a disposizione gratuitamente con finalità illustrative didattiche, scientifiche, a carattere sociale, civile e culturale a tutti i possibili interessati secondo il concetto del fair use e con l' obiettivo del rispetto della direttiva europea 2001/29/CE e dell' art. 70 della legge 633/1941 sul diritto d'autore
Le informazioni di medicina e salute contenute nel sito sono di natura generale ed a scopo puramente divulgativo e per questo motivo non possono sostituire in alcun caso il consiglio di un medico (ovvero un soggetto abilitato legalmente alla professione).
BRIGANTAGGIO E QUESTIONE MERIDIONALE
All’indomani dell’unità d’Italia nel 1861 la profonda disparità economica e sociale tra le terre del Nord e quelle del Sud del Paese non costituì argomento di attenzione e discussione per gli uomini politici del tempo; la “piemontizzazione” dello Stato e la scelta”centralista”favorirono l’insorgere della Questione Meridionale e del fenomeno del brigantaggio.
Si trattava di un fenomeno molto esteso, che coinvolse migliaia di persone, che ebbe moltissimi fiancheggiatori nel meridione e che fu espressione di un profondo disagio maturato in ampi strati della popolazione meridionale all'indomani dell'unificazione. Si sviluppò in Basilicata, in Molise, in parte dell'Abruzzo, della Calabria e della Puglia e in Sicilia dal 1861 al 1865. Negli anni successivi al 1860, la resistenza si presenta con forme molto articolate, di cui offrono testimonianza l'opposizione condotta a livello parlamentare, le proteste della magistratura, che vede cancellate le sue gloriose e secolari tradizioni, la resistenza passiva dei dipendenti pubblici, il rifiuto di ricoprire cariche amministrative, il malcontento della popolazione cittadina, l'astensione dai suffragi elettorali, il rifiuto della coscrizione obbligatoria, l'emigrazione, la diffusione della stampa clandestina e la polemica condotta dai migliori pubblicisti del regno, fra cui emerge Giacinto de' Sivo (1814-1867), che difendono con gli scritti i calpestati diritti di una monarchia, la borbonica, da sempre riconosciuta nel consesso delle nazioni e “benedetta dalla suprema autorità spirituale”. I Borboni stessi, oltre la Chiesa e il baronato meridionale, furono i più accesi sobillatori delle masse popolari contro le forze sabaude indicate come il vero e reale nemico da sconfiggere e poco importava, in quei momenti, che nella vasta zona dello Stato pre-unitario popolata da oltre sette milioni di abitanti, ovvero quasi un terzo dell’intera popolazione del Regno, la distribuzione della ricchezza che traeva la sua unica fonte dall’agricoltura fosse iniquamente spartita tra un ristrettissimo numero di grandi proprietari terrieri, mentre la grande massa dei braccianti moriva di fame.
I piemontesi avevano cacciato i vecchi regnanti, ma non avevano mantenuto fede alle promesse di riforma agraria e redistribuzione delle terre con cui si erano garantiti la solidarietà dei giovani (i picciotti) e il consenso della popolazione; dopo l’unità esplose la rabbia dei diseredati meridionali, degli ex braccianti, degli ex soldati borbonici e dei garibaldini stessi, che si riunirono in bande e si diedero alla macchia sui monti della Basilicata, della Puglia, della Campania.
Quali le cause dell’improvvisa e, forse, inaspettata reazione delle masse popolari è da ritrovare in un insieme di situazioni ed esasperazioni che proprio il processo di unificazione nazionale fece emergere. Millenni di vessazioni, soprusi, iniquità perpetrati contro le popolazioni affamate ed asservite dal malgoverno borbonico “esplosero” nella forma più violenta e istintiva che solo una massa esasperata può mettere in essere. Infatti, accanto alla forte delusione per la mancata attuazione di una riforma agraria promessa, vi è la povertà endemica dei “cafoni”che lavorano le terre dell’aristocrazia latifondista che, all’arrivo dei piemontesi, non disdegnò di assumere il ruolo di sobillatore di quegli stessi uomini, donne, bambini che fino a quel momento aveva sfruttato e di cui aveva ignorato la fame e la malattia.
A testimonianza di tale situazione sono le parole di un ufficiale piemontese di stanza a Viggiana in Basilicata dal 1861 al 1868, che , chiedendo di mantenere l’anonimato, inviò una relazione –testimonianza all’autorevole storico meridionale Pasquale Villari.
“Il brigantaggio antico e contemporaneo, a mio debole vedere, trae unicamente origine dalla triste condizione sociale delle popolazioni, non dagli avvenimenti politici, che se possono aumentargli forza non basterebbero mai a dargli vita; e neppure da cattiva indole o nequizia degl'indigeni, che in verità hanno dallanatura vivezza d'ingegno, carattere dolce e sommesso e in alcune province, come nell'antico Sannio, negli Abruzzi e nelle Calabrie, a queste naturali disposizioni uniscono una robustezza e un'energia invidiabili. Errerò, ma secondo quello che io penso il brigantaggio in sostanza altro non è che una questione ardente agraria e sociale .
"Fa meraviglia il trovare, in quasi tutti i centri popolosi, soltanto quattro o cinque famiglie ricche, spesso fra loro imparentate, e il resto nullatenenti. E così, ad eccezione di pochi soddisfatti, che imperano al lor talento, e dispotizzano, ovunque si volga lo sguardo non si vedono che miserie e guai, quasi a derisione illuminati dal più bel cielo. Vive ognora, per inveterato costume tramandato dal feudalesimo, il diritto nei proprietari di pretendere in determinati giorni dell'anno l'opera gratuita del lavoratore. E non è raro il caso nel quale, invece di retribuire la mercede in cereali o denaro, la si paga con una data misura del più abbondante prodotto della terra, come sarebbero frutta, agrumi, cedri ecc., generi tutti che, per il difetto di esportazione o mancanza di vie di comunicazione discendono a vilissimo prezzo; per il che il povero subisce una nuova perdita sul già magro salario.”
"Nei mesi di giugno e di luglio, tempo delle messi, molti lavoratori si recano nelle Puglie o nella Terra di Lavoro ( la provincia di Caserta ) per segare il grano e guadagnare due lire al giorno, quando lavorano, e il pasto. Ma per ottenere così abbondante e straordinaria mercede, oltre gli stenti e le spese di disastrosi viaggi, sovente ritornano al loro paese malati per effetto delle grandi fatiche sopportate sotto la sferza del sole o per causa della malaria. In tal modo le famiglie, lottanti giorno per giorno con la fame e coi più stringenti bisogni, abbrutite da tutti questi guai, non conservano che una ben debole affezione per la loro prole e cercano ogni mezzo per alleggerire il peso della miseria, e trovare qualche sollievo. In molti paesi mandano fuori i bambini ad accattare ( chiedere la carità ), a suonare chitarre ed arpe, a ballare tarantelle, a cantare romanze. Cedono per pochi Ducati a vili speculatori le loro creature e questi mercanti di carne umana vivono e lucrano sui sudori d'innocenti che trasportano nelle più lontane contrade, in Francia, America, Germania, Malta, Algeria.Tutte queste angherie, tutte queste prepotenze ed abusi creano e alimentano quell'odio che separa le due classi; spingono ad atroci vendette o alla volontaria emigrazione, non quella feconda, lucrosa e intraprendente dei Genovesi e Biellesi, ma bensì quella che non ha altra mira che di sfuggire alle miserie e alle soperchierie, che spopola e isterilisce interi paesi, vi fa mancare le braccia robuste, e priva le famiglie dei loro cari più vegeti e più atti al lavoro.”
Tale testimonianza conferma non solo le condizioni precarie di lavoro delle masse meridionali, ma anche lo stato di totale prostrazione in cui intere famiglie e interi paesi si dibattono e le dolorose e disumane soluzioni ai problemi della sopravvivenza.
Quale fu la risposta del nuovo Stato?
L’istituzione dei prefetti(la loro provenienza era prevalentemente settentrionale accentuando, così, il diverso trattamento tra cittadini del Nord e del Sud), dagli ampi poteri, con compiti di controllo e di supervisione degli organismi amministrativi locali; l’imposizione del servizio militare obbligatorio ( sotto i Borboni non esisteva!); i tentativi di scolarizzazione con la Legge Casati del 1856 che agli occhi delle famiglie contadine era un “rubar braccia “al lavoro nei campi; l’imposizione della tassa sul macinato; l’unificazione delle tariffe doganali.(Proprio nel gennaio 1862 furono abolite le tariffe protezionistiche per effetto delle pressioni della borghesia agraria del Piemonte e della Lombardia. Queste disposizioni dettero il colpo di grazia alle industrie dell’ex Reame provocando il definitivo fallimento degli opifici tessili di Sora, di Napoli, di Otranto, di Taranto, di Gallipoli e del famosissimo complesso di S. Leucio, i cui telai furono portati qualche anno dopo a Valdagno, dove fu creata la prima fabbrica tessile nel Veneto. Vennero smantellate, tra le altre attività minori, le cartiere di Sulmona e le ferriere di Mongiana, i cui macchinari furono trasferiti in Lombardia. Furono costrette a chiudere anche le fabbriche per la produzione del lino e della canapa di Catania. La disoccupazione diventò un fenomeno di massa e incominciarono le prime emigrazioni verso l’estero, l’inizio di una vera e propria diaspora. Con gli emigranti incominciarono a scomparire dalle già devastate Terre Napoletane e Siciliane le forze umane più intraprendenti.); una dura e spietata repressione ( Legge Pica del 15 agosto1863 promulgata dal governo Minghetti).
La crisi agricola e l'assenza pressoché totale di sviluppo industriale resero dunque evidente il deficit economico meridionale e indussero intellettuali e uomini politici ad interrogarsi sui motivi di questa persistente arretratezza che non accennava a diminuire ma anzi sembrava amplificarsi con il trascorrere degli anni.
Il nuovo governo che prese le redini del paese nel 1861 era l’espressione della borghesia, era la Destra storica che affrontò la questione meridionale con un patto tra i ricchi possidenti del nord e i proprietari terrieri del sud , disattendendo le reali questioni sociali e la tanto auspicata riforma agraria.
Molti furono gli intellettuali che presero ad interrogarsi sulla questione meridionale e uno dei primi fu proprio un uomo della destra storica, lo storico Pasquale Villari che nel 1875 pubblicò le “Lettere Meridionali” in cui denunciò lo stato di crisi in cui versava il mezzogiorno, evidenziando soprattutto le inefficienze e le debolezze delle istituzioni politiche, che non erano riuscite a radicarsi nel territorio.
“ Il brigantaggio è il male più grave che possiamo osservare nelle nostre campagne. Esso certamente può dirsi la conseguenza d’una questione agraria e sociale che travaglia quasi tutte le province meridionali. Le prime cause del brigantaggio sono quelle predisponesti e prima fra tutte la condizione sociale, lo stato economico del campagnolo, che in quelle province dove il brigantaggio ha raggiunto proporzioni maggiori, è assai infelice: i contadini non hanno nessun vincolo che li stringa alla terra. Mangiano un pane “che non mangerebbero neppure i cani” diceva il direttore del Demanio e delle tasse. Nelle carceri di Capitanata (quelle della provincia di Foggia), e così altrove, quasi tutti i briganti sono contadini proletarii. Le bande del Caruso e del Crocco, molte volte distrutte, si ricostituirono senza difficoltà con nuovo venuti e in una medesima provincia si osservava che là dove il contadino stava peggio, ivi grande era il contingente dato al brigantaggio; dove la sua condizione migliorava, ivi il brigantaggio scemava o spariva. Anzi nell’Abruzzo, per la sola ragione che il contadino ridotto alla miseria e alla disperazione può andare a lavorare la terra della campagna romana, dove piglia le febbri e spesso vi lascia le ossa, lo stato delle cose muta sostanzialmente. Questa emigrazione impedisce l’esistenza del brigantaggio e prova come esso nasca non da una brutale tendenza al delitto, ma da una vera e propria disperazione…”
La difficile situazione del meridione poteva essere risolta, a suo parere, solo riavvicinando il governo ai contadini meridionali, operando quindi una netta svolta nella politica della Destra storica, che per raggiungere il pareggio di bilancio non aveva esitato ad imporre tassazioni impopolari al contadiname, cosa che aveva creato forti tensioni con il proletariato agrario e industriale sia del nord che del sud Italia.
“ Per combattere il brigantaggio noi abbiamo fatto scorrere il sangue a fiumi, ma ai rimedi radicali abbiamo poco pensato. In questa, come in molte altre cose, l’urgenza dei mezzi repressivi ci ha fatto mettere da parte i mezzi preventivi, i quali soli possono impedire la riproduzione di un male che certo non è spento e durerà un pezzo. In politica noi siamo stati buoni chirurghi e pessimi medici…”
Lo stato italiano è stato una dittatura feroce che ha messo a ferro e fuoco l'Italia meridionale e le isole, squartando, fucilando, seppellendo vivi i contadini poveri che scrittori salariati tentarono d'infamare col marchio di briganti" (Antonio Gramsci inOrdineNuovo, 1920).
La risposta popolare fu una generale e diffusa resistenza di cui quella armata è di certo il fenomeno più evidente, che coinvolge non soltanto il mondo contadino, ma tutta la società del tempo nelle sue strutture e nei gruppi che la componevano.
Le bande di briganti attaccavano i paesi, saccheggiavano negozi e davano fuoco agli edifici comunali, per poi fuggire nelle campagne o sulle alture impervie dell’Irpinia… I briganti divengono il simbolo del malcontento dei contadini e della massa popolare che aveva attivamente partecipato ai moti risorgimentali nella speranza d'ottenere cambiamenti importanti sotto il profilo economico e sociale e che era ora delusa nelle sue aspettative.
La resistenza nel Mezzogiorno |
ha inizio nell'agosto del 1860, subito dopo lo sbarco sul continente delle unità garibaldine provenienti dalla Sicilia. La popolazione rurale, chiamata alle armi dal suono di rustici corni o dalle campane a stormo, rovescia i comitati insurrezionali, innalza la bandiera con i gigli e restaura i legittimi poteri. La spietata repressione operata dagli unitari, con esecuzioni sommarie e con arresti in massa, fa affluire nelle bande, che i nativi denominano “masse”, migliaia di uomini: soldati della disciolta armata reale, coscritti che rifiutano di militare sotto un'altra bandiera, pastori, braccianti e montanari.
Il primo gennaio 1862 in Sicilia insorse Castellamare del Golfo al grido di “ fuori i Savoia. Abbasso i pagnottisti . Viva la Repubblica”.Furono uccisi il comandante collaborazionista della guardia nazionale, Francesco Borruso, con la figlia e due ufficiali. Case di traditori unitari vennero arse. Strappati i vessilli sabaudi, spogliati ed espulsi i carabinieri. Le guardie e i soldati accorsi da Calatafimi e da Alcamo furono battuti e messi in fuga dai rivoltosi. Il 3 gennaio arrivarono nel porto la corvetta “Ardita” e due piroscafi che furono accolti a cannonate, ma con lo sbarco dei bersaglieri del generale Quintini i rivoltosi furono costretti alla fuga. I piemontesi fucilarono centinaia di insorti tra cui alcuni preti. A Palermo comparirono sui muri manifesti borbonici e sulla reggia fu messa una bandiera gigliata
La repressione
Nella primavera del 1861 la reazione divampa in tutto il regno e il controllo del territorio da parte delle forze unitarie diventa precario. In agosto è inviato a Napoli, con poteri eccezionali, il generale del Regio Esercito del neo proclamato Regno d'Italia Enrico Cialdini (1811-1892), che costituisce un fronte unito contro la "reazione", arruolando i militi del disciolto esercito garibaldino e perseguitando il clero e i nobili lealisti, i quali sono costretti a emigrare. Il governo adotta la linea dura e il generale Cialdini ordina eccidi e rappresaglie nei confronti della popolazione insorta, decretando il saccheggio e la distruzione dei centri ribelli.
In questo modo viene impedita l'insurrezione generale, e viene scritta una pagina tragica e fosca nella storia dello Stato unitario.
Con il sistema generalizzato degli arresti in massa e delle esecuzioni sommarie, con la distruzione di casolari e di masserie, con il divieto di portare viveri e bestiame fuori dai paesi, con la persecuzione indiscriminata dei civili, si vuole colpire "nel mucchio", per disgregare con il terrore una resistenza che riannodava continuamente le fila.
Viene introdotto per la prima volta nel diritto pubblico italiano l'istituto del domicilio coatto, che risulta particolarmente odioso per la sua arbitrarietà.
La moltiplicazione dei premi e delle taglie crea un'"industria" della delazione, che è un'ulteriore macchia indelebile nella repressione e ispira amare riflessioni sulla proclamata volontà moralizzatrice dei governi unitari nei confronti delle popolazioni meridionali.
Attenzione particolare è dedicata alla guerra psicologica, condotta su larga scala mediante bandi, proclami e soprattutto servizi giornalistici e fotografici, che costituiscono i primi esempi di una moderna “informazione deformante”.
In questo modo viene distrutto il cosiddetto "manutengolismo", cioè quel vasto movimento di sostegno e di fiancheggiamento alla guerriglia, che rappresenta un fenomeno così ampio e articolato socialmente da non poter essere stroncato con il solo ricorso alla legislazione penale, anche se eccezionale. Infine, la proclamazione dello stato d'assedio, le uccisioni indiscriminate, il terrore, il tradimento prezzolato stroncano la volontà di resistenza della popolazione. Quando le bellicose energie sono esaurite, l'estraneità al nuovo ordine si manifesta più pacificamente, ma non meno drammaticamente, nella grandiosa emigrazione transoceanica della nazione "napoletana", che coinvolge alcuni milioni di persone.
Per volontà dei Savoia, furono istituiti tribunali di guerra per il Sud ed i soldati ebbero carta bianca, le fucilazioni, anche di vecchi, donne e bambini, divennero cosa ordinaria e non straordinaria. Un genocidio la cui portata è mitigata solo dalla fuga e dall'emigrazione forzata, nell'inesorabile comandamento di destino: "O briganti, o emigranti". Lemkin, che ha definito il primo concetto di genocidio, sosteneva: "… genocidio non significa necessariamente la distruzione immediata di una nazione…esso intende designare un piano coordinato di differenti azioni miranti a distruggere i fondamenti essenziali della vita dei gruppi nazionali. Obiettivi di un piano siffatto sarebbero la disintegrazione delle istituzioni politiche e sociali, della cultura, della lingua, dei sentimenti nazionali, della religione e della vita economica dei gruppi nazionali e la distruzione della sicurezza personale, della libertà, della salute, della dignità e persino delle vite degli individui…non a causa delle loro qualità individuali, ma in quanto membri del gruppo nazionale.”
Deportazioni, l'incubo della reclusione, persecuzione della Chiesa cattolica, profanazioni dei templi, fucilazioni di massa, stupri, perfino bambine (figlie di briganti) costretti ai ferri carcerari. Cinquemiladuecentododici condanne a morte, 6564 arresti, 54 paesi rasi al suolo, 1 milione di morti. Queste le cifre della repressione consumata all'indomani dell'Unità d'Italia dai Savoia.
La prima pulizia etnica della modernità occidentale.
Le prime deportazioni dei soldati delleDue Sicilie incominciarono già verso ottobre del 1860 in quanto la resistenza duosiciliana era iniziata con episodi isolati e non coordinati nell'agosto del 1860, dopo lo sbarco dei garibaldini e dalla stampa fu presentata come espressione di criminalità comune. Il decreto del 20 dicembre 1860 chiamava alle armi gli uomini che sarebbero stati di leva negli anni dal 1857 al 1860 nell'esercito delle Due Sicilie, ma si rivelò un fallimento, poiché si presentarono solo 20.000 uomini sui previsti 75.000; gli altri si diedero alla macchia e per questo furono “chiamati briganti.”
A migliaia questi uomini furono concentrati nei depositi di Napoli o nelle carceri, poi trasferiti con il decreto del 20 gennaio 1861, che istituì "Depositi d'uffiziali d'ogni arma dello sciolto esercito delle Due Sicilie". La Marmora ordinò ai procuratori di "non porre in libertà nessuno dei detenuti senza l'assenso dell'esercito". Per la maggior parte furono stipati nelle navi peggio degli animali (anche se molti percorsero a piedi l'intero tragitto) e fatti sbarcare a Genova, da dove, attraversando laceri ed affamati la via Assarotti, venivano smistati in vari campi di concentramento istituiti a Fenestrelle, S. Maurizio Canavese, Alessandria, nel forte di S. Benigno in Genova, Milano, Bergamo, Forte di Priamar presso Savona, Parma, Modena, Bologna, Ascoli Piceno ed altre località del Nord. Presso il Forte di Priamaro fu relegato l'aiutante maggiore Giuseppe Santomartino, che difendeva la fortezza di Civitella del Tronto. Alla caduta del baluardo abruzzese, Santomartino fu processato dai Piemontesi e condannato a morte. In seguito alle pressioni dei francesi la condanna fu commutata in 24 anni di carcere da scontare nel forte presso Savona. Poco dopo il suo arrivo, una notte, fu trovato morto, lasciando moglie e cinque figli. Si disse che aveva tentato di fuggire. Un esempio di morte sospetta su cui non fu mai aperta un'inchiesta per accertare le vere cause del decesso. In quei luoghi, veri e propri lager, ma istituiti per un trattamento di "correzione ed idoneità al servizio", i prigionieri, appena coperti da cenci di tela, potevano mangiare una sozza brodaglia con un po’ di pane nero raffermo subendo trattamenti veramente bestiali, ogni tipo di nefandezze fisiche e morali. Per oltre dieci anni, tutti quelli che venivano catturati, oltre 40.000, furono fatti deliberatamente morire a migliaia per fame, stenti, maltrattamenti e malattie.
Quelli deportati a Fenestrelle, fortezza situata a quasi duemila metri di altezza, sulle montagne piemontesi, sulla sinistra del Chisone, ufficiali, sottufficiali e soldati (tutti quei militari borbonici che non vollero finire il servizio militare obbligatorio nell'esercito sabaudo, tutti quelli che si dichiararono apertamente fedeli al Re Francesco II, quelli che giurarono aperta resistenza ai piemontesi) subirono il trattamento più feroce.
Fenestrelle, più che un forte, era un insieme di forti, protetti da altissimi bastioni ed uniti da una scala, scavata nella roccia, di 4000 gradini. Era una ciclopica cortina bastionata cui la naturale asperità dei luoghi ed il rigore del clima conferivano un aspetto sinistro. Faceva tanto spavento come la relegazione in Siberia. I detenuti tentarono anche di organizzare una rivolta il 22 agosto del 1861 per impadronirsi della fortezza, ma fu scoperta in tempo ed il tentativo ebbe come risultato l'inasprimento delle pene con i più costretti con palle al piede da 16 chili, ceppi e catene. Erano stretti insieme assassini, sacerdoti, giovanetti, vecchi, miseri popolani e uomini di cultura. Senza pagliericci, senza coperte, senza luce. Un carcerato venne ucciso da una sentinella solo perché aveva proferito ingiurie contro i Savoia. Vennero smontati i vetri e gli infissi per rieducare con il freddo i segregati. Laceri e poco nutriti era usuale vederli appoggiati a ridosso dei muraglioni, nel tentativo disperato di catturare i timidi raggi solari invernali, ricordando forse con nostalgia il caldo di altri climi mediterranei. Spesso le persone imprigionate non sapevano nemmeno di cosa fossero accusati ed erano loro sequestrati tutti i beni. Spesso la ragione per cui erano stati catturati era proprio solo per rubare loro il danaro che possedevano. Molti non erano nemmeno registrati, sicché solo dopo molti anni venivano processati e condannati senza alcuna spiegazione logica.
La fortezza di Fenestrelle
Pochissimi riuscirono a sopravvivere: la vita in quelle condizioni, anche per le gelide temperature che dovevano sopportare senza alcun riparo, non superava i tre mesi. E proprio a Fenestrelle furono vilmente imprigionati la maggior parte di quei valorosi soldati che, in esecuzione degli accordi intervenuti dopo la resa di Gaeta, dovevano invece essere lasciati liberi alla fine delle ostilità. Dopo sei mesi di eroica resistenza dovettero subire un trattamento infame che incominciò subito dopo essere stati disarmati, venendo derubati di tutto e vigliaccamente insultati dalle truppe piemontesi. La liberazione avveniva solo con la morte ed i corpi venivano disciolti nella calce viva collocata in una grande vasca situata nel retro della chiesa che sorgeva all'ingresso del Forte. Una morte senza onore, senza tombe, senza lapidi e senza ricordo, affinché non restassero tracce dei misfatti compiuti. Ancora oggi, entrando a Fenestrelle, su un muro è ancora visibile l'iscrizione: "Ognuno vale non in quanto è ma in quanto produce". Non era più gradevole il campo impiantato nelle "lande di San Martino" presso Torino per la "rieducazione" dei militari sbandati, rieducazione che procedeva con metodi di inaudita crudeltà. Così, in questi luoghi terribili, i fratelli "liberati", maceri, cenciosi, affamati, affaticati, venivano rieducati e tormentati dai fratelli "liberatori".
Altre migliaia di "liberati" venivano confinati nelle isole, a Gorgonia, Capraia, Giglio, all'Elba, Ponza, in Sardegna, nella Maremma malarica. Tutte le atrocità che si susseguirono per anni sono documentate negli Atti Parlamentari, nelle relazioni delle Commissioni d'Inchiesta sul Brigantaggio, nei vari carteggi parlamentari dell'epoca e negli Archivi di Stato dei capoluoghi dove si svolsero i fatti. Francesco Proto Carafa, duca di Maddaloni, sosteneva in Parlamento: "Ma che dico di un governo che strappa dal seno delle famiglie tanti vecchi generali, tanti onorati ufficiali solo per il sospetto che nutrissero amore per il loro Re sventurato, e rilegagli a vivere nelle fortezze di Alessandria ed in altre inospitali terre del Piemonte…Sono essi trattati peggio che i galeotti. Perché il governo piemontese abbia a spiegar loro tanto lusso di crudeltà? Perché abbia a torturare con la fame e con l'inerzia e la prigione uomini nati in Italia come noi?". Ma della mozione presentata non fu autorizzata la pubblicazione negli Atti Parlamentari, vietandosene la discussione in aula .
Il generale Enrico Della Rocca, che condusse l'assedio di Gaeta, nella sua autobiografia riporta una lettera alla moglie, in cui dice: "Partiranno, soldati ed ufficiali, per Napoli e Torino", precisando, a proposito della resa di Capua, "le truppe furono avviate a piedi a Napoli per essere trasportate in uno dei porti di S.M. il Re di Sardegna Erano 11.500 uomini . Alfredo Comandini, deputato mazziniano dell'età giolittiana, che compilò "L'Italia nei Cento Anni (1801-1900) del secolo XIX giorno per giorno illustrata", riporta un'incisione del 1861, ripresa da "Mondo Illustrato" di quell'anno, raffigurante dei soldati borbonici detenuti nel campo di concentramento di S. Maurizio, una località sita a 25 chilometri da Torino. Egli annota che, nel settembre del 1861, quando il campo fu visitato dai ministri Bastogi e Ricasoli, erano detenuti 3.000 soldati delle Due Sicilie e nel mese successivo erano arrivati a 12.447 uomini.
Il 18 ottobre 1861 alcuni prigionieri militari e civili capitolati a Gaeta e prigionieri a Ponza scrissero a Biagio Cognetti, direttore di "Stampa Meridionale", per denunciare lo stato di detenzione in cui versavano, in palese violazione della Capitolazione, che prevedeva il ritorno alle famiglie dei prigionieri dopo 15 giorni dalla caduta di Messina e Civitella del Tronto ed erano già trascorsi 8 mesi.
Il 19 novembre 1861 il generale Manfredo Fanti inviava un dispaccio al Conte di Cavourchiedendo di noleggiare all'estero dei vapori per trasportare a Genova 40.000 prigionieri di guerra. Cavour così scriveva al luogotenente Farini due giorni dopo: "Ho pregato La Marmora di visitare lui stesso i prigionieri napoletani che sono a Milano", ammettendo, in tal modo, l'esistenza di un altro campo di prigionia situato nel capoluogo lombardo per ospitare soldati napoletani. Questa la risposta del La Marmora:
"…non ti devo lasciar ignorare che i prigionieri napoletani dimostrano un pessimo spirito. Su 1600 che si trovano a Milano non arriveranno a 100 quelli che acconsentono a prendere servizio. Sono tutti coperti di rogna e di verminia…e quel che è più dimostrano avversione a prendere da noi servizio. Jeri a taluni che con arroganza pretendevano aver il diritto di andare a casa perché non volevano prestare un nuovo giuramento, avendo giurato fedeltà a Francesco Secondo, gli rinfacciai altamente che per il loro Re erano scappati, e ora per la Patria comune, e per il Re eletto si rifiutavano a servire, che erano un branco di car…che avessimo trovato modo di metterli alla ragione".
Le atrocità commesse dai Piemontesi si volsero anche contro i magistrati, i dipendenti pubblici e le classi colte, che resistettero passivamente con l'astensione ai suffragi elettorali e la diffusione ad ogni livello della stampa legittimista clandestina contro l'occupazione savoiarda. Particolarmente eloquente è anche un brano tratto da Civiltà Cattolica: "Per vincere la resistenza dei prigionieri di guerra, già trasportati in Piemonte e Lombardia, si ebbe ricorso ad un espediente crudele e disumano, che fa fremere. Quei meschinelli, appena coperti da cenci di tela, rifiniti di fame perché tenuti a mezza razione con cattivo pane ed acqua ed una sozza broda, furono fatti scortare nelle gelide casematte di Fenestrelle e d'altri luoghi posti nei più aspri luoghi delle Alpi. Uomini nati e cresciuti in clima sì caldo e dolce, come quello delle Due Sicilie, eccoli gittati, peggio che non si fa coi negri schiavi, a spasimare di fame e di stento per le ghiacciaie". Ancora possiamo leggere dal diario del soldato borbonico Giuseppe Conforti, nato a Catanzaro il 14.3.1836 (abbreviato per amor di sintesi): "Nella mia uscita fu principio la guerra del 1860, dopo questa campagna che per aver tradimenti si sono perduto tutto e noi altri povere soldati manggiando erba dovettimo fuggire, aggiunti alla provincia della Basilicata sortí un prete nemico di Dio e del mondo con una porzione di quei giudei e ci voleva condicendo che meritavamo di essere uccisi per la federtà che avevamo portato allo notro patrone. Ci hanno portato innanzi a un carnefice Piemontesa condicendo perché aveva tardato tanto ad abbandonare quell'assassino di Borbone. Io li sono risposto che non poteva giammai abbandonarlo perché aveva giurato fedeltà a lui e lui mi à ditto che dovevo tornare indietro asservire sotto la Bandiera d' Italia. Il terzo giorno sono scappato, giunto a Girifarchio dove teneva mio fratello sacerdote vedendomi redutto a quello misero stato e dicendo mal del mio Re io li risposi che il mio Re no aveva colpa del nostri patimenti che sono stato le nostri soperiori traditori; siamo fatto questioni e lo sono lasciato".
“Allo mio paese sono stato arrestato e dopo 7 mesi di scurre priggione mi anno fatto partire per il Piemonte. Il 15 gennaio del 1862 ci anno portato affare il giuramento, in quello stesso anno sono stato 3 volte all'ospidale e in pregiona a pane e accua. Principio del 1863 fuggito da sotto le armi di vittorio, il 24 sono giunto in Roma, il giorno 30 sono andato alludienza del mio desiderato e amato dal Re', Francesco 2 e li ò raccontato tutti i miei ragioni" .
Un ulteriore passo avanti nella studio di questa fase poco "chiara" del post unificazione è stato fatto recentemente, quando un ricercatore trovò dei documenti presso l'Archivio Francesco II in prigione nella fortezza di Gaeta.
Storico voleva acquistare un'isola dall'Argentina per relegarvi i soldati napoletani prigionieri, quindi dovevano essere ancora tanti .
Questi uomini del Sud finirono i loro giorni in terra straniera ed ostile; molti di loro erano poco più che ragazzi. Era la politica della criminalizzazione del dissenso, il rifiuto di ammettere l'esistenza di valori diversi dai propri, il rifiuto di negare ai "liberati" di credere ancora nei valori in cui avevano creduto. I combattenti delle Due Sicilie, i soldati dell'ex esercito borbonico ed i tanti civili detenuti nei "lager dei Savoia", uomini in gran parte anonimi per la pallida memoria che ne è giunta fino a noi, vissero un eroismo fatto di gesti concreti, ed in molti casi ordinari, a cui non è estraneo chiunque sia capace di adempiere fedelmente il proprio compito fino in fondo, sapendo opporsi ai tentativi sovvertitori, con la libertà. [STEFANIA MAFFEO]
Chi sono i briganti?
“Chi sono i briganti? Lo dirò io, nato e cresciuto tra essi. Il contadino non ha casa, non ha campo, non ha vigna, non ha prato, non ha bosco, non ha armento; non possiede che un metro di terra in comune al camposanto. Non ha letto, non ha vesti, non ha cibo d’uomo, non ha farmaci. Tutto gli è stato rapito dal prete al giaciglio di morte o dal ladroneccio feudale o dall’usura del proprietario o dall’imposta del comune e dello stato. Il contadino non conosce pan di grano, né vivanda di carne, ma divora una poltiglia innominata di spelta (farro), segale omelgone, quando non si accomuni con le bestie a pascere le radici che gli dà la terra matrigna a chi l’ama. Il contadino robusto e aitante, se non è accasciato dalle febbri dell’aria, con sedici ore di fatica, riarso dal solleone, rivolta a punte di vanga due are di terra alla profondità di quaranta centimetri e guadagna ottantacinque centesimi, beninteso nelle sole giornate di lavoro, e quando non piobe e quando non nevica e non annebbia. Con questi ottantacinque centesimi vegeta esso, il vecchio padre, spesso invalido dalla fatica già passata, e senza ospizio, la madre, un paio di sorelle, la moglie e una nidiata di figli. Se gli mancano per più giorni gli ottantacinque centesimi, il contadino, non possedendo nulla, nemmeno il credito, non avendo da portare nulla all’usuraio o al monte dei pegni, allora (oh!, io mentisco) vende la merce umana; esausto l’infame mercato, pigli il fucile e strugge, rapina, incendia, scanna, stupra, e mangia. Dirò cosa strana: mi perdonino. Il proletario vuole migliorare le sue condizioni né più né meno che noi. Questo ha atteso invano dalla stupida pretesa rivoluzione; questo attende la monarchia. In fondo nella sua idea bruta il brigantaggio non è che il progresso, o, temperando la crudezza della parola, il desiderio del meglio. Certo la vita è scellerata, il modo iniquo e infame… Ma il brigantaggio non è che miseria, è miseria estrema, disperata: le avversioni del clero, e dei caldeggiatori il caduto dominio, e tutto il numeroso elenco delle volute cause originarie di questa piaga sociale sono scuse secondarie e occasionali che ne abusano e la fanno perdurare. Si facciano i contadini proprietari. Non è cosa così difficile, ruinosa, anarchica e socialista come ne ha la parvenza. Una buona legge sul censimento, a piccoli lotti dei beni della Cassa ecclesiastica e demanio pubblico ad esclusivo vantaggio dei contadini nullatenenti, e il fucile scappa di mano al brigante… Date una moggiata al contadino e si farà scannare per voi, e difenderà la sua terra contro tutte le orde straniere e barbariche dell’Austro- Francia.”
[B. Croce, Storia del Regno di Napoli, Laterza, Bari, 1966)
Il termine “brigante” nell’Italia del XIX secolo identificava gruppi di malfattori riuniti in una zona delimitata e disciplinati sotto l'autorità di un capo che attentavano con le armi in pugno alle persone e alle proprietà.
Razziatori, ladri, delinquenti; tutti coloro che agendo al di fuori della legalità appartengono alla cosiddetta malavita organizzata. Ma anche se i metodi e le "imprese" non differivano da quelli della delinquenza comune, la connessione finiva lì. Il brigantaggio, infatti, a cominciare dalla sua durata che si manifestava per poi estinguersi in un periodo di tempo definito, si è sempre discostato, almeno per le cause da cui trae origine, dal banditismo fine a se stesso ed è sempre stato l'espressione di un profondo disagio socio-economico.
Qual era la consistenza delle forze ribelli dislocate su un territorio che si espandeva fino ai confini meridionali dell'Abruzzo? Si calcola che le bande di briganti siano state oltre 350, di cui almeno 33 con oltre 100 uomini e le più corpose con un organico che sfiorava le 400 unità, e che schierarono in campo decine di migliaia di ribelli "prelevati" con la persuasione o con la forza dall'immenso serbatoio delle masse contadine. Le "formazioni" erano comandate da capi dal nome leggendario come Crocco, La Gala, Pasquale Romano, Caruso, Luigi Alonzi, Gaetano Manzo, Tranchella.
Crocco, al secolo Carmine Donatelli, era originario di Rionero e dominava la zona della Basilicata e del Melfese. Arruolatosi nell'esercito borbonico, aveva ucciso un commilitone nel 1850 e aveva disertato per evitare la forca. Dieci anni dopo si aggregò a un gruppo di patrioti lucani insorti per iniziativa di alcuni borghesi di Rionero. Di nuovo ricercato, si diede alla macchia nei boschi del Vulture seguito da un manipolo di compagni di sventura e divenne un temuto fuorilegge. Le sue file ben presto si ingrossarono e Crocco si mise a disposizione dei reazionari borbonici da cui ricevette assistenza e sovvenzioni. La sua banda nutrita e compatta impegnò in durissimi scontri le truppe regolari piemontesi, ma alla fine di luglio del 1864 Crocco prese la decisione di ritirarsi dalla guerriglia e si trasferì nel territorio dello Stato Pontificio convinto di farla franca. Benchè il clero appoggiasse ufficiosamente gli insorti, il capobanda lucano fu arrestato dal governo papale e incarcerato per le sue nefandezze. Nel 1872 fu processato dalle autorità italiane a Potenza e condannato all'ergastolo. Morì dopo oltre 30 anni di reclusione nel penitenziario di Santo Stefano a Ventotene.
Michele Caruso di Torremaggiore era considerato uno dei capibanda più sanguinari e temibili. Agiva con i suoi briganti nel Molise, nel Beneventano e nella Capitanata ( l'attuale provincia di Foggia ). Le sue azioni di vera e propria guerriglia organizzata diedero molto filo da torcere alle forze dell'esercito del Regno d'Italia dal 1862 al 1863. Catturato in seguito alla soffiata di un delatore il 10 dicembre 1863 nei pressi di Molinova, venne trasferito a Benevento e fucilato il giorno successivo dopo un processo sommario. Con la sua morte la banda in breve tempo si disperse.
Luigi Alonzi, soprannominato "Chiavone", originario di una famiglia di agiati contadini e guardaboschi di Sora, capeggiava una banda di oltre 400 briganti e combattè contro le truppe regolari del Regio Esercito tra il 1861 e il 1862 nelle zone confinanti del Sorano, del Casertano e dello Stato Pontificio. Venne fucilato nell'estate del 1862 per ragioni rimaste oscure, forse per rivalità, dall'ufficiale spagnolo Raffaele Tristany, inviato sul luogo su preciso ordine borbonico per organizzare azioni di guerriglia contro l'esercito italiano. Il Tristany assunse successivamente il comando di tutte le bande di briganti che operavano ai confini dello Stato Pontificio.
Gaetano Manzo di Acerno, un centro del Salernitano, comandava una banda di medie proporzioni ed era noto con il nomignolo di Mansi. Il suo campo d'azione era ristretto ai territori situati intorno a San Cipriano Picentino e Giffoni Valle Piana, nell'entroterra del Salernitano. La sua banda si arrese alle truppe regolari solamente nel 1866.
Gaetano Tranchella, a capo di una banda di media consistenza formatasi nel 1861, infieriva pure lui nel Salernitano e precisamente nelle zone fra Eboli, Battipaglia e Persano. Fu ucciso nel 1864 dalle truppe regolari e la sua banda fu decimata.
I briganti, ovviamente, godevano dell'incondizionata simpatia delle masse rurali che li identificavano alla stregua di veri e propri eroi, una specie di ottocenteschi Robin Hood paladini di una Dea Giustizia che brandiva la spada contro i soprusi dei ricchi e il pericolo costituito dalle autoritarie imposizioni del nuovo padrone, il Regno d'Italia. Forti degli appoggi tangibili forniti dalla corrente reazionaria borbonica e a volte addirittura da quegli stessi proprietari terrieri che essi depredavano, ma che avevano accolto con sospetto l'arrivo della dominazione sabauda, i fuorilegge potevano contare anche sull'aiuto della Chiesa, che non aveva digerito la mozione del primo Parlamento italiano nella seduta del 27 marzo 1861 tenutasi nel salone di Palazzo Carignano a Torino in cui fu presa la decisione di dichiarare Roma futura capitale del Regno, mentre la città era ancora saldamente nelle mani di Papa Pio IX, fermamente intenzionato a non rinunciare al potere temporale sui territori dello Stato Pontificio. In virtù di quella ufficiosa connivenza i briganti potevano trovare riparo nei conventi e sfuggire alla cattura nel caso in cui la loro sortita contro le truppe regolari si fosse risolta in un frettoloso ripiegamento. La lotta armata fra briganti meridionali e truppe dell'esercito regolare in cinque anni fece un'ecatombe di vittime assumendo le proporzioni di una guerra civile. Si calcola che tra il 1861 e il 1865 rimasero uccisi in combattimento o passati per le armi 5212 briganti e che ne siano stati tratti in arresto 5044.
La canzone del brigante
|
Ammu pusato chitarra e tammure |
pecche' sta musica s'adda cagna' |
|
simmo briganti e facimmo paure |
|
e cu' 'a scuppetta vulimmo canta' |
|
|
|
E mo'cantammo 'na nova canzona |
|
tutta la gente se l'adda 'mpara' |
|
|
nuie cumbattimmo p' 'o rre burbone |
e 'a terra nosta nun s'adda tucca' |
|
|
|
Chi ha visto 'o lupo e s'e' miso paure |
|
nun sape buono qual e' 'a verita' |
|
'o vero lupo ca magna e criature |
|
|
e' 'o piemuntese c'avimm' a caccia' |
|
|
Tutte 'e paise d' 'a Basilicata |
|
se so' scetate e vonno lutta' |
|
pure 'a Calabria s'e' arrevotata |
|
e stu nemico facimmo tremma' |
|
|
|
Femmene belle ca date lu core |
|
si lu brigante vulite aiuta' |
|
nun lo cercate, scurdateve 'o nomme |
Il giuramento dei briganti
“Noi giuriamo davanti a Dio e al mondo intero di essere fedeli al nostro augustissimo e religiosissimo sovrano Francesco II (che Dio guardi sempre); e promettiamo di concorrere con tutta la nostra anima e con tutte le nostre forze al suo ritorno nel regno; di obbedire ciecamente a tutti i suoi ordini, a tutti i comandi che verranno sia direttamente, sia per i suoi delegati dal comitato centrale residente a Roma. Noi giuriamo di conservare il segreto, affinché la giusta causa voluta da Dio, che è il regolatore dei sovrani, trionfi col ritorno di Francesco II, re per la grazia di Dio, difensore della religione, e figlio affezionatissimo del nostro Santo Padre Pio IX, che lo custodisce nelle sue braccia per non lasciarlo cadere nelle mani degli increduli, dei perversi, e dei pretesi liberali; i quali hanno per principio la distruzione della religione, dopo aver scacciato il nostro amatissimo sovrano dal trono dei suoi antenati, Noi promettiamo anche con l’aiuto di Dio di rivendicare tutti i diritti della Santa Sede e di abbattere il lucifero infernale Vittorio Emanuele e i suoi complici. Noi lo promettiamo e lo giuriamo”.
Le brigantesse |
Accanto al “brigante” si trovano le figure delle “brigantesse”che esprimono il dramma " della rottura dell'equilibrio familiare, dramma di madri senza più figli, di ragazze orfane dei genitori, di vedove: è dramma di donne disperate che, ribaltando un ruolo stereotipo di rassegnazione e sudditanza, si dimostrano capaci di affiancare con coraggio i propri uomini e partecipare attivamente alla rivolta contadina. E' difficile attribuire una data di nascita al brigantaggio femminile, ma una prima significativa figura femminile di età moderna può essere individuata in Francesca La Gamba, nata a Palmi (RC) nel 1768 e attiva nel decennio di occupazione francese (1806-1816).
Francesca La Gamba
Francesca, filandiera di professione, madre di tre figli, divenne capobanda, spinta da un'incontenibile sete di vendetta contro i francesi che l'avevano colpita negli affetti più cari. Rimasta vedova del primo marito, dal quale aveva avuto due figli, convolò in seconde nozze. Avvenente d'aspetto ed esuberante nel carattere, attirò le mire di un ufficiale francese che, invaghitosene, tentò - forte della sua posizione sociale - di sedurla. Respinto dalla fiera Francesca il militare pensò di vendicarsi in maniera terribile. Nottetempo fece affiggere un falso manifesto di incitamento alla rivolta contro l'esercito francese di occupazione ed il mattino successivo fece arrestare i figli della donna, accusandoli di essere gli autori della bravata. Alle suppliche di Francesca, l'ufficiale fu irremovibile: i giovani subirono un processo sommario e furono fucilati.
Francesca, pazza di dolore, si unì ad una banda di briganti che operava nella zona, dismise gli abiti femminili ed indossò quelli dei briganti.In breve fornì prove di ardimento tali da divenire il capo riconosciuto della banda stessa, seminando ovunque il terrore. I francesi si accanirono nella caccia della donna, fino a quando un loro drappello cadde in un'imboscata tesa da Francesca. Tra i soldati fatti prigionieri la sorte volle che ci fosse proprio l'ufficiale suo nemico. Con una coltellata Francesca gli strappò il cuore e lo divorò ancora palpitante. Nell'orrore di questa vicenda, pure caricata di colore dal mito, possono leggersi le ragioni che hanno spesso indotto tranquille popolane meridionali a trasformarsi in Erinni vendicatrici: la prevaricazione degli occupanti, il loro disprezzo per gli affetti feriti, l'irrefrenabile ansia di vendetta suscitata nei popoli conquistati.
Crollato il mondo familiare intorno al quale si è costruita a fatica una pur misera esistenza, la vendetta femminile si dimostra ancor più feroce di quella maschile. Si tratta di fenomeni tuttavia limitati che fanno da contraltare a tanti episodi di rassegnazione e di pianto: costituiscono un'eccezione, insomma, non già la regola. Appare dunque azzardato il tentativo di attribuire autonomia assoluta al brigantaggio femminile preunitario. Forse sarebbe più corretto parlare di una "questione dentro la questione". E questo non sminuisce il ruolo delle donne nella rivolta contadina. Anzi, lo amplia e agevola la comprensione dell'intera questione delle classi subalterne meridionali. E' comprovata invece, nelle vicende rivoluzionarie della seconda metà dell'ottocento la presenza di un considerevole numero di donne nell'organizzazione brigantesca. Chi può, infatti, legittimamente sostenere che in una banda di briganti, numerosa e perfettamente organizzata (come tante nel periodo che trattiamo), si potesse fare a meno della presenza delle donne per motivi logistici, di collegamento, di approvvigionamento e, perché no, anche per motivi affettivi? Occorre qui introdurre ed operare - semmai - un'altra distinzione che dall'ottocento ad oggi ha diviso e divide gli studiosi: la distinzione tra "la donna del brigante" e "la brigantessa". Numerosi sono gli esempi di " donne del brigante", più rari - ma non meno significativi - quelli di "brigantesse". Gli uni e gli altri concorrono però in eguale misura a definire il ruolo della donna nelle classi rurali della seconda metà dell'ottocento meridionale italiano e contribuiscono certamente all'affermazione del posto che la donna occupa nella odierna società italiana. La "donna del brigante" è colei che ha dovuto o voluto seguire il proprio uomo (spesso marito, talora amante, raramente figlio) che si è dato alla macchia. Nel primo caso, quello della costrizione, il darsi alla macchia del proprio uomo l'ha confinata in una condizione ancora più disperata. Le è venuta meno ogni forma di sostentamento: l'opinione pubblica l'ha additata con disprezzo e l'ha isolata, spesso anche per timore di sospetti di connivenza. Non le è rimasto che il mendicio ed il meretricio. Sola, senza mezzi, disprezzata dai borghesi benpensanti e dai popolani acquiescenti, controllata a vista dalle autorità governative, talvolta oggetto di attenzioni inconfessabili dei "galantuomini", ha preferito alla fine seguire fino in fondo la scelta di vita del suo uomo.
La "donna del brigante" è anche colei che viene rapita e sedotta dal bandito, ridotta in stato di schiavitù e costretta - contro il suo volere - a seguirlo nelle sue azioni brigantesche. Spesso finisce però per innamorarsene, per quella condizione psicologica che oggi è classificata come "sindrome di Stoccolma". E' il caso, ad esempio - sempre nel periodo di occupazione francese - di una non meglio identificata Margherita.
Il brigante Bizzarro, uomo violento e sanguinario, imperversava nelle Calabrie. Costui, nel corso di una delle sue crudeli scorribande, sterminò un intera famiglia, trucidò un padre e ne rapì la figlia Margherita. Bizzarro sicuramente stuprò la donna, la rese sua schiava e la condusse con sé, in groppa al proprio cavallo, nelle imprese brigantesche alle quali dava continuamente vita. Ci si aspetterebbe che la donna fosse investita da rabbia, rancore e odio. Invece in Margherita, lentamente, l'odio verso Bizzarro si trasformò in ammirazione, il sentimento di vendetta fu sostituito dall'amore verso il boia della sua famiglia. Ne diventò la compagna ed il braccio destro e lo accompagnò nelle sue scorrerie, gareggiando con lui in audacia e coraggio. Catturata in un'imboscata, non sopravvisse a lungo ai rigori della prigione che, come vedremo più avanti non erano inferiori a quelli della latitanza.
Per un beffardo gioco del destino una reazione opposta dimostrò invece - proprio nei confronti dello stesso Bizzarro - la donna che subentrò a Margherita nelle grazie del bandito: Niccolina Licciardi. Un giorno erano entrambi braccati dai piemontesi. Bizzarro, in un raptus di follia omicida, sfracellò contro le pareti di una caverna il neonato avuto dalla compagna, per la sola ragione che il pianto del bimbo rischiava di rivelarne la presenza agli inseguitori. Niccolina non versò neppure una lacrima. Con le mani scavò una fossa, vi seppellì il figlioletto e si pose a guardia della tomba - anche dormendovi sopra - per evitare lo scempio da parte degli animali selvatici che infestavano la zona. Profittando poi del sonno di Bizzarro, gli sottrasse il fucile e gli fece saltare le cervella, sparandogli in un orecchio. Decapitato il bandito, ne avvolse la testa in un panno, si diresse a casa del governatore di Catanzaro e sul suo desco lanciò il macabro trofeo. Incassata la taglia, ritornò sui monti e di lei si perse ogni traccia.
Alcune volte, ed è il caso della libera scelta, "la donna del brigante " segue volontariamente l'uomo di cui è innamorata.
Tale appare la vicenda di Maria Capitanio. La ragazza, nel 1865, a quindici anni si innamorò di Agostino Luongo, un operaio delle ferrovie. Maria continuò ad amarlo e a frequentarlo di nascosto anche quando questi si dette alla macchia. Lo seguì nella latitanza, consumò le "nozze rusticane" e partecipò per pochi giorni alle azioni delittuose della banda, fungendo da vivandiera e da carceriera di un ricco possidente, tenuto in ostaggio. Catturata dopo una decina di giorni, in uno scontro a fuoco, grazie ai denari del padre, fu prosciolta dall'accusa di brigantaggio, essendo riuscita a dimostrare - attraverso false testimonianze - di essere stata costretta con la forza a seguire il brigante Luongo.
Rivelatrice di contraddizioni è la vicenda di Filomena Pennacchio, una tra le più note "brigantesse". Figlia di un macellaio, nata in Irpinia nella provincia borbonica di Principato Ultra, fin dall'infanzia incrementò il povero bilancio familiare servendo come sguattera presso alcuni notabili del paese. Alcuni mesi dopo il primo incontro con Giuseppe Schiavone, famoso capobanda lucano, vendette per alcuni ducati il poco che aveva e lo seguì nella latitanza. La vita brigantesca la rese subito un'intrepida combattente, evidenziando le sue inclinazioni sanguinarie. Con Schiavone partecipò a furti di bestiame ed a sequestri di persona, trovando modo di meritarsi il rispetto e la simpatia di tutta la banda. Non si sottrasse nemmeno all'omicidio, avendo preso attiva parte all'eccidio di nove soldati del 45° Reggimento di Fanteria nel luglio del 1863 a Sferracavallo. Era altresì capace di slanci di generosità come è testimoniato dal soccorso che offrì ad alcune vittime della banda Schiavone e per aver cercato di salvare alcune vite.
Di lei si disse anche, ma senza suffragio di prove, essere stata non solo l'amante di Schiavone ma anche di Carmine Crocco, il leggendario e riconosciuto capo di tutte le bande lucane e dei suoi luogotenenti Ninco Nanco e donato Tortora.
“L’amante di Gramigna” (G. Verga)
Parecchi anni or sono, laggiù lungo il Simeto, davano la caccia a un brigante, certo Gramigna, se
non erro, un nome maledetto come l'erba che lo porta, il quale da un capo all'altro della provincia
s'era lasciato dietro il terrore della sua fama. Carabinieri, soldati, e militi a cavallo, lo inseguivano
da due mesi, senza esser riesciti a mettergli le unghie addosso: era solo, ma valeva per dieci, e la
mala pianta minacciava di moltiplicarsi. Per giunta si approssimava il tempo della messe, tutta la
raccolta dell'annata in man di Dio, ché i proprietarii non s'arrischiavano a uscir dal paese pel timor
di Gramigna; sicché le lagnanze erano generali. Il prefetto fece chiamare tutti quei signori della
questura, dei carabinieri, dei compagni d'armi, e subito in moto pattuglie, squadriglie, vedette per
ogni fossato, e dietro ogni muricciolo: se lo cacciavano dinanzi come una mala bestia per tutta una
provincia, di giorno, di notte, a piedi, a cavallo, col telegrafo. Gramigna sgusciava loro di mano, o
rispondeva a schioppettate, se gli camminavano un po' troppo sulle calcagna. Nelle campagne, nei
villaggi, per le fattorie, sotto le frasche delle osterie, nei luoghi di ritrovo, non si parlava d'altro che
di lui, di Gramigna, di quella caccia accanita, di quella fuga disperata. I cavalli dei carabinieri
cascavano stanchi morti; i compagni d'armi si buttavano rifiniti per terra, in tutte le stalle; le
pattuglie dormivano all'impiedi; egli solo, Gramigna, non era stanco mai, non dormiva mai,
combatteva sempre, s'arrampicava sui precipizi, strisciava fra le messi, correva carponi nel folto dei
fichidindia, sgattajolava come un lupo nel letto asciutto dei torrenti. Per duecento miglia all'intorno,
correva la leggenda delle sue gesta, del suo coraggio, della sua forza, di quella lotta disperata, lui
solo contro mille, stanco, affamato, arso dalla sete, nella pianura immensa, arsa, sotto il sole di
giugno.
Peppa, una delle più belle ragazze di Licodia, doveva sposare in quel tempo compare Finu
“candela di sego” che aveva terre al sole e una mula baia in stalla, ed era un giovanotto grande e
bello come il sole, che portava lo stendardo di Santa Margherita come fosse un pilastro, senza
piegare le reni.
La madre di Peppa piangeva dalla contentezza per la gran fortuna toccata alla figliuola, e
passava il tempo a voltare e rivoltare nel baule il corredo della sposa, “tutto di roba bianca a
quattro” come quella di una regina, e orecchini che le arrivavano alle spalle, e anelli d'oro per le
dieci dita delle mani: dell'oro ne aveva quanto ne poteva avere Santa Margherita, e dovevano
sposarsi giusto per Santa Margherita, che cadeva in giugno, dopo la mietitura del fieno. “Candela di
sego” nel tornare ogni sera dalla campagna, lasciava la mula all'uscio della Peppa, e veniva a dirle
che i seminati erano un incanto, se Gramigna non vi appiccava il fuoco, e il graticcio di contro al
letto non sarebbe bastato a contenere tutto il grano della raccolta, che gli pareva mill'anni di
condursi la sposa in casa, in groppa alla mula baia. Ma Peppa un bel giorno gli disse:
- La vostra mula lasciatela stare, perché non voglio maritarmi -.
Figurati il putiferio! La vecchia si strappava i capelli, “Candela di sego” era rimasto a bocca
aperta.
Che è, che non è, Peppa s'era scaldata la testa per Gramigna, senza conoscerlo neppure. Quello
sì, ch'era un uomo! - Che ne sai? - Dove l'hai visto? - Nulla. Peppa non rispondeva neppure, colla
testa bassa, la faccia dura, senza pietà per la mamma che faceva come una pazza, coi capelli grigi al
vento, e pareva una strega. - Ah! quel demonio è venuto sin qui a stregarmi la mia figliuola! -
Le comari che avevano invidiato a Peppa il seminato prosperoso, la mula baia, e il bel
giovanotto che portava lo stendardo di Santa Margherita senza piegar le reni, andavano dicendo
ogni sorta di brutte storie, che Gramigna veniva a trovare la ragazza di notte in cucina, e che glielo
avevano visto nascosto sotto il letto. La povera madre teneva accesa una lampada alle anime del
purgatorio, e persino il curato era andato in casa di Peppa, a toccarle il cuore colla stola, onde
scacciare quel diavolo di Gramigna che ne aveva preso possesso.
Però ella seguitava a dire che non lo conosceva neanche di vista quel cristiano; ma invece
pensava sempre a lui; lo vedeva in sogno, la notte, e alla mattina si levava colle labbra arse, assetata
anch'essa, come lui.
Allora la vecchia la chiuse in casa, perché non sentisse più parlare di Gramigna, e tappò tutte le
fessure dell'uscio con immagini di santi.
Peppa ascoltava quello che dicevano nella strada, dietro le immagini benedette, e si faceva
pallida e rossa, come se il diavolo le soffiasse tutto l'inferno nella faccia.
Finalmente si sentì che avevano scovato Gramigna nei fichidindia di Palagonia.
- Ha fatto due ore di fuoco! - dicevano; - c'è un carabiniere morto, e più di tre compagni d'armi
feriti. Ma gli hanno tirato addosso tal gragnuola di fucilate che stavolta hanno trovato un lago di
sangue dove egli era stato -.
Una notte Peppa si fece la croce dinanzi al capezzale della vecchia e fuggì dalla finestra.
Gramigna era proprio nei fichidindia di Palagonia - non avevano potuto scovarlo in quel forteto
da conigli - lacero, insanguinato, pallido per due giorni di fame, arso dalla febbre, e colla carabina
spianata.
Come la vide venire, risoluta, in mezzo alle macchie fitte, nel fosco chiarore dell'alba, ci pensò
un momento, se dovesse lasciar partire il colpo.
Ella non rispose, guardandolo fisso.
- Vattene! - diss'egli, - vattene, finché t'aiuta Cristo!
- Adesso non posso più tornare a casa, - rispose lei; - la strada è tutta piena di soldati.
-Cosa m’importa? Vattene –
E la prese di mira colla carabina. Come essa non si moveva, Gramigna, sbalordito, le andò coi
pugni addosso:
- Dunque?... Sei pazza?... O sei qualche spia?
- No, - diss'ella, - no!
- Bene, va a prendermi un fiasco d'acqua, laggiù nel torrente, quand'è così -.
Peppa andò senza dir nulla, e quando Gramigna udì le fucilate si mise a sghignazzare, e disse fra
sé:
- Queste erano per me -.
Ma poco dopo vide ritornare la ragazza col fiasco in mano, lacera e insanguinata. Egli le si buttò
addosso, assetato, e poich'ebbe bevuto da mancargli il fiato, le disse infine:
- Vuoi venire con me?
- Sì, - accennò ella col capo avidamente, - sì -.
E lo seguì per valli e monti, affamata, seminuda, correndo spesso a cercargli un fiasco d'acqua o
un tozzo di pane a rischio della vita. Se tornava colle mani vuote, in mezzo alle fucilate, il suo
amante, divorato dalla fame e dalla sete, la batteva.
Una notte c'era la luna, e si udivano latrare i cani, lontano, nella pianura. Gramigna balzò in
piedi a un tratto, e le disse:
- Tu resta qui, o t'ammazzo com'è vero Dio! -
Lei addossata alla rupe, in fondo al burrone, lui invece a correre tra i fichidindia. Però gli altri,
più furbi, gli venivano incontro giusto da quella parte.
- Ferma! ferma! -
E le schioppettate fioccarono. Peppa, che tremava solo per lui, se lo vide tornare ferito, che si
strascinava appena, e si buttava carponi per ricaricare la carabina.
- È finita! - disse lui. - Ora mi prendono -; e aveva la schiuma alla bocca, gli occhi lucenti come
quelli del lupo.
Appena cadde sui rami secchi come un fascio di legna, i compagni d'armi gli furono addosso
tutti in una volta.
Il giorno dopo lo strascinarono per le vie del villaggio, su di un carro, tutto lacero e sanguinoso.
La gente gli si accalcava intorno per vederlo; e la sua amante, anche lei, ammanettata, come una
ladra, lei che ci aveva dell'oro quanto Santa Margherita!
La povera madre di Peppa dovette vendere “tutta la roba bianca” del corredo, e gli orecchini
d'oro, e gli anelli per le dieci dita , onde pagare gli avvocati di sua figlia , e tirarsela di nuovo in
casa, povera, malata, svergognata, e col figlio di Gramigna in collo. In paese nessuno la vide più
mai. Stava rincantucciata nella cucina come una bestia feroce, e ne uscì soltanto allorché la sua
vecchia fu morta di stenti, e si dovette vendere la casa.
Allora, di notte, se ne andò via dal paese, lasciando il figliuolo ai trovatelli, senza voltarsi
indietro neppure, e se ne venne alla città dove le avevano detto ch'era in carcere Gramigna.
Gironzava intorno a quel gran fabbricato tetro, guardando le inferriate, cercando dove potesse esser
lui, cogli sbirri alle calcagna, insultata e scacciata ad ogni passo.
Finalmente seppe che il suo amante non era più lì, l'avevano condotto via, di là del mare,
ammanettato e colla sporta al collo. Che poteva fare? Rimase dov'era, a buscarsi il pane rendendo
qualche servizio ai soldati, ai carcerieri, come facesse parte ella stessa di quel gran fabbricato tetro
e silenzioso. Verso i carabinieri poi, che le avevano preso Gramigna nel folto dei fichidindia,
sentiva una specie di tenerezza rispettosa, come l'ammirazione bruta della forza, ed era sempre per
la caserma, spazzando i cameroni e lustrando gli stivali, tanto che la chiamavano “lo strofinacciolo
della caserma”. Soltanto quando partivano per qualche spedizione rischiosa, e li vedeva caricare le
armi, diventava pallida e pensava a Gramigna.
L’anno 1862 si chiuse
...con una relazione alla Camera di Torino sulla situazione nell’ex Regno delle Due Sicilie con i dati ufficiali di 15.665 fucilati, 1.740 imprigionati, 960 uccisi in combattimento. Gli scontri a fuoco di una certa consistenza nell’anno furono 574. I meridionali emigrati all’estero furono circa 6.800 persone. Le forze piemontesi di occupazione risultarono costituite da 18 reggimenti di fanteria, 51 “quarti” battaglioni di altri reggimenti, 22 battaglioni bersaglieri, 8 reggimenti di cavalleria, 4 reggimenti di artiglieria. Nei territori delle Due Sicilie si contavano circa 400 bande di patrioti legittimisti, comandate per la maggior parte da ex militari borbonici.
Il Piemonte, che era lo Stato più indebitato d’Europa, si salvò dalla bancarotta disponendo alla fine dell'anno l’unificazione del “suo” debito pubblico con gli abitanti dei territori conquistati. Furono venduti, con prezzi irrisori, ai traditori liberali tutti i beni privati dei Borbone e gli stabilimenti pubblici civili e militari delle Due Sicilie. Tutte le spese per la “liberazione” e dei lavori pubblici (affidati alle speculazioni delle imprese lombardo-piemontesi) furono addebitate proprio alle regioni “liberate” (!!).
Anche l’arretrato sistema tributario piemontese fu applicato nel Napoletano ed in Sicilia, che fino allora avevano avuto un sistema fiscale mite, razionale, semplice e soprattutto efficace nell’imposizione e nella riscossione, indubbiamente tra i migliori in Europa. Al Sud fu applicato un aumento di oltre il 32 per cento delle imposte, mentre gli fu attribuito meno del 24 per cento della ricchezza “italiana”.
Del resto era l’avverarsi di ciò che pochi secoli prima aveva detto Emanuele Filiberto di Savoia:
“L’Italia? È un carciofo di cui i Savoia mangeranno una foglia alla volta” (Antonio Pagano).
Legge Pica: Art.1: Fino al 31 dicembre nelle province infestate dal brigantaggio, e che tali saranno dichiarate con decreto reale, i componenti comitiva, o banda armata composta almeno di tre persone, la quale vada scorrendo le pubbliche strade o le campagne per commettere crimini o delitti, ed i loro complici, saranno giudicati dai tribunali militari; Art.2: I colpevoli del reato di brigantaggio, i quali armata mano oppongono resistenza alla forza pubblica, saranno puniti con la fucilazione; Art.3: Sarà accordata a coloro che si sono già costituiti, o si costituiranno volontariamente nel termine di un mese dalla pubblicazione della presente legge, la diminuzione da uno a tre gradi di pena; Art.4: Il Governo avrà inoltre facoltà di assegnare, per un tempo non maggiore di un anno, un domicilio coatto agli oziosi, ai vagabondi, alle persone sospette, secondo la designazione del Codice Penale, nonché ai manutengoli e camorristi; Art.5: In aumento dell'articolo 95 del bilancio approvato per 1863 è aperto al Ministero dell'Interno il credito di un milione di lire per sopperire alle spese di repressione del brigantaggio. (Fonte: Atti parlamentari. Camera dei Deputati)
Giovanni De Matteo, Brigantaggio e Risorgimento - legittimisti e briganti tra i Borbone ed i Savoia, Guida Editore, Napoli, 2000.
Questa informazione e tutte le seguenti sono state reperite nei saggi "I campi di concentramento", di Francesco Maurizio Di Giovine, nella rivista L'Alfiere, Napoli, novembre 1993, pag. 11 e "A proposito del campo di concentramento di Fenestrelle", dello stesso autore, pubblicato su L'Alfiere, dicembre 2002, pag. 8.
Fulvio Izzo, I Lager dei Savoia, Controcorrente, Napoli 1999.
S. Grilli, Cayenna all'italiana, Il Giornale, 22 marzo 1997.
Fonte: http://www.itisravenna.it/didonline/doc/Chimica/5ach/Storia/Lezione/CASADIO_GIULIANA/Brigantaggio.doc
Sito web da visitare: http://www.itisravenna.it/
Autore del testo: non indicato nel documento di origine
Il testo è di proprietà dei rispettivi autori che ringraziamo per l'opportunità che ci danno di far conoscere gratuitamente i loro testi per finalità illustrative e didattiche. Se siete gli autori del testo e siete interessati a richiedere la rimozione del testo o l'inserimento di altre informazioni inviateci un e-mail dopo le opportune verifiche soddisferemo la vostra richiesta nel più breve tempo possibile.
I riassunti , gli appunti i testi contenuti nel nostro sito sono messi a disposizione gratuitamente con finalità illustrative didattiche, scientifiche, a carattere sociale, civile e culturale a tutti i possibili interessati secondo il concetto del fair use e con l' obiettivo del rispetto della direttiva europea 2001/29/CE e dell' art. 70 della legge 633/1941 sul diritto d'autore
Le informazioni di medicina e salute contenute nel sito sono di natura generale ed a scopo puramente divulgativo e per questo motivo non possono sostituire in alcun caso il consiglio di un medico (ovvero un soggetto abilitato legalmente alla professione).
"Ciò che sappiamo è una goccia, ciò che ignoriamo un oceano!" Isaac Newton. Essendo impossibile tenere a mente l'enorme quantità di informazioni, l'importante è sapere dove ritrovare l'informazione quando questa serve. U. Eco
www.riassuntini.com dove ritrovare l'informazione quando questa serve