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11 settembre 2001. La valigia del dirottatore.
Le telecamere di controllo dell’aereoporto di Boston inquadrano uno dei presunti dirottatori che supera il check point. Porta una borsa con sé. Immediatamente chiara, come in una finzione cinematografica, l’assurdità della scena: la borsa non sarebbe più servita a nulla, dal momento che sarebbe sparita, atomizzata, con l’aereo e il suo carico umano al momento dell’impatto con una delle due torri.
Nella borsa c’era: un profumo, una crema e un rasoio usa e getta, una camicia stirata, una foto, un Corano, un libro di poesie di Omar Khayyàm, un libro di poesie di Bertold Brecht, un libro di poesie di Hans Magnus Enzensberger, Delirious New York di Rem Koolhaas (“Manhattan è la Stele di Rosetta del XX secolo”), A Book of Five Rings di Miyamoto Musashi.
Nel Corano sono sottolineate queste righe della sura meccana XV, detta di Hal-Higr: Lasciali a mangiare e a godere e che li distragga la speranza: presto sapranno. - Perché noi non distruggemmo città alcuna senza prima averle dato una scrittura ben conosciuta, - ma nessun popolo potrà anticipare il suo termine, nessun popolo ritardarlo […] – Ma noi manderemo gli angeli solo con la Verità, e allora gli empi non dovranno più aspettare!
Un filo rosso è collocato tra le pagine delle Rubaiyyat, forse questi sono i versi interessati:
Vidi ieri al mercato un vasaio,
che menava gran colpi sulla fresca argilla;
quell’argilla in suo muto linguaggio gli disse:
sono stata un uomo come te, trattami bene.
“La fine del Titanic” appare quasi intatto, una piega del costone a metà libro fa capire un passaggio di attenzione, finale, estremo (O profeti che le spalle al mare volgete,/ che volgete le spalle al presente, o pacati/ stregoni che guardate al futuro,/ o sciamani poggiati ancora e sempre al parapetto -/ basta un tascabile sfogliato per caso/ per capire che tipi siete.).
In tasca una cartolina con gli auguri, impostata a Washington e il pieghevole di una mostra di Charles Gaines “Airplanecrash Clock” (1997).
Floyd Gottfredson, Mickey Mouse sails for Treasure Island, 1932; Topolino e i pirati.
Note: l’ammutinamento dei marinai avviene, di solito, e anche in questo caso, per le condizioni disumane di vita a bordo; il tesoro è sempre frutto di un atto di pirateria; il ”tesoro” introduce un interessante paradosso giuridico, in quanto, salva l’ipotesi della riconsegna ai depredati, appartiene, trovandosi in un’isola abitata, ai legittimi abitanti; questi abitanti, nella fattispecie, sono negri, nudi, cannibali; gli ammutinati, sconfitti dall’alleanza tra Topolino, il capitano e i cannibali, vengono abbandonati alla loro mercè.
Questo giornalino, prodotto nel 1932 da Walt Disney, ha contribuito, come molti altri di questo tenore, ad ancorare tutta una serie di stereotipi , da quelli folcloristici (la gamba di legno, l’occhio di vetro, l’uncino, la bandana, la bandiera con il teschio, la sciabola, il rampino …) a quelli ideologici (la libertà, l’ anarchia, il coraggio, l’apolidismo …), sul mondo della pirateria. La storia dei corsari (definizione più appropriata, nella lingua italiana, dal punto di vista semantico, perché presuppone l’incrociarsi di corse, ovvero di moti contrari, in punti catastrofici di collisione …) è legata alla storia stessa della navigazione, nel suo triplice aspetto di esplorazione, rapina – anche costiera, si pensi alle cosiddette scorrerie - e di colonizzazione, molto spesso con licenza di uccidere, una licenza concessa quasi sempre da un governo regolare.
I pirati della Malesia di Emilio Salgari
Scritto nel 1896, I pirati della Malesia è il libro che dà nome al ciclo di romanzi d’avventura di Emilio Salgari, iniziato con I misteri della giungla nera (scritto nel 1895) e concluso con La rivincita di Yanez (del 1913). Al centro dell’azione è di nuovo lo scontro tra Tremalnaik e la terribile setta degli strangolatori, i Thugs.
I pirati, protetti dai loro cannoni, in capo a un quarto d'ora giunsero sotto la poppa del vascello tentando di issarsi a bordo. Il capitano Mac Clintock si gettò da quella parte per ribattere l'abbordaggio, ma una scarica di mitraglia lo freddò assieme a tre uomini. Un urlo terribile echeggiò per l'aria:
- Viva la Tigre della Malesia!
I pirati gettano le carabine, impugnano le scimitarre, le scuri, le mazze, i kriss e danno intrepidamente l'abbordaggio aggrappandosi alle murate, ai paterazzi e alle griselle. Alcuni si slanciano sulla cima degli alberi dei prahos, corrono come scimmie lungo i pennoni e piombano sull'attrezzatura del tre-alberi lasciandosi scivolare in coperta. In un attimo i pochi difensori, sopraffatti dal numero, cadono a prua, a poppa, sul cassero e sul castello.
Presso l'albero di maestra un solo uomo, armato di una pesante e larga sciabola d'abbordaggio, rimaneva ancora ...
L’eroe corsaro, filibustiere, pirata, è sempre romantico: il fascino dell’esotico e dell’avventura induce a confusioni tra il rapimento emozionale e il rapimento criminale. Una reciproca e fatale attrazione, non a caso fissata come un modello eterno da Byron nel suo Il corsaro (1814) e reso già filmico dall’Isola del tesoro di Stevenson (1883): isola + tesoro sono le due parole magiche che, racchiuse nel titolo, già riassumono l’intera vicenda. Per altro, di un Verdi poco conosciuto l’omonima opera Il corsaro (1847-48) su libretto di Piave – voluta dal conte Nani Mocenigo per essere eseguita alla Fenice di Venezia – si è appena rivista al Teatro Regio di Parma.
Un bordo, sia di nave sia di costa, diventa, grazie alla pirateria, il luogo pauroso dello scontro..
Fuori di ogni esotismo, la vera storia della pirateria coinvolge soprattutto le vicende secolari del Mediterraneo, tanto che se una nave con la mezzaluna incuteva il terrore al suo solo avvicinarsi ad una costa tirrenica o ionica, una galea con la croce spaventava a morte la popolazione costiera dell’Africa settentrionale.
E ancora: la guerra irakena è l’ultima manifestazione di pirateria da parte di una banda di briganti che arriva addirittura dall’altra parte dell’Oceano sulle sue navi volanti!
Ochu Kaizoku, Captain Harlock, Toei Doga, 1978-79; storia originale di Reiji Matsumoto. 42 episodi; Uchu Kaizoku Captain Harlock Arcadia Go No Nazo(Il pirata spaziale Capitan Harlock: il mistero dell’Arcadia), 151’; Waga Seishun No Arcadia (L’Arcadia della mia giovinezza), 130’.
Si tratta di uno dei non frequentissimi racconti giapponesi che hanno per tema diretto i pirati. I pirati sono sempre esistiti, in Oriente e in Occidente, già comparendo nei mari cerulei di Omero e poi in Polibio e in Plutarco.
I nemici di Harlock sono tutte donne, donne vegetali con grazie botticelliane, che, provenienti dal pianeta Mazone, sono riuscite ad infiltrarsi nella società dei terrestri.
Harlock è un pirata del futuro, a testimonianza del fatto che la mitologia legata a questa categoria dell’esistenza avventurosa non avrà mai termine, in quanto appartenente ormai geneticamente al DNA di una cultura davvero globale: il pirata sembra un vendicatore, un eroe maledetto, un individuo libero e incontrollabile, quando invece esprime solo uno dei volti con cui il potere – nella forma del possesso e dell’impossessamento - rafforza e potenzia sempre e solo se stesso.
Harlock si propone come un salvatore, una sorta di antipirata, legalizzandosi sul modello dei veri pirati del Seicento, segretamente istituzionali, appoggiati dall’Inghilterra per assalire le navi spagnole, una situazione che, infatti, non sarà più la stessa dopo la capitolazione della Spagna: Capitain Kidd, l’ultimo pirata storico, sarà impiccato a Londra nel 1701, incredulo per la sorte incomprensibile che gli viene riservata.
Harlock, il vagabondo dello spazio, combatte sotto la bandiera della libertà e della giustizia, ma nella sua nave astrale, l’Arcadia, si nasconde, infatti, un oscuro mistero. Qual è la differenza tra il pirata legale e quello illegale? Insomma: è giusto rapinare ed abbattere il capitale? Harlock, con il suo mondo marziano, non si pone questi quesiti marxiani.
Osamu Tezuka, Jungle Taitei ( Kimba il leone bianco, 1965).
Un aspetto certamente centrale del concetto attuale di pirateria riguarda il settore informatico. La pirateria è il codice stesso dell’informazione. Tutto si riduce ad una competizione interna di diritti e ad una battaglia esterna tra copy right ed open source, tra Microsoft e Linux ... Ma c’è anche la questione più sottile dell’immagine: ogni immagine è ormai immagine di immagine di immagine. Dove termina il plagio, la copia, l’aprés e dove inizia l’omaggio, l’eco, il recupero, la ricontestualizzazione?
C’è un luogo comune che proiettiamo sui giapponesi, quello di aver rapinato l’Occidente di tutti i suoi know how, soprattutto mediante l’uso incessante della macchina fotografica. Peccato che questa forma di pirateria sia all’opposto: non c’è occidentale che si rispetti che non sia andato in Giappone per capire come giri la moda spontanea e quali siano le attrazioni davvero fatali. Una di queste è il mondo cinematografico, televisivo e letterario che ruota attorno ai manga.
Tezuka certamente senza la conoscenza dell’arte di Walt Disney non avrebbe prodotto ciò che ha realizzato; il suo Jungle Taitei ( Kimba il leone bianco, 1965) echeggia tratti disneyani, ma Simba, il re leone (1994) della Walt Disney rivela delle immagini quasi uguali a quelle del precedente giapponese!
Dal canto suo il giapponese è per tendenza un Otaku, un maniaco - ma è più corretto tradurre appassionato - delle immagini, partendo dalla constatazione che il mondo è ormai tutto già di per sé trasformato in immagine, sottratto alla realtà preiconica e diventato solo una gigantesca autorappresentazione ubiquitaria, pervasiva, illusoria, ma non per ciò meno reale. Altra e non speculare realtà; questa è il primo terribile ma fascinoso, feticistico, animato, atto piratesco e criminale: il furto e il sequestro senza riscatto del mondo diretto, del mondo quotidiano, diventato solo immagine. Per colpa di una tecnica trasformatasi dal sistema capitalistico da mezzo a fine.
Simbolo dell’otakismo è Tsumoto Miyazaki, collezionista di manga e di feticci, ma soprattutto di urla umane: serial killer, condannato a morte in attesa dell’esecuzione, registrava meticolosamente, su cd, le grida delle bambine rapite e seviziate. Uno degli artisti contemporanei giapponesi più famosi, Takashi Muratami, si è fatto promotore di un comitato di difesa in suo onore.
Otaku.
Centro di interesse dell’attuale Biennale veneziana di Architettura è, più d’ogni altro, il padiglione giapponese, che presenta gli Otaku, vale a dire i collezionisti di manga e di tutto ciò che vi attiene.
Gli Otaku sono una popolazione, non un clan; sono originari di un quartiere di Tokio, il distretto di Akihabara, pullulante di negozi di elettronica, di gadget, soprattutto miniaturizzati, e di fumetti manga; nel mondo degli Otaku si può entrare soltanto contribuendo ad accrescerlo, a modificarlo, a metamorfizzarlo incessantemente; è un mondo di virtuali, che amano solo ciò che, dall’interno dei loro angusti ambienti domestici, possono illudersi di possedere in un disperato orgasmo feticistico. E quando non posseggono materialmente un feticcio, esso è condiviso, anche grazie ai giochi interattivi, on line: per ciò ognuno che vi entra entra a fare parte degli Otaku. La generazione Otaku, individuabile già alla metà degli anni Ottanta, è una generazione che, pur circondandosi di feticci scientifico-tecnologici e di immagini di science-fiction, si è sentita tradita dalla scienza, nella quale aveva riposto la sua fede, e che, perciò, ha vissuto in maniera più traumatica la perdita del futuro: e quindi del significato di un impegno sociale, collettivo e altruistico, adottando uno stile di vita edonistico e solitario, se non solipsistico. Non a caso l’aspetto più estremo di questa generazione si identifica nel fenomeno degli Hikikomori, i nuovi eremiti, giovani che si rinchiudono nella loro stanza, per non uscirne più, comunicando con il mondo solo con il cellulare e con il computer. Il rifugio sentimentale degli Otaku è nel mito, nel passato, ma un passato elaborato mediaticamente, con l’introduzione di componenti filosofiche e concettuali assolutamente inedite: uno dei manga più straordinari, non a caso, Lady Oscar (1979-1980, 40 episodi), un manga pensato solo per le donne (per altro, tutti i personaggi femminili sono stati disegnati da donne) di Riyoko Ikeda, è il rifacimento grafico di una nota biografia di Maria Antonietta e concepito in maniera da rilevare, nelle varietà dei sentimenti e delle emozioni, tutta la psicologia femminile, tale per cui è impensabile che una donna giapponese, e non solo giapponese, non ne abbia seguito anche tutti i quaranta episodi cinematografici che ne sono stati ricavati (Versailles No Bara – La rosa di Versailles, registi Tadao Nagahama e in seguito Osamu Dakazi, 1979 – 1980) e gli altrettanti atti teatrali, naturalmente del teatro di Takarazka, composto di sole donne.
L’isola dei pirati.
Il “tesoro” è sempre nascosto in un’isola (le Cayman, in quanto paradisi fiscali, ne sanno qualcosa …). Perché, in metafora, l’isola è l’apparente luogo dell’altrove e dell’introvabile. Ma, esiste davvero un luogo dell’altrove? Nessun’isola è così lontana, così diversa, da essere un altrove; ogni isola è qui, visibile, indicizzata dalla visione satellitare, scalo in relazione alla sua scala, attraversata in ogni sua parte dal rumore (elettronico) del mondo. “Nella satellizzazione non è satellizzato quel che si crede tale. A causa dell’iscrizione orbitale di un oggetto spaziale, è il pianeta terra che diviene satellite, è il principio terrestre di realtà che diviene eccentrico, iperreale e insignificante. A causa dell’installazione orbitale di un sistema di controllo, si satellizzano e perdono la loro autonomia tutti i micro-sistemi terrestri” (Jean Baudrillard).
Ovunque rumore assordante, eccesso di suoni e di immagini. Pornografia dell’eccesso e dell’accesso. Le sirene odierne attraggono con il loro eccesso di canto, che equivale al più totale silenzio; lo spettacolo accecante della città rende cieca la visione: la visione delle differenze. L’isola (come il quartiere, il paese, la provincia …) non è più luogo possibile di una lontananza, di una diversità e di una differenza.
Oggi, al massimo dell’informazione corrisponde il minimo della verità. Nel frattempo, tuttavia, la critica (intendo quella politica, sociale) lavora, sgretola, decostruisce. Esiste, dunque, forse ancora un bordo ristretto di sopravvivenza nel quale operare; questo spazio sta nella non linearità dei confini tra informazione e comunicazione, tra naturale e artificiale, tra organico e inorganico, tra realtà e simulazione, tra originalità e falsificazione, in cui può ancora operare la critica, in quanto scienza dei confini e, dunque, della morte. Tutti questi passaggi sono mandelbrottiani: nel possibile, nel probabile, nell’infinitamente scomponibile complessità fenomenica e strutturale degli eventi. Qui si stabilisce la funzione della critica, come scienza dei bordi, del bordeggiamento e dell’abbordaggio.
Jean Baudrillard, Cool Memories, Galilée, Paris, 1987 e 1990.
Se il mondo dei pirati, tranne i residui oceanici .., è terminato, è il mondo pirata a solcare ormai i mari della storia contemporanea, dopo la perdita del mondo pre-satellizzato: Tutta l'intelligenza artificiale, la telesensorialità, la percezione schermo in tempo reale ecc. rappresentano la fine definitiva dell'illusione. L'illusione del pensiero selvaggio (riferimento diretto a Claude Lévi-Strauss e al suo Pensiero dei primitivi), l'illusione selvaggia del pensiero, l'illusione selvaggia della scena, della passione, l'illusione selvaggia dell'intelligenza, l'illusione del mondo, la visione del mondo.
Il vero satellite artificiale - afferma Baudrillard - è la massa di denaro fluttuante che circonda la terra con la sua ronda orbitale (...): un'orbita su cui si leva e tramonta un sole artificiale.
Questa passaggio ci porta a Wall Street! Ancora una volta nel covo dei pirati.
Wall Street: dove lavora il broker cannibale del terribile romanzo di Brett Easton Ellis, American Psycho. L’incipit del magistrale lavoro pop-rock di Easton Ellis ha la potenza simbolica delle più grandi overture letterarie: “Lasciate ogni speranza, voi ch’entrate” sta scarabocchiato a grandi lettere rosso sangue su un muro della Chemical Bank (...) l’iscrizione è tanto vistosa che la si legge comodamente dall’interno del nostro taxi (...) quand’ecco che un autobus si affianca al taxi e gli chiude la visuale. Il torpedone reca sulla fiancata l’invito ad assistere ai Misérables in versione Broadway.
I crimini delittuosi, descritti in American Psycho, appaiono assolutamente coerenti con il progressivo e inarrestabile collasso dei valori nella società contemporanea e costituiscono la più precisa documentazione dello scenario metropolitano postmoderno, in cui tutte le categorie oppositive e distintive della cultura della modernità, realtà e simulazione, verità e finzione e soprattutto “male” e “bene”, sono venute meno. Dove vige solo, in un’atmosfera bladerunneriana, il comportamento pirata: dalla banca alla strada, dalla famiglia alla società.
L’analogia tra la terribile previsione apocalittica del romanzo di Philip K. Dick e la disumana cronaca di Ellis è determinata dal medesimo oggetto di descrizione: la metropoli post-moderna, derealizzata e artificiale, governata esteticamente dalla “moneta” vivente, esattamente nel senso con cui ne parla Perniola: La moneta vivente, in quanto perenne disponibilità ad assumere qualsiasi forma del già sentito e a cambiarlo sul mercato mondiale delle sensologie, costituisce in effetti il punto di arrivo, la massima realizzazione della vita estetica.
L’illuminismo residuale della modernità viene annullato dall’illuminotecnica postmoderna.
Goebbels e la razza pirata.
Horkheimer e Adorno, gli ultimi cantori del razionalismo illuministico, avevano potuto mettere a confronto, giungendo a conclusioni inquietanti, il modello propagandistico adottato e ideato da Goebbels (il cui fiuto gli aveva fatto capire che la nuova arte era ormai la pubblicità) con quello che stava forgiando il nuovo landscape metropolitano e pre-pop dell’America del nord. Il carattere di montaggio dell’industria culturale del tempo aveva messo in evidenza, ovviamente in America, la fine inesorabile della cultura stessa, in quanto “merce paradossale, talmente soggetta alla legge dello scambio da non poter essere più scambiata”, risoltacosì ciecamente nell’uso “da non poter più essere utilizzata”, trasformata in amusement ideale, a prescindere dai suoi contenuti, tutti omologati nella purificazione che lo spettacolo garantisce ai suoi spettatori. La “fusione di cultura e svago – avevano sostenuto Horkheimer e Adorno nella loro
Dialettica dell’illuminismo, acutamente cortocircuitando tra loro storie impossibili, quella del capitalismo americano e quella dell’ideologia nazista - non si compie solo come depravazione della cultura, ma anche come spiritualizzazione forzata dello svago. L’industria culturale – già postmoderna, vista come effetto di una programmazione propagandistica piuttosto che come un’attività critica e costruttiva nei riguardi delle scelte sociali - si fonde, dunque, con l’avvento della civiltà capitalistica, con la “sua” réclame, ovvero con le strategie onnivore e piratesche della comunicazione commerciale.
Il capo dei pirati, Hitler.
Ci sono in queste osservazioni già tutti i motivi di studio che sarebbero stati fatti più di mezzo secolo dopo da tutti coloro che si occuperanno della società dello spettacolo e della continuità indivisibile tra realtà e finzione simulativa, tra fatti, cronaca e pubblicità e, soprattutto, tra l’esteriore e l’interiore. L’analisi, in modo particolare, di Horkheimer e Adorno sarà profetica: nel capitolo della Dialettica dedicato all’Industria culturale, leggiamo, infatti, a proposito dei primi media (siamo nel 1947 e la televisione era ancora ai suoi primissimi passi!) che il carisma metafisico del capo si è rivelato infine come la semplice onnipresenza dei suoi discorsi alla radio, diabolica parodia dell’onnipresenza dello spirito divino. Il fatto che il discorso penetri ovunque sostituisce il suo contenuto con il suo solo essere on air!
L’atto di pirateria consiste nell’assalto all’interno del domestico e del privato, là dove si spinge la voce trasmessa e comunicata via etere e là dove giunge il riflesso pubblicitario dell’esterno. Fine dell’interno, del privato e dell’interiore; sequestro e fine del soggetto, ma anche dell’individuo, proprio quando esso sembra venire politicamente esaltato dai media e dalla pubblicità.
Questo giro di riflessioni può essere chiuso dalla spietata analisi che Ballard, nel 1969, avrebbe fatto di una recente riedizione di Mein Kampf (“uno dei libri più importanti del XX secolo”) di Hitler (“lo psicopatico mezzo colto che ha ereditato i ricchi sistemi di comunicazione” del nostro tempo), un’analisi che già Orwell, in un’altrettanto sorprendente recensione del libro “maledetto”, aveva proposto a partire dalla stessa immagine del Führer collocata in copertina, “una faccia patetica, da cane: la faccia di un uomo sottoposto a torti intollerabili” e che fa comprendere come in quel risentimento animale, in quel comportamento che non ha nulla di “umano”, ma che tenta di apparire tale, se non addirittura “più che umano”, si celi la ragione del male assoluto che se ne determinerà.
Afferma Ballard che, in confronto ai suoi contemporanei, Hitler è molto più moderno e si sarebbe sentito a suo agio tanto negli anni Sessanta (e forse ancor più negli anni Settanta) quanto lo fu negli anni Venti. (…) È strano come la società nazista sembri anticipare la nostra: la stessa ipertrofia della violenza e del sensazionalismo, gli stessi alfabeti dell’irrazionale, lo stesso carattere romanzesco dell’esperienza.
Tutta la lunga e appassionante Storia dei tre Hitler(1983) di Osamu Tezuka racconta del grande segreto del Führer, il fatto d’avere sangue ebreo nelle vene. Si tratta da parte di Tezuka e del suo capolavoro di una sorta di vendetta a nome di tutto il suo popolo, per il fatto che in Mein Kampf Hitler sostiene che “i giapponesi sono una razza di serie B, senza nessuna creatività” …
La banalità del male.
Nel recente film di Moore, Fahrenheit 9/11 (un film che non la dice tutta …) c’è una scena centrale, attorno a cui ruota, a mio giudizio, tutto il documentario: Bush viene ripreso all’interno di una scuola elementare, seduto contro la parete, ascoltando con aria assente ciò che si svolge in classe. Arriva un segretario, si china al suo orecchio, gli comunica che un aereo ha impattato la prima delle Twin. Bush rimane impassibile e non si muove di un centimetro. Alcuni minuti più tardi, il segretario ritorna e gli comunica sottovoce che anche la seconda delle torri è stata attaccata: l’America è in guerra in casa sua. E ancora l’imperatore non s’inquieta: immobile, come Kagemusha, tiene saldo il suo ruolo di incrollabile detentore del potere.
Alle spalle di Bush, esattamente a corona della sua testa, su una tavoletta, compaiono scritte le seguenti parole: Reading makes a country great.
La normalità di un giorno di scuola deflagra contro la tragedia mondiale che si svolge a Manhattan: infatti nessuna pedagogia, nessuna istruzione, nessuna cultura, né laica né religiosa, possono più nulla di fronte all’irreversibe progetto aggressivo dell’impero americano.
Aveva acutamente osservato già Hannah Arendt, in un lavoro degli anni sessanta, La banalità del male, che non vi è che la normalità dell’uomo comune nella personalità di criminali apparentemente estremi, come il torturatore nazista Eichmann; la tesi, ripresa anche nel saggio Eichmann a Gerusalemme, 1963, è rivoluzionaria in quanto essa propone, finalmente, un approccio alla natura politica e non metafisica del male.
Anche Jean Baudrillard ha riaffermato, più recentemente, nella Trasparenza del male, che il male, nell’epoca postmoderna, non può più essere visto come una categoria del negativo, ma come un principio vitale all’interno dell’”irregolarità delle cose”, o, per meglio dire, della caoticità degli eventi.
Quando si constata, dunque, che non solo il paesaggio metropolitano a cui siamo abituati, ma l’intera società, nei suoi comportamenti anche quotidiani, sono entrati a far parte dell’immensa simulazione spettacolare, alla gigantesca rapina piratesca del potere, che, per autoconservarsi, fa sì che il simbolo stesso di questo potere, il World Trade Center, possa essere abbattuto, senza che nulla muti nel suo principio ideologico, ogni singolo elemento di questo scenario apocalittico non può che essere vissuto come un’entità derealizzata e deresponsabilizzata e, quindi, persino scandolosamente piacevole, essendo tutta fluita nello spettacolo mediatico (mille e mille feed back dell’11 settembre). Il che produce, alla lunga, un modello di vita simile a quello del pirata, emozionantemente priva di complicazioni etiche e di responsabilità morali.
Wor(l)d Skyline.
Per comprendere il significato capitalistico, e dunque piratesco, colonizzatore ed opprimente della metropoli avremmo dovuto salire all’ultimo piano di una delle due Twin Towers, le cui pareti perimetrali erano completamente costituite di lastre trasparenti: si sale all’ultimo piano dei grattacieli non per curiosità, ma per paura di ciò che abbiamo appena lasciato là sotto. Su ognuna delle lastre, che si facevano parete nello stesso tempo virtuale e protettiva, finestra continua per uno sguardo che intende di farsi infinito, era serigrafato lo skyline della città con i nomi degli edifici notevoli, delle strade, delle piazze, dei parchi, dei monumenti (un tentativo di ripetere, in sintesi, la carta geografica dell’imperatore, nel celebre racconto di Borges).
Il segno nero del disegno, modulato profilo come un organigramma del gigantesco artificio architettonico sottostante, ricostruisce, in un tentativo di coerenza prospettica, che somma insieme elementi di pianta con soggettive a volo d’uccello, una medievale rappresentazione simbolica del territorio visibile. È il diagramma del profitto per metro quadrato della capitale del capitale. Il senso percettivo della “conquista”.
E se quest’attuale propensione dell’America a leggersi nel suo volto più crudo e crudele non stesse a rappresentare, alla fine del lungo processo di liberazione dal pedaggio pagato all’Europa delle avanguardie dell’arte e della cultura, insomma alla fine del percorso iniziatosi con la pop art e con il cadere definitivo del cosiddetto American Dream, la prova di una raggiunta e definitiva identità malefica? Una coscienza, questa, elaborata sulla strada, on the road (ma senza più la passione esistenziale della beat generation), del fallimento politico e morale della bit generation, quella, per intendersi, che nasce con Minsky e con Negroponte e con Bill Gates.
Pirati architetti. Metamorph.
L’attuale Biennale dell’architettura, in svolgimento a Venezia, dimostra quanto l’architettura attuale sia generalmente ideologicamente coinvolta nell’esaltazione delle forme di potere. Si rileva quanto segue:
Nessuna tuta e nessuna blindatura edilizia riusciranno a salvarci dalla metamorfosi biopolitica dell’umano, se non in maniera poetica. La plastica, per quanto riuscita formalmente, delle nuove architetture scultoree, non ci possono difendere dal plastico di cui sono minacciate tutte le civiltà.
Le avanguardie ne hanno prefigurato lo scenario; i caschi e le cellule dell’architettura “radicale” degli anni Sessanta-Settanta: White suit degli Himmel(b)lau, Mind Expander di Hans Rucker, le Immersioni di Ugo La Pietra, il MIT-TV Helm di Walter Pichler, il Pneumacosm di Haus Rucker-Co., la Futuro House di Matti Suuronen, le Capsule spaziali dell’Atelier van Lieshout, oggi… Siamo totalmente nell’arte, nella visionarietà, nell’immaginario: nel passaggio dalla funzione alla forma. In un luogo di transito verso la metafisica del poetico e della leggerezza. In questa direzione si muove l’architettura attuale nel tempo della mutazione. La sua leggerezza è data dallo scambio tra logizzazione e metaforizzazione, tra calcolo e dematerializzazione. La loro interrelazione produce più virtualità che virtuosità! Vera pirateria della realtà.
Quale futuro ci attende, se non quello in cui gli atti di sequestro della realtà, ma anche della verità e dello stato obiettivo delle cose, saranno d’ordine irreversibilmente quotidiano e normale? Solo una fede radicata e radicale nella materialità della vita e nella concretezza estrema del reale può opporsi alla rapina piratesca che si consuma nei grandi destini dei popoli, ma anche nella più immediata e quotidiana sopraffazione delle libertà individuali per opera delle religioni e dei poteri di stato. Non a caso l’ultimo manga sui pirati, di Eiichiro Oda, One Piece(Japan 2002, Italia 2003), rivolto ai più piccoli, istruisce sul come agire da perfetti attuali pirati. “Salve a tutti, miei cari e stupidi esseri umani! Con me, chi non ha soldi farà una brutta fine!”.
Fonte: http://win.selfproject.it/docs/Impero%20pirata.doc
Sito web da visitare: http://win.selfproject.it/
Autore del testo: Ernesto L. Francalanci (elf)
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"Ciò che sappiamo è una goccia, ciò che ignoriamo un oceano!" Isaac Newton. Essendo impossibile tenere a mente l'enorme quantità di informazioni, l'importante è sapere dove ritrovare l'informazione quando questa serve. U. Eco
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