Storia della chiesa

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Storia della chiesa

Storia della Chiesa:
Età Antica

Il mondo greco romano

Premessa
Roma. Pompeo e Cesare (78 44)  pongono  le  basi  dell'impero  fondato  poi  da  Augusto     (29 a.C. 14 d.C.).
La Grecia vede affermata la polis (città stato). Raggiunge l’unità con le guerre persiane; la guerra del Peloponneso provoca la decadenza prima di Atene, poi di Sparta, quindi di Tebe. Arriva Alessandro Magno (336 323), costituisce il nuovo impero greco persiano e con la sua morte lascia i regni ellenistici (Macedonia, Siria, Egitto), conquistati poi da Roma. Con le truppe di Alessandro Magno arrivò anche la civiltà greca che, fondendosi con le civiltà dei diversi luoghi, diede origine a quella forma culturale particolare che fu detta “Ellenismo”.
Ellenismo è il periodo storico che va da Alessandro Magno fino all'epoca di Ottaviano Augusto ed esprime il dominio della lingua e della cultura greca nei secoli IV a.c. - I d.c. in tutto il Medio Oriente e successivamente nell'impero romano. L'ellenismo divenne la cultura universale di tutti quei grandi e diversi popoli. Uno degli aspetti di questa cultura fu quello religioso: si giunse a un certo sincretismo tra le diverse divinità e i vari culti. Nel giudaismo sorsero due tendenze opposte: quella di coloro che erano aperti alle nuove forme e quella che cercò di difendere, perfino con le armi, le proprie tradizioni religiose. Ad ogni modo, tanto nella Palestina dominata dai Greci che, soprattutto, nelle colonie della diaspora, l'influsso è evidente. La traduzione della Bibbia in greco, detta dei Settanta, ne è una dimostrazione.
Il NT fu scritto tutto in greco, tranne il primo Vangelo di Matteo, che non ci è giunto. L'universalità dell'ellenismo favorì la diffusione del cristianesimo.

L’impero romano
Quando il cristianesimo si affacciò sulla scena della storia, il mondo mediterraneo era sotto il dominio dell'impero romano.
Roma, la capitale di questo grande impero che contava circa 50 milioni di sudditi, era diventata una città importante per il suo milione di abitanti, i suoi palazzi, i suoi monumenti, le sue piazze. Mancavano i luoghi, espressione dell'amore al prossimo e vi erano, invece anfiteatri e teatri nei quali un'arte spesso criminale e la crudeltà celebravano i loro trionfi.
La civiltà romana si ispirava in buona parte alla cultura della Grecia, di cui aveva imitato anche i generi letterari; da questa imitazione era uscita una brillante letteratura. Graecia capta ferum victorem cepit. Orazio in questo verso rileva che la Grecia, una volta conquistata da Roma, ha saputo conquistare i rozzi Romani grazie alla bellezza, alla finezza, alla profondità della propria cultura.

La situazione religiosa nel mondo greco romano
In origine i Romani praticavano una religione agricola e adoravano una forza impersonale e misteriosa che pervadeva l'universo. Essi davano grande importanza all'esattezza dei riti. Per loro la religione era un contratto, riassunto nel detto latino: "Do ut des", "Ti do perché tu mi dia". I Romani credevano che bisognava preservare la pace degli dei con sacrifici e con uno speciale banchetto cui intervenivano anche le immagini degli dei. Ad ogni pasto ogni romano faceva offerte agli spiriti protettori dei suoi campi e a quelli della sua dispensa (Lari). Durante la repubblica i Romani adottarono miti greci e identificarono gli dei della Grecia con i propri dei. La predizione degli avvenimenti futuri e l'interpretazione di quelli passati svolgeva una parte di primo piano nella religione, nella politica e nella guerra dei Romani.
In contrasto con l'unità politica e culturale imperante al principio dell'era cristiana nei paesi attorno al bacino del Mediterraneo, il mondo religioso offre un quadro complesso e variopinto. Roma non aveva mai unito alle sue conquiste politiche il tentativo di imporre ai popoli assoggettati un credo religioso unitario e una forma di culto come unica valida, era anzi un principio della politica religiosa romana quello di lasciare intatte tutte le convinzioni e le manifestazioni religiose dei popoli raccolti sotto il suo impero. Una caratteristica della situazione religiosa complessiva nel mondo ellenistico alla fine dell'ultimo secolo avanti Cristo è la svalutazione tanto dell'antico politeismo greco quanto della specifica religione dell'antica Roma. Nella Grecia vera e propria agì negativamente soprattutto la critica razionalistica della divinità, che si era affermata nelle varie scuole filosofiche e specialmente nella Stoà e presso gli Epicurei.
Vale la pena notare che, mentre le antiche religioni della Grecia e di Roma non sentivano vivamente il dramma della morte, né si ponevano l'interrogativo sull'aldilà, le religioni mediorientali offrivano una certa risposta all'intuizione, alla speranza e alla ricerca dell'uomo riguardo alla vita dopo la morte.
Dalla Persia, ad esempio, si sviluppa il culto del dio della luce, Mitra, il quale, secondo la mitologia, per comando di Apollo rapisce e uccide un toro, il cui sangue, asperso sui seguaci di Mitra, dà diritto alla salvezza, in una felice comunione di vita dei membri della comunità nell'aldilà.
La grande massa del popolo credeva anche nei miracoli del dio della medicina Esculapio, guaritore dei malati, nell'astrologia, nell’interpretazione dei sogni e nella magia. Si ricorreva anche agli indovini.

Il culto degli imperatori
Un aspetto della politica religiosa di Augusto doveva avere ampie ripercussioni e conseguenze di particolare importanza nel confronto del Cristianesimo: l'accoglimento del culto tributato in oriente ai sovrani e il tentativo di servirsene nella restaurazione religiosa e di farne, nella forma modificata di culto degli imperatori, il pilastro della religione ufficiale.
Il culto del sovrano aveva avuto origine in oriente, dove fin da tempi molto antichi si era sentito il fondamento religioso del suo potere. Su questa base Alessandro e i suoi successori, riuscirono ad imporre onori cultuali per la monarchia ellenistica. Questi spettarono in un primo tempo ai Diadochi dell'Asia anteriore, poi ai Tolomei d'Egitto e da qui passarono presto ai Seleucidi. Dalle città greche dell'Asia minore i sovrani ellenistici ricevettero il titolo di soter, al quale più tardi si unirono altri predicati di carattere sacrale come epiphanes e kyrios. Si era convinti che nel sovrano del momento si manifestasse visibilmente la divinità.
Quando ai regni dei Diadochi si sostituì il potere di Roma, fu facile trasferire ai rappresentanti di questo potere il culto rivolto al sovrano e rendere anche a loro onori divini. Questi onori furono accordati ad Augusto, che aveva apportato anche a quei paesi, con la pax augustana, una pace duratura e godeva perciò di una considerazione senza pari. A Roma e in Italia la forma del culto al sovrano dovette essere più discreta. Infatti il senato solo dopo la morte dell'imperatore decise se per i suoi meriti verso l'impero gli spettasse la consecratio, l'introduzione tra le divinità. Il senato però aveva già accolto Cesare fra i celesti, come divus Julius, e gli aveva fatto tributare uno speciale culto. Indubbiamente a Roma influssi orientali hanno dato uno stimolo ulteriore in questa direzione. Ottaviano poté accettare il titolo di Augusto, che ha in sé qualcosa di sacro. Nelle case private si dovevano offrire sacrifici al genio dell'imperatore, perché in lui si manifesta il divino; si giurava sul genio dell'imperatore e la violazione di un tale giuramento era considerato come lesa maestà.
Nel corso del primo secolo dopo Cristo alcuni imperatori romani hanno abbandonato il prudente ritegno di Augusto ed hanno decisamente richiesto dal loro ambiente romano onori divini mentre erano ancora in vita.
Essendo molto strettamente legato al potere statale, il culto dell'imperatore doveva esercitare una parte di primo piano quando il cristianesimo, che rifiutava ogni forma di divinizzazione dell'uomo, dovette un giorno venire in conflitto con questo stato sul terreno teorico e pratico.

Il compito missionario del giovane cristianesimo e il mondo dell'ellenismo
Se si abbraccia con lo sguardo il complesso della situazione religiosa nel mondo dell'ellenismo al principio dell'era cristiana e le si pone di fronte il compito missionario del giovane cristianesimo, l'impressione al primo momento è negativa.
Un serio ostacolo alla pacifica espansione della nuova fede doveva dimostrarsi il culto degli imperatori, in primo luogo perché il messaggio di un redentore che era stato crocifisso come un malfattore non poteva facilmente affermarsi di fronte all'augusta figura collocata con sommo decoro sul trono imperiale. Inoltre lo stato poteva far uso di tutti i suoi mezzi di coercizione se i seguaci del vangelo osavano disprezzare o, sia pure soltanto a parole, attaccare questo culto di stato.
Un fattore negativo era poi costituito dalla spaventosa carenza di senso morale nei culti misterici orientali.
Vi erano poi superficialità religiosa e irriverente e sfacciata critica degli dei.
A questi fattori negativi si contrappongono però anche elementi positivi su cui far presa per la predicazione della nuova fede.
Anzitutto il senso di vuoto che nelle nature pensose si era indubbiamente accentuato a causa del fallimento delle antiche religioni. In questo vuoto poteva penetrare senza troppa difficoltà un messaggio che, proclamando un alto ideale morale, poteva attirar proprio quelli che si sentivano disgustati della vita fino allora condotta.
Alcune caratteristiche dei culti misterici dimostrano l'esistenza di un profondo anelito di redenzione nell'umanità di allora.
Infine il forte impulso verso il monoteismo, che appare manifesto nel mondo religioso dell'ellenismo, doveva costituire un punto di partenza ideale per la predicazione missionaria cristiana nei paesi pagani del mondo classico: anche per i loro popoli era adesso giunta la pienezza del tempo.
Il mondo giudaico
Premessa

Gli inizi dell'«epoca assiale»
Nel secolo VIII a.C. circa, quando volgono al termine le migrazioni dei popoli destinati a costituire la base demografica della incipiente civiltà mediterranea, si apre un'epoca di circa sei secoli (dall'800 al 200 a.C. circa) denomi­nata “epoca assiale” perché rappresenta, in un certo senso, l'asse portan­te dell'intera storia del mondo.
In quest'epoca, infatti, si manifesta una intensa presa di coscienza spirituale, che in Cina produce Confucio e Lao Tze, in India Buddha, nell’Iran Zarathustra, in Israele il movimento profetico e quello sapienziale, nel mondo gre­co i filosofi e i poeti tragici.
È molto significativo che proprio all'inizio del­la «epoca assiale» si vada elaborando in Palestina la prima concezione sistematica della storia della salvezza abbracciante il mondo intero allora conosciuto. L'«epoca assiale» è perciò anche l'e­poca dell'autocomprensione storico teologica da parte di Israele.
La famiglia di Abramo, emigrata dalla Mesopotamia alla Palestina, dà origine ad alcuni gruppi nomadi che scesero in Egitto e furono liberati da Mosè. Occuparono la Palestina, costituirono un regno unitario che si divise (925) nel regno di Israele distrutto dagli Assiri nel 722 e nel regno di Giuda abbattuto dai Babilonesi nel 587. Il ritorno dei deportati a seguito dell'Editto di Ciro nel 538 e la ricostruzione del tempio di Gerusalemme (515) segnano una ripresa religiosa, ma politicamente gli Ebrei restano sottomessi ai Persiani fino al 333 a.C., poi ad Alessandro e ai regni ellenistici dei Tolomei e dei Seleucidi, finché la rivolta dei Maccabei (168 a.C.) apre la via al ricupero dell'indipendenza sotto la dinastia degli Asmonei.

37-4 a.C. regno di Erode: la Giudea divenne stato vassallo dei Romani; segue la diretta dominazione romana.
La prima (66 73 d.C.) e la seconda (132 135) rivolta giudaica, domate rispettivamente da Tito e da Adriano, pongono tragicamente fine alle speranze ebraiche di indipendenza.
Le rivolte giudaiche furono anche guerre civili. L'assedio di Gerusalemme durò a lungo. Stremata dalla fame, fu presa e distrutta pezzo dopo pezzo (estate 70). I sopravvissuti al massacro furono venduti come schiavi e il loro numero ne fece crollare il prezzo sul mercato. L'ultima fortezza a cadere fu Masada nel 74 d.C.; il suicidio collettivo dei sicari che la difendevano è ben noto, dato il racconto di Giuseppe Flavio e le impressionanti scoperte archeologiche.
Nel 130 l'imperatore Adriano visitò la Palestina e decise che sarebbe stato opportuno costruire una città pagana, Aelia Capitolina, sul luogo dove sorgeva Gerusalemme, con un tempio dedicato a Giove Capitolino sulla spianata del vecchio tempio. Adriano aveva da qualche tempo vietato la circoncisione su tutto il territorio dell'impero e la sua decisione di costruire una città pagana sul luogo santo di Gerusalemme portò i Giudei osservanti all'esasperazione. Allora scoppiò la rivolta armata con a capo Bar Kochbah. Le fonti cristiane affermano che Bar Kochbah perseguitò i cristiani che, essendosi forse rifiutati di riconoscere le sue pretese messianiche, non avrebbero partecipato alla rivolta. I Romani impiegarono quasi quattro anni a domare la ribellione, il cui costo, in termini di vite umane, fu altissimo.
Quanto restava di Gerusalemme fu spianato e si procedette alla costruzione di Aelia Capitolina con lo statuto di colonia romana. Ampie zone della Giudea furono svuotate di Giudei: non solo fu loro vietato di vivere in Aelia Capitolina, ma sarebbe stato persino loro impedito di risiedere in qualsiasi luogo della regione da cui si potesse anche soltanto vedere la città. Gerusalemme e la Giudea cessarono di essere giudaiche e l'eventuale presenza in esse di Ebrei fu sporadica e poco significativa per alcuni secoli.
Dopo il 70 la comunità cristiana era intanto tornata a stabilirsi a Gerusalemme ma le notizie sono piuttosto scarse. Dal 132 al 135 Gerusalemme fu ufficialmente una città pa­gana e tale rimase fino all'avvento di Costantino quando cominciò ad acquistare una fisionomia più propria­mente cristiana: vennero costruite le basiliche sui luoghi più importanti che ricordavano precisi momenti della vita di Cristo e della prima comunità, la liturgia cominciò ad acquistare un posto centrale nella vita cittadina e i pellegrinaggi si fecero più frequenti. Nella stessa Gerusalemme sor­gono monasteri, oltre quelli già numerosi che esistevano intorno alla città e in tutta la Palestina.

La situazione religiosa del giudaismo palestinese
Una funzione decisiva nel mondo religioso del giudaismo d'allora aveva la Legge. Osservare la Legge è il compito che la vita religiosa quotidiana pone continuamente al devoto.
La Legge però divenne occasione di scissione del popolo in diversi indirizzi o partiti a seconda della valutazione che si dava all'influsso che essa doveva esercitare sull'intera vita.
I Sadducei ritenevano valida soltanto la legge scritta, senza la tradizione orale, perciò rifiutavano le aggiunte e gli sviluppi posteriori della fede ebraica, per es., l'immortalità dell'anima e la risurrezione del corpo. Erano una corrente spregiudicata di increduli, materialisti e liberi pensatori. Essi erano rappresentati soprattutto dalle grandi famiglie sacerdotali ed erano attenti a conservare i propri privilegi, anche a prezzo di compromessi con l'occupante romano.
I Farisei costituivano il partito che godeva di maggior considerazione presso il popolo. Si ritenevano i rappresentanti del corretto giudaismo. Davano un’interpretazione minuziosa alla legge, facendo riferimento alle opinioni dei maestri anteriori, cosicché la tradizione ebbe una parte di primo piano nell'erudizione biblica del periodo successivo. Nell'esegesi davano importanza ad ogni particella verbale. Ben più esiziale fu l'atteggiamento fondamentale casuistico in tutte le questioni di vita morale che ne scaturì e che rendeva impossibile o falsava la libera decisione morale del singolo. A questo partito appartenevano anche scribi e sacerdoti, che per il loro zelo, talvolta soltanto esteriore, avevano il favore del popolo.
Il gruppo dei cosiddetti Zeloti voleva anch'esso senza dubbio servire fedelmente la Legge, ma con un atteggiamento marcatamente combattivo e pronto al martirio.
La fedeltà alla legge e alla sua piena e sincera osservanza spinse un altro gruppo del popolo giudaico, gli Esseni, ad isolarsi dalla pubblica attività.
Il nucleo principale viveva a Qumran. La rottura della comunità di Qumran con il giudaismo ufficiale pare fosse dovuta principalmente a tre cause:

  1. la legittimità della successione sacerdotale;
  2. l'ordinamento del calendario
  3. e il radicalismo.

I loro inizi risalgono ai tempi dei Maccabei, l'apogeo della loro importanza fu toccato tra la fine del secondo e il principio del primo secolo avanti Cristo. Nel pensiero di questa setta, Satana aveva allora teso tre reti su Israele, l'impudicizia, la ricchezza ingiustamente guadagnata e la contaminazione del tempio. Al male non era posto rimedio, allora si ritirarono dal popolo costituito da uomini della perdizione per formare il 'resto santo' del vero Israele. Non vi erano mezze misure e quindi vigeva un ferreo radicalismo. Questo portò gli esseni ad organizzarsi in una compagine che nel gruppo di Qumran assunse quasi il carattere di un ordine religioso.
I nuovi aspiranti erano ammessi dopo un anno di severo noviziato durante il quale dovevano raggiungere una perfetta conoscenza soprattutto delle leggi di purità e dar prova di capacità per una fedele osservanza. Non è improbabile che attorno al monastero vivessero anche delle famiglie che si dedicavano allo stesso ideale religioso pur nella vita coniugale. Da quanto ci dice Giuseppe Flavio, storico ebreo di lingua greca, che, partecipe della rivolta giudaica, catturato da Vespasiano e poi liberato, si propose di rimuovere i pregiudizi antiebraici della cultura greco romana, non vi sarebbe stato presso di loro alcuno sviluppo interno che incidesse in profondità; l'esigenza di un'eroica fedeltà alla legge fu da loro mantenuta senza deviazioni. Se gli esseni abbiano partecipato anche alla lotta contro i Romani nell'insurrezione degli anni 68 70 d.C., non viene esplicitamente attestato, ma appare possibile. Più che mai tace, sull'idea che gli esseni si facevano del Messia in questo periodo, non menziona né Giovanni Battista, né Gesù di Nazareth in questo contesto, cosicché, anche il più fedele alla legge di tutti i gruppi giudaici, sembra quasi non aver saputo nulla di quest'ultimo, come pure non è dimostrabile un'intima parentela o addirittura una dipendenza di Gesù dalla setta di Qumran. Il centro monastico degli esseni di Qumran fu distrutto dai Romani nel 68 d.C., i superstiti del movimento furono poi talmente decimati nell'insurrezione di Bar Kochba, che non fu più possibile organizzarli.
I documenti scoperti a Qumran ci permettono di osservare da vicino un movimento religioso contemporaneo a Gesù, che raggiunse un alto livello di spiritualità. I documenti ritrovati presentano delle affinità con la dottrina cristiana. Le esortazioni ad un rinnovamento di vita che troviamo nei rotoli del mar Morto riguardanti la vita comunitaria a Qumran, come anche in quelli che in modo più universale vogliono interpretare l'ansia del tempo di Dio che i profeti del dopo esilio avevano preannunciato, mostrano sorprendenti affinità con l'esortazione alla conversione predicata dal Battista, da Gesù e dalla Chiesa Apostolica. Tanto più che il movimento di Qumran, per quanto ci è dato leggere nei testi, ha saputo esprimere il grado più alto di interiore religiosità a cui il giudaismo del tempo era arrivato nella linea dei profeti e dell'apocalittica.
È comprensibile come la prima comunità cristiana, soprattutto quella giudeo cristiana, possa avervi attinto espressioni e modelli. Non è improbabile che alcuni fra i discepoli stessi di Gesù e i primi fedeli siano stati educati in quell'ambiente.
La diversità è tuttavia essenziale e fondamentale.
La morale della Comunità di Qumran nacque da preoccupazioni legalistiche: essa era tutta fondata sull'autorità della legge. La morale cristiana al contrario si rifà alla persona stessa di Gesù.
La loro carità verso il prossimo era rivolta ai soli componenti della comunità, ben lontana dall'amore verso i nemici predicato da Gesù.
Il respiro di universalismo, che è lo sfondo di tutta la morale evangelica, era totalmente assente dalla morale di Qumran che viveva ancora sostanzialmente nel clima di una setta.

 

Il giudaismo della diaspora
I Giudei dimoranti nella diaspora (Ellenisti) si sentivano all'estero come una comunità chiusa. Essi avevano le loro sinagoghe e si tenevano in contatto col tempio centrale di Gerusalemme. Non potevano però sottrarsi all'influsso del mondo straniero nel quale erano inseriti; si adattarono quindi all'ellenismo non solo nella lingua e nel costume, ma entrando persino in più stretti rapporti con la filosofia religiosa greca, come dimostra il dotto ebreo Filone di Alessandria, principale rappresentante del giudaismo ellenistico. Conduceva una vita ascetica e contemplativa e pare svolgesse l'attività di rabbino. La sua esegesi allegorica e la sua teoria del Logos come sintesi delle idee di Dio e come mediatore tra Dio e il mondo hanno influito non poco sui teologi cristiani dei primi secoli. Pur essendo pienamente greco, Filone resta un giudeo per le sue convinzioni di base, un giudeo che sovente nella sua teologia e spiritualità è vicino ad un cristiano
Nonostante la loro segregazione gli ebrei esercitavano tuttavia sul mondo pagano circostante un notevole influsso religioso. Il monoteismo, la liturgia e la moralità degli Ebrei facevano impressione sulle persone più serie.
Poiché i Greci e i Romani disprezzavano la razza ebraica, solo pochi pagani entravano in senso più stretto nelle comunità giudaiche. Molti aderivano in una forma più libera. In mezzo a questi il cristianesimo trovò un terreno particolarmente favorevole, perché offriva ciò che il loro cuore desiderava ed eliminava ad un tempo ciò che ripugnava al loro modo di sentire nelle concezioni e negli usi ebraici.

La Chiesa e gli Ebrei
Premessa
L'antisemitismo è un aspetto del razzismo che non si limita al mondo cristiano: visibile nel IV sec. a.C., si estende oltre l'area cristiana, dando origine a un antisemitismo pagano, musulmano, razionalista, marxista, nazista. Le cause di questa diffusa ostilità verso gli Ebrei sono di carattere religioso e in alcuni casi assumono anche colorazione socio economica.
La Diaspora ebraica ebbe inizio col VI sec.a.C.: forti nuclei giudaici si stabilirono prima in Mesopotamia, poi in tutto l'Oriente antico, in Grecia ed a Roma stessa. La comunità più numerosa era quella di Alessandria, dove un terzo circa della popolazione era composto di Ebrei, dediti alle più svariate occupazioni. Gli Ebrei si mantenevano strettamente solidali tra loro, e godevano di alcuni privilegi che permettevano loro di astenersi da atti di culto pagani e dal lavoro nel sabato. Ammirati dagli spiriti più nobili, non insensibili al fascino del monoteismo, gli Ebrei erano però guardati dalle masse con diffidenza, anzi con avversione. Si rinfacciava loro l'ateismo, il proselitismo fanatico, la disobbedienza alle leggi, l'infingardaggine, l'avarizia, la sordidezza, l'immoralità, che arrivava fino a segreti omicidi rituali: in realtà l'antipatia nasceva soprattutto dal forte spirito di corpo che legava fra loro gli israeliti e li isolava dal resto della popolazione e dal successo economico. Si organizzarono misure antisemite: espulsioni, tumulti, massacri. L’antisemitismo assunse particolare rilevanza dopo la dispersione del popolo ebraico, operata dagli imperatori Tito e Adriano.
Nel mondo arabo, nonostante saltuari episodi di discriminazione, gli Ebrei furono in larga misura integrati culturalmente e socialmente. Fu nell’Europa cristiana che si sviluppò un virulento antisemitismo religioso, alla base della persecuzione antiebraica.

Antisemitismo dei popoli cristiani
L'avvento del cristianesimo vide sinagoga e Chiesa divise da una profonda e a lungo irriducibile ostilità. Gli israeliti giudicavano i giudeo cristiani come rinnegati e collaborazionisti, consideravano i cristiani in genere come usurpatori di un patrimonio che non apparteneva loro, e si mostravano zelanti nel promuovere persecuzioni contro la Chiesa. I cristiani, a loro volta, consideravano gli Ebrei dei pericolosi concorrenti e pensavano che essi si erano resi 'indegni della vita eterna' per il loro ostinato rifiuto a riconoscere in Gesù il Messia, finendo presto per coinvolgere in un unico giudizio di condanna tutto il popolo ebraico come responsabile della morte di Gesù, senza le distinzioni di cui solo oggi si avverte la necessità, senza ricordare con Paolo che la elezione divina del popolo ebraico non è stata revocata. Il fattore religioso è dunque la causa essenziale dell'antisemitismo cristiano.
Meditato lungamente e dolorosamente da S. Paolo, il mistero di Israele è ben presente in tutta la storia della Chiesa come interrogativo di ordine teologico, come lacerante paradosso spirituale e responsabilità storica. La divisione tra Sinagoga e Chiesa si determinò sul problema dell'identità di Cristo: Gesù era o non era il Messia atteso da Israele? Se era il Messia e il Figlio di Dio, come mai i cristiani convertitisi dall'ebraismo o dal paganesimo non sono diventati il 'vero Israele'? Le rivolte giudaiche e la distruzione del Tempio di Gerusalemme, accentuarono le distanze politiche e religiose tra il cristianesimo e l'ebraismo. In seguito i cristiani, spinti da pregiudizi e da giustificazioni teologiche, accentuano le manifestazioni di ostilità contro il popolo eletto.
Nel Medioevo gli ebrei della Diaspora hanno uno statuto particolare e svolgono un ruolo assai marginale nella cristianità: questa separazione era resa ancor più evidente dalle profonde differenze nelle abitudini, nel culto, nelle usanze alimentari, che negli ebrei erano caratterizzate da rigide proibizioni. Specialmente per evitare i matrimoni misti, vennero imposti agli ebrei dei segni esteriori particolari (pezzo di panno rosso, copricapo speciale). Il 'ghetto' (quartiere urbano riservato agli Ebrei, per lo più circondato da mura, comunicante con il resto della città non impedì però scambi culturali e intellettuali tra le due religioni.
La diffusa avversione verso gli Ebrei trova un’espressione viva ed un nuovo stimolo nella preghiera Pro perfidis Judaeis della liturgia del venerdì santo, che appare fin dal IV secolo. Anche se il significato esatto della parola  perfidus era sostanzialmente quella di non credente, e la preghiera inizialmente non aveva alcuna intenzione ingiuriosa, l’opinione comune, poco portata alle acute e sottili indagini filologiche, interpretò presto l’espressione nel senso peggiorativo, tanto più che, a partire dal sec. VIII, l’oremus era accompagnato da una singolare eccezione: la soppressione  della genuflessione praticata negli altri casi.
I decreti del concilio Lateranense IV (1215) si ispirano all’idea di Innocenzo III della necessità di ridurre gli Ebrei al rango di perpetui schiavi, destinato loro dalla Provvidenza a punizione della loro colpa. Gli Ebrei dovevano indossare abiti che ne permettessero la facile identificazione; non potevano comparire in pubblico gli ultimi tre giorni della settimana santa; erano esclusi da qualunque pubblico ufficio che comportasse autorità sui cristiani.
Successivamente nella popolazione cristiana prese a rafforzarsi un clima di sopraffazione, favorito anche dalle continue guerre e dalle cattive condizioni economiche. Le accuse di omicidi rituali (sacrifici di bambini cristiani) e di avvelenamenti delle sorgenti furono tra i più frequenti pretesti per le violenze dei cristiani contro gli Ebrei. Questo periodo delle persecuzioni può essere fatto iniziare dal tempo delle Crociate, quasi che, per un fenomeno di compensazione degli sforzi compiuti per liberare la Terra Santa, il popolo cristiano cercasse dei responsabili per le proprie sventure. A ciò naturalmente si aggiunsero cause di natura economica e finanziaria: infatti gli Ebrei spesso prestavano denaro con interessi da usurai. Così si arrivò a episodi di antisemitismo popolare.
La Spagna, dopo aver completato la cacciata degli Arabi dal suo territorio, nel 1492 espulse gli Ebrei o li obbligò a ricevere il battesimo: l'Inquisizione interveniva di frequente per controllare che i convertiti, questi nuovi cristiani detti anche per derisione marrani, non praticassero i loro riti di nascosto. Nel XVI secolo, come anche nel Medioevo, gli Stati Pontifici offrivano rifugio alle famiglie giudee espulse, anche se sia a Roma sia ad Avignone si praticarono a volte delle vere e proprie discriminazioni. I teologi assegnavano agli Ebrei il ruolo di 'testimoni' della Passione di Cristo, e ciò diede luogo in certe zone a delle cerimonie di espiazione, particolarmente durante la Settimana Santa.
In certi territori cristiani orientali l'antisemitismo ha origini molto antiche: è assai significativo il fatto che il termine pogrom (distruzione di una comunità ebraica) appartenga alla lingua russa.
Dopo il periodo dell'Illuminismo l'antisemitismo si 'secolarizza', diventa politico e ideologico, come dimostra il celebre 'caso Dreyfus' alla fine dell'800 in Francia. L'antisemitismo si fonda anche su pregiudizi che fanno parte dell'inconscio collettivo, come ad esempio per ciò che riguarda la Leggenda dell'Ebreo errante, assai famosa nel XVII secolo.
Questo antisemitismo, non ben definito, ma non per questo meno pericoloso, è fondamentalmente diverso dall'odio propagato dall'ideologia nazista, che non rimprovera agli ebrei ciò in cui credono o ciò che fanno, ma radicalmente ciò che sono. Bisogna perciò continuare a interrogarsi sulla continuità e la sopravvivenza di queste due manifestazioni di odio razziale.
Il Martina nel II volume della Storia della chiesa (ed. 1974) scrive: “L'emancipazione civile ebraica, imperiosamente richiesta dalla coscienza moderna, fu combattuta ad oltranza dalla S. Sede, che non riuscì a tempo a liberarsi dalla mentalità tipica dell'ancien regime, e solo alcuni sacerdoti, qualche vescovo, vari laici militanti si batterono a suo favore". Nell'edizione del 1994 Martina non riporta questo giudizio ma fa rilevare come: "Restò a lungo nella Compagnia di Gesù dalla fine del Cinquecento fino al 1946, ma per molto tempo anche tra i francescani, la proibizione di accettare nell'ordine gli oriundi dalla stirpe ebraica". Solo lentamente e in mezzo a forti contrasti durati fino ai giorni nostri, si comprese come ogni forma di antisemitismo fosse in opposizione al genuino senso cristiano: perché, per dirla con Pio XI: "Attraverso il Cristo e nel Cristo, noi siamo la discendenza spirituale di Abramo. L'antisemitismo è inammissibile. Spiritualmente, siamo tutti semiti".
Con il Concilio Vaticano II la chiesa cattolica ha decisamente rifiutato l'accusa di deicidio. La dichiarazione Nostra aetate del 1963 afferma che "anche se alcune autorità ebree, e i loro seguaci, hanno potuto causare la morte di Cristo, quello che è stato commesso durante la passione di Cristo non può essere addebitato a tutti gli Ebrei viventi a quei tempi, né agli altri di oggi". Anche se le relazioni tra la Chiesa e l'ebraismo sono molto migliorate, a volte sono ancora possibili dei malintesi come è dimostrato dall’episodio del Carmelo di Auschwitz che indicano quanto siano ancora aperte le ferite provocate dall'antisemitismo dei cristiani.
Elementi nuovi per un dialogo ancora più aperto sono emersi dopo il viaggio di Giovanni Paolo II in Terra Santa (20 26 marzo 2000).
La beatificazione di Pio IX (3 settembre 2000) ha creato disagio nel  mondo ebraico.

La Chiesa primitiva

Esistenza storica di Gesù Cristo
La contestazione dell'esistenza storica di Gesù è stata tentata spesso, fin dai secoli XVIII e XIX, in nome della scienza illuministica liberale e della critica storica che ha visto il cristianesimo come un'invenzione degli apostoli e ha considerato la figura storica di Gesù Cristo una personificazione irreale, fittizia e mitica di nostalgie e di idee religiose, una pia frode creata dalla cerchia dei discepoli o addirittura una sublimazione e una variazione delle figure divine di eroi dell'Asia anteriore e delle religioni misteriche ellenistiche.
Tutte queste teorie oggi sono state abbandonate e si sono mostrate totalmente prive di validità scientifica.
Ma gli attacchi della teologia liberale alla verità e attendibilità storica dei vangeli sono di ben altro peso. Oggi però, grazie a Rudolf Bultmann, distinguiamo la forma espressiva mitica, condizionata dal tempo, propria a molti testi scritturistici, dal loro contenuto essenziale e liberiamo da quel rivestimento il loro nucleo storico fondamentale.
Nessuno dei quattro vangeli ha voluto essere ed è di fatto una biografia storica di Gesù: essi rispecchiano invece unicamente l'immagine di Cristo così come si è formata sulla base della predicazione apostolica nei cuori dei suoi fedeli e amati discepoli. Questi discepoli restano giudei, ma formano in seno al giudaismo un gruppo strano: quello dei testimoni di Gesù risorto. Essi tengono ferma una duplice fedeltà: a Gesù e alla vita, che pone loro molteplici problemi. Per rispondere a questi interrogativi essi richiamano alla memoria i ricordi di Gesù. Ma lo fanno alla luce della risurrezione. Nel contesto di vita della comunità emergono tre centri di interesse principali, intorno ai quali si raccoglie la memoria di Gesù:

  1. i discepoli predicano ai giudei prima e poi ai pagani Gesù risorto; è il grido di fede dei primi cristiani;
  2. i discepoli celebrano nella liturgia, soprattutto nell'Eucaristia, il Risorto; ciò stimola la formulazione di molti ricordi di Gesù;
  3. i discepoli insegnano ai nuovi battezzati; a tale scopo riprendono gli atti e le parole di Gesù.

Però sotto il Cristo della fede è pur sempre possibile ravvisare il Gesù della storia. L'esistenza storica di Gesù pertanto è incontestabile. Nato sotto Erode il Grande nell'anno 4 5 che precede la nostra era, muore al 14 o 15 di Nisan di uno degli anni che vanno dal 30 al 33 dopo Cristo.
Fonti non cristiane confermano l'esistenza storica di Gesù Cristo: Plinio il Giovane intorno al 112/113 (lettera all'imperatore Traiano 98 117), Tacito verso il 117 (Annales XV, 44) e Svetonio verso il 120 circa (Vita Claudii, cap. 25). Giuseppe Flavio verso il 93 94 ha alcune affermazioni dalle quali si può dedurre che egli venne a conoscenza della personalità storica di Gesù.

Storicità della fondazione della chiesa da parte di Cristo
Cristo predicò solo un cristianesimo universale o dette invece alla sua religione una solida struttura organizzativa nella forma di una chiesa istituzionale?
Il concetto spiritualistico di chiesa ('la chiesa è una comunità spirituale di anime unite in una sola fede', Lutero) condusse al rifiuto e alla lotta violenta contro la chiesa papale.
Il cristianesimo primitivo sarebbe stato privo di qualsiasi ordinamento esteriore. Poi si fraintende la volontà di Gesù e si falsifica la sua opera, si introducono dogmi e la vita carismatica si raggela.
L'essenza della predicazione di salvezza di Gesù consisté nella buona novella del regno di Dio che si attua in due fasi:
• stadio iniziale, cominciato con la predicazione di Gesù,
• stadio del compimento definitivo.
Pensava Gesù Cristo che il primo stadio dovesse realizzarsi in modo visibile o invisibile?
Non troviamo nessun passo in cui Cristo abbia espresso direttamente, con una precisa formulazione la sua volontà di fondare la chiesa. Tuttavia dalle testimonianze bibliche e dalle immagini da Lui usate appare un'idea di chiesa molto concreta, perfettamente condivisa anche dagli apostoli. Quando Gesù paragona la sua chiesa ad una casa o al suo gregge, Egli ci dice al tempo stesso, con molta chiarezza, che questa costruzione ha bisogno di un solido fondamento sulla roccia e che, per la guida del gregge, è necessaria la presenza di un pastore autorizzato. Cristo stesso scelse dalla cerchia dei suoi discepoli i ‘dodici’, uomini particolarmente responsabili, ma ordinò Pietro supremo pastore e capo del suo gregge. Come si vede fu proprio Gesù ad istituire i primi 'ministeri'. Ora un ministero è molto di più che un ufficio, un servizio momentaneo e transitorio, ed è proprio l'ordinazione ufficiale a conferirgli un carattere durevole e a significare un impegno nella funzione di servizio, che va al di là della singola persona del ministro e si esprime in un incarico ben preciso e durevole. Nel ministero è quindi anche implicita la successione. La chiesa è nata da questo e con questo carattere ministeriale.
Gesù ha infatti edificato la sua chiesa come una comunità storica e visibile. La chiesa riceve la sua divinità, santità ed indistruttibilità dal suo divino fondatore; la meschinità, l'inclinazione al peccato e l'instabilità le provengono invece dagli uomini. Questa polarità, implicita nella sua stessa natura, conferisce all'esistenza della chiesa e al suo operare nella storia qualcosa di singolarmente inquietante. Non soltanto intorno ad essa, ma persino nel suo stesso grembo e nell'anima di ciascuno dei suoi fedeli, si svolge infatti una lotta drammatica fra le cose di Dio e le cose del mondo, tra ciò che é santo e ciò che non lo è, fra salvezza e perdizione. Essa è chiesa di santi e chiesa di peccatori e nella sua storia, come nella vita dei singoli fedeli, questa lotta dà origine a continui alti e bassi, ad un perenne ondeggiare fra uno stato di elevata spiritualità e una situazione  di  decadenza,  a  seconda di  come  la chiesa esprima dinanzi a Dio, nell'incarnazione storica del Verbo, insieme con Maria il suo 'ecce ancilla Domini'.

La chiesa primitiva e il periodo apostolico
"Andate in tutto il mondo e portate il messaggio del vangelo a tutti gli uomini" (Mc 16,15). Il Signore ha impartito un chiarissimo mandato missionario. Gli apostoli e i primi discepoli interpretarono certamente la volontà di Cristo. Quindi la tradizione apostolica è molto importante. Però un puro tradizionalismo sarebbe infecondo e non corrisponderebbe per niente all'innato principio spirituale ed organico che caratterizza la vita della chiesa.
Qual è l'immagine della chiesa che ci rivela questo primo periodo apostolico? I cristiani si raccolgono a Gerusalemme in una comunità organizzata in cui non tutti i membri hanno una stessa posizione. Vi sono in essa diverse persone e diversi ordini di persone cui nella vita della comunità sono affidati compiti e funzioni differenti, che a loro volta sono affidati da un’autorità superiore. Il cristianesimo non fu mai un semplice movimento spirituale o una corrente di idee o anche un entusiastico moto delle masse. A capo della comunità stava anticamente, come oggi, sempre una persona. In questa tendenza al vertice monarchico, che si manifestò assai per tempo nelle singole comunità, si è visto giustamente affiorare il principio del primato che si esprimerà più tardi nella chiesa universale. I carismatici esistevano, ma non avevano funzioni di governo. Queste erano proprie degli apostoli e dei loro successori. I carismi passarono in seguito in seconda linea pur senza scomparire mai dalla chiesa.
Questa comunità è formata da persone cui sono affidati compiti diversi, assegnati da un'autorità superiore.

  1. Il collegio apostolico che deve rendere testimonianza della vita, della morte e della risurrezione di Gesù, dirigere le celebrazioni, esercitare l'ufficio di mediatori tra Cristo e la sua chiesa, di governare con autorità sulla chiesa. Ciononostante l'apostolo non è il signore, ma il servitore e il pastore della chiesa che ha nel suo ufficio il proprio solido fondamento.
  2. Tra i membri del collegio apostolico Pietro assume un posto di guida: nell'elezione di Mattia, nella Pentecoste, deve rafforzare i fratelli e pascere il gregge di Cristo.
  3. I Sette sono uomini che devono alleviare il lavoro degli apostoli. La loro attività è definita con 'servire' (διακονειν). L'ufficio dei sette è in corrispondenza ai bisogni interni della giovane chiesa.    
  4. Gli anziani (πρεςβυτεροι) sono coadiutori degli apostoli o del pastore di Gerusalemme nell'amministrazione della chiesa primitiva.    
  5. I profeti Barsabba e Sila sono mandati ad Antiochia a fortificare i fratelli e per comunicare ai cristiani del luogo le decisioni del concilio. Il loro compito non è basato su un ufficio permanente.

       Esistono pure due gruppi di persone denominate vescovi e presbiteri, ma che detengono ancora un unico ufficio.
Nella chiesa primitiva esiste già una distinzione tra i membri, che si ripartiscono in due grandi categorie: quegli ordini di persone che sono consacrate con un rito religioso a speciali compiti entro la comunità, e la grande schiera dei fedeli. La chiesa primitiva conosce già l'articolazione in clero e laici, che non era tuttavia sentita come un abisso tra loro.
I primi cristiani hanno alcune convinzioni di fede:

  1. Cristo è risorto,
  2. Cristo è il vero, promesso Messia,
  3. Cristo  è il  salvatore   e la salvezza   viene   solo  da  Lui.    

       
Su queste convinzioni si costruisce la vita religiosa della comunità primitiva. Ma l'atteggiamento religioso si estrinseca in una carità fattiva. Il principio della volontarietà rende impossibile interpretare questa comunione dei beni della chiesa primitiva nel senso delle idee e dei procedimenti del moderno comunismo. E’ l’entusiasmo alimentato dalla parusia e dalla fede a determinare certe scelte.

L'ordinamento delle comunità paoline
Paolo occupa un posto specifico: servo di Cristo, ha autorità, è maestro, giudice e legislatore. Gli anziani e i presbiteri hanno i poteri come Paolo, ma li hanno da lui (imposizione delle mani, preghiera). Presbiteri ed episcopi sono termini che designano la stessa cerchia di persone. Accanto ai vescovi nel preambolo della lettera ai Filippesi sono nominati i diaconi come investiti di particolari compiti nella comunità. Sorveglianti anziani, i diaconi non passano, come Paolo e i suoi più stretti collaboratori, di città in città, di provincia in provincia, ma assolvono i loro compiti nel quadro di una determinata comunità.
Accanto ai membri della gerarchia, si trovano nelle comunità paoline i carismatici, la cui funzione è sostanzialmente diversa.
Le comunità paoline sono unite tra loro e con la comunità di Gerusalemme. L'apostolo delle Genti ha educato le sue comunità ad una coscienza 'ecclesiale' unitaria.

 Età subapostolica
Con la morte dell’ultimo apostolo si ha una nuova generazione.    
La singola comunità cristiana appare anzitutto più nettamente delineata. I cristiani di una città sono raccolti in chiese locali. Non c'è cristiano che non appartenga a una di queste. Egli si riunisce con tutti i suoi compagni di fede per la celebrazione dell'Eucaristia, nella quale si manifesta nel modo più chiaro l'unità della chiesa subapostolica. Ignazio di Antiochia (+110 circa) illustra questa unità con immagini e similitudini: coro, comitiva, armonia dell'universo, struttura del corpo umano, torre, ecc.
La compattezza è una necessità vitale: ci si deve guardare dall'ambizione, dalla gelosia, dalla diffamazione e dall'eresia.

A capo delle singole comunità stanno due gruppi di uomini;

  1. il primo ha la duplice designazione di presbiteri o vescovi,
  2. l'altro è costituito dai diaconi.

Solo le lettere di Ignazio distinguono chiaramente i tre uffici, i cui detentori si chiamano vescovi, presbiteri e diaconi. Nel secondo decennio del II secolo ad Antiochia ed in Asia minore esiste l'episcopato monarchico: ad un unico vescovo è assegnata la guida della singola comunità. Quell’unico ufficio che nel periodo apostolico aveva conosciuto il duplice nome di vescovo o presbitero per il suo detentore, si è scisso in due uffici, riservando la denominazione di vescovo esclusivamente alla massima autorità gerarchica della comunità.  Poco dopo l'anno 150 l'episcopato monarchico sembra essersi largamente imposto in tutti i paesi dove il cristianesimo si è diffuso. I Padri apostolici svolgono già in parte una teologia del ministero ecclesiastico, la cui autorità in definitiva è fatta risalire a Dio. Sant'Ignazio perfeziona ulteriormente questa teologia: la comunità è unita col suo vescovo nel pensare e nel pregare, soltanto con lui celebra l'Eucaristia, deve seguirlo ed essere a lui obbediente come Cristo al Padre; niente nella comunità deve farsi senza il vescovo; anche il Battesimo e la conclusione del Matrimonio sono a lui riservati; alla sua autorità hanno parte i presbiteri e i diaconi; la comunità deve seguire il collegio dei presbiteri come gli apostoli, nei diaconi deve onorare la legge di Dio; chi si ribella al vescovo come fanno gli eretici, si ribella al Signore che è il vero, anche se invisibile, vescovo di ogni comunità.
Tale concetto della carica episcopale appare alquanto avanzato e nettamente differente dall'approccio collegiale tipico del I secolo, ma può d'altra parte essere interpretato come segno di un'emergenza presa ad Antiochia in un'epoca di lotte interne e di confusione. Per alcuni studiosi tuttavia l'idea di un episcopato di carattere monarchico era già esistente fin dall'inizio nell'ambito della chiesa di Gerusalemme, per cui la concezione di Ignazio non sarebbe altro che un'estensione di esso.
Due fattori cooperano in maniera decisiva affinché il vescovo e i suoi collaboratori possano assolvere bene il loro compito ministeriale: l'origine apostolica della loro autorità e la guida dello Spirito di Dio.
L'azione dello Spirito Santo non si limita alla sola gerarchia, essa è ancora percepibile un po' dappertutto anche nei fedeli delle comunità subapostoliche. Testimonianze in proposito si trovano in Clemente Romano, nella Didachè e in Erma. Rimane però sempre fermo il principio: stabilire se nel fedele parli lo Spirito è cosa che spetta ai capi della chiesa.
“E’ evidente che qui non sussiste più una rivalità tra carismatici e membri della gerarchia e che una giusta armonia è stata raggiunta tra i compiti di entrambi". La singola comunità del periodo subapostolico non ha tuttavia un'esistenza isolata ed autosufficiente. Forma un unico organismo, pervaso da un principio di vita soprannaturale, Cristo, il Signore. Tutte le comunità insieme costituiscono un nuovo popolo, la chiesa universale, che traluce in ogni singola comunità.
Il fedele sperimenta questa unità e universalità nell'ospitalità fraterna, nella corrispondenza, nei viaggi, nella professione di fede, nella celebrazione dell'EucarIstia e nel confronto con la tradizione ecclesiastica.
Il vescovo è responsabile verso l'intera chiesa. "Non si può tuttavia citare alcun vescovo dell'età subapostolica che con autorità pari a quella goduta presso la propria comunità possa intervenire in situazioni di altre chiese locali o dare in qualche modo istruzioni all'intera chiesa".
Lo stesso Clemente Romano si ritira troppo dietro la comunità romana come tale, perché gli si possa attribuire, a motivo del suo scritto alla comunità di Corinto, un cosciente diritto di impartire istruzioni sostenuto da una speciale autorità, tale da suggerire una qualche idea di primato. E' la comunità romana come tale ad intervenire con una pretesa che va oltre i limiti di un senso di solidarietà fraterna. Infatti Corinto non sollecita l’intervento di Roma; Clemente cerca di stabilire la pace con toni decisi; la lettera per alcuni è addirittura ‘ispirata’.
Nella coscienza dei cristiani non romani c'è una valutazione della comunità romana che è sulla linea di una posizione di preminenza. Questa è manifesta nella lettera di Ignazio ai Romani (la comunità romana è intervenuta ad ammaestrare altre chiese), nell'afflusso a Roma di tanti cristiani, nell'appoggio o riconoscimento richiesto a Roma da parte di cristiani ortodossi ed eretici.

L'organizzazione ecclesiastica nel III secolo
Oltre ai tre uffici del II secolo si vengono formando nuovi uffici di grado minore e, soprattutto in Oriente, si vengono formando le province ecclesiastiche, l'istituzione sinodale riceve un notevole impulso, infine la posizione di preminenza della chiesa romana e dei suoi vescovi si rafforza inequivocabilmente tra consensi e dissensi. L'episcopato monarchico nel III secolo è in piena funzione e nell'incontestato possesso dei poteri inerenti al suo ufficio. Il vescovo é ora il capo indiscusso della comunità. Questa deve intervenire nella scelta di un nuovo vescovo e procurare che sia eletta una persona eminente per dottrina, santità e virtù.
I presbiteri sono i consiglieri e gli assistenti del vescovo. Nel III secolo compaiono però anche indizi di una crescente importanza acquisita dall'ufficio sacerdotale. Essa è in relazione col crescente numero dei cristiani, con periodi calamitosi, col formarsi di grosse comunità cristiane e con l'istituzione delle parrocchie. Nella vita quotidiana di una comunità cristiana media i presbiteri hanno però ancora un'importanza inferiore ai diaconi. Questi sono i principali aiutanti del vescovo "l'orecchio e la bocca, il cuore e l'anima del vescovo". Devono informare il vescovo. Dall'armonica collaborazione tra vescovi e diaconi dice la didascalia, dipende il buon andamento della comunità.
Le crescenti necessità della chiesa del III secolo determinano infine il formarsi di gradi ulteriori nella scala gerarchica, tutti però inferiori all'ufficio del diacono. In una lettera del papa Cornelio (251 253) a Fabio di Antiochia risulta che sette suddiaconi, 42 accoliti, 52 esorcisti, lettori e ostiari sono a servizio della comunità a Roma.

DIACONESSE. Il mondo geco romano con il concetto della dignità della donna nella famiglia, il mondo ebraico con una visione marginalizzata della donna, il mondo cristiano con la figura di Maria, madre di Gesù, e delle donne, che accompagnano la missione di Gesù e alle quali è affidata la missione del primo annuncio della risurrezione, confluiscono nello stabilire il servizio che le donne offrono all'interno della vita della chiesa nei primi secoli. In Rm 16,1, Paolo parla di Febe diaconessa della chiesa di Cencre, ma è difficile precisare il ruolo da essa svolto e sapere se il suo diaconato fosse un ministero in senso proprio. Origene (185 252) parla di un diaconato delle donne al quale devono accedere quelle che hanno prestato 'assistenza a molti e che con le loro buone opere hanno meritato l'elogio degli apostoli'. In Oriente è attestato il diaconato femminile. Plinio il Giovane nella lettera a Traiano parla delle torture cui sono state sottoposte due ministrae per estorcere loro delle informazioni sui correligionari. Clemente Alessandrino (150 215) commentando 1Cor 9,5, parla delle donne che, accompagnando gli apostoli, collaboravano al loro ministero, 'facendo penetrare l'insegnamento del Signore nelle stanze delle donne senza dare adito a maldicenza. La Didascalia degli Apostoli enumera i compiti delle diaconesse: evangelizzazione domestica delle donne, assistenza al battesimo delle donne con il compito di ungere con l'olio quelle che scendono nell'acqua e di accoglierle quando escono dall'acqua e di insegnare come conservare intatto il sigillo del battesimo, visita e assistenza alle donne malate. Non hanno però accesso all'insegnamento e all'amministrazione del battesimo, sebbene la Didascalia abbia un concetto così elevato della donna da presentarla come ‘tipo’ dello Spirito Santo. Il divieto di insegnare e di battezzare, di influsso e derivazione veterotestamentaria e giudaica, compare anche nelle Costituzioni Apostoliche (Opera canonico liturgica della fine del IV secolo). Il diaconato femminile assume consistenza dopo i primi due secoli del cristianesimo. A partire dal IV secolo, le testimonianze sulle diaconesse si fanno più numerose, ma esse non sono considerate facenti parte del clero, anche se sono ordinate con l’imposizione delle mani. La verginità o l'essere vedove di un solo marito è requisito indispensabile. Questa forma di diaconato femminile istituito rimane esclusiva dell'Oriente e non riesce ad essere introdotta in Occidente. Non vanno confuse le diaconesse con le vedove perché il diaconato esprime una funzione mentre la vedovanza indica uno stato di vita elevato a forma di ascesi. Donne che insegnano, battezzano, amministrano l'eucaristia e assolvono compiti episcopali o presbiterali le troviamo presso sette eretiche, in particolare presso i montanisti.

Le chiese episcopali del III secolo
L'organizzazione si perfeziona; si elabora la liturgia battesimale e la celebrazione eucaristica, si creano nuovi uffici nella gerarchia ecclesiastica. La comunità episcopale diviene detentrice di un patrimonio ecclesiastico rilevante composto di denaro ed immobili.

Forma d'organizzazione regionale
Le singole chiese episcopali si uniscono in un organismo più vasto, la provincia ecclesiastica. Questa si organizza per il metodo missionario della chiesa primitiva (si parte dalla città capoluogo e si va agli altri centri maggiori della provincia) e per l'istituzione dei sinodi.

La posizione di preminenza di Roma e dei suoi vescovi
La chiesa di Roma esercita un influsso particolare sulle altre chiese e gode di un particolare riconoscimento e speciale considerazione da parte delle altre comunità. Nel III secolo assistiamo al vigoroso sviluppo di una linea i cui inizi potevano chiaramente scorgersi fin dal periodo subapostolico. Ireneo (sec. II) attribuisce alla chiesa romana il valore altissimo per rintracciare la tradizione apostolica. Il vescovo romano Vittore è consapevole di questa posizione quando interviene sulla disputa pasquale. Anche papa Stefano emana provvedimenti di carattere disciplinare per tutte le chiese.
Nel suo scritto “Sull'unità della chiesa”, Cipriano (200 258) parla della fondazione della chiesa, che trova espressa in Mt 16,18s, dove il Signore, dando a Simone il nome di Pietro, ha reso manifesto che "sopra uno solo egli edifica la chiesa" e che "da uno solo proviene l'origine dell'unità".
Nella cathedra Petri,Cipriano vede il fondamento originario dell'unità ecclesiastica, che in Pietro ha il suo inizio. Per i successori di Pietro, però, Cipriano non si esprime. C'è però un fatto concreto dove emerge il pensiero di Cipriano in proposito. Si tratta della disputa sul battesimo degli eretici.
I pagani che avevano ricevuto prima il battesimo nelle comunità eretiche, entrando in comunità ortodosse dovevano ripeterlo? "Solo alla chiesa cattolica è affidato il battesimo, solo il suo battesimo è valido; chi non ha lo Spirito Santo, non può neanche conferirlo", così Cipriano. Papa Stefano non pensa così e impone, anche a costo di una frattura, la prassi di Roma che non ribattezza coloro che già hanno ricevuto il battesimo dagli eretici.
L'idea di primato, dal punto di vista storico, doveva svolgersi e chiarirsi attraverso un lungo processo.

PAPA (da una parola greca che significa padre). Il titolo di papa era stato dato nei secoli III e IV ad alcuni vescovi e abati in segno di venerazione. Proviene dall'Oriente, dove era attribuito al patriarca di Alessandria, prima di essere esteso a tutti i preti che ancora oggi sono chiamati 'pope'. Questo titolo fu usato per la prima volta da papa Liberio (IV sec.) e, a partire dal V secolo, è riservato al vescovo di Roma.

La diffusione del cristianesimo

Progresso missionario
La diffusione del cristianesimo in epoca precostantiniano fu un procedimento complesso in cui, accanto a guadagni ci furono anche perdite significative, rappresentate da 'conversioni' superficiali o ritrattate in momenti di difficoltà e di prova decisivi come le persecuzioni; né è sicuro che tutti coloro che, a vario titolo, provenendo dal mondo pagano, provavano una simpatia per la nuova fede, morissero poi in essa.
Per giudicare del progresso missionario del cristianesimo, basta osservare i risultati: si vede fin dal tempo degli apostoli, quasi da un decennio all'altro, come la carta geografica si sia venuta coprendo dei nomi delle nuove comunità cristiane, finché al termine del III secolo non sarebbe stato facile trovare in tutto l'Impero romano località di una certa importanza in cui non esistessero cristiani. Paolo è un grande missionario, ma non l'unico. Marco con molta probabilità ha fondato la comunità di Alessandria. Per quanto riguarda Roma, non si sa chi vi abbia portato per primo il cristianesimo. Quando nella primavera del 60 Paolo venne a Roma, vi trovò già una comunità numerosa. Ora, è davvero sorprendente che Tacito abbia comunicato notizia del mutamento di vita della nobile romana Pomponia Grecina facendolo cadere nell'anno 43, e cioè proprio nel tempo in cui Pietro da Gerusalemme si era recato "altrove". Indubbiamente tale coincidenza non basta per affermare con certezza che Pietro fosse presente a Roma così presto.       Il massimo centro di diffusione del Cristianesimo fu l'Oriente. Per la Bitinia, nell'Asia minore, possediamo la testimonianza certo non sospetta del pagano Plinio il Giovane (61 113), un senatore e console romano, che nominato governatore imperiale nella Bitinia e nel Ponto aveva incontrato, già nel 112, un così grande numero di cristiani, che si vide costretto a chiedere all'imperatore Traiano come dovesse comportarsi di fronte ad essi. In Siria nelle città più importanti si era già insediata alla fine del I secolo una comunità di cristiani. Dall'Asia Minore e dalla Siria il cristianesimo si propagò nella Mesopotamia. In Egitto la missione cristiana penetrò abbastanza presto. Alessandria fu certamente il suo maggior centro di diffusione.    
In Occidente Roma continuò ad essere il maggior centro ecclesiastico. Ai tempi di Decio (III sec.) la comunità cristiana di Roma apparve tanto minacciosa che egli avrebbe accolto con maggior tranquillità e rassegnazione la notizia dell'elezione di un suo rivale al potere imperiale, piuttosto che quella di un nuovo vescovo di Roma. Nel 251 si riunirono a Roma in un sinodo circa 60 vescovi italiani.
Nell'Africa settentrionale, nel II secolo, il cristianesimo aveva piantato profonde radici. Sulle origini cristiane dell'Africa esistono due tesi contrapposte: per alcuni il cristianesimo africano è venuto dall'Oriente, attraverso l'Egitto e la Libia, per altri da Roma.    
In Gallia, Marsiglia aveva probabilmente fin dal primo secolo una comunità cristiana. Nel II secolo, le comunità di Lione e di Vienne acquistarono grande importanza. Nell'anno 177, 49 cristiani subirono il martirio a Lione. Nel III secolo il numero delle comunità crebbe in tutta la Gallia.
Le più recenti scoperte archeologiche hanno rivelato l'esistenza di luoghi di culto cristiani nella Germania meridionale, tutti risalenti al III secolo.
Oltre i confini dell'impero romano, nel 226, esistevano circa 20 vescovati nella regione del Tigri.
I successi missionari per quanto riguarda il numero dei convertiti sono piuttosto ridotti. Ben raramente essi riuscirono nelle singole città a guadagnare più di qualche famiglia o piccoli gruppi familiari. Non si trovano infatti in nessun luogo tracce di conversioni in massa. L'idea di alcuni storici recenti, che il cristianesimo si sarebbe diffuso alla maniera di un'ondata di entusiasmo, è errata. Il modo di diffondersi così poco appariscente e silenzioso rende per altro difficile riconoscere come siano andate le cose nei singoli casi.
L'amicizia personale formava la base per attirare molti a Cristo; tuttavia ci si serviva pure di incontri più casuali. Spesso l'apostolato personale era completato da gesti di aiuto e di bontà. Lo stesso modo di vivere dei cristiani era già di per sé un grande annuncio del vangelo. Anche la testimonianza dei martiri produceva i suoi effetti. Certamente il cristianesimo si diffuse soprattutto mediante la predicazione orale e in proporzioni assai minori mediante la propaganda degli scritti. Fin quasi alla metà del II secolo sentiamo parlare di profeti o maestri che si recano da un luogo all'altro. Il filosofo e martire Giustino era uno di questi. Convertitosi dal paganesimo, divenne l'apologista più importante del II secolo.
Sembra però che tali predicatori privati non sempre fossero graditi ai vescovi.
Altri fattori favorirono la rapida diffusione del cristianesimo in questo breve periodo:

  • l'esistenza di una sola lingua e cultura;
  • lo straordinario sistema viario e di comunicazioni.

Però i cristiani costituivano una piccola minoranza. Soprattutto le campagne rimasero a lungo pagane (da pagus, pagani coloro che abitano nei villaggi, in campagna); dovevano divenire oggetto di una vera e propria spinta missionaria solamente molto più tardi.
Per quanto riguarda la recezione sociale, la diffusione del cristianesimo si realizzò in prevalenza tra le persone libere di condizione più umile o fra appartenenti al 'ceto medio' che, nella società del tempo, oltre ai liberti, comprendeva cittadini liberi come mercanti, artigiani e altri del variopinto mondo delle professioni manuali; gente che non aveva, in genere, accesso all'educazione superiore e che di una modesta proprietà personale. Il cristianesimo fu escluso a lungo dalle classi superiori, anche perché le cariche senatoriali comportavano inevitabilmente una serie di compiti religiosi, come il pubblico sacrificio, che agli occhi di un cristiano non potevano non apparire idolatriche.
Un posto a parte occupano le donne, facilitate nella loro adesione alla nuova fede per un verso dal fatto di non essere legate da mestieri 'difficili', come il militare o l'insegnante, per un altro dalla natura stessa della comunità cristiana, con quel concetto di 'fratellanza' universale che offriva loro una dignità e un'uguaglianza in genere ignote nella società antica.

San Pietro e gli inizi della chiesa romana
San Paolo è stato il grande conquistatore della gentilità alla fede cristiana nascente; San Pietro, capo del collegio apostolico, ebbe, nello sviluppo iniziale della società cristiana, un compito che portò alla fondazione della sede romana che doveva diventare il centro visibile della chiesa.
Pietro ad Antiochia si impegna ad ottenere una conciliazione tra la tendenza giudeo cristiana e la tendenza emancipatrice dal Giudaismo. Si reca nelle province della Asia Minore e nella Macedonia. Quindi passa a Corinto dove rileva divisioni in quella Chiesa.
Gli Atti chiudono il racconto sull’attività di Pietro a Gerusalemme. “Pietro si incamminò verso un altro luogo”. Si tratta di una precoce morte dell’apostolo come vorrebbe insinuare qualcuno?  L’interpretazione è errata.
Pietro è venuto a Roma e dopo avervi governato la chiesa, vi ha terminato la carriera apostolica con il martirio, sotto Nerone. Il primato papale, come istituzione di diritto divino, non dipende dal fatto che Pietro abbia dimorato a Roma per lungo o breve tempo, o non vi abbia dimorato per niente. Appartiene tuttavia alla realtà storica che Pietro fu sicuramente a Roma, vi soffrì il martirio e vi fu seppellito. Si hanno solo delle testimonianze indirette, ma queste sono così tante che si può parlare di una completa convergenza delle fonti verso questo punto.
Per il martirio si ha l'allusione netta in Giovanni 21,19: “‘Quando eri giovane ti cingevi la veste da solo e andavi dove volevi, quando sarai vecchio un altro ti porterà dove tu non vuoi’. Questo disse per indicare con quale morte avrebbe glorificato Dio”. Negli ultimi versi della sua prima epistola dice di averla scritta da Babilonia=Roma.
Il fondamento su cui si poggia la tradizione romana relativa a Pietro è costituita da tre testimonianze di fonti, cronologicamente vicine tra loro, che prese insieme acquistano un tale peso da equivalere praticamente ad una certezza storica. 

  1. Clemente vescovo di Roma (92 100) nella sua lettera riporta tra le notizie la "gloriosa testimonianza di Pietro".
  2. Sant'Ignazio, vescovo di Antiochia (70 107) scrivendo ai romani all'inizio del II secolo, spiega che non vuole comandare loro "come Pietro e Paolo".
  3. La Ascensio Isaiae (100) (libro apocrifo) esprime in stile profetico l’annuncio che l’opera dei dodici apostoli sarà perseguitata da Beliar, uccisore della propria madre (Nerone), e che uno dei dodici cadrà nelle sue mani. Questo viene chiarito da un frammento dell’Apocalisse di Pietro (inizio II sec.) in cui si dice: “Ecco a te Pietro ho rivelato ed esposto tutto. Va’ quindi nella città della fornicazione e bevi il calice che ti ho annunciato”.

La tradizione riguardante l'origine del vangelo di Marco concorda nell'affermare che Marco lavorò a Roma quale interprete di Pietro. C'è poi la testimonianza verso il 200 del chierico romano Caio, il quale si offre di mostrare a chiunque i "trofei" degli apostoli presso il Vaticano e lungo la strada verso Ostia. Eusebio, che ci ha conservato tale testimonianza, intende sotto il nome di "trofei" le tombe gloriose dei due apostoli.
Indipendente da tutte queste testimonianze è l'elenco dei vescovi romani conosciuto già da Ireneo. Dappertutto san Pietro è posto in testa all'elenco.
I nomi di Pietro e Paolo sono sempre intrecciati insieme, anche se tra loro dal NT risulta ci siano state delle divergenze. La fusione di due nomi può essere avvenuta in un luogo dove dei due apostoli era nota l'attività comune. Tale luogo può essere soltanto Roma. Se i due apostoli non avessero dato in Roma almeno la finale testimonianza per la fede, i loro nomi non si sarebbero mai associati.
Non esiste alcuna testimonianza che contraddice a quelle da noi sopra riportate.
L'unica reale difficoltà sta nella circostanza che in tutti e tre i luoghi del NT, in cui Paolo è messo in relazione con Roma, cioè la lettera ai Romani, la finale degli Atti degli Apostoli e la seconda lettera a Timoteo, Pietro non viene mai menzionato. Da tutto ciò si potrebbe al più rilevare che Pietro non soggiornò costantemente a Roma, la qual cosa è senza dubbio verosimile, non però che egli non sia mai stato a Roma e ancor meno che non vi abbia subito il martirio.
Indipendentemente da questa prova derivante da una convergenza dei fatti storici, è la prova archeologica, che non è meno attendibile. Un antichissimo culto locale assicura dell'esistenza della tomba e del martirio. Prima della costruzione della basilica di Costantino la tomba è esistita. Sotto l'attuale altare maggiore è venuto alla luce una specie di monumento, che risale alla metà del II secolo e che, in ogni caso, è quel trofeo dell'apostolo di cui scrive Caio verso l'anno 200. In Roma esiste un altro posto presso il quale si trovava un luogo di culto di tempo precostantiniano. Sotto la chiesa di San Sebastiano si è trovato un muro letteralmente coperto di invocazioni agli apostoli Pietro e Paolo graffite sulla parete. Ora un culto di santi senza il luogo della loro sepoltura è nell'antichità cristiana qualcosa di assolutamente inconsueto. Forse si sono trasferiti per breve tempo i corpi degli apostoli a San Sebastiano? Comunque sia, Pietro fu venerato a Roma come santo locale.
Naturalmente esiste della gente che non si dichiara soddisfatta di fronte a simili dimostrazioni e si meraviglia che non esistano testimonianze più precise. Ma costoro sono di quelli che non hanno mai capito chiaramente su quali fondamenti si basa la nostra intera conoscenza dell'antichità, compresa quella classica. Vi sono nella storia antica una quantità di fatti indubitabili che non godono di così chiare testimonianze come la sepoltura di san Pietro. E' altresì notevole che l'autenticità della tomba di san Paolo non venga posta in dubbio, quantunque le prove storiche che la riguardano siano esattamente le medesime che per la tomba di Pietro.
Alcuni studiosi non cattolici devono pur ammettere che san Pietro è morto a Roma.

Le leggende su Pietro
A partire dall'anno 100 circa, appaiono anonimi o con nomi presunti, dei testi che avevano la pretesa di completare gli scritti canonici, tramite il racconto dell'insegnamento, delle azioni e vicende dell'apostolo:
1) la Dottrinadi Pietro (inizi del II sec.);
2) il Kerigma di Pietro (II sec.): questi primi due testi si limitano alla predicazione dell'apostolo in Oriente, e non riferiscono nessun rapporto con Roma;
3) gli Attidi Pietro: la forma primitiva è conosciuta solo grazie a frammenti e ad alcune citazioni, che fanno supporre che il testo risalga al 200 ca. Una prima parte riferisce in merito agli atti di Pietro a Gerusalemme, e contiene i due episodi della figlia dell'apostolo e del giardiniere. Nella seconda compare la lotta contro Simon Mago e la crocifissione di Pietro capovolto.;
4) la cosiddetta Passionedello Pseudo Lino del IV sec. Riprende dal testo precedente il Quo vadis?, ma aggiunge l'imprigionamento di Pietro nel carcere Mamertino, l'episodio del titulus Fasciolae e localizza la morte dell'apostolo 'nella naumachia vicino all'obelisco di Nerone sulla montagna'. Si basa anche sulle tradizioni vaticane del II III sec., ma con una visione ben poco realistica delle cose, e non parla assolutamente della tomba di Pietro;
5) gli Attidi Pietro e Paolo, dello Pseudo Marcello del 400 ca. Costituiscono un ulteriore sviluppo della leggenda, sempre sulla base delle tradizioni precedenti. Elementi nuovi sono costituiti dalla lettera di Ponzio Pilato a Claudio, dalla localizzazione del volo di Simone, dall'impronta lasciata dai ginocchi degli apostoli in preghiera lungo la via Sacra iuxta templum Romae, dalla sepoltura di Pietro 'sotto il terebinto vicino alla naumachia al Vaticano';
6) la Passione di Pietro e Paolo per opera dello Pseudo Egesippo o Pseudo Ambrogio compilata verso il 580. Non apporta alcuna novità. Il martirio viene datato al 29 giugno 57 in base alla Cronaca latinadel 533;
7) il martiriodi Pietro dello Pseudo Abdia del VI sec.: è un'altra compilazione fatta utilizzando numerosi elementi preesistenti come lo Pseudo Egesippo.
In conclusione questi testi leggendari rivelano da un lato la continuità di una tradizione locale che si riallaccia al trofeo di Gaio e alla sepoltura di Pietro, dall'altro le dicerie sempre più fantasiose e inesatte che correvano a proposito delle circostanze del soggiorno e del martirio dell'apostolo Pietro a Roma.
Le persecuzioni
Premesse
Le persecuzioni possono essere generalmente definite azioni di natura violenta indirizzate contro la chiesa cristiana e i suoi membri da parte dei suoi avversari.
1) La descrizione della chiesa in stato permanente di persecuzione nei primi tre secoli non è esatta. Le espressioni 'chiesa delle persecuzioni', 'chiesa dei martiri' e ancor più 'chiesa delle catacombe', in altre parole una chiesa nascosta e segreta, hanno il torto di generalizzare troppo.
2) E' inammissibile vedere in ogni imperatore o governatore romano, sotto il cui regno o sotto la cui amministrazione dei cristiani abbiano trovato la morte, un uomo che con cieco furore li abbia perseguitati soltanto a motivo della loro fede; le occasioni dei singoli fatti sono state spesso molto varie e debbono venire esaminate caso per caso.
3) Le persecuzioni furono avvenimenti sporadici e si differenziarono per intensità e durata in ciascuna provincia. Nel II secolo apparvero soprattutto come esplosione di odio troppo a lungo trattenuto, più che azioni statali sistematiche e disposte preventivamente. Solo Decio procedé contro i cristiani seguendo un piano ben preciso.
4) Non vi furono martiri a milioni, ma una quantità assai notevole di cristiani si mostrò debole.
5) Non è vero che in quel tempo i cristiani s'affollarono dappertutto per correre al martirio con giubilo ed entusiasmo. Le persecuzioni sono sempre state, allora come dopo, un fatto terribilmente amaro. La chiesa non le ha mai desiderate, e si rallegrò ogni volta che le vide terminare.

Fondamenti giuridici
Alcuni storici ritengono che si debba ricercare nella legge penale romana un qualche punto, contro cui i cristiani fin da principio, e per la loro stessa natura, dovettero urtare e pensano al delitto di lesa maestà, strettamente collegato col culto dell'imperatore.
Altri storici sono dell'opinione che i cristiani siano incorsi nella colpa di sacrilegio e causa delle loro funzioni religiose o per lo meno nel delitto di esercizio di un culto proibito.
I cristiani non avevano né templi né altari nel significato corrente, e nemmeno statue di dei, né offrivano incensi o vittime d'animali. L'opinione pubblica muoveva loro precisamente il rimprovero di essere athei, uomini senza culto.
Pare che non ci siano nel diritto romano motivi convincenti per le persecuzioni.

Motivi politici
Altri spostano la spiegazione delle persecuzioni contro i cristiani dalla sfera giuridica a quella politica. L'impero romano si sarebbe sentito minacciato nella sua esistenza dal cristianesimo. Pertanto esso si sarebbe difeso fin tanto che poté, ma alla fine la chiesa, divenuta strapotente, l'avrebbe mandato in rovina.
Tale concezione è quasi interamente falsa. Specialmente nel II secolo le persecuzioni non venivano mosse minimamente dal governo, ma piuttosto dalla popolazione. I funzionari vi si facevano trascinare quasi con riluttanza. I motivi politici potrebbero tutt'al più spiegare l'ultima fase delle persecuzioni.

Odio contro i cristiani
La vita ritirata dei cristiani suscitò il sospetto e acuì la smania di diffamazione. Si cominciò così a parlare di atti cultuali delittuosi, che i cristiani avrebbero compiuto durante i loro convegni segreti, di banchetti in cui i partecipanti avrebbero gustato carne umana, (così veniva snaturata la comunione), si mormorò di atti di lussuria incestuosa (diceria che probabilmente ha avuto origine dalla consuetudine, in uso fra i cristiani, di chiamarsi l'un l'altro 'fratello' o 'sorella'). Si attribuirono al rifiuto dei cristiani di sacrificare agli idoli l'insorgere di catastrofi naturali, le avversità pubbliche, le calamità e le sconfitte militari.    
I cristiani furono accusati globalmente di odio verso il genere umano e proprio questo rimprovero sembra che fosse già tanto largamente diffuso al tempo  di  Nerone,  che  questi  poté  agevolmente  divergere  verso  i  cristiani  'feccia del genere umano' i sospetti che erano caduti su di lui per l'incendio doloso di Roma.

Cause dipendenti dai cristiani stessi
I cristiani circondavano la celebrazione del loro culto con un certo mistero e ciò suscitava una curiosità ostile. Tertulliano scrive che la plebe cercava di preferenza di sorprendere i cristiani durante la celebrazione della messa.
Il caso del martire Tarcisio, che venne massacrato per non aver voluto consegnare l'Eucaristia, è attestato con certezza. Così pure era causa di irritazione il silenzioso diffondersi del cristianesimo. Dappertutto si potevano incontrare dei cristiani e nessuno sapeva donde venissero. E' chiaro pure che la vita dei cristiani, così ritirata e moralmente severa, era sentita da molti come un tacito rimprovero.

Svolgimento delle persecuzioni

I periodo: fino all'anno 100 circa
In questa fase, il cristianesimo, sopportato o ignorato dallo stato, fu considerato come una setta giudaica e godé della stessa tolleranza riservata alla religione ebraica.

  1. Svetonio riferisce che Claudio aveva fatto espellere da Roma i Giudei perché erano continuamente in lite tra loro per causa di un certo Chrestos (Iudaeos impulsore Chresto assidue tumultuantes Roma expulit).
  2. Sotto Nerone (54 68) nell'anno 64 si ha il più antico esempio di persecuzione legato con l'incendio di Roma. Tacito nei suoi Annali riferisce la notizia. Nerone è il responsabile del colossale incendio; l'imperatore l'attribuisce ai cristiani "che erano aborriti per i loro misfatti". Quindi viene arrestata una ingens multitudo e giustiziata con i sistemi in uso contro gli incendiari: venivano cuciti in pelli di animali e gettati ai cani o vestiti di materiale infiammabile e fatti bruciare di sera.

Per Tacito non sussiste dubbio alcuno che i cristiani fossero ingiustamente incolpati di aver provocato l'incendio, anche se secondo lui meritavano le più severe punizioni per le loro precedenti nefandezze.
A proposito dell'ingens multitudo di cristiani martiri qualcuno osserva che si conoscono per nome soltanto i due apostoli Pietro e Paolo né si può dire se ci furono esecuzioni anche fuori Roma (solo Lattanzio afferma che ci fu persecuzione anche fuori Roma). E’ vero però che Tertulliano, parlando una volta della persecuzione sotto Nerone, dice che in seguito erano state revocate tutte le misure di questo brutale sovrano ad eccezione di una: la proscrizione da lui fatta del nome cristiano sarebbe l’unico Institutum neronianum a non essere stato annullato nella damnatio della sua memoria.
Allora Nerone ha promulgato un editto di persecuzione generale? Pare di no. Infatti:
1) in Oriente non si conoscono persecuzioni;
2) intorno al 60 il cristianesimo non è importante;
3) in seguito nessuna autorità si richiama ad un simile editto.
Le notizie di Tacito sono più attendibili

Molto più scarne sono le notizie delle fonti riguardanti la persecuzione che colpì i cristiani sotto l'imperatore Domiziano (81 96), anche se è indubitabile la sua realtà. Egli fece giustiziare il proprio cugino Flavio Clemente a causa della sua religione e fece esiliare sua moglie Domitilla nell'isola di Ponza.
Melitone di Sardi nella sua Apologia mette accanto a Nerone come avversario del cristianesimo anche  Domiziano.
Clemente nella sua prima lettera ai Corinzi parla di avversità sopravvenute ai cristiani che gli avevano impedito di scrivere prima.
Il rimprovero mosso da Epitteto ai cristiani di andare stoltamente e sconsideratamente alla morte, presuppone dei provvedimenti contro i seguaci del cristianesimo.
Plinio il Giovane nella sua epistola a Traiano annota che nell’interrogatorio di alcuni supposti cristiani, questi avrebbero affermato di essersi distaccati già da vent’anni dalla fede cristiana.

II periodo: dal 100 al 250 d.C.
All'origine della persecuzione sta uno scambio di lettere tra Plinio e Traiano (98 117), ma che Plinio divulgò e che servirono poi come documenti semiufficiali. Dall'epistola di Plinio risulta con tutta chiarezza una cosa: il governatore della provincia di Bitinia non conosce affatto una legge statale contro i seguaci della fede cristiana. Il suo dilemma è questo: per la persecuzione è sufficiente il fatto di essere cristiani, oppure devono essere provati altri delitti? L'imperatore dà a Plinio alcune indicazioni:

  • i cristiani non vanno ricercati;
  • le denunzie anonime non vanno prese in considerazione.
  • Chi viene denunciato ufficialmente come cristiano, ha da essere interrogato;
  • se nega di essere cristiano e conferma questa sua negazione invocando le divinità romane, non va punito, anche se  fino allora fosse stato cristiano.
  • Soltanto se nell'interrogatorio si professa cristiano e persiste in questa professione, va punito.

La prova di reati quindi contro altre leggi non è necessaria; il semplice fatto di essere cristiani basta per essere perseguitati. "Il cristiano è punibile non perché è colpevole, ma perché viene scoperto" (Tertulliano). Non è lecito essere cristiani.
Con qualche sicurezza possono provarsi per questo periodo soltanto due martirii, delle cui vittime ci sono trasmessi i nomi. Al vescovo Simeone di Gerusalemme toccò all’età di 120 anni, la morte di croce. Ignazio di Antiochia, come cittadino romano, fu certamente portato a Roma ed ivi giustiziato ancora sotto Traiano (117?).

Con l’imperatore Adriano (117-138) la situazione migliora: le denunce anonime vengono punite più gravemente, i cristiani vengono perseguiti solo se “hanno trasgredito le leggi”. Queste direttive valgono però solo per la provincia al cui proconsole viene inviato il rescritto. Altrove  un funzionario romano poteva benissimo attenersi al principio che il nomen christianum di per sé fosse motivo di punizione.

Antonino Pio (138-161) segue la linea del predecessore. Giustino racconta l’esecuzione avvenuta a Roma di tre cristiani. Famoso resta il martirio del vescovo Policarpo di Smirne per la parte avuta dalla popolazione pagana. Avendo il vescovo rifiutato di rinnegare Cristo, fu condannato al rogo e arso vivo nel teatro della città.

Si possono fare alcune considerazioni sul periodo 54-150.

  1. Non esiste una legge per le persecuzioni.
  2. La popolazione ostile è convinta che l’essere cristiano sia inconciliabile con le consuetudini dell’impero romano.
  3. Le persecuzioni sono solo locali, sporadiche contro singole persone.
  4. Sono provocate da tumulti di popolazione.
  5. Il numero delle vittime è relativamente basso.

Con Settimio Severo (193-211) si compie un atto nuovo, che non pochi dei suoi successori ripeteranno: l’autorità pubblica prende, in occasioni che del resto variano, l’iniziativa delle persecuzioni. La regola di Traiano (conquirendi non sunt) è abbandonata e comincia l’era delle persecuzioni mediante editti. “Judaeos fieri sub gravi poena vetuit; idem etiam de christianis sanxit (proibì sotto pena grave ogni propaganda giudaica e prese la medesima decisione a riguardo dei cristiani)”. Conseguenza: disgregamento della scuola catechetica di Alessandria per l’allontanamento del suo capo Clemente (150-215) e il discepolo di Clemente, Origene (184-254), venne perseguitato per aver coraggiosamente tentato di ricostruirla.

III periodo: dal 250 al 311.
L'imperatore Decio (249 251) emanò per la prima volta leggi statali generali che miravano a ricondurre ogni cittadino dell'impero alla religione romana ufficiale. Scatenò la persecuzione più violenta che si fosse abbattuta sulla chiesa. Mirò allo sterminio del cristianesimo.     Tutti i cittadini romani erano obbligati a sacrificare alle divinità tradizionali di Roma. Chi sacrificava riceveva dei certificati come prova d'aver obbedito all'ordine dell'imperatore. Chi si rifiutava di obbedire e non poteva (o non voleva) ottenere falsi libelli da funzionari amici o corrotti era giustiziato. Per salvare la vita, molti cristiani sacrificarono agli dei; altri riuscirono ad ottenere certificati senza aver sacrificato. Il primo intento era quello di fare non dei martiri, ma degli apostati.
Tuttavia un certo numero di cristiani furono imprigionati o martirizzati: tra essi i vescovi di Roma, di Antiochia e di Gerusalemme.
Si deve però anche ammettere che durante la persecuzione di Decio molti furono i cristiani deboli che caddero nell'apostasia. Sulla questione di riammetter o no in seno alla chiesa questi 'lapsi' (letteralmente 'caduti') si accese un grave conflitto in seno alla comunità.
Anche Cipriano, vescovo di Cartagine, che era fuggito durante la persecuzione e nel 251 era tornato in città, dovette affrontare questi problemi. Nel concilio, convocato poco dopo, si decise che

  • coloro che avevano sacrificato dovevano fare penitenza per un tempo determinato e sarebbero stati riconciliati soltanto in punto di morte,
  • i libellatici (quelli che riuscivano a ottenere, con l’inganno o con il denaro, un attestato - libellus – dell’ottemperanza dell’editto imperiale, pur senza aver materialmente sacrificato), invece, potevano essere ammessi alla penitenza pubblica e alla successiva riconciliazione.
  • Quanto a coloro che si fossero rifiutati di fare penitenza, non dovevano essere riconciliati nemmeno in punto di morte.
  • Infine i lapsi appartenenti al clero dovevano essere ridotti allo stato laicale e fare la penitenza prevista per i laici.

In un concilio dell'anno successivo si decise di concedere indistintamente il perdono a tutti i lapsi che avevano continuato a fare sino ad allora penitenza: la linea dell'indulgenza aveva prevalso.
A Roma il presbitero Novaziano si mostrò particolarmente rigido nel rifiutare il perdono agli apostati e venne in conflitto con papa Cornelio, che usò invece clemenza verso di essi. Novaziano acuì il contrasto di opinioni fino a provocare uno scisma nella chiesa romana, poiché si fece consacrare antivescovo e fondò una sua chiesa. Può essere ritenuto il primo antipapa. La sua comunità non concedeva alcun perdono per i peccati gravi, non guidava alla penitenza. Richiamandosi a un severo ideale di santità, Novaziano sostenne idee rigoristiche sulla prassi penitenziale e accusò la chiesa 'cattolica' di papa Cornelio di rilassamento e di tradimento della fede. 'Puri' 'katharoi' si chiamarono i Novaziani che costituirono la 'chiesa dei santi'.
Anche a Cartagine e ad Alessandria si ebbero degli scismi. Un certo Novato, prete di Cartagine della metà  del III secolo, formò in Africa una chiesa separata rigorista, che ben presto si mise in contatto con Novaziano.
Il rigorismo fanatico è sempre stato la caratteristica principale di tutte le eresie di tutte le sette. Nel difendersi da queste tendenze rigoristiche e restrittive la chiesa ha sempre conservato la sua 'cattolicità', adempiendo integralmente il mandato di Cristo: portare agli uomini tutti, e non solo ad una piccola setta (haeresis) di prescelti e di santi, la salvezza divina.

Diocleziano (284 305) si propose di riordinare lo stato con riforme politiche: creò una monarchia assoluta, divise l'impero prima in due parti, l'Oriente, con capitale Nicomedia (in Bitinia) e l'Occidente con capitale Milano, poi in quattro parti; i due Augusti hanno al loro fianco due Cesari che risiedono uno a Sirmione (Pannonia) e l'altro a Treveri (Gallia); con riforme amministrative: raccolse le province in dodici diocesi (cui mise a capo un vicario); con riforme economiche: obbligò i coloni a rimanere sul luogo da essi coltivato, gli artigiani e i commercianti nella loro professione e promulgò un calmiere dei prezzi.

Che dire del martirio della legione tebea supposto nel 286?
E’ una leggenda riferita da Eucherio di Lione (+450).

  1. Non è dimostrabile una persecuzione nel primo periodo di Diocleziano.
  2. Non è esistita a quel tempo una legione completamente cristiana.
  3. Tutte le altre fonti tacciano su un avvenimento così spettacolare.     

Da una tolleranza applicata con larghezza di vedute (anche perché sua moglie Prisca e sua figlia erano considerate da tutti cristiane) avviò la più sanguinose delle persecuzioni. Il cristianesimo infatti era di ostacolo all'opere di ricostruzione dell'impero. In particolare vari fattori possono aver favorito questa decisione, come tensioni personali a corte (moglie e figlia inizialmente caute, in seguito possono avere creato imbarazzo) o la decisiva vittoria di Galerio nel 297 sui Persiani, che permetteva ora di concentrarsi meglio sulle questioni di politica interna  o, anche, fattori ideologici, come la crescente necessità, per un imperatore che del recupero della tradizione aveva fatto un'arma potente di consenso ideologico, di fare i conti con il cristianesimo.
In tali condizioni poteva bastare una causa occasionale qualsiasi per determinare la ripresa di quella lotta che tante volte aveva fallito il suo scopo. Se dobbiamo credere a Lattanzio, questa causa fu un incidente accaduto ad Antiochia nel 302. In occasione di un sacrificio offerto da Diocleziano, la consultazione delle viscere delle vittime non produsse i segni attesi: il capo degli aruspici Tagi dichiarò allora che i cristiani della scorta avevano turbato l’operazione con il segno della croce. Diocleziano, spaventato e sdegnato, cominciò con l’ordinare a tutti i servitori del palazzo imperiale di sacrificare sotto pena di flagellazione. Quindi, trascinato da questo primo atto e da timori superstiziosi, accettando personalmente la politica verso la quale lo spingeva Galerio, fece mandare ai comandanti dei corpi delle milizie d’Asia, che dipendevano direttamente da lui, l’ordine di intimare agli ufficiali e ai soldati di scegliere tra l’offerta di un sacrificio ed il congedo dall’esercito.
Un editto imperiale del 303 ordinava la distruzione di tutte le chiese, esigeva che tutti i libri sacri fossero consegnati ed arsi e proibiva le riunioni liturgiche.
Due successivi editti estesero la persecuzione a tutti i chierici dell'impero e ordinarono la loro immediata cattura. La situazione si fece insostenibile e, per certi aspetti, grottesca: le prigioni non erano in grado dì contenere un numero così alto di prigionieri, né le autorità erano disposte a procedere in tutti i casi a esecuzioni di massa, che avrebbero finito per alienare loro, in non pochi casi, la simpatia della città a maggioranza cristiana.
Un quarto editto, della primavera del 304, conteneva un preciso ordine, che obbligava tutti indistintamente a sacrificare agli dei nell'intero impero: il terrore della persecuzione si estese così a tutta la popolazione cristiane. Si cercava di sterminare totalmente il cristianesimo.

In Occidente si ebbe maggiore tolleranza. In oriente la persecuzione con atrocità brutali e inumane si protrasse fino al 311. In quell'anno Galerio, pochi giorni prima di morire, emanò un editto, dal tono molto ostile ai cristiani, ma che in realtà conteneva l'ordine non solo di sospendere la persecuzione, bensì anche di restituire i beni, perlomeno i luoghi di culto. Non si può quindi affermare in maniera pura e semplice che fu Costantino a porre fine alle persecuzioni. Esse erano già in sostanza finite quand'egli salì al trono. Costantino fu quello però che diede alla politica imperiale quell'indirizzo favorevole ai cristiani e alla chiesa nell'impero, e quella posizione privilegiata che resero impossibile una reviviscenza delle antiche leggi persecutorie. Entro questi limiti, gli scrittori cristiani hanno ragione quando esaltano Costantino come il vero liberatore della chiesa.

Quale fu il numero dei martiri?
Una volta si parlava di centinaia di migliaia o meglio di milioni di vittime. Queste cifre sono esagerate. Non si può stabilire un paragone tra le persecuzioni e i genocidi moderni. In senso inverso, alcuni storici moderni tengono conto solo di quei martiri di cui si è conservato il nome e il racconto dell'esecuzione. Il numero allora si riduce considerevolmente: meno di tremila per l'ultima persecuzione. La verità è senza dubbio fra i due estremi, se si tiene conto del ricordo terrificante lasciato dalla persecuzione di Diocleziano.

Testimoni della libertà di coscienza
I martiri testimoniano Gesù Cristo, ma non si può separarli da tutti gli altri testimoni che segnano i secoli fino ai nostri giorni. Con loro, essi sono testimoni della libertà di coscienza affermata fino alla morte contro un potere totalitario. La storia della chiesa degli ultimi tempi ha scritto pagine sublimi ricordando ai credenti il riaffacciarsi tragico e preciso del martirio nelle comunità cristiane di fine secolo e di fine millennio. Il vescovo di Orano Pierre Claverie, dopo il martirio (21/5/1996) dei sette monaci trappisti di Notre-Dame de l'Atlas (oscuri testimoni della speranza), quaranta giorni prima di essere a sua volta assassinato, dichiarava tra l'altro: "Per quanto possa essere paradossale, la forza, la vitalità, la speranza, la fecondità della chiesa proviene dai luoghi di sofferenza, di abbandono. La chiesa inganna se stessa e il mondo quando si pone come potenza in mezzo alle altre, come un'organizzazione, seppur umanitaria, o come un movimento evangelico spettacolare..."

I discendenti di quei martiri che hanno veramente fondato la chiesa possono diventare essi stessi i peggiori persecutori, contribuendo in tal modo alla rovina della medesima.
"Nel 313 nasce un mondo nuovo, imperfetto come tutte le cose umane; ma se questo mondo ha, più di quello che scompare, il rispetto di certi valori morali, lo dovrà in gran parte a quei martiri, dei quali non si saprebbe valutare il numero, a tutti quelli i cui nomi sono celebrati ancor oggi nei fasti della chiesa, e anche a quelli innumerevoli, quorum nomina Deus scit, che sono morti ignorati dal mondo".

La svolta costantiniana

L’impero da persecutore a tollerante e rispettoso dei diritti dei cristiani come singoli e comunità

Eusebio e Lattanzio raccontano che la persecuzione scatenata da Diocleziano ebbe fine all'improvviso e miracolosamente. Eusebio di Cesarea fu un convinto sostenitore del ruolo dell'imperatore Costantino come salvatore della chiesa e dell'impero. La sua Storia ha grandissimo valore documentario, e costituisce il primo modello di storiografia cristiana. La chiesa è vista com’esempio di santità e ortodossia, mantenute integre attraverso i secoli nonostante gli attacchi subiti da malvagi imperatori e dalle dottrine degli eretici, grazie alla successione dei vescovi e al contributo coraggioso dei martiri.
Dopo che furono falliti i provvedimenti ripetutamente presi da vari imperatori nell'intento di eliminare il cristianesimo, con l'editto di tolleranza emanato a Serdica e pubblicato a Nicomedia il 30 aprile 311 da Galerio in nome di tutti e quattro gli imperatori allora in carica si produsse, nello spazio di pochi anni, una svolta politica radicale.
Presentato nell'interpretazione cristiana come un atto personale di pentimento e di atterrita ritrattazione, l'editto era un atto di tolleranza, che indubbiamente nasceva dal riconoscimento della forza reale del cristianesimo e che perciò intendeva chiudere un conflitto lungo e aspro ed estendere quella libertà di coscienza e di culto che in molte regioni dell'impero esisteva.
Dalla tolleranza ufficialmente accordata al cristianesimo dall'imperatore Galerio si passò con Costantino al pieno riconoscimento della nuova religione, cui fu dapprima concessa la parità dei diritti e in seguito fu riservata una serie di privilegi. Alla fine del IV secolo il cristianesimo venne ad occupare addirittura una posizione di predominio esclusivo (Teodosio I, 379 395); nel VI (Giustiniano I, 527 565) le sue strutture di religione di stato e di chiesa imperiale erano pienamente sviluppate.
Al culmine della più sanguinosa di tutte le persecuzioni contro i cristiani, l'imperatore Diocleziano si ritirò spontaneamente a condurre la vita di un proprietario terriero sulla costa della Dalmazia. Prima però cercò di rendere stabile il governo e di evitare la guerra civile stabilendo un sistema di successione ordinata e pacifica all'ufficio di imperatore. Nella primavera del 312, dopo la morte di Galerio, Costantino, già proclamato imperatore dall'esercito in Britannia, varcò le Alpi per cacciare l'usurpatore Massenzio dall'Italia e conquistare Roma. Costantino sconfisse Licinio nel 324 e governerà come unico augusto fino al 337.
A Ponte Milvio, presso Roma, si scontrò con il nemico, militarmente assai più forte. Durante il corso della difficile campagna avvenne il definitivo passaggio di Costantino al Dio dei cristiani, come attestano concordemente gli scrittori cristiani contemporanei, i panegiristi pagani e il comportamento dell'imperatore subito dopo la vittoria. La prima notizia al riguardo si trova in Lattanzio. Questi nel De mortibus persecutorum racconta come, durante il sonno, Costantino fosse stato ammonito di far apporre sugli scudi dei suoi soldati il segno celeste di Dio cioè il nome di Cristo e di osar così dar battaglia; l'imperatore avrebbe seguito questo avvertimento ed avrebbe fatto apporre sugli scudi un'abbreviazione di Christus, la crux monogrammatica, segno che allora, insieme al vero e proprio monogramma di Cristo, non era più ignoto ai cristiani. Lattanzio non pretende che quanto egli narra abbia il carattere di un evento miracoloso. Un sogno dell'imperatore, comprensibile nello stato d'animo che precede la battaglia, è all'origine di quest'ordine, facilmente seguibile e di una eloquenza immediata per tutti: imperatore ed esercito non muovevano al combattimento sotto un segno magico del paganesimo, come si era usato fino allora, ma sotto la protezione del Dio dei cristiani. L'esito vittorioso significava che tale risultato era dovuto al Dio dei cristiani e quindi lo si doveva ora riconoscere come la divinità protettrice.

Lo stesso avvenimento sta al centro anche della narrazione fatta da Eusebio, nella sua Vita di Costantino, molto meno concisa dell’esposizione di Lattanzio. Eusebio esalta Costantino "uomo pio e assennatissimo", caro a Dio e da Dio incitato contro gli empi tiranni e, già nella Storia Ecclesiastica, lo fa vittorioso su Massenzio dopo aver invocato "il Dio celeste e il suo Verbo, il Salvatore di tutti, Gesù Cristo", ma non fa cenno di alcuna visione prima della battaglia. Ne parla invece a lungo nella Vita di Costantino scritta parecchi anni più tardi, dopo la morte dell'imperatore, verso il 337. A Costantino, il quale ha scelto di chiedere aiuto al Dio sommo, onorato dal padre, appare in pieno giorno una visione straordinaria, un trofeo di luce della croce con la scritta: "Con questo segno, vincerai". Nella notte gli compare in sogno Cristo con il segno che aveva visto nel cielo e lo esorta a costruirsi un'insegna consimile e a servirsene contro i nemici. Da allora il labaro con il segno di Cristo diventa il vessillo dell'imperatore e dei suoi eserciti e lo conduce alla vittoria (1,27 29).
Si è dubitato di questo racconto, anche perché Eusebio, come si diceva, non lo presenta neanche nell'ultima edizione della sua Storia ecclesiastica. Allora, conclude qualcuno, Eusebio non ne ha avuto notizia e il racconto è stato introdotto da una mano più tarda nella Vita di Constantino: si tratta di una tesi insostenibile.

Contenuto sostanziale delle due narrazioni:
Costantino era convinto che il segno della croce gli fosse apparso al principio della sua campagna contro Massenzio; egli lo aveva tradotto nel monogramma di Cristo e con il suo aiuto aveva trionfato sul suo avversario, che confidava nella virtù degli dei del paganesimo. A partire da questo avvenimento il suo culto andò a Cristo quale suo Dio protettore e fu per lui motivo di conversione al Cristianesimo.
Questi avvenimenti e la "conversione" di Costantino, che ne sta al centro, sono stati oggetto di discussioni infinite, dall'età stessa di Costantino fino ad oggi. Salvatore Pricoco in Storia del Cristianesimo presenta in modo sintetico le diverse opinioni.
1. Nelle fonti pagane appare dominante su ogni altra istanza il disegno di collocare Costantino nella continuità  familiare e nella legittimità costituzionale del regime tetrarchico. In nessuno dei panegirici si trovano allusioni al conflitto tra paganesimo e cristianesimo neanche in quello di Nazario, il decimo, che lascia indefinita, nel quadro di un vago monoteismo, la "divinità che suole assecondare le imprese" dell’imperatore e inviargli in soccorso milizie celesti, rutilanti di luce terribile, e fa della battaglia del Ponte Milvio il frutto dell'abilità strategica di Costantino e del valore dei suoi soldati.
2. In età moderna. Costantino ha continuato a trovare difensori convinti del suo cristianesimo, ma è stato anche accusato, di volta in volta, di essere sostanzialmente pagano o deista o religiosamente indifferente o solo un cinico calcolatore. Taluni studiosi, fondandosi sulla considerazione che nell'occidente scarsamente cristianizzato il problema religioso non aveva peso e i cristiani non rappresentavano una massa politicamente importante, hanno sminuito il ruolo iniziale e propulsore di Costantino (succede a Galerio) e hanno attribuito a Licinio la promozione di una politica decisamente filocristiana, facendone sia l'ispiratore del decreto di Serdica sia l'unico autore di quello di Nicomedia. Soltanto quando si profilò lo scontro con Licinio, Costantino avrebbe dato inizio a una risoluta azione a favore dei cristiani, per guadagnarsene l'appoggio. Naturalmente queste tesi muovono dalla svalutazione e da una diversa interpretazione di Lattanzio ed Eusebio. L’anticostantinismo è emerso anche in formule come quelle della ambiguitas constantiniana o della "conversione imperfetta", che addebitano a Costantino di avere reso la sua politica religiosa volutamente ambigua e altalenante o di non averla indirizzata più risolutamente alla cristianizzazione dell'impero. In realtà, l'ambiguità è di chi applica idee preconcette di conversione e cerca nell'antico imperatore, come è stato osservato, i segni di un "convertirsi in blocco, senza dubbi, assoluto, da cavaliere crociato medievale".
3. Nel complesso oggi prevalgono posizioni conciliative, che da un canto demitizzano l'immagine eroizzata del "primo imperatore cristiano", volto in ogni suo gesto, a promuovere e organizzare il trionfo della nuova religione, dall'altro canto riconoscono che nel suo ambizioso piano di conquista del potere Costantino non si servì del fatto religioso come di uno strumento meramente politico, ma ebbe anche motivazioni religiose autentiche e durature, nutrite dall'educazione familiare e dalla tradizione di tolleranza del padre, Costanzo Cloro. Quindi l'atteggiamento di Costantino verso la chiesa dopo che diventò imperatore e le sue nuove leggi dimostrarono che la sua adesione al cristianesimo fu sincera, anche se agli inizi aveva una conoscenza imperfetta della fede cristiana. Costantino conservò il titolo di Pontifex Maximus, proprio del sommo sacerdote pagano. Per una decina d'anni le sue monete recarono l'effigie di alcuni dei pagani, specialmente del sole invincibile da lui preferito e non ricevette il battesimo che alla fine della vita.
Nell'anno 313 Costantino con Licinio stese il programma di tolleranza milanese e lo inviò in forma di rescritto (protocollo, accordo), e non di editto come precedentemente si riteneva, ai proconsoli statali delle province orientali.
In questo rescritto fu riconosciuta al cristianesimo, in tutto l'impero, completa equiparazione di diritti con le altre religioni.
Ai cristiani sono gratuitamente restituiti tutti i locali in cui prima solevano adunarsi, vale a dire chiese e cimiteri, non importa se si trovino in possesso dello stato o di privati. Questo possesso va, più esattamente, passato alle singole comunità cristiane la cui capacità giuridica è così riconosciuta. Concesse immunità al clero e fece molti doni alla chiesa, nel 321 ordinò che il primo giorno della settimana fosse giorno festivo, promosse un rinnovato interesse per la Terra Santa. Gerusalemme, dopo il fallimento della seconda rivolta giudaica di Ben Kokheba (132 135) era diventata una città pagana. Costantino e sua madre Elena ne fecero una città cristiana.

Valutazione su Costantino cristiano.
Non è mancato chi ha tentato di svalutare la politica religiosa imperiale a vantaggio dei cristiani, richiamandosi a tratti peculiari del carattere di Costantino.

  • Il suo comportamento crudele nei confronti del figlio Crispo e della moglie Fausta che fece uccidere di sorpresa nel 326 non è stato conforme alla clemenza cristiana.
  • Non riuscì mai a liberarsi dal pagano culto imperiale.
  • Rimandò il battesimo in punto di morte. Però tanti si comportavano in questo modo. Forse si deve persino dire che l'imperatore visse di tanto in tanto nell'idea che la sua nomina alla monarchia imperiale da parte del Dio dei cristiani, avesse creato un rapporto tanto immediato con lui, da non sentirsi legato alla cerimonia del battesimo. Se si considera il modo con cui questo imperatore si preparò alla morte, si può riconoscere anche qui un atteggiamento indiscutibilmente cristiano. Volle la sua tomba nella chiesa degli Apostoli per partecipare alle preghiere che in quel luogo erano recitate in onore degli apostoli. Dopo il battesimo indossò soltanto abiti bianchi. Eusebio riferisce le ultime parole: "Ora mi riconosco veramente felice; ora so d'essere diventato partecipe della vita immortale, della vita divina".

Costantino morì nel giorno di Pentecoste (22 maggio) del 337 lasciando la chiesa divisa e lacerata da ire e dispute furiose, tollerante fino alla fine con chi simpatizzava per Ario. L'arianesimo, anche se Ario precedeva di poco nella tomba lo stesso Costantino, continuò ad espandersi e, in definitiva, lo stesso imperatore sembrò accostarvisi, in fin di vita, ricevendo il battesimo dal vescovo ariano Eusebio di Nicomedia.
Costantino non riuscì a raggiungere il suo scopo di unità nella chiesa. E' giusto però ricordare anche i suoi successi:

  • conversione ufficiale dell'impero al cristianesimo,
  • fondazione di Costantinopoli lasciando l'indipendenza alla chiesa d'occidente,
  • il concilio di Nicea.

Riconoscendo il cristianesimo come religione sua e dell'impero romano, Costantino aveva compiuto un'azione carica di conseguenze per la storia del mondo. La sua memoria continuò a sopravvivere sia in oriente sia in occidente, e ben presto la sua immagine, come accade per i grandi della storia, entrò nella leggenda e ne fu trasfigurata.

Il cristianesimo per primo ha dunque vittoriosamente affermato la libertà di coscienza e la genuina laicità dello stato, negando ad esso il diritto di imporre una religione e di vincolare le coscienze, cioè ha introdotto per primo il dualismo fra religione e politica, fra stato e chiesa.
In seguito la chiesa ha poi rispettato questa libertà?
“Appare l'ambiguità che verrà in seguito rimproverata spesso ai pensatori cristiani, di voler la libertà quando sono in minoranza, di negarla quando hanno conquistato la maggioranza".

Problemi collegati alla svolta costantiniana
1) Come spiegare la vittoria finale del cristianesimo?
Decadimento del mondo romano? Favore di Costantino? Vittoria di una rivoluzione proletaria e classista su quell'aristocrazia che fino allora aveva dominato l'impero romano? Il livello superiore alla media, per morale e carattere, della maggior parte dei seguaci del cristianesimo, che fu all'altezza delle persecuzioni più gravi? I valori che il cristianesimo poteva offrire ad un mondo religiosamente inquieto, come quello del tardo ellenismo?
È diffusa nella società romana l'impressione che la vitalità e la forza del cristianesimo hanno in Gesù Cristo la loro sorgente. La figura di Gesù Cristo e quel vangelo da Lui predicato, che nella sua assoluta singolarità e novità lasciava di gran lunga dietro di sé tutte le altre correnti religiose del tempo, costituiscono il motivo decisivo che condusse il cristianesimo alla vittoria. La fede nell'Uomo Dio raccolse insieme i seguaci di Gesù in una comunione d'amore fraterno che aboliva in una maniera fino allora impensabile tutte le barriere sociali e razziali fra gli uomini.

2) Qual è la portata della svolta costantiniana?
Anzitutto alcuni presentano gli imperatori cristiani come Cesaropapisti che tengono cioè la chiesa in degradante asservimento allo stato. Altri vedono la gerarchia compromettere, come chiesa del potere, la credibilità della sua missione religiosa e della sua attività missionaria perché alla ricerca di privilegi civili, e intenta a dominare in campi di cultura profana a lei estranei.
Cerchiamo di chiarire, per quanto si può, il problema ricorrendo alle fonti contemporanee.
L’avvicinamento tra religione cristiana e potere romano non ha quel carattere rivoluzionario che gli è talvolta attribuito. Anche la cristianità precostantiniana ha cercato di stabilire un rapporto sopportabile con lo stesso stato pagano. I numerosi contatti tra seguaci del cristianesimo e rappresentanti dello stato romano nel corso del III sec. lasciano già chiaramente scorgere una linea di sviluppo che doveva condurre ad un reciproco riconoscimento e a una collaborazione tra le due società. Rivoluzionario sarebbe stato il principio di neutralità religiosa!
Detto questo si può riassumere così la risposta.
1) La libertà accordata alla chiesa diede il via a potenti energie che senza intralci poterono dedicarsi al completamento dell'organizzazione interna della chiesa: libertà di culto, di predicazione, nella celebrazione della liturgia, nella cura pastorale, nello sviluppo del mandato missionario.
2) La chiesa poteva affrontare l'enorme compito di cristianizzare la cultura profana e la vita pubblica e di dare sviluppo ad una propria vita intellettuale di marca cristiana.
Però l'acquisita libertà la espose ad un duplice pericolo:
a) la chiesa poteva facilmente accogliere elementi estranei alla sua fede, alla sua etica che ne falsassero il carattere. Una grande responsabilità incombeva qui alle autorità della chiesa.
b) Si vuole entrare nella chiesa per i vantaggi sociali e professionali che il cristianesimo poteva offrire. Il criterio della scelta, vigente al tempo delle persecuzioni, fu abbandonato ed acquistò quindi maggior importanza l'istituto del catecumenato.
S. Girolamo (347 420) dirà: “Da quando la chiesa ha imperatori cristiani essa è certamente cresciuta in potere e ricchezza, ma è diminuita in forza morale".
Certo fu molto difficile stabilire un sano rapporto tra uno stato retto da cristiani e la chiesa cattolica. Per molti vescovi, specialmente orientali, dovette costituire una tentazione, dopo tante lunghe tribolazioni, quella di godere del favore imperiale, pur perdendo così la propria autonomia. Più pericolosa ancora era la tendenza, da parte imperiale, a non considerare la chiesa come partner particolare, ma a servirsene a profitto degli interessi dello stato, soffocandone così l'indipendenza e la necessaria libertà nella sfera interna. “L'imperatore non ha nulla a che fare con la chiesa” diceva il vescovo Donato. Costantino si accorse che la sua politica di repressione era inutile e la revocò.
D'altra parte col vescovo Ambrogio e l'imperatore Teodosio il rapporto tra chiesa e stato entra in una nuova e decisiva fase.
Ambrogio, una personalità di grande spicco dal punto di vista sia politico sia teologico, spiegò con grande decisione, di fronte agli imperatori del suo tempo, il rapporto stato chiesa a partire dalla propria prospettiva e lo tradusse in azione. Già dall'imperatore Graziano (367 383) esigeva l'affermazione della verità dogmatica attraverso il ricorso a strumenti politici e provvedimenti concreti: soppressione del titolo di pontifex maximus attribuito all'imperatore, la rimozione dell'altare della vittoria dall'aula del Senato, l'abolizione delle sovvenzioni e delle immunità di cui godevano i sacerdoti pagani e le vestali. Anche con l'imperatore Valentiniano II, nella 'disputa delle basiliche' (i cattolici, anche a Milano, dovevano dare luoghi di culto ai cristiani ariani) Ambrogio affermò che nelle questioni riguardanti la fede sono i vescovi a dover decidere e non gli imperatori; "l'imperatore è nella chiesa, non sopra la chiesa". Inizialmente i rapporti sono difficili per gli influssi dell'arianeggiante sua madre Giustina, e per la personale ostilità nei confronti dell'invadenza del vescovo, poi improntati ad una filiale dipendenza da lui, che incide sulla politica religiosa di Valentiniano.
Verso la fine del secolo V, il vescovo di Roma, Gelasio I (492 496), sostenne il principio che l'imperatore era soggetto direttamente al capo della chiesa, cioè al vescovo di Roma (o papa), e doveva governare l'impero per il bene del popolo di Dio. Tale principio non lo si poté applicare nel tardo impero a causa della debolezza politica degli imperatori, ma fu riproposto nel medioevo.
Quando nel 390 gli abitanti di Tessalonica uccisero un odiato ufficiale imperiale, l'imperatore Teodosio, nel primo impeto dell'ira, diede l'ordine brutale di procedere all'arma bianca contro la popolazione radunata nello stadio. Vero è che l'imperatore ritirò ben presto la sua disposizione, ma il contrordine giunse troppo tardi ed un gran numero di cittadini fu massacrato. Per questo grave fatto il vescovo Ambrogio richiese dall'imperatore pubblica penitenza; abbandonò Milano e scrisse a Teodosio che sarebbe rimasto lontano dalla sua sede vescovile finché egli non avesse compiuto riparazione. Fu l'imperatore a cedere. Un imperatore cristiano è sottoposto alle esigenze etiche della sua Chiesa. Il più alto titolare e rappresentante dell'autorità dello Stato si sottopose alla disciplina penitenziale della sua Chiesa, che un vescovo aveva preteso da lui in modo inflessibile.
Nel 388  cristiani fanatici, d'accordo con il loro vescovo, distrussero nella cittadina di Callinico (nel territorio di confine dell'Eufrate) la sinagoga giudaica e l'imperatore ne dispose la ricostruzione a spese del vescovo cattolico. Ambrogio vide in quest'ordine una forma di favoreggiamento di un gruppo religioso ostile al cristianesimo ed invitò con fermezza l'imperatore a ritirarlo. Poiché questi indugiava, Ambrogio si rivolse a lui durante una funzione nella chiesa vescovile di Milano e dichiarò che non avrebbe proseguito la Messa finché l'imperatore non avesse solennemente promesso di agire secondo il suo parere. Teodosio gli diede infine la sua parola, ma a lungo rimase in lui un profondo risentimento per quest’umiliazione inflittagli dal vescovo della sua residenza.
L'imperatore Teodosio con l'editto di Tessalonica del 380 non concede più libertà di religione, ma impone a tutti di professare il cristianesimo, e interpone l'autorità della legge civile a difesa dell'ortodossia rappresentata dal vescovo di Roma, Damaso.
Nel 385 l'usurpatore imperiale Massimo (383 388) condanna a morte il nobile laico spagnolo Priscilliano, fondatore di un movimento ascetico in Spagna e in Gallia, insieme a sei suoi compagni con l’appoggio di due vescovi Istanzio e Salviano.
Intorno al 370 375 cominciò a predicare nella Spagna meridionale una dottrina ascetica di grande rigore.
Questa piccola ‘società’ teneva le sue riunioni in luogo chiuso e segrete le sue assemblee, i suoi fedeli si illudevano di giungere ad una perfezione superiore con mezzi di loro scelta. Rinunciavano all’uso dei sensi e dei beni di fortuna, moltiplicavano i digiuni. Non consumavano l’Ostia in chiesa, ma la portavano a casa. I più progrediti pretendevano di avere dei lumi spirituali e il dono di profezia…
Sulpicio Severo descrive Priscilliano come un uomo ricchissimo, colto ed eloquente, ma assai fatuo e troppo gonfio della sua cultura profana e aggiunge che la sua predicazione ottenne successo sia tra i nobili che tra il popolo in particolare tra le donne, che accorrevano in massa.
Nel 382 Itacio e Idazio vescovi, acerrimi nemici, ottennero da Graziano un decreto di esilio. Priscilliano va in Aquitania, ma il vescovo di Bordeaux non lo vuole. Priscilliano va dal papa che non lo riceve. Ma l’imperatore ritira il decreto e Priscilliano ritorna in Spagna.
Massimo fu il primo imperatore cristiano ad infliggere la pena di morte ad un eretico. Infatti Priscilliano nel 384 a Treveri fu processato per stregoneria, decapitato con Eucrozia e alcuni seguaci; altri furono mandati in esilio. All'origine di tale decisione stavano precisi motivi politici (l’imperatore desiderava avere le simpatie del clero locale cattolico e aveva bisogno di capitali che  si potevano ottenere con la confisca dei beni degli eretici molto ricchi) e i principali rappresentanti della chiesa i vescovi Martino di Tours, Ambrogio di Milano, e il papa Siricio (384-389) a Roma condannarono vigorosamente questa azione orrenda. Il beato Martino, soprattutto, fece il possibile per impedirla. Ma purtroppo, si intromisero nella questione anche alcuni vescovi, e primo fra tutti Itacio, assetato di persecuzione. Ebbe inizio così uno dei capitoli più tristi della storia della chiesa, proprio per la funesta ed ambigua collusione di politica e religione. Sulpicio Severo disapprova sia i colpevoli sia gli accusatori; questi avevano avuto maggiormente a cuore la condanna dell'avversario che non quella dell'eresia.
Anche se qualche ecclesiastico fanatico era disposto a condannare a morte gli eretici e a servirsi dello stato come braccio secolare della chiesa, la maggioranza delle autorità ecclesiastiche era contraria. (Ultimo caso: impiccagione di Gaetano Ripoll in Spagna 26 luglio 1826; repressione durata quindi 14 secoli).

Nel 529 Giustiniano ordinò a tutti i sudditi dell'impero di farsi cristiani, sotto pena di confisca dei beni e di perdita dei diritti civili: nella sola Asia Minore circa 70.000 pagani furono così battezzati.

Alla chiesa è propria una storicità autentica. Però non può essere circoscritta da nessuna epoca, è neutrale dinanzi alle diverse culture, ma non indifferente: deve portare Cristo ad ogni epoca e ad ogni cultura, con animo aperto e in vicinanza di cuore. Deve mantenersi in giusto equilibrio fra il distacco dal mondo e il consentimento al mondo. In questo spazio ideale vi è posto per santi e per peccatori, per vittorie e per sconfitte.
"Solo un accecamento stolido e volontario può quindi portarci ad affermare la condanna globale per altro impossibile dal punto di vista scientifico della storia della chiesa postcostantiniana e, in modo particolare, dell'epoca papale medievale" (Lortz).
"Lo slancio missionario, la passione con cui furono affrontati e risolti problemi religiosi e teologici e soprattutto - lo sviluppo assunto dal monachesimo e il grande numero dei santi di questo periodo, conferiscono al tempo postcostantiniano, nonostante le sue molteplici debolezze e pericoli, i caratteri di una grande epoca della storia della chiesa, piena di dinamica e spirito cristiani" (Franzen).

Conflitti, eresie, scismi

Il fascino della chiesa dei primi secoli e particolarmente della comunità di Gerusalemme fu sempre vivo e operante in tutti i secoli fra i credenti.

  • A quell'esperienza fecero appello i monaci orientali ed occidentali per giustificare la loro scelta di vita;
  • a quella comunità apostolica si ispirarono i movimenti rinnovatori dei secoli XII XIII, sfociati in tensioni fortissime antigerarchiche in alcuni ed in una testimonianza evangelica autentica in altri (san Francesco, san Domenico);
  • a quel periodo si richiamarono i vari riformatori dei secoli XV e XVI (fra questi anche Lutero) per denunciare la decadenza della vita ecclesiale esistente nella propria epoca.

Di conseguenza nacque una convinzione, in parte ancora diffusa, che la chiesa 'ideale', la chiesa 'modello e vera' va ricercata in quella dei primi secoli, soprattutto in quella apostolica.
Una simile impostazione (in parte anche emotiva) non è storicamente esatta. La chiesa apostolica costituisce senz'altro un periodo fondamentale per la storia della chiesa, data la presenza e la testimonianza degli apostoli. Da questa realtà nacque quella ansiosa ricerca della fedeltà alla tradizione trasmessa dai 'dodici' e di conservare intatto il deposito della fede da loro insegnato. Di qui l'affermazione: "credo nella chiesa apostolica". Pertanto sul piano della fede la chiesa apostolica rimane un punto fisso ed orientativo per i credenti di ogni tempo.
Sul piano operativo i credenti non sempre hanno dimostrato questa fedeltà! Anche nella chiesa dei primi secoli si sono verificate infedeltà, divisioni, scismi e crisi notevoli. Basti pensare, come esemplificazione, alle 'mormorazioni' sorte per la trascuratezza in cui erano lasciate a Gerusalemme le vedove elleniste e soprattutto alla animata divergenza sorta tra giudeo cristiani e cristiani gentili, rappresentati da Paolo e Barnaba, in merito alla circoncisione. L'assemblea di Gerusalemme fu ravvivata da una 'animata discussione', che continuò ancora come opposizione all'operato di san Paolo. E le divisioni nella chiesa di Corinto, l'episodio dell'incestuoso, non costituiscono una prova della chiesa primitiva 'peccatrice'?
Non è esistita nemmeno fin dagli inizi una chiesa di tutti santi e di perfetti, ma una chiesa in cui l'eroismo (martirio e verginità) si è congiunto al tradimento (i lapsi ed i traditores nel tempo di Decio e Diocleziano), alle separazioni dolorose (eresie molteplici del II e III secolo), alle lotte intestine anche ai vertici di chiese apostoliche (esempio scisma di Novaziano a Roma nella metà del III secolo durante il pontificato di Cornelio). La chiesa dei primi tre secoli è ‘santa e peccatrice’, una chiesa in cui la zizzania si mescola al buon grano. La chiesa è semper reformanda; non deve essere considerata come un qualcosa di statico e di permanente o di perfettamente realizzato: il dinamismo e lo sviluppo costituiscono un dato permanente della chiesa dei primi secoli.
Evidentemente il concetto di una comunità ecclesiale in continuo sviluppo va precisato e rettamente inteso. La parabola evangelica del grano di senapa che cresce fino alla maturazione può essere un utile paradigma per considerare la storia della chiesa. In altre parole questo costante sviluppo nella vita della chiesa si verifica sempre nell'ambito della propria originaria natura voluta da Cristo; non è un mutamento che rinneghi il germe iniziale o ne deformi le caratteristiche fondamentali. "Come il seme di frumento germoglia e spunta, mette stelo e spiga, ma resta sempre frumento, così l'essenza della chiesa si realizza nel processo storico in forme variabili, ma rimane uguale a se stessa " .
Tradizione e novità, in stretta collaborazione, si presentano anche nella chiesa antica. E valori ed insegnamenti furono assunti anche dalla cultura e dal mondo greco romano (cfr. Gaudium et spes, n. 44).
Lo sviluppo pertanto non si rivelò come segno di imperfezione, bensì indizio di vitalità. In altre parole la chiesa si qualificò come organismo vivo e creativo anche se nel contesto di questa vitalità non mancarono debolezze e peccato. Questa coscienza di una chiesa in sviluppo ha per noi, oggi, un significato pedagogico, perché serve a tener viva la necessità, nella chiesa di ogni epoca, di una continua riforma, di un continuo progresso, di uno spirito creatore nell'assoluta fedeltà a Cristo. Nello stesso tempo la descrizione degli errori commessi e delle lacune riscontrate non costituisce una denigrazione ed una valorizzazione, bensì la presa di coscienza che la chiesa terrestre e visibile è una realtà pellegrinante ed in cammino verso la perfezione celeste. Qui in terra non è mai esistita né mai esisterà una chiesa assolutamente perfetta.

Eresie
Quando Paolo dovette annunciare il lieto messaggio agli uomini filosoficamente colti nell'areopago (At 17), si richiamò ad espressioni familiari agli uditori; si servì cioè di concetti 'filosofici' ('Dio ignoto'; 'cercare Dio'; 'in lui viviamo, siamo, ci muoviamo') per annunciare il messaggio religioso della rivelazione. Il voler penetrare e fondare la rivelazione con i mezzi della ragione costituisce il problema della teologia scientifica in genere, il problema dell'ambiente culturale greco, il problema dei rapporti tra ragione e fede. E' sorto il problema del rapporto tra ragione e fede.
Ma appena si pone questo problema sorge anche un pericolo: quello che si può chiamare il razionalismo (credere di poter tradurre completamente le verità rivelate in termini concettuali). "Il razionalismo religioso tende a giustificare le verità della fede attraverso la riflessione, quando addirittura non affermi il fondamento esclusivamente razionale di tali verità, negando la necessità della rivelazione"     
D'altra parte vi furono sempre dei teologi che avvertirono meno forte il bisogno di penetrare filosoficamente la fede e nei quali invece particolarmente forte fu il senso della tradizione. Dove questa tendenza fu eccessivamente accentuata s'incorse in un secondo pericolo: il fideismo, "teoria e atteggiamento che accentuando il distacco tra verità religiose rivelate e verità filosoficamente razionali, tende alla svalutazione della ragione, rispetto alla fede, considerata forma di conoscenza superiore e autentica".
"Per la chiesa nessuna di queste due soluzioni estreme poteva essere accettabile. Il razionalismo significa, in ultima analisi, rinuncia alla rivelazione; accettarlo sarebbe equivalso ad un suicidio. Il fideismo, a sua volta avrebbe significato un’insopportabile restrizione; esso inoltre nel corso della storia della chiesa, si convertì regolarmente nel peggiore razionalismo. Anche qui la chiesa rimane fedele al suo intrinseco razionalismo (sistema del giusto mezzo). E così affermò la teologia. Lo sviluppo, in fondo sempre singolarmente lineare, delle enunciazioni dogmatiche è stato più sorprendente (e perfino indizio di una guida divina) in quanto anche i più attivi e i più santi capi della chiesa, riguardo a un dato problema, non sostennero sempre quella tesi che poi avrebbe trionfato, o non ne riconobbero sempre la portata. Da questo sviluppo in un certo senso, si può addirittura dedurre l'importanza positiva dell'errore nella storia" (Lortz I p. 120 121).

 

Giudaizzanti ed ellenisti
Nella comunità primitiva di Gerusalemme si affrontavano due tendenze contrapposte:

  1. quella dei giudaizzanti che facevano capo a Giacomo il minore, cugino del Signore, vescovo di Gerusalemme, si impegnavano a ricondurre il messaggio cristiano nell'alveo rassicurante della tradizione giudaica, fedele alle osservanze imposte dalla legge ed alle pratiche cultuali del tempio; si proponevano di evitare qualsiasi contatto inquinante con i pagani imponendo loro di adottare misure di purificazione come la circoncisione;
  2. quella degli ellenisti, cioè quei cristiani di cultura greca, provenienti dalla diaspora, più aperti al nuovo.

I giudaizzanti conservatori, osservanti della circoncisione, costituirono una chiesa di giudeo cristiani con le sue pratiche e le sue credenze che trovarono espressione in una teologia dalle forme marcatamente semitiche. Nel 49 in un’assemblea degli Apostoli a Gerusalemme, si stabilisce il principio che i pagani convertiti non debbano essere obbligati alla circoncisione e alla legge di Mosè. Da quel momento si delinearono due tendenze tra i giudeo-cristiani:

  1. quella dei veri credenti che si ritenevano personalmente in obbligo di osservare la legge di Mosè, fedeli alle tradizioni del loro popolo,
  2. quella degli eretici che non ammettevano che si potesse credere in Cristo senza perciò stesso passare all’ebraismo mediante la circoncisione e l’osservanza della legge mosaica.

Tra gli Ellenisti si distingue Stefano, lapidato quando osò dire che l’Antico Testamento era stato abrogato dall’opera di Gesù. La morte di Stefano fu il segnale di una persecuzione che si abbatté sulla comunità di Gerusalemme, colpendone soprattutto i membri ellenisti. Erode Agrippa, ultimo re dei Giudei, fa arrestare Pietro e Giacomo detto il Maggiore figlio di Zebedeo, fratello di Giovanni evangelista, che viene ucciso di spada il 44 (è venerato soprattutto in Spagna a Compostella, dove è sepolto e dove sorge la celebre basilica a lui dedicata), mentre Pietro riesce a fuggire e va altrove” . Per 20 anni a Gerusalemme è presente Giacomo il Minore, fedele alle tradizioni giudaiche, fino al 62, quando, per l’odio del sommo sacerdote Anano, subì il martirio: è precipitato dal pinnacolo del Tempio, lapidato, ucciso a colpi di mazza. Morendo prega per i nemici.
Secondo gli ellenisti, con l'avvento del cristianesimo, era giunto il tempo di abolire il tempio e la legge, le istituzioni fondamentali ma ormai superate del giudaismo, i cui capi avevano rifiutato ed ucciso Gesù. Essi sostenevano che in Gesù si era manifestata la Sapienza di Dio: il Regno di Dio era già venuto, e con il sacramento del battesimo si anticipava la resurrezione. Ciò comportava l'abbattimento di tutte le barriere (non v'è più né giudeo né greco...) ed il correlativo rifiuto del matrimonio e della generazione.
In tale contesto prende piede la prassi dei cosiddetti matrimoni spirituali, o convivenze ascetiche. Gli ellenisti praticavano inoltre la povertà e la condivisione dei beni. Visionari, estatici, carismatici, in possesso del dono della glossolalia, gli ellenisti diedero spazio anche al profetismo femminile.

Gli encratiti ('coloro che si astengono') costituiscono una setta con connotati ascetici, il cui fondatore fu probabilmente l'apologista siriano Taziano che disprezzava la cultura greca e rifiutava di considerare la filosofia greca come un supporto della teologia cristiana. Scomunicato nel 172, pratica un rigorismo ascetico. Fino a che l’encrateia non veniva posta come un’esigenza necessaria alla salvezza, la chiesa poteva tollerarla o – in casi sporadici come l’autoevirazione di Origene – scusarla come un’eccessiva infatuazione ascetica. Gli encratiti rifiutavano il matrimonio e i rapporti sessuali in genere, ma si astenevano anche dalla carne e dal vino che nell'Eucaristia sostituivano con acqua (da qui la denominazione di acquariani).

Tra le due posizioni estreme dei giudeo cristiani conservatori e degli ellenisti, divenuti in seguito encratiti o, addirittura, veri e propri gnostici, si colloca la tradizione ortodossa che giustamente si riconosce nelle figure dei grandi apostoli Pietro e Paolo.

Gnosi/gnosticismo
La gnosi ci si presenta come una conoscenza superiore, esoterica che riguarda teorie segrete, una «sapienza» che pretende di penetrare i segreti ultimi delle cose; ha per oggetto i misteri divini ed è riservata a un gruppo di eletti. Lo gnosticismo, invece, è l'insieme di varie correnti religiose e mistiche che, dal secolo II, si incontrano con il Cristia­nesimo: l'elemento comune di questi sistemi è appunto la credenza nella gnosi co­me fonte privilegiata della salvezza, superiore alla fede, alle opere e ai riti.
Fino a buona parte del' 900, gli autori gnostici erano conosciuti soprattutto attra­verso la confutazione degli scrittori ecclesiastici e apologisti, come Giustino, Ireneo, Ippolito di Roma e altri. Non era quindi fa­cile ricostruire e valutare storicamente il complesso del pensiero gnostico.
Nel 1945 un contadino che cercava fertilizzante scoprì per caso dodici prezio­sissimi codici e frammenti copti vicino a Nag Hammadi, nell'Alto Egitto (presso Luxor). La collezione, che vi era stata depositata verso il 400, conteneva una cin­quantina di testi, che gettano viva luce sulle credenze e pratiche gnostiche.
Questi documenti rivestono una grande importanza perché hanno fatto cono­scere dati nuovi e diversi da quelli finora noti, tali da costringere a un riesame del pro­blema storico dello gnosticismo e dei suoi rapporti con il primitivo Cristianesimo.
In particolare, tra gli altri, sono stati pubblicati il Vangelo di Tommaso, il Vangelo di Filippo e il Vangelo di Maria (Maddalena): il primo contie­ne solo alcuni detti; il secondo è una specie di trattato; il terzo riporta insegnamenti attribuiti a Cristo risorto. In essi si nota lo sforzo degli gnostici di eliminare gli aspetti apocalittici dal Vangelo e di considerare l'escatologia cristiana come già rea­lizzata.
Il problema dell'origine
Nonostante questa nuova documentazione, lo gnosticismo non è ancora chiari­to del tutto. Le difficoltà storiografiche si riflettono anzitutto sul problema dell'o­rigine di tale movimento. In passato sono state formulate varie ipotesi. Allo stato at­tuale degli studi, non sono più valide quelle di una origine ellenica (Harnack) oba­bilonese persiana (Bousset); neppure è accettata la tesi di un movimento anonimo di sincretismo tra religioni diverse.
È vero però che la gnosi è alimentata da influenze ellenistiche e orientali, e che era costituita, come ogni sincretismo, da sistemi aperti a tutte le influenze, non escluse quelle cristiane.
Si è pensato che lo gnosticismo sia nato in quelle regioni dove ha avuto il suo campo di azione e i suoi centri di diffusione, cioè in Siria e in Egitto, luoghi vicini alla Palestina e quindi suscettibili di influenze giudaiche.
Peterson propende per un'origine giudaica: lo gnosticismo si sarebbe svi­luppato da un fondo dottrinale, collegato con la cosmogonia biblica, interpretata in tradizioni segrete confluite poi nel Talmud. In effetti, c'è una somiglianza fra queste dottrine gnostiche e gli elementi eterodossi giudaici. Dal fondo comune sono poi sorte le diverse correnti, aperte alle più svariate influenze: dall'astrologia caldea al pensiero ellenico e cristiano.
Lo studioso americano Grant sostiene che lo gnosticismo ha avuto origine da una crisi del pensiero apocalittico giudaico, in particolare dal crollo delle speranze apoca­littico escatologiche seguito alla caduta di Gerusalemme. Egli mostra che la conce­zione gnostica del mondo celeste scaturisce da considerazioni che si ricollegano al ca­lendario e che si riferivano a certe linee caratteristiche dell'apocalittica giudaica.
Caratteristiche principali
Le difficoltà del problema gnostico si rivelano anche nel tentativo di individua­re le linee fondamentali del suo sistema, giacché:

  • non si tratta di un unico movimento religioso filosofico, ma di una proliferazione di movimenti eterogenei;
  • tali correnti di pensiero sono espresse in sistemi astratti e fantasiosi, alieni dalla concretezza del genio romano e dalla lucida razionalità del genio greco;
  • lo gnosticismo copre questa vasta diversità di forme dall'Occidente (Gallia) all'Oriente (Iran), e dal I al IX secolo.

Più che analizzare i singoli sistemi, giova evidenziare quelle caratteristiche fondamentali che ci danno una sufficiente idea o fisionomia comune a tutto l’insie­me del movimento gnostico.
• Il punto di partenza e il fattore prevalente è costituito da una antropologia: vi è un'attenzione all'uomo nella sua condizione concreta, ma considerata in rap­porto al problema della sua origine nel mondo e al suo destino ultraterreno; si ricerca una spiegazione del problema del male e del suo superamento.
• Strettamente legata all'antropologia c'è quindi una cosmogonia. L’interesse marcato per le teorie sull'origine del cosmo è comune a tutti gli gnostici. Essa non è posta in relazione a Dio, ma in contrapposizione a lui; la creazione non sarebbe stata voluta da Dio ma sarebbe la conseguenza di una degradazione co­smica per la caduta di una delle potenze che emanano da Dio. Questo mondo è opera di un dio inferiore; in seguito ad una catastrofe avvenuta nella sfera superiore, cioè nell'autentico mondo della luce, egli creò il cosmo materiale come un prodotto funesto. Quindi tutta la creazione è male e corruzione, e l'uomo ne è prigioniero.
• Tra Dio e il mondo esiste perciò una opposizione, un dualismo irriducibile, come fra luce e tenebre, tra bene e male, tra pienezza e caos. Vi sono tuttavia delle gerarchie intermedie: o come potenze che emanano da Dio, o come 365 mondi degradanti (Basilide), o come generazioni di eoni (idee) che procedono da Dio a coppie (Valentino). E’ questo il lato più fantastico e soggettivistico del­lo gnosticismo.
• Poiché il problema fondamentale dell'uomo è la sua salvezza, l'antropologia è collegata anche a una soteriologia. L’uomo può salvarsi mediante l'aiuto di un messaggero di Dio o eone salvatore, che lo aiuterebbe a compiere questa liberazione o fuga dal mondo visibile e a raggiungere la salvezza (concepita come disincarnazione, evasione dalla storia). Tale salvezza ha carattere intellettuale ed è frutto della gnosi; non è quindi possibile a tutti. Gli uomini, infatti, sono fatalisticamente divisi in tre classi: pneumatici, psichici, ilici. I pneumatici pos­siedono un germe divino (pneuma) e sono i soli a comprendere che l'anima è straniera nel mondo, i soli che vengono assorbiti dalla pienezza divina. Gli psichici, invece, nonostante una certa tendenza, non riescono a disincarnarsi, poiché sono uomini terreni, formati di anima e di corpo corruttibile, dal qua­le non riescono a liberarsi. Gli ilici, infine, sarebbero uomini senz'anima che tendono esistenzialmente alla materia.
• La soteriologia gnostica include anche una cristologia, in quanto la potenza salvatrice è identificata con Cristo, ma con un Cristo deformato: di qui la radicale opposizione con il Cristianesimo. Infatti, il dualismo fondamentale rende impossibile e inconcepibile l'idea di una incarnazione del Verbo, e dunque incomprensibile il mistero della croce, della risurrezione, della redenzione. In sostanza, la cristologia gnostica non può essere che docetista: il Verbo avreb­be assunto solo una carne apparente, non un vero corpo.

Lo gnosticismo e il cristianesimo
Gli gnostici hanno guardato con simpatia e interesse al Cristianesimo, ne hanno utilizzato alcune idee morali, hanno rivestito le proprie dottrine con espressioni evangeliche. Valentino ha commentato il Vangelo di san Giovanni; altri lo hanno imitato componendo propri vangeli. Il manicheismo ha composto bellissimi inni a Gesù. Tuttavia il dato cristiano è completamente svisato: è stato sovrapposto a sistemi già compiuti, è stato svuotato e deformato. Le coincidenze sono nominalismi inse­riti in un contesto del tutto diverso.
Ciò che maggiormente ha preoccupato gli apologisti cristiani fu appunto questa falsificazione del dato cristiano, che gli gnostici presentavano come conoscenza su­periore (= gnosi). Per questo sant'Ireneo ha intitolato la sua opera Adversus haereses, nel titolo originale greco: «Ricerca e smascheramento della falsa gnosi». Proprio co­me reazione sorge il primo tentativo serio di una teologia cristiana che vede nella tradizione apostolica e nella Chiesa l’nterpretazione esatta della Rivelazione.
Anche sul piano disciplinare la reazione allo gnosticismo ha dato i suoi frutti:

  • ri­forma della disciplina catecumenale e liturgica per una scelta e una preparazione più oculata dei candidati al Battesimo e agli Ordini;
  • nella celebrazione dei misteri cri­stiani fu adottata la disciplina dell'«arcano» per impedire l'accesso agli estranei;
  • contro la letteratura apocrifa si stabilisce il Canone dei Libri Sacri, in particolare dei quattro Vangeli.

Certo, lo gnosticismo ha costituito un pericolo grave per i cristiani più deboli e meno formati: in alcuni ambienti l'idea dell'anima «straniera nel corpo» esercitava un grande fascino. Tutto considerato, però, la Chiesa uscì dalla prova più sicura e più salda di prima, con una dottrina più chiara.
Sopravvivenza gnostica
Come movimento religioso, lo gnosticismo si è prolungato nel manicheismo, ma, dopo la lotta di sant'Agostino, fu definitivamente superato.
Come mentalità, invece, è sopravvissuta in certe sette orientali; è filtrata nelle ere­sie medievali del catarismo e degli albigesi, nelle sette dei Pauliciani (si chiamano così per i tentativi di ricollegarsi all'apostolo Paolo, si diffondono in Armenia dal VII al XII secolo, giungono in Bulgaria nel secolo X), dei Bogomili (da Bogomil, il prete che li ha organizzati nei Balcani dove fioriscono nei secoli XII e XIII), in quelle di John Wycliffe e Jan Hus e dei movimenti protestanti, con il richiamo all'idea di una Chiesa invisibile; è penetrata perfino nell'Illuminismo come forma di spiritualismo razionalista.
Questa mentalità gnostica nasconde una problematica vivissima per l'uomo di ogni tempo: è l'esigenza di conoscere il significato ultimo della vita e della storia, il bisogno di superare il mondo in un'ansia di salvezza, l’inconscio richiamo alla vi­sione biblica e cristiana dell'uomo.
Si può dire che questa eresia non si è mai estinta del tutto.

Manicheismo
L’idea fondamentale del messaggio manicheo: offrire una via sicura per liberarsi dal male che è nel mondo e una redenzione per mezzo di una vera gnosi. Pretendeva di essere la più universale di tutte le religioni e prometteva a tutti i popoli la salvezza.
Risale al persiano Mani. A 12 anni avrebbe ricevuto dallo Spirito il primo invito a separarsi dagli Elchasaiti (setta di giudeo-cristiani che viene fatta risalire ad un certo Elchasai che svolse la sua attività intorno ai primi decenni del II sec. nei territori di confine tra i Siri e i Parti; nella dottrina della setta sono presenti notevoli e chiari elementi giudaici, vi sono anche innegabili influssi cristiani e la rivelazione della guerra tra la luce e le tenebre).
Nel 240 circa avrebbe ricevuto l'ordine di proclamarsi apostolo della luce e della salvezza, si convertì abbandonando lo Zoroastrismo ortodosso cercando di fondare una nuova religione universale. Fu esiliato, andò in India e là conobbe il Buddismo; fu poi richiamato. In un primo tempo riuscì anche a guadagnare alla sua causa il re Persiano Sapore I che in seguito però gli divenne ostile. Il suo successore Baharam invece lo fece giustiziare per eresia. Venne arrestato, incatenato ai polsi, ai piedi e al collo. Il suo fisico non resse. Del suo corpo decapitato e disperso i fedeli non poterono raccogliere che poche reliquie.
Il manicheismo è un sincretismo di dottrine giudeo-cristiane ed indo-iraniche. La salvezza si esprime in forma apparentemente molto complicata.
Mani sostenne un rigoroso dualismo e considerò il processo cosmico come una lotta perenne tra luce e tenebre, tra spirito e materia, tra bene e male forze opposte che si disputano il dominio sull'anima dell'uomo; l'uomo può vincere il male e aumentare la luce solo astenendosi dall'uso della materia, intrinsecamente cattiva, dalla carne, dal vino e dal matrimonio. L'idea fondamentale del messaggio, quello cioè di offrire una via sicura per liberarsi dal male che è nel mondo e una redenzione per mezzo di una vera gnosi, erano concetti familiari all'uomo del III e IV secolo. Per Mani tutti i maestri della religione, compreso Gesù Cristo, avevano mostrato agli uomini come raggiungere il mondo della luce per mezzo della pratica ascetica.
L'illuminazione si trasmette nell'Appello alla Giustizia da parte degli Eletti manichei alla massa degli Uditori, integrati ad essi per via delle «elemosine». Gli eletti si distinguono in Maestri, Vescovi, Sacerdoti, Veridici: sotto un Archegos, rappresentante in terra di Mani nella sede di Babilonia. Le elemosine, la preghiera e il digiuno contraddistinguono l'etica religiosa manichea.
Poiché Mani non permetteva ai suoi seguaci di appartenere ad un'altra religione, la situazione della chiesa di fronte al manicheismo era diversa da quella che si era prodotta nella lotta contro lo gnosticismo del II secolo. Non c'era da temere tanto un'infiltrazione di singoli manichei nelle comunità cristiane allo scopo di disgregarle dall'interno, quanto la diretta apostasia o il passaggio alla religione manichea, cui miravano palesemente i missionari di questa che si erano infiltrati nell'impero romano, soprattutto in Siria ed Egitto. Anche Agostino aderì inizialmente a tale dottrina e si attenne ai suoi insegnamenti per circa dodici anni prima di abbracciare la fede cattolica. Non si può riscontrare peraltro nell'ambito di questo movimento alquanto settario, pervaso di elementi astrologici e contraddistinto da un eccesso di ascetismo, nessuno spunto di sovversione o immoralità.
Il modo piuttosto semplicistico di affrontare la questione del male rese il manicheismo un facile bersaglio degli intellettuali.
Il manicheismo si diffuse ben presto in Siria e in Palestina. L'avanzata manichea nell'Africa settentrionale provocò un severo editto di Diocleziano nel 297, che condannava i manichei quali agenti della Persia e infliggeva loro la pena capitale.

Marcionismo
Si ispira al docetismo (δοκεω=sembrare, assumere l’apparenza di) che nega l’umanità di Gesù Cristo.
Il nome viene da Marcione. Nel 144 fu escluso dalla comunità di Roma che gli restituì integralmente la donazione e lo scomunicò; fondò quindi una propria chiesa, che si espanse rapidamente e rappresentò per qualche tempo la concorrente più pericolosa della grande chiesa cristiana.
La dottrina si basa su una netta separazione della sacra Scrittura, della quale fu escluso fin dall'inizio tutto l'Antico Testamento, poiché in esso parla il Dio della giustizia, il creatore dell'universo, al quale sono estranee la carità e la bontà. Il Dio buono si rivelò solamente quando mandò come salvatore il Cristo, che portò all'umanità tormentata il Vangelo dell'amore di Dio. Il Vangelo di Gesù, che è incentrato sull'amore, si distingue nettamente dal legalismo giudaico, ma venne abbandonato dopo la sua morte dai discepoli, tutti di formazione giudaica. Solo con Paolo l'equilibrio venne ristabilito e Marcione comprese il cristianesimo attraverso gli insegnamenti di Paolo.
Per Marcione l'idea che Cristo, il salvatore mandato dal Dio buono, avesse eletto l'impura carne come portatrice della divinità era inammissibile. Gli avversari cristiani di Marcione, che dalla sua teoria della nascita apparente di Cristo arguivano anche la sua morte apparente sulla croce e quindi l'inefficacia della redenzione, erano difficilmente confutabili, anche se Marcione non voleva contestare la realtà della morte in croce di Cristo. Il severo rigorismo etico, basato su una dualistica ostilità verso il corpo, che caratterizza il Marcionismo, gli procurò molti seguaci fanatici.
Ai lettori moderni l'approccio marcionita al Vangelo appare assolutamente indifendibile e venato per di più di antisemitismo (è mai esistito un Paolo che abbia rifiutato l'Antico Testamento?), ma la sua chiara e radicale soluzione della tensione tra Antico e Nuovo Testamento mediante l'eliminazione dell'autorità del primo ebbe un certo successo tra i contemporanei, e la compilazione del suo canone neotestamentario indusse gli avversari a reagire con tempestività, formulando loro proprie considerazioni sulla questione.

Montanismo
Questa setta costituì nel II sec. una reazione in senso conservatore alla crescente autorità dei vescovi e al canone neotestamentario.
Riprende una forma di entusiasmo religioso conosciuta e vivamente apprezzata fin dai giorni della comunità primitiva, per la quale alcuni membri delle comunità cristiane apparivano come uomini dotati di particolari carismi, tra cui la profezia; essi ponevano questi loro doni al servizio di un’intensa vita comunitaria. Montano, fondatore del movimento, un prete pagano convertito, profeta rivelatosi improvvisamente in Frigia, asseriva di essere il portavoce dello Spirito Santo e che nella propria persona si incarnasse il Paraclito promesso in Gv 14,26.
Lo Spirito Santo parlava alla chiesa anche attraverso due donne associate a lui, Massimilla e Priscilla.    
Il Montanismo rimproverava alla chiesa di essersi troppo mondanizzata e cominciò a predicare una severa riforma morale e ascetica che condannava la fuga dinanzi alla testimonianza di sangue ed esigeva che il cristiano si presentasse volontariamente al martirio, anzi vi anelasse addirittura. Fece anche risorgere a nuova vita la tensione escatologica vissuta dalla chiesa primitiva. I montanisti, riuscirono a conquistare un uomo spirituale e stimato come Tertulliano, che da allora in poi cominciò a combattere con veemenza la grande chiesa per la sua presunta rilassatezza morale e la sua prassi penitenziale.

Pelagianesimo e semipelagianesimo
Controversia sul libero arbitrio e la grazia e sulle questioni di antropologia e soteriologia, è l'insegnamento di Pelagio e dei suoi seguaci.
Pelagio, nato in Britannia, e battezzato a Roma dove visse a lungo, fu una delle voci più ascoltate del tempo. Monaco austero, inizialmente reagì alla dottrina eccessivamente fatalista dei manichei; quindi sottolineò l'importanza dello sforzo personale e della libera volontà di cui l'uomo era stato dotato da Dio fin dalle origini. Il peccato originale: solo un cattivo esempio! L'uomo ha piena capacità di operare il bene. Pelagio è ottimista circa le capacità morali dell'uomo, sul cui fondamento egli può realizzare quanto Dio esige da lui. Muore nel 420. Celestio, suo seguace, si spingeva fino al punto dì negare la remissione dei peccati operata dal Battesimo e la trasmissione del peccato originale. Agostino polemizzò contro le dottrine pelagiane e il suo insegnamento assumeva sempre di più connotati predestinazionisti. Papa Innocenzo I scomunica Pelagio. Dal momento però che il suo successore Zosimo sembrava più esitante nella condanna del pelagianesimo, i vescovi africani, riuniti a Cartagine sotto la guida di Agostino, riaffermano solennemente la condanna della dottrina di Pelagio. Agostino arriva ad affermare che i pelagiani annullavano la croce di Cristo: "Se qualcuno può essere giustificato senza la croce, per merito della legge naturale e per la libera scelta della sua volontà... allora Cristo è morto per niente".
Il concilio di Efeso del 431 condannò Celestio.
L'aspirazione fondamentale di Pelagio e dei suoi seguaci è espressa in forma concisa nella lettera di un uomo che aveva aderito giovanissimo al movimento; egli sa ora quomodo verus christianus esse possim. Questo cristianesimo puro e integrale è concepito dai pelagiani come opposizione ai cristiani medi e 'mezzicristiani' che ritengono:

  1. solo ricevere il battesimo è garanzia di salvezza;
  2. ­è praticamente impossibile evitare i peccati nelle tentazioni di tutti i giorni;
  3. la vita cristiana perfetta è solo di una élite.

A questo letargo di rassegnazione Pelagio e la sua cerchia contrappongono un ideale morale che è determinato da una visione estremamente ottimistica nella valutazione della natura umana e delle sue capacità, che porta coerentemente ad un appello alla volontà d'azione dell'uomo.

  1. Il cristiano si salva se con le sue forze adempie i mandata di Dio. La capacità viene da Dio.
  2. Dio infatti ha dotato la natura umana di una naturalis sanctitas: libero arbitrio, facoltà di giudicare del bene e del male.
  • C'è la vita esemplare di Cristo che stimola alla 'perfetta giustizia'. Richiama continuamente la 'ricompensa celeste'.
  1. I comportamenti che il vangelo esalta come segno di perfezione 'continentia, castitas e paupertas', sono per Pelagio ideali di tutti i cristiani.
  • Pelagio propugna fondamentalmente un puritanesimo morale che si deve attuare in una chiesa senza macchia e senza difetti (si avvicina a Novaziano).
  1. Vuole liberare il cristianesimo dal sospetto di manicheismo, che può derivare dall'assegnare un ruolo troppo importante al peccato originale il quale invece è solo un cattivo esempio, e la grazia di Cristo è anche solo un esempio positivo.

Contro queste dottrine insorse Agostino che convinto della indegnità dell'uomo e della sua incapacità di operare il bene senza l'aiuto divino, irrigidì il concetto della grazia e della predestinazione e sostenne che gli uomini sono destinati a perdersi, massa damnationis, e che solo pochi eletti si salveranno.
Nel medioevo i seguaci della dottrina agostiniana tentarono di smussare le asprezze del suo insegnamento, mentre nell'età della Riforma il protestantesimo acquisì volentieri la dottrina della predestinazione.
Il termine 'semipelagiano', entrato nell'uso nel secolo XVII, insinua collusione col pelagianesimo. E' onnicomprensivo e perciò abbastanza impreciso per indicare il movimento anti agostiniano, una dottrina compromissoria, fatta di proposizioni pelagiane attenuate o camuffate.
Si riluttava a credere nella predestinazione e nella limitazione dell'universalità della vocazione divina; riusciva penoso a monaci impegnati nella pratica quotidiana dell'ascesi negare la partecipazione della volontà all'opera della salvezza e il merito delle virtù pragmatiche.
Centri principali: l'isola di Lérins e Marsiglia. Fiorì nel V secolo. I semipelagiani accettavano il fatto che la grazia fosse necessaria per la salvezza, cosa che invece i pelagiani radicali negavano recisamente. Nello stesso tempo insistevano sul fatto che gli uomini avessero la facoltà di cooperare con gli effetti della grazia, compiendo da soli i primi passi verso la salvezza. Il desiderio di salvezza dell’uomo è un atto della sua propria volontà. La predestinazione è frutto della prescienza divina.
Insegnano: Cristo è morto per tutti, e tutti sono chiamati alla salvezza. Dio crea l'uomo non solo dandogli il libero arbitrio, ma un bonum naturae, inclinazione al bene, capacità di discernere tra bene e male.

 

Scismi
Oltre alle eresie, all'epoca della chiesa antica, si verificarono anche numerosi scismi. Lo scisma (divisione) si distingue dall'eresia perché in esso, il contrasto non riguarda la dottrina, ma la prassi e l'ordinamento ecclesiastico. Accadeva che l'unità della chiesa si spezzasse, nonostante l'accordo sul piano dogmatico. Il termine compare per la prima volta nel II secolo. Fra gli scismi più famosi dell'antichità quello di Novaziano e il donatista.

Disputa sulla celebrazione della  pasqua
E' chiamata anche controversia quartodecimana, letteralmente, controversia del quattordicesimo giorno. Si tratta di una disputa che ebbe luogo nell'ambito della chiesa durante il II secolo, riguardante la collocazione del giorno della pasqua.
Alla fine del III secolo quasi tutte le chiese particolari festeggiavano la pasqua la domenica successiva al plenilunio di primavera per sottolineare la novità del cristianesimo; soltanto in alcune regioni dell'Asia Minore e della Siria la pasqua cristiana era celebrata nel giorno della pasqua ebraica, vale a dire il 14 di Nisan (quartodecimani = chi festeggia il 14º giorno). Si trattava di tradizioni diverse. La questione venne affrontata a Roma dal vescovo locale Aniceto e dal vescovo di Smirne Policarpo. Non si trovò alcuna soluzione e si mantenne la distinzione delle due tradizioni. Il vescovo di Roma Vittore I (189 199), sotto minaccia di scomunica, intimò con un ultimatum alle chiese minoritarie di conformarsi alla prassi della chiesa romana e della maggioranza delle altre chiese. Per un certo periodo le chiese d'Asia continuarono la loro pratica abituale, ma alla fine quelle che non vollero conformarsi provocarono uno scisma. La controversia che Vittore aveva tentato di risolvere per vie legali era in effetti di notevole rilevanza se si considera che intorno alla data della Pasqua ruota poi tutto l'anno liturgico.
Ciononostante i quartodecimani furono scomunicati soltanto nel I concilio ecumenico di Nicea (325).

 

LA DISPUTA PASQUALE

L'incontro di Policarpo con Aniceto
Policarpo, il vecchio vescovo di Smirne fece un viaggio a Roma sotto il pontificato di Aniceto nel 154. I due vescovi avevano da regolare alcune questioni secondarie che furono presto appianate; ma su di un problema capitale, cioè la questione pasquale, non poterono accordarsi.
Gli Asiatici commemoravano la Pasqua il 14 di Nisan, in qualun­que giorno della settimana cadesse; i Romani la celebravano la do­menica successiva il 14 di Nisan. La diversità di data portava con sé diversità di riti e di feste. La Pasqua era per gli Asiatici il giorno della morte del Signore; in quel giorno essi digiunavano, anche se cadeva di domenica, e rompevano il digiuno soltanto la sera concludendo la solennità con l'Eucarestia e l'agape. I Romani invece consacravano al ricordo della morte e della risurrezione di Cristo i tre giorni del venerdì, del sabato e della domenica: i due primi erano giorni di lutto e di digiuno, mentre la veglia dal sabato alla domenica era una preparazione alla festa della risurrezione che si celebrava la do­menica.
Una tale differenza nella liturgia era tanto più spiacevole, in quan­to che nella comunità romana gli Asiatici erano assai numerosi. Costoro restavano fedeli in maggioranza alla loro usanza particolare. I ve­scovi di Roma tolleravano questa differenza, ma desideravano arden­temente di abolirla.
Policarpo senza dubbio lo desiderava quanto Aniceto, e si può pensare che, se questo vecchio di oltre ottant'anni si decise a muoversi verso Roma, lo fece soprattutto per regolare una questione cosi grave.
Malgrado l'evidente buona volontà da una parte e dall'altra, non si poté giungere ad un accordo.
I due vescovi, ugualmente attaccati alle loro differenti tradizioni, piegarono davanti a quest'ostacolo che pareva insormontabile. Non potendo stabilire l'uniformità liturgica, essi mantennero almeno la pace tra loro.

Le due tradizioni
La questione pasquale però non era definita; anzi il colloquio dei due vescovi aveva messo più chiaramente in luce le tra­dizioni su cui si fondavano le due usanze:

  • gli Asiatici non s'appog­giavano soltanto su un libro anche se questo era il quarto Van­gelo ma sull'evangelista stesso, il discepolo prediletto, e sugli Apostoli che, come lui, avevano osservato quest'usanza;
  • i Romani, da parte loro, risalivano attraverso la successione dei loro presbiteri ai fondatori della loro Chiesa, Pietro e Paolo. Non vi è certo nulla di straordinario che, in due diverse province, due apostoli o due gruppi di apostoli abbiano seguito un calendario liturgico diverso e l'abbiano trasmesso alle loro chiese; ma era assai difficile indurre una delle due chiese ad abbandonare la tradizione che aveva ricevuta dagli Apostoli.

Eppure un tale abbandono era necessario: non si poteva mante­nere indefinitamente nella Chiesa una dualità d'usanze che comportava non soltanto una diversità di date, ma anche una divergenza nell'in­terpretazione della festa pasquale; come ha detto Baumstark, «da una parte mancava la domenica di Pasqua, dall'altra il venerdì santo; in Asia la Pasqua era la crocifissione di Cristo; a Roma invece la sua risurrezione». Indipendentemente dall'autorità degli Apostoli, il co­stume asiatico rimaneva legato al 14 di Nisan, giorno dell'immolazione dell'agnello pasquale e della morte di Cristo; l'uso romano s'appog­giava sulla liturgia della settimana, già familiare ai cristiani, che man­teneva il giorno della morte del Signore al venerdì ed il giorno della sua risurrezione alla domenica.

 

I giudaizzanti a Laodicea
A fianco e a riparo dell'uso quattuordecimano sorge verso l'anno 170 una tendenza giudaizzante che turba certe chiese d'Asia Minore, in particolare la chiesa di Laodicea. Per fronteggiare il pericolo, Melitone scrive un trattato sulla Pasqua. Alla stessa data, Apollinare di Gerapoli, fedele come Melitone all'uso quat­tuordecimano, prende anche lui la penna per combattere i giudaiz­zanti. Clemente d'Alessandria ed Ippolito scrivono sulla Pasqua libri che non abbiamo più, ma che sembrano ugualmente destinati ad esclu­dere l'osservanza giudaizzante dell'agnello pasquale. Da tutto ciò il Duchesne concludeva che «nelle chiese d'Asia, d'Alessandria e persino di Roma, verso la fine del II secolo, si verificò una rivendicazione in favore dell'usanza giudaica dell'agnello pasquale e che ovunque, nelle chiese di rito quattuordecimano, come in quelle di rito dome­nicale, tale rivendicazione fu respinta con l'appoggio del Vangelo di san Giovanni al quale veniva collegato esegeticamente il testo dei Sinottici».

Blasto
Questo fermento e questa confusione, che turbavano la Chiesa intera, rendevano più pericolosa la diversità delle usanze pasquali; rivelavano il pericolo della pratica quattuordecimana, poiché vi era possibilità di lasciarsi indurre a passare da questa alle osservanze giudaizzanti. Lo scisma di Blasto, nella stessa Roma, rendeva ancor più evidente questo pericolo e spiega quindi l'energico intervento di Vittore (189-199).

Iniziativa di papa Vittore
Avvertendo la gravità della situazione, il vescovo di Roma indisse la riunione dei sinodi provinciali. Ovunque, eccetto che nella pro­vincia d'Asia, i vescovi «decisero che il mistero della risurrezione da morte del Salvatore non si doveva celebrare se non la domenica, e che soltanto in quel giorno si sarebbe posto fine al digiuno pa­squale». Nella documentazione risultante da questi sinodi, dice Eu­sebio, figurano lettere dei vescovi di Palestina, dei vescovi riuniti a Roma, dei vescovi del Ponto, delle chiese della Gallia di cui era ve­scovo Ireneo, dei vescovi dell'Osroene e lettere particolari di Bac­chillo, vescovo di Corinto, e di molti altri. Tutti sono unanimi.

Resistenza degli Asiatici
Nonostante l'accordo così generale delle chiese cristiane, gli Asia­tici continuavano a mantenere la loro tradizione particolare. Policrate, vescovo d'Efeso, scrisse in loro nome al vescovo di Roma: questa lettera piena di dolore e di passione rivela la gravità del conflitto. Il quale non fu risolto, nel 154, dal passo fiducioso di Poli­carpo presso Aniceto, malgrado la venerazione del vescovo di Roma per il vecchio vescovo di Smirne, né, nel 190, dall'intervento energico e minaccioso di Vittore, che sembra fallire di fronte alla tenacia di Policrate e dei suoi colleghi d'Asia. Costoro s'irrigidiscono e la loro resistenza trova a Roma stessa un appoggio nel gruppo dei cristiani d'Asia: Blasto vuol romperla con Vittore;  Ireneo, asiatico pure lui, ma che ha adottato la liturgia dei romani e che si preoccupa della pace nella Chiesa, scrive una lettera a Blasto sullo scisma.

Intervento d'Ireneo
Verso lo stesso tempo e sullo stesso argomento Ireneo scriveva a papa Vittore ed a molti altri vescovi. Irritato dalla focosa lettera di Policrate, il vescovo di Roma voleva dar seguito alle sue minacce, scomunicando come eretiche le cristianità di tutta l'Asia e le chiese vicine. Una misura così severa che veniva a colpire delle chiese così venerabili, così numerose e che formavano uno dei principali centri del Cristianesimo, «non piacque a tutti i vescovi ».
Parecchi, dei quali Eusebio poteva ancora leggere le lettere, fecero delle rimostranze molto vivaci; «Ireneo da parte sua scrisse in nome dei fratelli da lui governati in Gallia. Mentre egli è d'accordo con Vit­tore, che il mistero della risurrezione del Signore si celebri di dome­nica, nondimeno rispettosamente lo esorta a non scomunicare intere chiese per la loro fedeltà ad un'antica tradizione»; infine ricordava gli antecedenti che noi conosciamo, la lunga tolleranza che avevano avuto i predecessori di Vittore, l'in­contro fraterno e pieno di mutua deferenza di Policarpo e di Aniceto, e scongiurava il papa di vivere anche lui in pace con gli Asiatici: « Se c'è differenza nell'osservanza del digiuno diceva la fede è la medesima ».

Risoluzione del conflitto
Questa supplica rispettosa fu ascoltata; Vittore si fece onore se­guendo l'avviso del vescovo di Lione, ed ancor oggi la Chiesa è ri­conoscente a sant'Ireneo d'essere stato un pacificatore.
A quale epoca gli Asiatici accettarono l'usanza romana? Non lo sappiamo, poiché la storia non ha più lasciato alcuna traccia della controversia che abbiamo incontrato alla fine del II secolo. Vi saranno ancora dei quattuordecimani, ma essi saranno degli eretici, considerati tali da tutte le chiese. La questione pasquale dibattuta al concilio di Nicea sarà tutt'altra cosa: la celebrazione della Pasqua alla domenica sarà ammessa da tutti e si tratterà soltanto di sapere se, per fissare il computo pasquale, ci si dovrà riferire agli Ebrei, come si usa ad Antiochia, o se il computo si farà indipendentemente da essi, come si pratica altrove, per esempio ad Alessandria e a Roma. Quest'ul­timo sistema fu imposto e la Chiesa venne definitivamente liberata dalla sinagoga.
Il conflitto così doloroso da noi descritto ha mostrato una volta di più l'attaccamento delle chiese alla tradizione apostolica ed ha inoltre rivelato che l'amore dell'unità è ancor più imperioso della fedeltà agli usi tradizionali; e noi abbiamo costatato che questa unità cattolica è sempre più assicurata dalla comunione di tutte le chiese con la sede di Roma”.

Donatismo
Scisma che colpì la chiesa nell'Africa del nord nel IV secolo e all'inizio del V secolo, che perdurò tuttavia almeno fino al volgere del VII secolo e fu il riflesso di divisioni tanto sociali ed economiche che religiose tra i cristiani nordafricani. Era un movimento di protesta che voleva una chiesa santa, una disciplina pura e una resistenza a oltranza contro i capi empi e corrotti. Nato a Cartagine, all'indomani della persecuzione, come gruppo di opposizione ai vescovi colpevoli di traditio, cioè di aver consegnato i libri sacri all'autorità secolare, il donatismo (da Donato, vescovo di Cartagine, che ne divenne il rappresentante di maggior rango) si diffuse rapidamente in Africa, specialmente nella Numidia e nella Mauritania, presentandosi sempre più decisamente come una chiesa scismatica, la "vera chiesa, la chiesa dei puri, dei martiri, dei santi". Confutando i Donatisti, Agostino elaborò la sua teologia della chiesa e dei suoi sacramenti e anche le sue idee sulla coercizione dei dissenzienti religiosi da parte dello stato.
A Cartagine aveva preso parte alla consacrazione episcopale di Ceciliano (probabilmente nel 311 312) un vescovo esterno, Felice di Aptungi, che secondo la rigida tradizione africana era gravemente screditato in quanto traditor codicum (aveva consegnato ai pagani libri sacri). I dissidenti avevano anche altri motivi di lamento. I vescovi della Numidia si sentirono offesi perché l'affrettata consacrazione di Ceciliano aveva impedito al loro arcivescovo di occupare il posto tradizionale nell'ordinare il vescovo di Cartagine. Le ambizioni di ecclesiastici delusi, la cupidigia di altri e l'orgoglio ferito di una nobile donna rimproverata da Ceciliano per la sua devozione superstiziosa alle reliquie di un martire: tutto ciò contribuì allo scisma. La consacrazione di Ceciliano non poteva ritenersi valida. Fu eletto un antivescovo, Maggiorino; suo seguace era Donato da cui il nome di Donatisti. Questi rivendicavano la prerogativa di essere la vera, perché rigorosa, chiesa dei martiri, e di essere gli unici a realizzarne in maniera radicale l'ideale di santità. La santità di colui che detiene un ufficio è il presupposto per potere amministrare il sacramento. La risposta sull'oggettività dei sacramenti verrà da Agostino nella lettera a Parmeniano (400): 'Pietro battezza, Giovanni battezza, Giuda battezza... ma è sempre Cristo che battezza".
I Donatisti affermano. “La Chiesa deve essere una società perfetta di santi e i sacramenti amministrati da sacerdoti indegni perdono la loro validità”. Agostino risponde. “Se nei sacramenti agisce la grazia di Dio, per nulla influisce sulla loro validità la dignità o meno del ministro; al massimo restano inefficaci su chi li riceve indegnamente. La chiesa è composta da santi e peccatori”.
Questo scisma è compreso solo tenendo presenti le complicate lacerazioni religiose e sociali che agitavano l'Africa. L'imperatore appoggia la chiesa cattolica, mentre i Donatisti erano fatti oggetto di provvedimenti polizieschi e colpiti da restrizioni da parte dell'autorità. Si giunse a veri e propri conflitti con i braccianti in rivolta. Questi erano gruppi di contadini chiamati circumcellioni che nelle loro rivendicazioni sociali si avvicinavano alla dottrina donatista opponendosi ai cattolici nordafricani, specialmente se ricchi. Si servivano di randelli come armi di intimidazione nei confronti dei proprietari e dei creditori. Il nome deriva da circum cellas che indica coloro che vivevano presso le cellae, i santuari dei martiri donatisti. Erano come i donatisti danneggiati dallo stato. In realtà il loro legame con questi rimane piuttosto oscuro.
Alla fine del IV secolo Agostino tentò di metter fine alle tensioni. Ma fallì l'intento. Ci fu un irrigidimento da parte dello stato: i donatisti furono ufficialmente considerati non più scismatici, bensì eretici, venendo a cadere in tal modo sotto le leggi e le sanzioni previste contro l'eresia. Non si giunse a soluzione. L'invasione dei Vandali nel 430 spazzò via tutto il cristianesimo nordafricano. Sotto il dominio dei Vandali, cattolici e donatisti soffrirono insieme: il che probabilmente favorì una tolleranza reciproca. Più tardi il donatismo fiorì di nuovo, avvicinandosi sempre più alla chiesa cattolica e sopravvisse finché il cristianesimo nordafricano non fu travolto dai mussulmani nel secolo VII.
Agostino nella lotta contro la chiesa dei 'puri', dei devoti e dei santi fonderà la sua azione nell'evangelico compelle intrare (forzali ad entrare) travisando il significato della parabola del grande convito di Cristo; fare uso, se necessario, anche della forza per indurre gli eretici recalcitranti ad entrare nella chiesa.
E' quella persecuzione che secondo il vangelo esercitano i servi che il Signore manda per le strade e lungo le siepi con l'incarico di "obbligare i poveri ad entrare" (Lc 14,23), o il pastore che 'persegue' la pecora smarrita e, anche se essa recalcitra, la riconduce al gregge assicurandole così la salvezza (Mt 18,12 14). "Perché la chiesa non dovrebbe costringere a tornare i suoi figli perduti, se i figli perduti costrinsero altri alla perdizione?".
Questo comportamento di Agostino trova oggi opposizioni e la moderna concezione della tolleranza farà sempre riserve contro di esso.
La giustificazione di Agostino del ricorso a misure statali coercitive ha esercitato nei tempi successivi un effetto funesto?

  • Non si può certamente vedere in Agostino il primo teorico dell'inquisizione. Cercò una via d'uscita da una situazione complessa.
  • Agostino non ha considerato quali conseguenze teoretiche si potevano trarre, in un altro contesto, dalle sue concrete riflessioni.
  • Non ha visto che una collaborazione anche con quello stato che era sotto una guida cristiana.
  • L'atteggiamento di Agostino rivela una scarsa capacità di vedere la qualità ed il peso politico che sono impliciti anche in questioni di natura religiosa.
  • Parla la voce di un uomo che fu tanto impegnato e travagliato dalla responsabilità religiosa di riportare in un unico ecclesia i fratellicaduti nell'errore che di fronte a quella tutte le altre considerazioni passarono in secondo piano.

"Gli eretici devono essere costretti alla loro salvezza, anche contro la loro volontà" (Decretum Gratiani: un tentativo di sistematizzazione del diritto canonico; raccolta redatta tra il 1140-42 dal monaco camaldolese Graziano).
Questo costituì la base dell'inquisizione medievale.
Teodorico, re degli Ostrogoti (493-526), ariano aveva detto: “Religionem imperare non possumus, quia nemo cogitur ut credat invitus”.
San Tommaso (1225-1274) dirà: “Accipere fidem est voluntatis, tenere iam acceptam est necessitatis”. L’eresia era ritenuta non solo un delitto contro la fede, ma anche un crimine contro la società.

 

I primi quattro concili ecumenici
e le dispute trinitarie e cristologiche
 Concilio ecumenico
E' espressione di tutta la chiesa sparsa nel mondo intero. E' convocato e presieduto dal papa, il quale ne stabilisce la tematica, fissa l'ordine del giorno e infine chiude i lavori e ne ratifica le deliberazioni. Ci sono stati fino ad oggi, nella storia della chiesa, 21 concili ecumenici, otto dei quali all'epoca della chiesa antica. I primi otto concili ecumenici sono stati convocati, aperti, diretti e convalidati non dal papa di Roma bensì dall'imperatore.
La chiesa riservò ai primi quattro concili ecumenici un'importanza enorme. Papa Gregorio Magno (590 604) li paragonò ai quattro evangeli, Isidoro di Siviglia (560 636) ai quattro fiumi del paradiso. La confessione di fede del concilio di Costantinopoli (381), in particolare, è l'unica o meglio l'ultima confessione di fede condivisa unitamente da tutti i cristiani.

La crisi ariana e Il concilio di Nicea
Al suo primo arrivo nella capitale orientale, Nicomedia, Costantino dovette rendersi conto che anche la comunità cristiana dell'oriente, come la chiesa del nordafrica, era divisa in due da un conflitto che aveva già assunto una dimensione minacciosa.
Si trattò di una crisi particolarmente grave perché lacerò la gerarchia ecclesiastica, mettendo i vescovi gli uni contro gli altri e coinvolgendo anche i vertici supremi dell'impero.
La controversia ebbe inizio in Egitto, ad Alessandria, intorno al 320. Anche qui la persecuzione aveva lasciato ferite e lacerazioni insanate nel popolo cristiano. Anche qui il clero era diviso tra quelli che volevano una politica mite nei confronti dei lapsi e quelli che insistevano per punirli con severità o escluderli irrevocabilmente dalla comunione ecclesiastica. Quando nel 304 il vescovo di Alessandria, Pietro, e quello di Licopoli, Melizio (o Melezio), si erano trovati nello stesso carcere e, certi entrambi della vittoria finale della causa cristiana, avevano preso a discutere del trattamento da riservare ai lapsi, la discussione diventò così aspra che nella cella carceraria fu improvvisata una divisione per separare i due presuli e i rispettivi seguaci. Negli anni seguenti il partito meleziano dei rigoristi andò crescendo e vi aderì anche un dotto libico, di età avanzata e di notevole rinomanza nella chiesa alessandrina, Ario (256 336). Questi era discepolo del presbitero antiocheno Luciano (+312), subordinazionista (il Verbo è subordinato al Padre, inferiore a Lui).
Pietro nel 306 durante un'altra persecuzione si nascose. In sua assenza Melizio occupò il suo posto, dando inizio allo scisma meliziano. Mentre Pietro tornava nella sua sede per risolvere la questione fu catturato e decapitato. Era il periodo della persecuzione di Massimino Daia. Allora crebbero i consensi per la causa moderata e anche Ario, abbandonato lo schieramento meliziano, vi aderì, ricevendo poco dopo l'ordinazione a prete per mano del successore di Pietro, Achille.
Verso il 318, Ario, ricollegandosi alla radicata tradizione alessandrina del subordinazionismo cristologico, si mise a predicare che
"ci fu un tempo in cui il Figlio non esisteva".
Con ciò, egli voleva dire che il Figlio era stato creato dal Padre e non ne condivideva pertanto la stessa natura divina. Ma questa predicazione lo mise in urto con il suo vescovo Alessandro.
Il clima intellettuale di Alessandria doveva essere ancora in certo modo influenzato dalle idee gnostiche, che vedevano anch'esse una gerarchia per gradi della sostanza divina; e quando Ario propose la sua teologia, più di un cristiano di Alessandria poté sentire il ricordo di tali speculazioni gnostiche, come infatti anche Atanasio rimproverò poi ad Ario, accusandolo di dipendere dal sistema dello gnostico Valentino.
Colpito da scomunica da un sinodo ad Alessandria nel 320, Ario va a Cesarea (incontra Eusebio) poi a Nicomedia (altro Eusebio) dove è favorito. Scrive la Thalia (banchetto), esposizione della sua dottrina scritta in versi e in prosa, in cui propaganda le sue idee in forma popolare. Torna ad Alessandria, compone canzoni, canta nei teatri, per le vie, al porto… La teologia scende nella strada.
Nel 325 lo stesso Costantino, molto preoccupato per la situazione, pensò bene di convocare un concilio a Nicea per dirimere la questione di tutta la chiesa imperiale il cui cerimoniale fu ispirato ad una visione del futuro che doveva dimostrare agli occhi dei sudditi la pacifica e felice unità di vescovi e imperatore, colonne dell'impero e della sua stabilità.
Le fonti più antiche attribuiscono concordemente a Costantino l'iniziativa di questa decisione e vanno credute. È sicuro che Costantino né condusse trattative con Roma per un'eventuale convocazione del grande sinodo né chiese l'approvazione del vescovo romano. Solo la più tarda leggenda di Silvestro che racconta del battesimo dell'imperatore nel palazzo lateranense e della sua guarigione dalla lebbra porta per la prima volta il papa in primo piano affermando che 'su suo comando' si era tenuto il sinodo di Nicea.
Ma il concilio non fu così vasto e rappresentativo: 300 vescovi, di cui solo 5 occidentali. L'occidente latino era assai poco rappresentato. Tra i più noti c'erano Osio di Cordova, confidente dell'imperatore e probabilmente rappresentante del papa, e Ceciliano di Cartagine.
Papa Silvestro I non intervenne personalmente, ma si limitò ad inviare dei suoi delegati: così faranno i papi nei successivi concili della chiesa antica. L'ecumenicità del concilio dipendeva specialmente dalla sua successiva accettazione da parte di tutta la chiesa.
La chiesa intera era presente a Nicea.
Al primo concilio non mancò neppure l'increscioso spettacolo degli intrighi. Eusebio ha descritto la solenne apertura del concilio (20 maggio 325) con parole degne di un inno trionfale.
A Nicea erano rappresentate tutte le correnti teologiche allora sostenute relativamente alla dottrina trinitaria. Non c'erano gruppi omogenei sia tra gli ariani come tra gli oppositori di Ario. Tra gli avversari c'erano il vescovo Alessandro di Alessandria col suo diacono Atanasio e Osio di Cordova, il quale fin dall'inizio aveva denunciato l'arianesimo come un drammatico pericolo per la chiesa e aveva preso delle contromisure. Essi ebbero l'appoggio dei sostenitori di un monarchianismo deciso, in parte anche fanatico  (sabellianismo, modalismo), i quali erano ancor più lontani, dal punto di vista teologico, dalla distinzione ariana tra il Padre e il Figlio (concepito come creatura), dal momento che (modalisticamente) non ope­ravano nessuna distinzione.
Il monarchianismo deriva dal monoteismo giudaico, afferma il primato assoluto (monarchia) della divinità del Padre, collocando Figlio e Spirito Santo ad un livello visibile di inferiorità e di subordinazione (subordinazionismo). Si manifesta poi anche in una corrente di pensiero, chiamata modalismo secondo cui il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo sarebbero soltanto aspetti e modi diversi nei quali l'unico Dio si sarebbe rivelato, quasi tre 'maschere' diverse dell'apparire dell'unico Dio. Sabellio difende un aspetto del modalismo: il patripassianismo secondo cui sarebbe possibile e giusto dire che sulla croce ha sofferto il Padre, perché il Padre e il Figlio non sarebbero altro che modi usati dall'unico Dio per presentarsi agli uomini. Complessivamente, i non ariani o meglio gli anti ariani costituivano la maggioranza.
A quanto pare la corrente favorevole ad Ario prese subito l'iniziativa e propose una formulazione di fede in cui erano ufficialmente inseriti elementi sostanziali della teologia ariana. Ci fu la veemente protesta della parte avversa. Con una proposta di compromesso si inserì allora nel dibattito l'abile e duttile Eusebio di Cesarea che raccomandò al concilio l'adozione del simbolo battesimale in uso nel suo vescovato. A Nicea si integra una confessione di fede preesistente, introducendo alcune proposizioni o formule che le conferivano un carattere più chiaramente e marcatamente antiariano. Fu in ogni caso aggiunto:
“Dio vero da Dio vero,
generato, non creato,
della stessa sostanza (omooùsios) del Padre".
Per molti padri di Nicea il termine indicava certamente che il Figlio non era meno divino del Padre e che entrambi perciò erano egualmente divini, così come in questo modo, i padri e i figli sono egualmente umani. Per gli occidentali invece e per alcuni orientali, 'consostanziale' significava che Padre e Figlio erano una cosa sola in un'unica divinità. Entrambe le interpretazioni escludevano le idee erronee di Ario. In queste righe del Credo niceno è condensata la teologia del Concilio.
L'imperatore Costantino appoggiò i risultati del concilio, esiliò Ario e i due vescovi suoi stretti seguaci. I vescovi dopo le questioni dottrinali, dovettero regolare questioni di importanza diseguale:

  1. scisma di Melezio; furono prese misure benevoli;
  2. data della Pasqua.
  3. canoni disciplinari:
    • il can. 7 riconosce al vescovo di Aelia (Gerusalemme) un primato di onore, fatta salva la dignità del metropolita (vescovo di Cesarea),
    • si proibisce ai preti l’usura, la coabitazione con donne; continenza ai preti sposati? No;
    • regolata la riconciliazione,
    • la domenica e il giorno di pentecoste non si deve pregare in ginocchio.

Prima che i vescovi si separassero, Costantino offrì loro un sontuoso banchetto che li riempì di stupore. Costantino distribuì doni sontuosi. Li aveva convocati e li autorizzò a partire. Era, pare, il 19 giugno. Il concilio era durato un mese. Costantino cesaropapista? Vescovo dall’esterno? Pare di no, ma il rischio c’era.
Si trattava però di un'armonia illusoria.
Il concilio di Nicea con la sua risoluzione di fede rappresenta un avvenimento di importanza capitale per la comprensione dell'intera storia della chiesa e soprattutto della storia dei concili.
E' veramente ecumenico.

  • Prende decisione in materia di fede.
  • Il modo con cui si arriva alla sentenza è significativo per la storia dei dogmi: tra errori la  chiesa cerca di fissare singoli precetti di fede.                                   
  • Costantino minacciava, ma non annullava la libertà.
  • Costantino nella lettera alla comunità di Alessandria scrive: "Ciò che hanno deciso 300 vescovi, non è altro che la decisione di Dio, poiché lo Spirito Santo presente in questi uomini ha loro manifestato il volere di Dio stesso".

Da Nicea a Costantinopoli

L'accordo di Nicea si rivelò fragile. Alcuni vescovi ritirarono la loro firma. Ci fu una violenta opposizione a Nicea e per la chiesa cominciò un lungo periodo di crisi. Gli ariani e altri gruppi rifiutarono l'homooùsios e di conseguenza tutto il concilio. Mentre l'occidente latino con l'Egitto, si mantenne fedele a Nicea, l'oriente dovette assistere a forti tensioni. L'imperatore Costantino avviò una politica favorevole agli ariani forse per questi motivi:

  1. è influenzato da ariani come Eusebio di Nicomedia;
  2. la teologia di Ario con la sua struttura gerarchizzante poteva rispondere meglio alla sua ideologia politica;
  3. la parte ariana, nelle regioni orientali costituiva la maggioranza della popolazione.

Ario, Eusebio di Nicomedia e gli altri seguaci a suo tempo esiliati furono riabilitati dall'imperatore dopo che ebbero sottoscritto formule di fede piuttosto vaghe. I vescovi niceni furono sistematicamente deposti. Atanasio, dal 328 vescovo di Alessandria, si oppose a questa politica antinicena e fu esiliato cinque volte (17 anni).
Costantino morì nel 337.  Si verificano sanguinose tragedie di palazzo. Gli succedettero per l'occidente Costante, niceno, e per l'oriente Costanzo II, ariano. Le varie tendenze teologiche schematicamente si possono presentare in questo modo:

  1. omousiani ‘Figlio consostanziale (omoousios) al Padre’;
  2. anomei ‘Figlio diverso (anomoios) dal Padre;
  3. omeusiani ’Figlio simile (omoios) al Padre; semiariani aggiungeranno ‘in ogni cosa’.

Il papa resiste alle pressioni e alle minacce di Costanzo. Nel 360 il sinodo di Costantinopoli proclama l’omeismo (il Figlio simile al Padre). E’ il trionfo dell’arianesimo.
«Ingemuit totus orbis et arianum se esse miratus est » (S.Girolamo)
Quando Costanzo diventa unico imperatore costringe i vescovi a sottoscrivere formule ariane. Il rifiuto era punito con l'esilio o col carcere. Dovettero soffrire duramente, tra gli altri, papa Liberio. Costanzo II cercò di imporre l'arianesimo come confessione di fede dell'impero.
Dopo la parentesi di Giuliano, che non era né ariano né cattolico, e la ripresa della politica filoariana di Valente, soltanto con l'avvento degli imperatori cattolici Graziano e Teodosio la situazione si rovesciò nuovamente a favore degli ortodossi.
Teodosio con l'editto di Tessalonica del 380 vincolava tutti i sudditi dell'impero al credo di Nicea e creava così la chiesa di stato. Ordina a tutti di professare “la religione che l’apostolo Pietro ha insegnato ai Romani e ora confessano il pontefice Damaso e Pietro, vescovo di Alessandria. Noi crediamo l’unica divinità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, i quali hanno un’uguale maestà nella santa Trinità”.

Il concilio di Costantinopoli del 381

Per mettere fine alla disputa intorno all'arianesimo e normalizzare la situazione della chiesa, Teodosio convocò un concilio.
Nel 381 si riunirono a Costantinopoli nel palazzo imperiale 150 vescovi orientali, tra cui Gregorio di Nazianzo, i fratelli di Basilio Gregorio di Nissa e Pietro di Sebaste, Melezio di Antiochia e Cirillo di Gerusalemme.
Presiedeva Melezio di Antiochia per volontà dell'imperatore. Il concilio approvò Gregorio di Nazianzo vescovo di Costantinopoli; morto Melezio, lo elesse presidente.
Tutta Costantinopoli parla di teologia. Gregorio di Nazianzo nel presiedere il concilio incontrò tanti ostacoli, che si ritirò scoraggiato a vita privata.
Il 9 luglio 381 il concilio terminò i suoi lavori. Il credo di Nicea veniva assunto ed integrato con importanti precisazioni circa la divinità dello Spirito Santo.

Prendeva così forma il Simbolo niceno costantinopolitano:
"Crediamo nello Spirito Santo,
che è Signore e dà la vita,
e procede dal Padre (e dal Figlio).
Con il Padre e il Figlio è adorato e glorificato,
e ha parlato per mezzo dei profeti".
Al conseguimento di questo risultato aveva potentemente contribuito l'approfondimento dottrinale operato da Atanasio e dai Padri Cappadoci. Basilio in particolare era riuscito ad elaborare la formula: Dio è una sostanza, ma in tre persone (ipostasi) distinte. Aveva anche chiarito definitivamente la natura divina dello Spirito Santo contro quanti la mettevano in dubbio o la negavano apertamente, pneumatomachi e macedoniani.
Lo Spirito procede dal Padre, recita il simbolo di Costantinopoli.
Nella traduzione latina qualcuno introdusse l'aggiunta filioque, certamente con la pia intenzione di sottolineare la duplice processione dello Spirito dal Padre e dal Figlio, e quindi di rafforzare l'affermazione della sua divinità. Fin dal IV secolo la chiesa greca insegnava una processione dal Padre attraverso il Figlio. La diversità sta più nella formulazione che nella sostanza. Eppure si pongono le premesse per un dissidio teologico tra la chiesa latina e quella greca che dura ancora ai nostri giorni.
Alla fine il concilio promulgò alcuni canoni.

  • Il canone terzo fu il più carico di conseguenze. "Il vescovo di Costantinopoli avrà il primato dell'onore dopo il vescovo di Roma, perché Costantinopoli è la nuova Roma". Sta qui il germe della rivalità tra Roma e Costantinopoli di cui il canone 28 di Calcedonia sarà un nuovo segno e che, dopo ripetute contese, sfocerà nello scisma del 1054.

Le controversie cristologiche e il concilio di Efeso

Dopo il Concilio di Costantinopoli sorsero nuovi conflitti a proposito della definizione del rapporto tra natura umana e natura divina in Gesù Cristo. Apollinare di Laodicea si mantenne fedele alla divinità di Cristo ma, allo scopo di salvaguardare tale divinità, sostenne l'idea secondo cui il Logos, nel 'farsi carne', ha assunto non già un uomo ‘intero’, bensì una natura umana incompleta, priva cioè dell'anima. Alle sue funzioni nei confronti del corpo provvedeva in Gesù Cristo il Logos. E' il Logos che domina, guida e dirige direttamente la natura umana; Gesù Cristo quindi non è intaccato dalla debolezza che nell'uomo è conseguenza del peccato. Ma contro Apollinare si disse che Cristo ha salvato tutto l'uomo! Questo criterio della garanzia di salvezza svolse un ruolo decisivo nella cristologia della chiesa antica.
Ma in questo problema erano contenuti in germe i conflitti teologici che avrebbero lacerato la chiesa nei decenni successivi, a proposito dell'oscura questione dei rapporti tra l'umanità e la divinità nella persona di Gesù Cristo.
Il vescovo di Costantinopoli Nestorio, che proveniva da Antiochia (la scuola antiochena riteneva la divinità e l'umanità in Cristo separate fra loro; la scuola alessandrina sottolineava l’unità della natura umana e divina in Cristo) si mise a predicare che le due nature del Cristo sono tra loro assolutamente divise e che quindi, a rigor di termini, Maria avrebbe potuto essere chiamata soltanto "Madre dell'uomo Gesù” o al massimo "Madre di Cristo", ma certamente non "Madre di Dio" (Theotocos).
Il vescovo di Alessandria Cirillo colse l'occasione per lanciare un attacco contro Nestorio. Le sue lettere ebbero notevole risonanza e gli procurarono non pochi seguaci fra i monaci egiziani, a Roma e presso la corte imperiale. Un sinodo romano nel 430 condannò Nestorio. Cirillo diede maggior forza alla sua argomentazione dogmatica: "Una è la natura del Logos divino incarnato".
Per gli antiocheni mancava nella sua cristologia la dualità di Dio e uomo.

L'imperatore Teodosio II (408 450) convoca il concilio a Efeso. E’ papa Celestino I. Viene invitato anche Agostino, che era però già morto un anno prima dell’apertura del concilio che fu convocato nel 431.   
Sia i preparativi sia l'andamento dei lavori furono agitati da turbolenze. Cirillo ricorse in qualche caso addirittura alla forza. Arrivarono tutti a Efeso pochi giorni prima della Pentecoste, e trovarono Nestorio già lì, sedici vescovi, i chierici che li assistevano e parecchie guardie del corpo armate.
Cirillo si sentì l'autentico signore del concilio, la cui guida non fu quindi certamente sotto la regola della più rigorosa obiettività. Lo svolgimento del concilio mostra che egli era deciso a portare alla vittoria quelle sue idee con metodi estremamente sospetti e pericolosi. Ci furono tentativi di corruzione indegni di un vescovo del quale il vecchio e saggio Tillemont ebbe a scrivere. “S.Cirillo è santo, ma non si può dire che tutte le sue azioni siano sante”.
I vescovi orientali giunsero dopo cinque giorni e i delegati romani dopo due settimane. Il sinodo di Cirillo depose Nestorio che aveva rifiutato di presentarsi.
I delegati di Roma confermarono la sentenza, gli orientali tennero un altro sinodo e deposero Cirillo. Il sinodo di Cirillo rispose deponendo Giovanni di Antiochia e i suoi seguaci. La confusione toccò punte addirittura grottesche. L'imperatore fa arrestare sia Cirillo che Nestorio e Mennone. L’11 luglio i vescovi approvano la deposizione di Nestorio. Il prete Filippo pronuncia le parole riprese dal concilio Vaticano I: “Nessuno dubita che…Pietro…ha ricevuto le chiavi del regno di Nostro Signore Gesù Cristo…è lui che vive ed esercita il potere di giudicare nella persona dei suoi successori”.
L'imperatore sostenne alla fine il partito maggioritario alessandrino echiuse il concilio nell'ottobre del 431. Alla fine aveva vinto il partito di Cirillo, dal momento che l'imperatore tratteneva in carcere il solo Nestorio. Cirillo poteva contare sul sostegno di vescovi metropolitani come quello di Efeso che mal tollerava la supremazia di Costantinopoli, e quello di Gerusalemme che voleva rendersi indipendente da Antiochia. La sua posizione incontrò pure il sostegno unanime dei fedeli, portati a immaginare Cristo come Dio in forma umana e ad adorare la sua carne incorruttibile nell'Eucaristia. I monaci poi si schierarono in prima linea a difendere Cirillo. L'unico risultato del concilio fu la condanna di Nestorio e la conferma del titolo 'madre di Dio': non venne formulato nessun testo e nessun simbolo.
Sarà sempre motivo di rammarico il fatto che ad Efeso non si sia arrivati ad una discussione oggettiva, concreta e serena tra Nestorio e i suoi amici da un lato e Cirillo dall'altro. Forse si sarebbe così chiarito che il contrasto teologico tra i due era condizionato in maniera decisiva dalla mancanza di una terminologia precisa ed esattamente determinata. Forse Nestorio avrebbe riconosciuto che la tradizione da lui trascurata conosceva già molto bene il titolo di 'theotokos' e con esso la comunicazione degli idiomi, e forse Cirillo avrebbe visto che Nestorio si era impegnato seriamente nella comprensione dell'unità sostanziale delle due nature in Cristo ed era così effettivamente più vicino all'ortodossia di quanto non sembrasse. Il fatto invece che egli sia stato bollato con gli epiteti di 'nuovo Giuda' e di 'sacrilego' grava su Efeso come un'ombra nera. Quando in seguito Nestorio, durante il suo esilio, venne a conoscenza dell'Epistula ad Flavianum di papa Leone, dichiarò subito in una lettera alla popolazione di Costantinopoli che egli era pienamente d'accordo con la cristologia di Leone e di Flaviano. La sua difesa non consente comunque di riconoscere alcun sostanziale passo avanti rispetto alla posizione che aveva già raggiunto nel 431.
La persona e la dottrina di Nestorio sono oggi di nuovo oggetto di accese discussioni. Alcuni lo presentarono come ortodosso. Senza dubbio si può riconoscere a Nestorio personalmente una larga misura di buona fede, ma la sua dottrina era tutt'altro che corretta, anche se era più moderato dei capi della Scuola Diodoro e Teodoro. Fu fatale per lui l'aver ignorato lo sviluppo che la cristologia aveva fatto con i Cappadoci e Cirillo e l'essersi irrigidito sulle posizioni particolari della Scuola antiochena.
In seguito alle severe disposizioni del governo il nestorianesimo andò lentamente scomparendo nell'impero romano. Nel 489 l'imperatore Zenone chiuse la scuola teologica di Edessa, allora sede principale della dottrina nestoriana. I nestoriani non si arresero e diedero in seguito vita ad una chiesa autonoma che prese la via dell'oriente, sviluppandosi verso la Siria e la Persia, per giungere alle lontane contrade dell'India (alla chiesa nestoriana appartennero anche i cristiani di s. Tommaso) e della Cina già fra il VI e VII secolo. I missionari dell'età moderna si imbatterono in fiorenti comunità nestoriane del Malabar provenienti da quell'antico dissidio. Dal XIV secolo in poi ebbe un rapido e forte regresso in seguito alle irruzioni dei Mongoli. Durante la prima guerra mondiale venne in gran parte spostati e dispersi; in combattimenti con i Maomettani dell'Irak, al quale stato furono assegnati nel 1931, molte migliaia di loro furono uccisi; 20 30.000 ripararono in Siria e a Cipro, mentre una frazione minuscola, ebbe dal 1937 in poi una relativa pace. Oltre a questi vi sono circa 150.000 cosiddetti 'cristiani caldei' uniti con Roma (residenza patriarcale a Mossul, rispettivamente a Bagdad). Anche i cristiani di s. Tommaso sono ora in maggioranza uniti (circa un milione); gli altri passarono nel XVII secolo in gran parte al monofisismo (giacobiti).

Da Efeso a Calcedonia

Cirillo moriva soddisfatto del trionfo riportato su Nestorio e del prestigio che la sede alessandrina ne aveva ricavato, grazie anche all’appoggio di papa Celestino.
Ma nell'insegnamento di Cirillo si annidava un equivoco che nelle mani dei suoi meno esperti successori divenne una vera e propria eresia. Infatti, insistendo sulla unicità della natura divina del Verbo, nella quale la natura umana veniva assorbita fin praticamente a scomparire, il successore di Cirillo, Dioscoro di Alessandria e il monaco Eutiche di Costantinopoli si fecero sostenitori di una dottrina cristologica divenuta nota con il nome di 'monofisismo', cioè dottrina dell'unica natura, divina ovviamente, di Cristo che assorbe interamente la natura umana "al modo stesso di una goccia di miele che, caduta in mare, in esso si dissolve".
Nel 448 Eusebio di Dorileo, città della Frigia, accusò Eutiche davanti al sinodo permanente di Costantinopoli, sostenendo che egli rifiutava la dottrina delle due nature in Cristo. Alla precisa domanda se accettava le due nature in Cristo, la riposta fu negativa; quindi fu deposto da abate e colpito dall'anatema.

Teodosio II (401 450) decise di risolvere la questione con il concilio (non avevano diritto di voto coloro che avevano condannato Eutiche e Flaviano) che si era nuovamente riunito ad Efeso nel 449. I monofisiti ebbero il sopravvento sui difisiti che si videro accusati di 'nestorianesimo', ma le irregolarità e le violenze perpetrate in quel sinodo lo fecero passare alla storia come il 'brigantaggio' o 'latrocinio' di Efeso e ne causarono l'esclusione dal numero dei concili ecumenici riconosciuti dalla tradizione ecclesiastica.
Papa Leone Magno nella sua celebre Epistola Dogmatica ad Flavianun si schierò con il patriarca di Costantinopoli e chiarì in modo autorevole la vera dottrina dell'unione delle due nature nell'unica persona del Cristo (unione ipostatica). Intanto il papa pregava il successore di Teodosio, Marciano, di convocare un nuovo concilio che fu il IV concilio di Calcedonia (451). Vi convennero più di 500 vescovi da tutto l'oriente. L'occidente fu rappresentato da una sparuta delegazione. Alla presenza dell’imperatore e dell’imperatrice, dopo laboriose discussioni, si respinge la teoria monofisita dell'unità della natura in Cristo e si definisce nella sesta sessione, come dogma che:
in Cristo ci sono due nature, non confuse, non trasformate, non divise e non separate, bensì congiunte in una sola persona o ipostasi (inconfuse, immutabiliter, indivise, inseparabiliter).
A Calcedonia il canone 28 riconfermò i privilegi della sede di Costantinopoli; il fatto grave è che questa preminenza viene fondata sul prestigio politico della città imperiale, “la nuova Roma”.
Pur pregato dal concilio e dall'imperatore di convalidarlo, Leone Magno rifiutò. Esso era in contraddizione con la dottrina, da questo papa riconosciuta con grande chiarezza e con altrettanto grande fermezza rappresentata, del primato romano.
Calcedonia segnò la fine di un'era. Veniva confermato, a poco più di un secolo dalla morte di Costantino, quale grande ruolo la chiesa avesse acquisito nella società e nella vita dei popoli. I vescovi avevano accresciuto enormemente i loro poteri e la loro autorità, le chiese la loro ricchezza; la carriera ecclesiastica era stata riconosciuta come un servizio civile. L'autorità morale della chiesa era divenuta enorme.
A Calcedonia si pongono le basi per il successivo sviluppo del pensiero teologico occidentale.
In Oriente invece si ebbe un'evoluzione diversa. Già nel concilio si era creata tensione tra i teologi orientali e occidentali con conseguente crisi di rapporti fra la chiesa di Roma e l'oriente. La crisi si acuì soprattutto dall'antica rivalità esistente fra i patriarcati bizantini e il papa, e la distanza tra Roma e Costantinopoli dopo e per effetto di Calcedonia venne crescendo. L'accettazione del tomus Leonis poteva essere insieme il segno del rinato prestigio della cattedra romana in Oriente e l'inizio di una rinnovata solidarietà tra le due chiese. Invece Leone sembrò subito disinteressarsi delle conseguenze del concilio nella cristianità orientale e allentare anche i rapporti, prima molto stretti, con la chiesa di Alessandria. Dal canto suo il patriarca di Costantinopoli si diede a praticare una politica ecclesiastica di assoluta indipendenza e spesso di opposizione rispetto a Roma. L'esercizio di una funzione di appello sugli affari ecclesiastici di tutto l'oriente lo condusse a svuotare di ogni concreto contenuto il primato riconosciuto alla cattedra di Pietro; la rivendicazione di una lontana origine apostolica, legata alle reliquie di sant'Andrea, che l'imperatore Costanzo aveva introdotto nella città nel 357, gli consentì di uguagliarsi anche per antichità al vescovo romano.
Il pensiero orientale, già per sua natura molto incline alla unità, dopo Calcedonia accentuò ancor più le sue tendenze monofisite, che non si limitarono  più al solo ambito cristologico telogico, ma si estesero anche alla sfera politica e persino alla vita cristiana privata dei credenti. Religione e politica si fusero insieme, chiesa e stato si amalgamarono ed anche la vita privata civile fu dominata completamente da questa atmosfera teologico religiosa. Mentre l'occidente faceva suo quel fondamentale duofisismo, l'oriente tendeva invece sempre più decisamente al cosiddetto 'monofisismo politico'.

Vanno sottolineati due punti importanti.
1. Riprendendo il linguaggio e la dottrina del Tomo a Flaviano, la definizione di Calcedonia è una ferma professione di fede della Chiesa nell’unica Persona di Cristo in due nature. Supera e integra le due teologie di Antiochia ed Alessandria. Nella chiesa non verrà mai più messa in discussione. La dottrina delle due nature provocherà, però, la reazione dei ‘cirilliani’ i quali si attengono alla formula dell’‘unica natura’: le dispute ‘monofisite’ daranno origine a uno scisma non ancora completamente risolto.
2. D’altra parte, contro le pretese della sede di Costantinopoli, fondate sull’importanza politica della ‘nuova Roma’, si afferma l’autorità del vescovo di Roma radicata nella parola di Cristo  a Pietro. Su questo punto Leone è molto deciso. Se in questo momento i rapporti tra Roma e Costantinopoli sono più facili, si guasteranno assai presto, fino allo scisma del 1054.

Le Chiese ortodosse bizantine rappresentano la tradizione orientale del Cristianesimo ma accanto ad esse esistono le antiche Chiese orientali ortodosse di tradizione siriaca, greco copta, armena , dette anche pre calcedonesi, e le Chiese orientali cattoliche, con l'eccezione della Chiesa maronita, che nasceranno solo dopo il secolo XVI.
Le prime sono le eredi dirette di quelle Chiese orientali locali che nel V secolo rifiutarono le decisioni e le formulazioni dogmatiche del Concilio di Efeso (431) o del Concilio di Calcedonia (451) di qui l'appellativo di pre calcedonesi con cui sono denominate , separandosi così dalla comunione con la grande Chiesa dell'impero romano. Quest'ultima, dagli inizi del IV secolo, era solidamente articolata nella «pentarchia», ovvero nei cinque patriarcati di Roma, Costantinopoli, Alessandria, Antiochia e Gerusalemme. A Gerusalemme fu riconosciuto il rango di patriarcato non per la sua importanza politica, ma per il significato religioso unico che la città rivestiva per la fede cristiana e per la nascita della Chiesa.
Prima delle separazioni interne alla Chiesa avvenute in occasione dei Concili di Efeso e di Calcedonia, la parte orientale della grande Chiesa comprendeva dunque interamente i tre patriarcati di Alessandria, Antiochia e Gerusalemme, accanto a quello di Costantinopoli. I primi due furono centri attivi di vita e di cultura cristiana, e dettero contributi preziosi e determinanti alla formulazione della fede comune nell’epoca dei primi Concili (IV V secolo). Proprio nel corso dei dibatti­ti dottrinali del secolo V, relativi alla formulazione del dogma cristologico, cioè delle modalità linguistiche con cui si potesse correttamente esprimere il dato di fede fondamentale che Gesù Cristo è vero Dio e vero uomo e come tale mediatore di salvezza emersero diverse prospettive dottrinali all'interno della Chiesa. Sovrapponendosi a questioni di carattere politico, esse non trovarono una composizione comune accettata da tutti i vescovi in occasione dei grandi Concili ecumeni­ci, e furono all'origine delle prime scissioni all'interno della comunione ecclesiale.
La prima separazione avvenne al momento del Con­cilio di Efeso: una parte dei vescovi e delle diocesi del patriarcato di Antiochia ne rifiutò le decisioni dogmatiche e respinse la condanna di Ne­storio. Queste diocesi si costituirono così in una Chiesa autonoma, che prese il nome di Chiesa di Oriente, con centro patriarcale a Seleucia Ctesifonte. Si tratta di una Chiesa tuttora esistente, che oggi conta non più di seicentomila fedeli, residenti prevalente­mente in Iraq, Iran e nella diaspora statunitense.
Un'ulteriore divisione si creò nei patriarcati di An­tiochia e di Alessandria dopo il Concilio di Calcedonia: una serie di vescovi si rifiutarono di approvare e di re­cepire le formulazioni dogmatiche di quel Concilio, che affermavano le due nature di Cristo (umana e di­vina) unite nell'unica persona divina, preferendo una formulazione che affermava l'esistenza di «una sola natura incarnata nel Verbo di Dio». Di qui l'accusa di mo­nofisismo impu­tata a questi vescovi, che dettero vita a due nuove Chie­se autonome:

  1. la Chiesa siro ortodossa nell'ambito del patriarcato di Antiochia e
  2. la Chiesa copta ortodossa nell'ambito del patriarcato di Alessandria.

Quanto alla Chiesa armena, nessuno dei suoi vescovi era presente al Concilio di Calcedonia: es­sa ne conobbe le formulazioni dogmatiche alla fine del secolo V tramite vescovi siro ortodossi, e si associò alla Chiesa sira e alla Chiesa copta nel rifiutarle, costituen­dosi anch'essa come Chiesa indipendente rispetto alla grande Chiesa dell'impero romano.
Si tratta di Chiese tuttora esistenti.

Le contese ai tempi di Giustiniano (527 565)
e il V concilio ecumenico di Costantinopoli (553);
 la controversia monotelita
e il VI concilio ecumenico di Costantinopoli (680 681).

Nonostante la condanna del concilio di Calcedonia, il monofisismo si affermò in Palestina, in Egitto e in Siria. Nell'anno 475 Basilisco, usurpatore del trono imperiale, pubblica un’enciclica che consacra la dottrina di Cirillo e condanna il tomo di Leone e il concilio di Calcedonia e tollera quindi i monofisiti. L'imperatore Zenone pubblica nel 482 una formula dottrinale conciliativa, Enoticon (editto di unione), con lo scopo di trovare un terreno comune per la riconciliazione tra la sede di Costantinopoli e gli oppositori di Calcedonia in Egitto. In realtà la posizione di Roma non era messa in discussione. Erano condannati Nestorio ed Eutiche e quelli che condividevano le loro dottrine, o che avevano avuto opinioni diverse a Calcedonia o in altri sinodi, da quelle proposte dall'Enoticon e si lodava Cirillo di Alessandria, ma il vero problema della natura nella persona di Cristo, non era affrontato. Se ricorda i dodici anatematismi di san Cirillo per accettarli e il concilio di Calcedonia per respingerlo, lo fa di passaggio e senza insistere. Ma non vi si tratta né di una né di due nature. Questa moderazione non poteva piacere ad alcuno.

Il patriarca Acacio di Costantinopoli aderisce a questa formula e papa Felice III convoca a Roma un sinodo, durante il quale sono deposti sia Acacio sia i delegati. Un alto funzionario papale fu inviato a Costantinopoli per consegnare la sentenza, ma sembra che si sia fatto corrompere e non abbia portato a termine l'incarico. Tuttavia alcuni monaci, fedeli al papa, riuscirono ad attaccare il decreto alla veste del patriarca durante la liturgia che si celebrava nella cattedrale. Acacio allora cancellò il nome del papa Felice dai dittici della sua Chiesa. Trentatré anni dopo il concilio di Calcedonia, l'esito della sua Definizione fu un profondo scisma (scisma acaciano: 484 519) tra le chiese dell'Oriente e quelle dell'Occidente. Lo scisma durerà trentacinque anni fino al papa Ormisda. Nel 490 le sedi patriarcali di Alessandria, di Gerusalemme e di Antiochia furono occupate da monofisiti.

Giustiniano, che sarà influenzato dalla moglie Teodora simpatizzante monofisita, cominciò con l’infierire contro i seguaci delle varie eresie già condannate, manichei, montanisti, ariani, nestoriani, eutichiani.
Poi si occupò dell’origenismo che si andava diffondendo nei monasteri di Palestina, contro il quale scrisse egli stesso un trattato che termina con la condanna di 15 proposizioni  attribuite al grande teologo.

 

Origenismo.
E la storia della fortuna e soprattutto della sfortuna del grande teologo alessandrino Origene e delle principali sue dottrine, proposte spesso da lui come pure e semplici ipotesi, e perciò discusse già nel corso della sua vita. Tali dottrine sono in particolare:

  1. l'eternità della materia,
  2. il subordinazionismo trinitario,
  3. l’"apocatàstasi", ossia il ritorno di tutte creature (anche di quelle dannate) a Dio.

Abbondantemente fraintese, assolutizzate oppure sostituite con altre dottrine del tutto estranee al pensiero del vero Origene, alcune di queste tesi furono condannate a Costantinopoli nel 543 e poi durante il II concilio ecumenico di Costantinopoli nel 553.
Il principale centro degli origenisti era la cosiddetta nuova Laura, presso Tecua; il loro principale avversario era s. Saba abate dell’antica o grande Laura presso Gerusalemme e capo dei monaci palestinesi. Le premure da lui spiegate per disporre l’animo dell’imperatore contro Origene furono in un primo tempo vane. Dopo la morte di Saba la corrente origenista ebbe nella Palestina e fuori persino un maggior sviluppo; due dei suoi seguaci, i dotti monaci Domiziano e Teodoro Aschida, furono nominati vescovi da Giustiniano. Ma di lì a poco avvenne un cambiamento repentino. L’abate maggiore Gelasio cacciò dall’antica Laura oltre 40 origenisti. Ambedue le parti trovarono appoggi fuori, ma infine vinsero gli antiorigenisti (sabaiti). Essi indussero il patriarca Efrem di Antiochia a pronunziare una condanna formale dell’origenismo; il patriarca Pietro di Gerusalemme inviò una querela contro gli origenisti all’imperatore, il quale poco dopo promulgò un duro editto contro la persona e le dottrine di Origene, fece ricorso al suo strumentario teologico per cui il suo editto diventa un trattato teologico sotto forma di decreto conciliare. S’impegna non solo a confutare, ma anche a deridere Origene. L’editto potrebbe essere datato ai primi del 542. Il nome di Origene fu aggiunto all’elenco degli eretici, che i vescovi e gli abati dovevano anatematizzare all’atto della loro entrata in carica. In tal modo Origene, il più grande teologo della chiesa greca, era posto sul medesimo piano di Ario ed altri eretici! L’origenismo sembrava colpito a morte. Ma anche questa volta le apparenze ingannarono: sotto altri nomi Origene continuerà ad attrarre e affascinare i grandi mistici della chiesa bizantina .
Con Giustiniano i monofisiti si diffondono ulteriormente; essi sarebbero stati però disposti  a unirsi alla chiesa dell’impero, se si fossero condannati come nestorianizzanti i capi della scuola antiochena. Infatti c'era stata da parte dell'imperatore la condanna dei tre capi della scuola antiochena: Teodoro di Mopsuestia, Teodoreto di Ciro e Iba di Edessa con un editto del 544. Anche papa Vigilio, conquistato al partito imperiale, pronunciò l'anatema contro i Tre Capitoli, salve però le definizioni di Calcedonia.
L'occidente si ribella, il papa ritira la sua adesione, ma Giustiniano lo fa duramente maltrattare in una chiesa, lo fa arrestare e lo tiene prigioniero in Sicilia per due anni prima di portarlo a Costantinopoli, forse con la violenza. Dopo un anno di pressioni da parte dell'imperatore, Vigilio pubblica la sua sentenza, un judicatum, che condanna i Tre Capitoli, salva l’autorità del concilio di Calcedonia. L’Occidente protesta vivacemente e si pensa alla riunione di un concilio. Ma prima di convocarlo, Giustiniano pubblica una confessione di fede che termina con 13 anatematismi. Gli ultimi tre condannano i Tre Capitoli (551). Ma quando il papa protesta e proibisce ai vescovi di sottoscrivere l’editto, temendo di venire arrestato, si rifugia nella chiesa di san Pietro. L’imperatore ordinò che fosse trascinato fuori. All’arrivo dei soldati di polizia, irrompenti nella chiesa con gli archi tesi, il papa protetto dai chierici romani, si strinse contro l’altare, ma i difensori furono respinti o arrestati. Si assistette allora ad una scena incredibile: il papa si aggrappò ad una delle colonne sostenenti l’altare, mentre gli sgherri cercavano di afferrarlo per la barba e per i piedi, tirandolo con tale violenza che la colonna si spezzò; e se alcuni chierici non fossero accorsi a sostenere la santa mensa, il papa ne sarebbe rimasto schiacciato. Sconcertati e investiti dalle grida ostili della folla che riempiva la chiesa, gli sgherri si ritirarono tra le urla. Il papa riuscì  a scappare e a rifugiarsi a Calcedonia.
Giustiniano, durante la triste vicenda, permise al papa, al fine di proteggerne la persona, di pronunciare pubblicamente la rinuncia ai patti (condanna dei tre Capitoli), però allo stesso tempo lo indusse a firmare con lui un segreto decreto di condanna. Durante il pontificato, le relazioni di Vigilio con Giustiniano dominarono ogni sua azione, sebbene egli godesse di buon credito anche in Occidente. Poiché l'imperatore era un sostenitore di Calcedonia, Vigilio dovette rinunciare ad appoggiare Teodora nel cercare un compromesso con i monofisiti.
Come si spiega questo atteggiamento dell'imperatore?
Il suo ideale era la più stretta unione reciproca di stato e chiesa, subordinatamente al volere di Dio. Ma Giustiniano dominava la chiesa quasi completamente e l'assioma da lui coniato "Regis voluntas suprema lex”, valeva anche per essa e per il papa, del quale l'imperatore riconobbe bensì teoricamente il primato sulla chiesa universale, ma poi nella pratica lo rese più di una volta inefficace. E' ben lecito quindi considerare il periodo del suo governo come l'epoca classica del cesaropapismo bizantino. Giustiniano nella sua teocrazia si riteneva autorizzato e addirittura obbligato a determinare fin nei minimi particolari il dogma e la disciplina ecclesiastica, facendoli servire a scopi politici.
Il periodo che seguì il concilio di Calcedonia fu molto simile a quello che seguì il concilio di Nicea: in entrambi era stata imposta alla teologia orientale una soluzione fondamentalmente occidentale ai suoi problemi. Dopo entrambi i concili, l'Oriente dovette faticare a lungo per digerire e assimilare un cibo straniero. Nel caso di Nicea, il mondo romano poco a poco accettò il suo credo. L'arianesimo rimase a lungo diffuso tra le tribù germaniche, ma anche qui finì per arrendersi alla fede di Nicea. Nei casi di Efeso e di Calcedonia, intere regioni del mondo romano e oltre provocarono uno scisma piuttosto che accettare le decisioni dei concili, e avrebbero continuato nello scisma fino ai nostri giorni. Il Secondo Concilio di Costantinopoli fu un tentativo di mostrare ai da allora monofisiti scismatici che la fede di Calcedonia conservava effettivamente i valori teologici che essi ritenevano importanti.

L'imperatore convoca il V concilio ecumenico a Costantinopoli (553) per la condanna dei Tre Capitoli.
Gli orientali erano 150, gli occidentali 25. Il papa non partecipa, denuncia l'illegittima intromissione dell'imperatore che fa cancellare il suo nome dai dittici: non si farà più menzione di lui nella preghiera eucaristica, lo scomunica con minacce, riuscendo in questo modo a strappargli un'approvazione che non aveva però carattere dogmatico. Infatti finì per cedere e accettò i decreti del concilio, poi con un nuovo constitutum riconosceva di essersi ingannato e condannava i Tre Capitoli.
Egli rimane ancora per un anno a Costantinopoli, ma muore in Sicilia in circostanze mai chiarite, mentre stava compiendo il viaggio di ritorno verso l'Italia. Sia qui che in Africa, il suo comportamento fu la causa ultima di uno scisma che si protrasse fino al secolo successivo, provocando divisioni tali nel tessuto ideologico e culturale dell'impero da facilitare in seguito la conquista dell'Italia settentrionale da parte dei Longobardi. La sua deplorevole ambizione e la sua incostanza si erano amaramente vendicate su di lui.
Il secondo concilio di Costantinopoli fu un concilio ecumenico?
Convocato da Giustiniano esitante il papa, fu celebrato in assenza del papa e dei suoi rappresentanti; fu condannato dal papa e condannò il papa. La definizione dogmatica conclusiva del concilio fu accolta dal papa, il quale, come si è visto, aveva ritrattato.
E’ perché il concilio rispettava la definizione di Calcedonia, che con il consenso della chiesa nel suo insieme, i papi che seguirono (per esempio Pelagio) riconobbero a questo concilio il carattere ‘ecumenico’.
Le conseguenze in campo politico ecclesiastico furono 'spaventose': l'unità della chiesa subì gravi danni, i contrasti si approfondirono ancora di più, sia in oriente che in occidente, la stima verso il papato decadde enormemente e "tutto questo per colpa di un imperatore teologicamente superficiale e megalomane e di un papa incostante e non all'altezza del suo ministero" (Baus).
In occidente, a Milano, Aquileia, nell’Illirico il concilio incontrò una resistenza all’inizio piuttosto viva, che ad Aquileia durò fino al secolo VI (Gregorio Magno).
D’altra parte, grazie all’azione del vescovo di Edessa, Giacomo Baradeo (564), donde il nome di giacobita, si organizzò una chiesa ‘monofisita’. Vediamo così costruirsi delle chiese nazionali, siriana, armena, etiopica, copta. Opposizione nazionale più che dogmatica (si tratta di un monofisismo più verbale che teologico!), ancora attiva, nonostante le persecuzioni degli stati musulmani (in Egitto, per esempio, i Copti), che la chiesa cattolica spera di vedere un giorno riassorbita. Papa Paolo VI e il Patriarca copto pubblicarono insieme una dichiarazione che, evitando il termine controverso di ‘natura’, riprendeva l’intera dottrina di Calcedonia (10 maggio 1973).

Dopo Giustiniano si succedono vari imperatori e, sotto Eraclio, le frontiere dell’Oriente sono minacciate dagli invasori Avari o Slavi. L'esercito imperiale subì delle dure sconfitte. La più umiliante e spaventosa fu il sacco di Gerusalemme da parte dei Persiani nel 614, durante il quale, dopo aver depredato la basilica costantiniana del Santo Sepolcro, gli zoroastriani portarono via la Santa Croce per dirigersi in trionfo verso la loro capitale, Ctesifonte.
Ecco alcuni particolari dell’avvenimento.
I Persiani non incontrarono alcuna resistenza fino alla Città Santa. Solo a Betlemme, secondo la tradizione, rispettarono la basilica della Natività perché la facciata era ornata da un mosaico, che rappresentava l'Adorazione dei Magi, in cui questi vestivano secondo il costume persiano; ma a Gerusalemme si perpetrò il sacco, dopo venti giorni di assedio.
Ma lentamente i capi dello stato e della Chiesa, l'imperatore Eraclio e il patriarca Sergio, riuscirono a rianimare la popolazione. In venti anni Eraclio ricostruisce in gran parte il suo impero e nel 630 l'imperatore ricollocò personalmente al suo posto in Gerusalemme la Santa Croce.

Le controversie teologiche non si placarono. Come riconciliare i monofisiti dissidenti senza inimicarsi l'Asia minore, l'Italia e l'Africa? Toccò al patriarca Sergio di Costantinopoli (610 638) fornire il fondamento teologico per la riconciliazione religiosa: tenere ferma la definizione calcedonese di "in due nature", ma di conciliarla con la dichiarazione di un'unica attività in Cristo. Il patriarca tentò un chiarimento del rapporto tra le due nature in Cristo. Egli cercò di sostituire alla teoria dell'unità delle due nature, professata dai monofisiti, l'unità di volontà ed affermò che la natura divina e quella umana erano così intimamente congiunte ed armonizzate che, in realtà, in Cristo era stata attiva solo un'unica energia, divina umana e un'unica volontà (monotelismo). Tutto ciò non fu compreso immediatamente. Sergio riuscì ad esporre le sue tesi in una lettera a papa Onorio I , il quale, impreparato a trattare la questione, si lascerà circonvenire dalle sottili acutezze del patriarca, e, non essendo molto versato in teologia greca, gli rispose privatamente, accordandogli in modo generico la sua approvazione. Il papa precisò tre punti:
1) dobbiamo evitare di parlare di una o due operazioni. Affermare due operazioni sarebbe nestoriano, affermarne una sola, eutichiano.
2) Cristo ha operato nelle sue due nature, in modo divino e umano.
3) Noi dobbiamo sostenere l'unità della volontà di Cristo.
Non si può negare che rispondesse troppo affrettatamente, senza rendersi conto dell’importanza della questione. Evidentemente Onorio aveva ritenuto che Sergio alludesse nel suo scritto più ad un'armonia morale delle due volontà, divina e umana, in Cristo, che a una vera e propria unità di natura. Anche un papa, del resto, quando esprime opinioni private, può sbagliarsi e va precisato inoltre che la lettera di Onorio non ha affatto il valore di una sentenza dottrinale definitiva, pronunciata ex cathedra. Va quindi minimizzato il fatto che la sua lettera di risposta al patriarca Sergio sia stata invocata, nei secoli successivi, come prova contro l'infallibilità papale per esempio all'epoca della riforma protestante e durante lo svolgersi del concilio Vaticano I e si deve anche aggiungere che lo si fece erroneamente.
Con il papa, apparentemente convinto dalle sue idee, Sergio continuò a imporre la sua politica all'Oriente. Nel 636 preparò un editto per definire la politica della Chiesa, l'Echtesis (esposizione), che Eraclio nel 638 sottoscrisse e il monotelismo fu introdotto ovunque con una legge dell'impero. Essa dichiara esservi nel Cristo una sola volontà, senz’alcuna confusione delle due nature, ognuna delle quali conserva i propri attributi nell’unica persona del Verbo Incarnato; questi ha operato i miracoli non meno che sopportato la passione.
Tuttavia la corte imperiale, comprendendo il pericolo di una rottura con Roma, credette di risolvere le difficoltà religiose vietando ogni discussione sulle questioni dibattute. Tale l’oggetto dell’editto di Costante II (641-662), conosciuto sotto il nome di Typos o regola diverso nella natura dall’ecthesis, che era una professione di fede (648). L’imperatore vietava a tutti i cristiani “di discutere in qualsiasi modo intorno ad una volontà o ad una operazione, a due operazioni o a due volontà”. Pene severe erano stabilite per quanti disobbedissero all’editto.
Nel 649 fu consacrato, senza l’approvazione dell’imperatore, Papa Martino I che convoca quasi subito un sinodo nel palazzo del Laterano. Parteciparono un centinaio di vescovi. Era presente anche Massimo il Confessore. All’editto imperiale del Typos il sinodo rimproverava di negare ugualmente sia la dualità che l’unità di volere del Cristo, ciò che equivaleva a dire che il Cristo non è né Dio né uomo.

"Ci sono due volontà, la divina e l'umana intimamente unite nell'unico e stesso Cristo... Ci sono due operazioni, la divina e l'umana, intimamente unite in Cristo...".

Fu ordinato a tutti di accettare l'insegnamento dei cinque concili, santi ed ecumenici.
Nel 653 l'esarca riuscì ad arrestare il papa, a trascinarlo a Costantinopoli dopo un penoso viaggio durato quindici mesi. Lì il papa fu malmenato in modo vergognoso; durante il processo sofferente per una grave malattia, fu costretto a stare in piedi e poiché lo sfilare dei testimoni andava continuando, stanco gridò: “Fate di me ciò che volete; qualunque morte mi sarà un beneficio”. L’imperatore fece portare Martino sopra una terrazza del suo palazzo e nascosto dietro una grata, assistette alla degradazione del papa. I soldati strapparono al pontefice la pianeta, gli tagliarono il pallio, i legacci dei sandali neri e bianchi, insegne della dignità episcopale. Quindi il papa fu consegnato al prefetto della città, il quale ordinò al carnefice di strappargli gli abiti; la sua tunica stessa fu scissa dall’alto in basso, cosicché restò quasi nudo, esposto al freddo di dicembre. Caricato di catene, fu trascinato con la gogna al collo, fino alla prigione in cui si richiudevano i delinquenti condannati a morte. Dopo ottantacinque giorni di carcere fu condotto in esilio in Crimea, dove morì sei mesi più tardi, nel 655, per il crudele trattamento subito. E’ festeggiato come martire, sia dai greci che dai cattolici romani (festa il 13 aprile).
Al vecchio abate Massimo il Confessore, il più importante teologo greco del suo tempo e a due suoi compagni di sventura dopo crudele flagellazione, fu strappata la lingua e recisa la mano destra, dopo di che furono mandati in esilio nella Lazia (Colchide) dove Massimo morì martire dell'ortodossia all’età di 80 anni. Costante II fece ancora un tentativo di far sentire all'occidente il peso della sua autorità, ma fu assassinato in Sicilia nel 668.
Solo con Costantino IV (668 685) la lotta ebbe fine. Infatti questo imperatore non tenne affatto a proseguire la contesa, che ormai era cosa completamente esaurita. I monofisiti erano irrecuperabili. La massima parte di loro non era più soggetta al dominio bizantino, e non sussisteva la minima speranza che l'impero riconquistasse le province orientali perdute. L'Africa, che per tanto tempo era stata il centro dell'opposizione, aveva perduto il suo capo in Massimo, ed ora, per di più, stava cadendo nelle mani dell'Islam .

 

Costantino IV convocò il VI concilio ecumenico (il III Costantinopolitano 680 681) che fu celebrato nella sala a cupola (=trullus) del palazzo imperiale e che fu detto perciò 'trullano'.

Il concilio fu presieduto da legati papali e condannò il monotelismo. Durò fino al settembre 681. La decisione finale fu proclamata solennemente nella diciottesima sessione alla presenza dell’imperatore, e sottoscritta dai 174 vescovi presenti al concilio. Papa Leone II approvò le decisioni del concilio e ratificò anche la condanna di Onorio, senza incolparlo mai direttamente di eresia perché aveva proceduto con trascuratezza. Il concilio già fin dalla prima sessione ‘esclude dalla chiesa e condanna il defunto papa dell’antica Roma, Onorio’. La stessa condanna si ripete in termini analoghi nella dichiarazione conclusiva. Il concilio aveva in sostanza riaffermato le definizioni di Calcedonia: le due nature sono congiunte non mescolate e non separate nell'unica persona divina umana di Cristo, così

esistono anche due volontà e due energie una divina e una umana le quali, non mescolate e non separate, operano insieme per la salvezza del genere umano (inconfuse, immutabiliter, indivise, inseparabiliter: i quattro avverbi di Calcedonia).

La definizione del sinodo stesso parla di due facoltà fisiche di volizione in Cristo, due facoltà da cui promanano atti non contrastanti a vicenda, poiché l'umana si assoggetta in tutto all'onnipotente volontà divina.
Il concilio metteva fine alla disputa monotelita, riaffermando le due nature nell’unità di una stessa Persona, sfuggendo in tal modo al rimprovero di ‘nestorianesimo’, ma non metteva certo fine al ‘monofisismo’, del resto spesso solo verbale, delle chiese d’Oriente, giacobita, copta, etiopica.

Siccome i concili ecumenici V e VI avevano trattato soltanto questioni riguardanti la fede e non la disciplina, l'imperatore Giustiniano II stimò opportuno continuare e completare la loro opera in un nuovo grande concilio. Fu fatto nel 692 a Costantinopoli di nuovo nella sala del trullus del palazzo imperiale, per cui porta il nome di sinodo trullano secondo, oppure anche di concilio Quinsesto come integratorio dei due concili precedenti. Si limitò ai problemi della situazione greco orientale e in parecchi dei suoi 102 canoni esplicò persino un'avversione palese, anzi aperta ostilità verso l'occidente, in modo speciale verso Roma: disapprovazione della legge occidentale sul celibato ecclesiastico, si disponeva che i presbiteri e i diaconi potessero usare del matrimonio dopo l'ordinazione, si proibiva, sotto pena grave, l'uso romano di digiunare nei sabati di quaresima (in oriente il sabato era mezza festa), si vietava di rappresentare Cristo sotto forma di agnello come si faceva in occidente, elevazione di grado del vescovo di Costantinopoli. Il can. 36 riprende alla lettera i termini del can. 28 di Calcedonia. “Noi decidiamo che la sede di Costantinopoli godrà degli stessi privilegi di quella dell’antica Roma, sarà ritenuta pari ad essa per quanto riguarda gli affari ecclesiastici e sarà la seconda sede dopo quella di Roma”, poi vengono le sedi di Alessandria, Antiochia, Gerusalemme. Questo non voleva dire proprio opporre Roma e Costantinopoli come antagoniste, significava fare del patriarca di Costantinopoli il primate di tutto l’oriente (e lo sarà di fatto quando Alessandria, Antiochia, Gerusalemme cadranno sotto il dominio dell’Islam) – come il vescovo di Roma è il primate di tutto l’occidente. Era già preludere allo scisma del 1054.

La chiesa orientale si è distanziata da quella occidentale. Papa Sergio, siriaco, si rifiutò di sottoscrivere gli atti di questo concilio. Quando il dispotico imperatore Giustiniano II tentò di impiegare contro di lui la violenza, accorsero in aiuto del papa le milizie civiche di Ravenna e delle terre vicine, e l'inviato imperiale dovette lasciare Roma. Giustiniano non poté vendicarsi dell'affronto; infatti nel 695 fu rovesciato, per ritornare nuovamente al potere nel 705. Presso i greci il trullano II fu considerato in seguito come concilio ecumenico (così ancor oggi), invece presso i latini vale per un sinodo 'ingannatore' (synodus erratica).
L'importanza capitale avuta dall'oriente nel primo millennio nello sviluppo della teologia speculativa appare chiaramente dal fatto stesso che tutti gli otto concili avvennero proprio in questa parte dell'impero.

Le origini del monachesimo cristiano

Premessa
Agli inizi del IV secolo, nel momento in cui la Chiesa si riconcilia col mondo, compare un movimento di contestazione che, per un ritorno all'antica opposizione, rinunzia al mondo. Il fenomeno si verifica soprattutto nei paesi dove la cultura ellenistica, di cui ormai era evidente il logorio, aveva a lungo soffocato una veneranda saggezza indigena, in Siria e in Egitto.
Il Donatismo aveva tratto la propria giustificazione dalla persecuzione di Costanzo. Verso la metà del secolo, Vitellio Afro sostiene che i cristiani sono sempre stati perseguitati, sino a Diocleziano, poiché la fede stessa implica la persecuzione. La repressione di Costanzo nei confronti dei Donatisti, è la prova che sono loro i veri cristiani. Tale argomento, non privo di fondamento, mette in luce le contraddizioni di un Impero cristiano e le compromissioni della Chiesa ufficiale. Il martirio rappresentava una specie di compimento logico della ricerca della perfezione cristiana. Ora, la conversione dei dirigenti dell'Impero è commisurata all'inserimento dei cristiani nella società. Ciò attenua la tensione escatologica del cristianesimo e può anche provocare conversioni interessate.
In luogo del martirio, la fuga del mondo si raffigura come un'altra via di accesso alla perfezione. La vita monastica sostituisce il martirio. E sotto numerosi aspetti, l'ideale monastico è nato da una reazione contro gli inevitabili compromessi che la Chiesa dell'epoca constantiniana si rassegnava ad accettare. L'anacoresi, cioè il ritiro verso il deserto, permette di realizzare l'aspirazione ad una vita celeste.

Una questione controversa
Le origini del monachesimo cristiano sono avvolte nell'oscurità. In una oscurità così fitta e impenetrabile, che la questione è aperta e in discussione da almeno sedici secoli, e cioè dal tempo di Girolamo.
Una prima tesi: il monachesimo cristiano affonda le sue radici nel paganesimo dell'Egitto. I cosiddetti katochoi (κατοχος=trattenuto) o reclusi dei Templi di Serapide conducevano una vita monastica in piena regola. Rinunciavano alle loro sostanze; si circondavano di una stretta clausura; osservavano la castità perfetta; praticavano l'ascesi sotto varie forme; si davano reciprocamente i titoli di 'padre' e 'fratello'; lottavano contro i demoni nei sogni e nelle visioni. In una parola, troviamo tra loro gli stessi schemi in seguito usati dai primi monaci cristiani, e dunque, poiché il monachesimo cristiano fa la sua comparsa proprio nelle adiacenze dei famosi templi dedicati a Serapide, Weingarten si ritenne autorizzato a proclamare senza esitazione che i katochoi diedero ispirazione ed origine al monachesimo cristiano.
Questa tesi fece sensazione negli ambienti intellettuali. Si formò un'ampia produzione critica d'accordo nel negare il carattere originale e indipendente del monachesimo cristiano.
Le principali opinioni al riguardo sono le seguenti.

  • Cristo non insegnò mai un'etica che implicasse l'ascesi. Paolo stravolse il messaggio evangelico nel predicare la rinuncia e proclamare i grandi meriti della verginità: queste idee, a quanto dicono, derivano dall'ambiente religioso e filosofico dell'epoca, prodotte da una visione pessimistica del mondo e da un dualismo radicale.
  1. I primi anacoreti e cenobiti cristiani furono semplici imitatori dei monaci buddhisti o risalgono agli Esseni o ai terapeuti del giudaismo.
  2. Altri sottolineano soprattutto l'influenza decisiva delle religioni misteriche, del neoplatonismo e di altre scuole filosofiche greche.
  3. Il monachesimo sarebbe il prodotto di una combinazione di idee filosofiche e religiose che si propagarono nel mondo di lingua greca dal II al IV secolo; il lessico, i costumi, gli ideali derivano da sistemi estranei al cristianesimo confluiti nelle sue origini.

Il monachesimo cristiano non è figlio né delle forme ascetiche dell'induismo o del buddhismo, né delle comunità pitagoriche, né di qualsiasi altra manifestazione del genere. Si tratta di pure affinità accidentali, superficiali o apparenti.
I monaci cristiani si ritirano per seguire Cristo e cercare Dio, mentre la rinuncia dei monaci buddhisti è ispirata dal convincimento che il mondo e la persona sono una pura e nefasta illusione, e inoltre dal desiderio di evadere dalla cattività della vita individuale e del ciclo delle reincarnazioni per fondersi nel grande Tutto impersonale o accedere al nirvana.
Non è possibile accettare il parallelismo che è stato suggerito tra 1'"uomo divino" e 1'"uomo di Dio". Il saggio pitagorico era considerato come un 'uomo divino' ed anche come un dio, perché il suo unico titolo per presentarsi  come inviato di Dio consisteva proprio nel suo partecipare della natura divina. Scrive Atanasio che Antonio provava vergogna per l'atto del mangiare, e naturalmente si pensa all'influenza della Vita di Pitagora su quella dell'illustre anacoreta; ma in realtà se Antonio ed altri monaci si vergognavano di mangiare, ciò avveniva perché il loro supremo interesse era la nutrizione spirituale, e quella schiavitù del cibo impediva loro di essere uniti con Dio in permanenza e in piena coscienza. Pitagora invece non doveva essere guardato mentre mangiava affinché non perdesse la fama di 'uomo divino'. Nelle origini del cristianesimo non troviamo l"uomo divino' del mondo greco e cioè il filosofo, ma l'Uomo Dio e cioè Cristo. Le radici della vita monastica vanno cercate nell'esempio di Cristo e degli apostoli, nei martiri e negli angeli. Nell''uomo di Dio' cristiano, l''uomo divino' della grecità trova la sua autentica realizzazione e redenzione.
I progenitori del monachesimo non furono certamente i filosofi. Si giustifica l'ascesi con ragioni evangeliche.
Se il monachesimo primitivo non deve la sua esistenza e la sua ispirazione di fondo ad influenze estranee al cristianesimo, ciò non vuol dire comunque che i monaci si considerassero del tutto estranei a conflitti e ad infiltrazioni rispetto alle tradizioni filosofiche e alle correnti spirituali del 'mondo esterno'. Niente e nessuno può sottrarsi all'influenza dell'ambiente. Pacomio, il grande padre del cenobitismo, era "completamente imbevuto della sapienza dell'antico Egitto". La dottrina di monaci come Giovanni Cassiano deve non poco alla formazione filosofica ricevuta nel mondo.

I monaci si interrogano sulle proprie origini
Gli asceti ebraici che compaiono nella Bibbia sono alla radice della vita monastica, non tanto i terapeuti, gli esseni o i cenobiti di Qumran. Girolamo tracciava questo magnifico albero genealogico a proposito di Paolino di Nola.
Altri fanno risalire il proprio albero genealogico alle origini stesse del genere umano. Giovanni Crisostomo paragona i solitari della Siria ad Adamo.
I solitari antichi conoscevano molto bene le Scritture. In esse scoprirono il tema affascinante del deserto. Come è risaputo, il deserto occupa un posto centrale nella storia e nella stessa formazione del popolo eletto. Quando Dio volle sposarsi con il popolo di Israele, secondo l'efficace immagine della Bibbia, lo condusse al deserto, e lì si realizzarono i grandi prodigi della predilezione divina: l 'Esodo! Ma il deserto non era un paradiso di delizie spirituali: era anche un banco di prova, di tentazione e di lotta con i nemici di Dio.
In questo scenario inospitale e crudele si prepararono alla loro missione Abramo, Giacobbe, Mosè, Elia e perfino Gesù Cristo.
Il vero fondatore del monachesimo, secondo i padri della chiesa, fu il Signore.
Il monachesimo cristiano sorge dalla dottrina e dall'esempio di Cristo, che non solo formulò i principi fondamentali della spiritualità monastica, ma li mise anche in pratica: deserto, digiuno, lotta con il demonio, solitudine, preghiera, rinuncia dei beni, obbedienza. Gesù Cristo è l'ideale del monaco.
Dopo Gesù vengono gli apostoli, e con loro la comunità che si formò a Gerusalemme. La bella descrizione dell'ideale dei primi cristiani di Gerusalemme, che dobbiamo all'evangelista Luca esercitò un forte influsso sul monachesimo.
I monaci dell'antichità, quindi, si consideravano i continuatori della genealogia degli amici di Dio che ci sono noti attraverso le Scritture, soprattutto di quelli che conobbero l'esperienza del deserto e praticarono una vita più o meno somigliante alla loro.

Gli inizi della vita religiosa
La vita religiosa, così come praticamente si è venuta svolgendo nella chiesa, è inseparabilmente collegata con la sua sostanza stessa e in un certo senso costituisce il cuore della vita cristiana. La chiesa ha sempre curato in modo del tutto speciale la vita religiosa, non tanto per la sua utilità nei riguardi della cultura e della società in genere, ma proprio perché vede adempiuta in essa, nella maniera più perfetta, la sua missione pastorale.
Nella storia della chiesa, sia in generale che nei singoli paesi, gli ordini religiosi sono un termometro sicuro per misurare il livello spirituale di tutta la vita cristiana. Dove fioriscono i chiostri fiorisce la vita cristiana anche nel popolo, e viceversa dove essi decadono essa pure decade. Tutti coloro che combattono la chiesa come istituzione lo hanno esperimentato. In tutte le eresie più recenti e in tutte le imprese ostili alla religione, la lotta contro i conventi fu sempre un punto capitale del programma, e all'interno stesso della chiesa, le correnti ostili alla vita dei conventi hanno sempre portato a delle deviazioni, quando non addirittura a delle apostasie.

Gli inizi del monachesimo
Nasce in Egitto nella seconda metà del III secolo.
Gli storici di solito segnalano varie cause come determinanti per l'insorgere del monachesimo cristiano.

  1. La tesi forse più diffusa stabilisce una connessione stretta tra le origini del monachesimo e lo sviluppo della chiesa, soprattutto dopo la pace di Costantino. Il cristianesimo era diventato un movimento popolare, di massa. Vedendo fatalmente calare il livello religioso e morale delle loro comunità, gli asceti si sentirono a disagio. Secondo questa tesi, il monachesimo è in primo luogo una prosecuzione del cristianesimo primitivo, separato dal mondo.
  2. Una seconda spiegazione ricollega le origini monastiche ai cristiani  che  si rifugiarono nelle zone montuose e desertiche durante le persecuzioni e che si adattarono a vivere in solitudine.
  3. Una terza opinione diametralmente opposta alla seconda, è quella di coloro che ritengono che i fondatori del monachesimo cristiano affrontassero di propria iniziativa un martirio che l'impero aveva ormai rinunciato ad infliggere. Secondo questa interpretazione, la vita monastica non sarebbe che un surrogato del martirio, un martirio incruento. E' un'idea molto diffusa nella letteratura, cristiana antica.

Sono state formulate altre ipotesi.
Alcuni pensano che i primi monaci desideravano in primo luogo lottare col demonio nel suo stesso feudo, e cioè il deserto; altri, che i monaci cercavano il paradiso perduto; altri ancora, che li spingeva il desiderio di contemplare Dio e le cose divine; altri infine molto meno idealisti danno molto peso al desiderio di fuga dalle ristrettezze economiche, assillo del contadino copto. Alla vocazione monastica possono essere collegate numerose motivazioni come ad esempio "per liberarsi dalla schiavitù, o da un debito, o dalla sottomissione ai genitori, o dalla collera di una donna", ecc.
Ma da quale esigenza fu spinto il primo monaco? La caratteristica più ovvia ed evidente della vocazione di Antonio (Atanasio la presenta come una tipica vocazione monastica) è quella di dare una risposta libera e generosa al richiamo del Signore contenuto nel Vangelo "Se vuoi essere perfetto, va', vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo; poi vieni e seguimi". Non si allontanò dagli uomini se non per cercare Dio con cuore libero". I suoi emuli fanno lo stesso. Intendono il vangelo in tutto il suo rigore letterale; non lo interpretano in modo accomodante; abbandonano ogni cosa. "E per mettere in pratica questo distacco totale si dirigono dove non c'è nulla, e cioè nel deserto". Alcuni studiosi moderni hanno dimostrato le motivazioni religiose della conversione e del distacco dal mondo. “La molla che diede origine al monachesimo è certamente la necessità che spinse le anime a fuggire dal mondo per consacrarsi liberamente al servizio esclusivo di Dio. Vogliono rompere con il mondo profano, votato alla distruzione o quanto meno troppo invadente, in modo ancora più netto che non attraverso la semplice promessa della verginità”.
Per lo più l'esodo monastico fu favorito dalle circostanze. Il secolo III fu un periodo estremamente tormentato e violento della storia dell'impero, pieno di calamità e sofferenze, di crimini impuniti e di corruzione morale. Una burocrazia senza spina dorsale tiranneggiava i cittadini e precludeva ogni sorta di sviluppo politico e sociale. Un impoverimento generale e progressivo poneva ostacoli insuperabili allo spirito di iniziativa. Le scienze attraversavano un periodo di stasi. L'umanità insomma sembrava soffrire di un'irrimediabile decadenza. Nessuna speranza terrestre illuminava la vita. Andava inoltre diffondendosi il convincimento che il mondo fosse prossimo alla fine. Quale rifugio restava all'uomo se non quello della religione, della speranza in un mondo futuro in cui tutte le ingiustizie del presente sarebbero state sanate?
Sorsero dappertutto gruppi gnostici che, reagendo contro la depravazione dei costumi, il più delle volte predicavano un modello morale molto severo, un'ascesi estenuante. Vigeva l'encratismo (εγκρατεια=continenza, indica una forma di ascetismo estremo, che nella chiesa antica è apparso subito sospetto, in quanto implicava il rifiuto delle nozze e dell'uso di cibarsi con carne). Faceva la sua comparsa il manicheismo. Tutto questo influisce sul monachesimo nascente.
Anche la pace all'interno della chiesa e la conseguente ondata di umanità profana e mediocre che la sommerse, con i neofiti mal preparati e poco convinti, contribuirono in gran parte a ingrossare le file degli anacoreti. Il monachesimo cristiano è quasi ossessionato dall'esempio offerto dalla comunità apostolica di Gerusalemme per la fede, per la vita di santità, il fervore e l'entusiasmo, l'intima unione dei cuori, la comunità dei beni, la perseveranza nella preghiera: una serie di valori, insomma, che mancavano o erano alquanto fraintesi nelle comunità ecclesiali di quel tempo.

Il mondo pittoresco dei primi monaci
Che cosa si intende per vita monastica? Molti autori pensano al cenobitismo                                                                                   pacomiano.
Se la vita degli anacoreti e dei cenobiti copti è la sola a meritare il nome di monachesimo, allora è evidente l'origine copta. Ma questo è in contraddizione con l'opinione degli antichi e di conseguenza non sembra possibile chiamare monachesimo 'preistorico' quelle forme monastiche che non abbiano origine nel paese del Nilo. Girolamo nel 384, Agostino nel 389, Cassiano nel 426 e prima del 384 le anonime Consultationes Zacchei et Apollonii si interessano del tema. Secondo le Consultationes (opera forse di Firmico Materno scritta in Italia verso il 360: un pagano Apollonio interroga un cristiano Zaccheo) tre sono i livelli della vita monastica:

  1. eremiti o anacoreti (monaci in senso stretto),
  2. asceti (si riuniscono per pregare),
  3. chi conduce una vita casta e religiosa, che si distingue appena dalla vita del comune fedele.

L'appellativo monaco poi è usato in modo dispregiativo verso coloro che in precedenza erano continenti o asceti. Agostino parla di due categorie di monaci anacoreti e cenobiti ma descrive le comunità urbane di Milano e di Roma. Girolamo e Cassiano distinguono tre categorie: cenobiti, anacoreti e una terza remnuoth (Gerolamo), e sarabaitae Cassiano) [falsi apostoli, comparsi in Egitto dopo la morte degli apostoli; dall'ebraico sarab ribelle]. Il terzo gruppo è presentato con tinte fosche. Sono i peggiori di tutti, infedeli, eretici e scismatici. Sono accusati di ribellione, di superbia.
Girolamo e Cassiano esagerano perché devono in quel momento difendere il cristianesimo copto. Possiamo stare sicuri che i tanto bistrattati sarabaiti non erano così perversi come li dipingono; anche se, con ogni probabilità, alcuni di essi non fecero onore alla loro vocazione, a parte gli abusi di cui li accusano i loro censori, il loro stile di vita era di per sé perfettamente accettabile. Altri autori, come Egeria e Cirillo di Gerusalemme, li ricordano con simpatia.
Questo modo di concepire e praticare la vita monastica era antico almeno quanto il cenobitismo egiziano. I remnuoth, i sarabaitae, i 'figli e figlie del patto', gli apotaktitai, i monazontes kai parthenas, menzionati negli scritti e nei sermoni di Atanasio, Egeria, Basilio, Gregorio di Nazianzo, Cirillo di Gerusalemme e tanti altri padri, in realtà appartengono a una medesima categoria di monaci il cui nome variava col variare dei paesi di origine. Per rendersene conto basta scorrere l'Itinerarium di Egeria di nobile famiglia fece parte di una comunità religiosa, situata probabilmente in Galizia; in questo diario descrive le tappe del suo viaggio [Egitto, Palestina, Mesopotamia, Costantinopoli], le chiese di Gerusalemme e dei suoi dintorni, incontra dei monaci nel Sinai, in Egitto, in Siria, in Mesopotamia, alcuni l’accompagnano; i monasteri si presentano come degli eremitaggi, nei pressi di una chiesa officiata da un prete).
Tutte le forme ascetiche descritte possono rientrare nell'ampia "terza categoria di monaci" che incontriamo da ogni parte. Secondo Giuliano l'apostata i cristiani davano il nome di apotaktitai a quei monaci itineranti che vivevano di elemosine. Sono girovaghi. Altri vivevano in luoghi appartati da soli o in piccoli gruppi. In genere abitavano nelle città o nei villaggi. Si raccoglievano intorno a una chiesa le vergini sotto l'autorità di una diaconessa e partecipavano attivamente al culto divino. Dipendevano giuridicamente dal vescovo locale. Erano animati da due concetti: un vivo entusiasmo per le cose dello spirito, una marcata avversione per i beni terreni, come il matrimonio, le ricchezze, gli onori e le comodità (questo rifiuto sfociò a volte nello scisma e nell'eresia). Tutti avevano il dovere di notificare al vescovo la loro decisione.
In occidente registriamo un fenomeno molto simile se non identico. Si tratta di comunità di chierici, di vergini e di monaci laici, raggruppate sotto la direzione di un vescovo o di un presbitero (Eusebio a Vercelli, Martino a Tours, Ambrogio a Milano, Agostino a Ippona... ).
"Fu questa la vita monastica che sbocciò spontaneamente in seno alle chiese cristiane, frutto delle diverse forme di fervore religioso. Il monachesimo figlio dell'ascesi primitiva, era ispirato dalle stesse tendenze che in Egitto spingevano i solitari a inoltrarsi nel deserto onnipresente. L'organizzazione embrionale, la mancanza di equilibrio nelle convinzioni ascetiche, la nutrita presenza dei monaci in tutte quelle zone in cui non si erano fatti strada i valori del cenobitismo copto, sono elementi che ci inducono a collocare le sue origini in un momento “almeno altrettanto lontano rispetto a quello in cui Antonio reclutava i suoi primi discepoli".

Antonio (250 356) (anacoreta/eremita)
Nacque a Coma (oggi Kiman el Arus), nel medio Egitto da genitori contadini benestanti. "Se vuoi essere perfetto, va', vendi quello che hai, dallo ai poveri". Ascolta l'invito. La vocazione di Antonio è autenticamente evangelica.

  1. Si stabilisce in un tugurio con un anziano, lavora, prega, visita altri campioni spirituali, è equilibrato, lotta con il demonio.
  2. Va a stabilirsi più lontano in un luogo zeppo di tombe e i demoni si fanno avanti col picchiarlo, assumono l'aspetto di belve spaventose. Ha vinto. Ha 35 anni.
  3. Ora avverte la necessità di ritirarsi nel cuore del deserto: é il passo definitivo e si stabilisce all'interno di un forte abbandonato. Trascorrerà vent'anni della sua vita. Ha 55 anni, è il perfetto uomo di Dio e riceve il dono della paternità spirituale. Si forma una colonia di eremiti. Si direbbe che ci troviamo in un mondo nuovo, i cui abitanti vivono già la vita della città celeste. E' l'atto di nascita, secondo Atanasio, del monachesimo del deserto. Sono fondate numerose colonie monastiche. Queste attività furono interrotte dalla persecuzione di Massimino. Antonio e i suoi discepoli decisero di recarsi ad Alessandria. Ma il prefetto romano li fece espellere. Dopo il martirio del patriarca Pietro (311), Antonio si rivolse ancora alla sua solitudine, deciso a farsi martire attraverso un'ascesi sempre più rigorosa. Ma il nuovo deserto era diverso da quello di prima. Tutto il mondo lo cercava e lo venerava come santo e uomo di Dio. E così pensò bene di scappare e nascondersi.
  4. Scopre un luogo piano, un luogo ideale per vivere da eremita. I suoi discepoli trovano il suo nascondiglio e si accordano per incontrarsi periodicamente.

Fa un altro viaggio ad Alessandria, invitato con insistenza dai vescovi e da tutti i fratelli a smentire gli ariani, che avevano affermato che Antonio condivideva le loro idee. Trascorse gli ultimi quindici anni di vita in compagnia di due discepoli.
Questo è il racconto di Atanasio. E' storicamente attendibile? Atanasio non avrebbe potuto inventare una biografia. Quanto ai miracoli, alle profezie e alle lotte coi demoni possiamo avanzare qualche riserva. E' molto probabile che vedesse i demoni dove non c'erano. Tuttavia fu uno dei taumaturghi più illustri che siano esistiti.
Antonio non apparteneva al clero, ma verso i sacerdoti mostrò sempre una grandissima venerazione. Gente di ogni condizione ricorreva a lui per chiedere consiglio. Costantino e i suoi figli gli scrissero delle lettere. Atanasio ed altri vescovi si recarono a visitarlo. Dava volentieri esortazioni riguardo alla salvezza dell'anima, sebbene talora non mancasse di durezza nel farlo, ma era nella solitudine soltanto che si trovava a suo agio. Sant'Atanasio disse di lui: "Fu un uomo tutto d'un pezzo, che non con gli scritti, né con la sapienza del mondo e nemmeno con qualche occulto potere, ma solo per la sua pietà è diventato celebre". “Antonio era solito mangiare una sola volta al giorno, dopo il tramonto, e talvolta non prendeva cibo per due, o spesso per quattro giorni. Il suo cibo era pane e sale; beveva solo acqua" (Atanasio).

Pacomio (292 346) (cenobita)
Lo sviluppo e l'organizzazione della vita anacoretica in raggruppamenti comportavano ancora molti pericoli: dal punto di vista spirituale, da quello materiale, perché il numero dei monaci così dispersi era troppo alto. Con Pacomio appare un nuovo tipo di monachesimo che, per reazione, non mette più l'accento sulla solitudine, ma sulla "vita comune" e, di conseguenza, sull'obbedienza. Dopo essersi esercitato per sette anni nella vita solitaria, Pacomio fonda, verso il 320, la sua prima comunità a Tabennisi, un villaggio abbandonato dell'alto Egitto. In seguito fonda altre comunità e compone per esse una regola, che è la più antica che si conosca. Cinto da un muro, il monastero pacomiano comprende, con la cappella e le sue dipendenze, una serie di case fatte per una ventina di monaci sotto l'autorità di un preposito, assistito da un sostituto; tre o quattro formano una tribù; tutte le tribù fanno capo all'abate, che con il suo assistente assicura la direzione spirituale della comunità e il buon funzionamento dei servizi generali. Le case delegano ogni settimana il numero dei monaci necessario a questi servizi. La maggior parte della giornata è, dunque, occupata nei servizi generali o nei campi. Ogni gruppo di lavoro ha il proprio capo, il quale deve rendere conto all'abate. Tutto è all'egiziana, come al tempo dei faraoni, i cui sovrintendenti vigilavano sul lavoro; la differenza sta nel fatto che qui tutto si svolge volontariamente. Ciò che Pacomio pretendeva era di pervenire all'autentica unione dei cuori, all'unanimità. Ma la primitiva comunità di Gerusalemme era il modello che si doveva imitare. "Un cuor solo e un'anima sola". E dunque per Pacomio questa idea si materializza nei servizi che i fratelli reciprocamente si prestano. Pacomio si oppose ad ogni estremismo. Esigeva regolarità nei pasti come nel culto divino e voleva che le sue comunità fossero autosufficienti mediante il lavoro dei monaci, come l'intrecciare stuoie e il coltivare frutta e verdura. Chi entrava nella sua comunità doveva depositare i suoi beni in un fondo comune e diventava membro a pieno diritto dopo un periodo di prova. Per dimostrare la loro serietà di intenzione, i novizi dovevano restare fuori della porta del monastero per parecchi giorni. Bisognava imparare a memoria alcune parti della Bibbia. Agli analfabeti si insegnava loro a leggere e a scrivere.
Pacomio moriva nel 346, ma la sua opera continuava a diffondersi. Gerolamo racconta che a Pasqua, quando i monaci di tutti i monasteri, retti dalla regola di Pacomio, venivano pellegrinando a Tabennisi, se ne potevano vedere radunati fino a 50.000 (le cifre che ci forniscono le fonti certamente non concordano: Cassiano e Sozomeno 5000, Palladio 3000, Gerolamo 50.000... !). Bisogna capire che il monachesimo di Pacomio fu una specie di movimento sociale e che non era solo la devozione che muoveva tanti ad abbandonare il lavoro nei domini statali, ma la maggior umanità con cui erano trattati nel monastero.
A differenza di Antonio, Pacomio non era un ricco proprietario quando aveva abbracciato la vita monastica. Per guadagnare da vivere sia lui che i suoi primi compagni lavoravano come braccianti agricoli. Non era tuttavia l'agricoltura, ma il lavoro manuale ad assicurare ai monaci le principali risorse. I monasteri pacomiani erano vere e proprie repubbliche di lavoratori di ogni genere.

Nell’ordine dei pacomiani si segnalano due figure:
Orsiesi, abate generale, durante il cui governo ci fu un’ondata di secolarizzazione che investì la maggior parte dei monasteri e portò già nella seconda generazione del cenobitismo ad una prima “controversia sulla povertà”; nominò suo sostituto Teodoro (350-368) che riportò la Koinonia (12 monasteri maschili e 3 femminili). Orsiesi muore dopo il 386 con un testamento in cui richiama l’eredità di Pacomio, la povertà senza compromessi, la Sacra Scrittura come fondamento della aspirazione ascetica. Nel 390 Teofilo vescovo di Alessandria fece costruire sulla costa egiziana del Mediterraneo il monastero pacomiano  della Metanoia sul luogo del santuario di Serapide a Canopo, da lui distrutto.

Basilio (330 379) (regola)
Il monachesimo si estende sempre più in tutto il vicino Oriente: in Palestina, all'inizio del sec. IV, con la 'laura' (=villaggio), in Siria. Il progresso decisivo viene però realizzato da Basilio di Cappadocia che, verso il 357 si fa monaco e poi, dopo un viaggio di informazione in Egitto, si stabilisce in una proprietà di famiglia sui monti del Ponto con un gruppo di amici, fra i quali Gregorio, che diventerà più tardi vescovo di Nazianzo.
Con Basilio vediamo generalizzarsi la nuova concezione dell'istituzione monastica, promossa anche da Gerolamo; essa farà legge nella storia della chiesa e avrà uno sviluppo nuovo e originale con il monachesimo benedettino (VI secolo in poi): l'accento è messo ormai deliberatamente sulla vita comune come norma dello sviluppo della vita spirituale. Basilio aveva capito che la vita cristiana è soprattutto comunitaria, cioè vita di amore scambievole, riflesso della vita trinitaria che ne è il modello. Perciò nelle due regole che scrisse per i monaci, ritornò insistentemente sull'unità, a cui essi dovevano arrivare, attraverso l'amore, perché si realizzi quella promessa di Gesù a chi è unito nel suo nome.
L'ideale di Basilio e dei suoi compagni consiste nel seguire Cristo, l'unica strada che conduce alla vita. I mezzi per riuscirvi sono la rinuncia, l'ascesi e lo sforzo per giungere a Dio attraverso la preghiera. Le occupazioni ordinarie del gruppo si riducono a quattro: salmodia comunitaria, lavoro manuale, accompagnato dalla preghiera segreta e dal canto di inni; lettura e meditazione delle scritture; preghiera personale o privata. Basilio, essendo monaco e poi vescovo, integrò maggiormente le comunità monastiche nella chiesa. Era convinto che spettasse al vescovo l'autorità suprema sui monasteri. Al tempo stesso i monasteri cominciarono ad aprirsi maggiormente al mondo.

  • Basilio perfezionò il cenobitismo fondato da Pacomio.
  • L'opera di Pacomio è pratica e concreta, mentre quella di Basilio si fonda su una dottrina ascetica e monastica coerente, perfettamente sviluppata, vivacemente motivata e dedotta in modo logico da principi chiaramente enunciati.
  • Pacomio crea monasteri immensi, Basilio preferisce comunità molto più ristrette, autentiche 'confraternite'.
  • Pacomio è un accentratore, Basilio opta per il decentramento.
  • Pacomio ammorbidisce l'ascesi individuale; Basilio non vi fa affidamento.
  • Pacomio impone una grande quantità di lavoro manuale: Basilio trova un equilibrio migliore tra lavoro e preghiera...

     Basilio organizzò in modo originale un cenobitismo autentico e integrale.

Il monachesimo in Palestina
Il passato biblico della penisola del Sinairende comprensibile il fatto che questa, a partire dal IV secolo, divenisse non solo meta di numerosi pellegrini di Terrasanta, ma anche luogo ambito di insediamenti del primo mo­nachesimo. Il monaco Silvano, originario della Palestina, verso il 380arri­vò al monte Sinai con un gruppo di dodici discepoli che si erano raccolti in­torno a lui nel deserto di Sketis, e vi rimase per parecchi anni prima di dar vita ad un nuovo insediamento di monaci nel centro palestinese di Gerasa. Un suo discepolo, Netras, fu chiamato a coprire la sede vescovile di Faran nella penisola. Quando la pellegrina Egeria visitò tra il 381 e il 384il monte Sinai, numerose capanne di anacoreti si trovavano sulle sue pendíci, e sulla sommità vi era una piccola chiesa in cui i monaci si radunavano per ce­lebrare le funzioni liturgiche. Evidentemente erano state qui adottate le forme di vita anacoretica del Basso Egitto. La grande stagione del monachesi­mo sinaitico cominciò comunque soltanto con la fondazione di un monastero di cenobiti da parte dell'imperatore Giustiniano I nel 527. Al IV secolo risalgono an­che le fondazioni di monaci presso la città portuale di Rhaitou sulla riva orientale del golfo di Suez, anche se la notizia di un certo Ammonio su un'incursione dei Blemmi a Rhaitou, nella quale trovarono la morte 40monaci, non appare molto credibile.
Sul monachesimo che stava allora sbocciando dovette esercitare una grande forza di attrazione la Terra santa. Vero è che i primi inizi rimangono qui ancora oscuri, ma il principio dell'attività di san Caritone (260-350) va collocato intorno al 330; egli, secondo la sua Vita scritta nel VI secolo, giunse in Palesti­na come pellegrino provenendo da Iconio, un centro dell'Asia Minore, e pose la sua cella a Faran, a nordest di Gerusalemme, donde si sviluppò la «Laura (Λαυρα) di S. Caritone».
Con il termine laura èindicata la forma tipica palestinese d'un insediamento di monaci in cui le celle sono disposte l'una vi­cina all'altra intorno ad un nucleo centrale che comprende, accanto ad altri edifici, la chiesa dove tutti gli abitanti della laura si ritrovano il sabato e la domenica per le funzioni liturgiche. La Vitaattribuisce a Caritone la fonda­zione di altre due laure quella di Duka, presso Gerico, e quella di Suka, a sud di Betlemme. Queste tre laure che risalgono a Caritone sono documentate per il IV secolo anche da altre fonti. Mentre per esse non si può provare al­cuna dipendenza da modelli egiziani, le due altre fondazioni monastiche del IV secolo in Palestina sono di certo collegate strettamente al monachesimo dell'Egitto.

Ilarione (290-371),al quale Girolamo dedicò prima del 392una breve bio­grafia assai letta e con una chiara tendenza alla trasfigurazione eroica, dopo aver compiuto i suoi studi ad Alessandria, dimorò qualche tempo presso An­tonio il Grande e, tornato nella Palestina sua patria, visse circa vent'anni se­condo il sistema di vita degli anacoreti egiziani nei pressi di Maiuma lo scalo di Gaza. Egli fu il primo a rinnovare in Terra Santa le gesta di Antonio e inizia in questa terra la vita monastica. In seguito egli lasciò la Palestina e, dopo una lunga vita di nomade, morì intorno al 370a Cipro. Anche se parecchi particolari della Vitadi Ilarione scritta da Girolamo rimangono dubbi, il quadro storico che vi èpresen­tato ètuttavia accettabile.
Forse fu all'autorità di Epifanio, in seguito ve­scovo di Salamina di Cipro dal 365 al 403, che si richiamò Girolamo; anch'egli, nato nel 315 in Palestina, aveva cono­sciuto il monachesimo in Egitto dove era rimasto fino ai 20 anni ed aveva poi fondato nel suo luogo natale di Besanduc in Palestina, presso Eleuteropoli, una comunità di monaci, dirigen­dola come superiore e presbitero per trent'anni.
Grande importanza ebbe per l'ulteriore sviluppo del monachesimo pale­stinese nel V VI secolo uno straniero, Eutimio di Melitene (377-473) nella Piccola Arme­nia, che nel 405 giunse in Palestina e visse dapprima in una cella presso la laura di Caritone a Faran. Ivi divenne amico di Teoctisto e con lui, dopo sei anni, si ritirò presso l'odierno Wadi Mukellik, ad ovest di Qumran. Quando intorno a loro si radunarono altri monaci, vollero fondare in un pri­mo momento una laura del tipo di quella di Faran, ma poi si decisero per un cenobio, la cui direzione fu assunta da Teoctisto, mentre Eutimio visse come consigliere spirituale in una grotta vicina. Qui entrò in contatto con una tribù di beduini, che egli portò al cristianesimo e il cui capo, su suo suggeri­mento fu consacrato dal vescovo Giovenale di Gerusalemme primo «vescovo degli accampamenti di tende».
Eutimio svolse anche attività missionaria quando dimorò nelle regioni desertiche di Ruban e di Ziph (a sud dell’He­bron). Al suo ritorno, dopo una certa resistenza, egli fondò una laura non lungi dal monastero di Teoctisto dalla quale, dopo la sua morte (473), nacque il grande monastero cenobitico di Eutimio. Qui Eutimio divenne per quattro decenni la figura di maggiore spicco del monachesimo palestinese e la sua influenza durò ancora a lungo attraverso i suoi discepoli, tra i quali sono da ricordare, oltre a Teoctisto ed altri, Donino (poi vescovo di Antiochia), Stefano (poi vescovo di Jamnia), Martirio (poi vescovo di Gerusalemme), l'abate Gerasimo ed il giovane Saba, che doveva diventare il custode ed il maggior fautore dell'ideale monastico di Eutimio nei sessanta anni dopo la morte del suo maestro. Ad Eutimio risale anche quella consuetudine che è caratteristica del rapporto tra cenobio e laura in Palestina e che fu elevata a norma dall'abate Saba: dapprima il giovane  monaco viene istruito nel cenobio e, solo dopo aver dato certe prove, viene autorizzato dal suo abate ad affrontare le più alte esigenze della vita semianacoretica della laura.
Quale fondatore di monasteri merita di essere citato ancora un altro straniero, il georgiano Nabarnugi (+491) di discendenza regale, che visse in un primo periodo come ostaggio alla corte di Teodosio II a Costantinopoli; poi, forse nel 429, fuggì a Gerusalemme, si fece monaco e vi fondò un ospizio per i pellegrini e per i poveri, dal quale si sviluppò il «monastero degli Iberi». PietroIbero (così detto perchè originario della Georgia (=Iberia) questo il nome che egli assunse da monaco dovette poi abbandonare il suo monastero di Gerusalemme a motivo delle sue vedute monofisitiche per sfuggire a Giovenale, visse nelle vicinanze di Gaza e durante la rivolta monastica del 452 fu nominato vescovo di Maiuma. Pur potendo a malapena prender possesso delle sua sede e risiedervi ben poco, con la sua attività fece della fascia costiera palestinese un baluardo dei monofisiti. E’ significativo il fatto che Severo, il futuro patriarca d'Antiochia, sia stato suo alunno e che abbia soggiornato poi a Gaza come monaco, prima d'intraprendere la sua carriera a Costantinopoli.
Sotto il vescovo Giovenale il monachesimo palestinese ebbe un «archimandrita dei monaci» nella persona del corepiscopo Passarione. Questa circostanza mostra che molto presto alcuni vescovi mirarono ad uno stretto legame del monachesimo con la chiesa; sarà poi il concilio di Calcedonia a fissare la norma del diritto ecclesiastico che sottopone per principio il monastero al controllo vescovíle.

Lo sviluppo esplosivo del monachesimo nei secoli IV e V incipiente comportò, certo, crisi e ripercussioni, che però non ne poterono impedire l'ulteriore diffusione. L'Egitto restava la sua madrepatria, meta di pellegrinaggi che puntavano sui luoghi più famosi del primo entusiasmo, ma a poco a poco emersero sempre più nettamente in primo piano anche altre province dell'impero. Va rilevata soprattutto l'attrattiva che dall'inizio dei sec. V in poi esercita la Palestina. Il flusso dei pellegrini, che, provenienti dal mondo intero, agognano i luoghi santi, reca con sé più d'uno che finisce con lo stabilirsi in Palestina per menarvi una vita accetta a Dio. Anche in Terra Santa nasce quindi un monachesimo, che però è meno  «chiuso» in se stesso di quello egiziano, è più aperto, per quanto concerne sia l'origine geografica sia lo status sociale.
Le personalità più significative di fondatori che si rivelano in questo tempo sono indubbiamente Eutimio il Grande (di cui già si sono fatte alcune osservazioni), Teodosio il «cenobiarca» e Saba.
Eutimio (377-473) fondò una laura la cui chiesa fu consacrata da Giovenale (422-458) nel 429. Fin dagli inizi è evidente l'«internazionalità». Eutimio stesso proviene da Melitene sull'Eufrate, alcuni dei suoi primi monaci dalla penisola del Sinai, altri sono cappadoci e siri, si fa menzione d'un «romano» e, per finire, di un unico palestinese. La vita del fondatore non si svolge unicamente nel quadro delle finalità monastiche; nessuno dei grandi abati dell'epoca può sottrarsi alla controversia di politica ecclesiastica che si è accesa intorno al patriarca Giovenale, né ignorare Calcedonia.

Monasteri latini in Palestina
Prima o poi il monachesimo orientale doveva esercitare la sua forza d'attrazione anche sull'occidente latino, che già in precedenza, attraverso Atanasio (nel 335 a Treviri, nel 340 343a Roma, nel 345ad Aquileia), aveva avuto notizie di prima mano del nuovo ascetismo e poté presto entusiasmarsi per queste forme di vita cristiana quando la Vita di Antonio scritta da Atana­sio divenne accessibile in traduzione latina. Singoli cristiani si trovano presto in Egitto e in Palestina, ma solo su territorio palestinese si svilupparono anche i monasteri fondati dagli occidentali e da questi improntati secondo ca­ratteristiche proprie.
Alle tre fondazioni monastiche dell'epoca anteriore a Calcedonia che vanno qui ricordate parteciparono di volta in volta in modo determinante con i loro mezzi e con il loro entusiasmo per l'ascetismo tre dame dell'aristocrazia romana. La prima fu Melania Maggiore  (nata circa 341 342) che, dopo la morte del marito Va1erio Massimo, praefectus urbis tra il 361 e il 363, aderì ad un circolo ascetico; nel 372 circa si mise in viaggio per l'Egitto e, dopo aver visitato gli insediamenti dei monaci dei monti di Nitria, raggiunse la Pa­lestina. Ad Alessandria aveva conosciuto bene Rufino, originario di Aquileia, e con lui fondò intorno al 380 un doppio monastero sul Monte degli Ulivi, fornendo la dotazione necessaria. Già in questo primo insediamento occiden­tale si può riconoscere un tratto caratteristico che sarà tipico anche delle fon­dazioni occidentali più tarde: il vivo interesse per la letteratura ascetica e teo­logica. Dopo un periodo piuttosto lungo passato in Occidente, durante il quale visitò a Nola il cugíno Paolino (nel 400)e ad Ippona (nel 404) Agostino, Melania morì nel suo monastero sul Monte degli Ulivi, mentre Rufino, che aveva lasciato la Palestina nel 397, non vi fece più ritorno.
La secondafondazione monastica occidentale è opera comune di Girola­mo e della nobile romana Paola Maggiore. Il primo aveva già vissuto da anacoreta, poco dopo il 372, nel deserto di Calcide a sudest di Antiochia, ma non si era sentito maturo per le esigenze dell'anacoretismo ed era quindi tor­nato a Roma dove aveva diretto un circolo ascetico di nobili dame. Nel 385, in seguito ad una forte ondata antimonastica, abbandonò l'Italia con alcuni monaci e si recò in Palestina, dove alcuni mesi dopo lo segui Paola con la fi­glia Eustochio. Dopo una visita ai monaci di Nitria, ritornarono in Palestina e scelsero Betlemmeper fermarvisi definitivamente (386). Nei tre anni successi­vi vennero creati un monastero femminile, uno maschile ed un ospizio per pel­legrini, alla cui costruzione provvide Paola. Le monache del monastero fem­minile erano suddivise, secondo la loro origine sociale, in tre gruppi, ciascuno con una propria superiora: il che fa presupporre un numero tutt'altro che piccolo di persone.
Meno numerosa era la comunità del monastero maschile, al quale però conferiva grande importanza l'altezza spirituale del suo superio­re Girolamo. La casa da lui guidata, in cui si continuò ad adottare la liturgia latina, era non soltanto un centro di cura d'anime che assisteva i catecumeni e i cristiani dei dintorni, ma divenne soprattutto una felice isola latina in Terrasanta per i numerosi pellegrini che venivano dall'occidente. Inoltre il monastero di Girolamo ebbe un suo ruolo nelle accese controversie religiose del tempo (prima contesa origenista, pelagianesimo) e diventò, per la fitta corrispondenza del suo abate, un'importante fonte d'informazione sull'oriente cristiano per la latinità occidentale, esercitando anche numerosi influssi sul monachesímo dell'occidente. Dopo la morte di Paola (404), la figlia di lei Eustochio assunse per i successivi 15anni la direzione del monastero fem­minile (morì nel 418 419), la cui tradizione fu continuata dalla nipote di Paola, Paola Minore, che era venuta in Palestina intorno al 415ed era diventata una zelante discepola di Girolamo. Questi morì a sua volta il 30 settembre del 419 o del 420 a Betlemme, e con la sua morte cessano anche le notizie sul suo monastero.
Il terzocomplesso monastico occidentale di Gerusalemme deve la sua origine alla coppia di nobili romani Piniano e Melania (Minore, nipote. di Me­lania Maggiore), che dopo la morte prematura dei loro due figli si diede­ro alla vita ascetica e posero la loro enorme ricchezza al servizio di questo ideale. Fuggendo dall'invasione dei Goti di Alarico, passarono un anno in Sicilia con Albina, madre di Melania (410) e là conobbero Rufino; in seguito vissero sette anni nei loro possedimenti nordafricani, entrarono in rapporto con Agostino e, dopo la visita ormai divenuta obbligatoria dell'Egitto (417), si stabilirono definitivamente a Gerusalemme. L'esperienza egiziana li convinse dapprima ad una forma di vita ancor più rigorosamente anacoretica, ma in seguito il peso di tale vita indusse Melania a costruire un monastero femminile al quale, dopo la morte del marito (432), neseguì uno maschile; alla sua guida divenne famoso un giovane monaco molto benvoluto dalla coppia, Geronzio, che in seguito scrisse una biografia della sua protettrice. Corrisponde alla tradizione di Girolamo il fatto che anche queste fondazioni occidentali del V secolo mostrassero interessi teologici. Ma la maggiore forza di attrazio­ne venne stavolta dalla ricca attività caritativa della fondatrice e dai rapporti delle fondazioni stesse con l’aristocrazia, che misero Melania in contatto an­che con la corte di Costantinopoli e in particolare con l'imperatrice Eudochia; Melania l'accolse nel suo monastero e l'accompagnò in un viaggio attraverso la Terrasanta. Con la morte di Melania (31 dicembre 439)le sue fondazioni passarono però in mano greca e persero così gradualmente il loro carattere occidentale.­

Il monachesimo in occidente
Anche in occidente esistevano alcuni monasteri fin dal IV secolo. Le più antiche fondazioni ebbero luogo nella Gallia per opera del vescovo san Martino di Tours (+397) e a Milano per opera di sant'Ambrogio. Eusebio di Vercelli (+371) riunì tutti i suoi chierici in vita comune alla maniera dei monaci. Agostino ripeté la medesima cosa ad Ippona. Costituì il primo nucleo dei capitoli delle cattedrali e delle famiglie medioevali dei vescovi. Dopo il 400, le fondazioni divennero numerose specialmente nella Gallia meridionale.

Giovanni Cassiano, (360 435)
Originario della Provenza (o dell'oriente, come direbbe qualcuno), si trova giovanissimo (15 anni) nel monastero di Betlemme; parte per l'Egitto e si ferma presso i cenobiti e gli anacoreti. Passando per Costantinopoli arriva a Roma nel 405. Divenuto prete, si reca nel 415 a Marsiglia e vi fonda il monastero di san Vittore e nell'interno stesso della città, parecchi monasteri, e compone per essi le Collationes ossia delle 'Conversazioni' che si tramandarono come uno dei libri di devozione preferiti. Molta oscurità avvolge la personalità singolare di questo monaco orientale, che dopo una vita intensa, viene presso la tomba di san Vittore per attuare nella tranquillità del chiostro quell’ideale di santità di cui aveva incontrato così attraenti esempi durante le sue lunghe ricerche nei paesi egiziani. San Giovanni Crisostomo tempera lo zelo eccessivo degli asceti del deserto.     Cassiano fa risalire l'istituzione del monachesimo alle origini della chiesa. Secondo lui i monaci incarnano la regola del Vangelo, perpetuano il modo di vivere dei primi cristiani, ubbidiscono alle consegne degli apostoli. Cassiano identifica i termini 'evangelico', 'apostolico', 'monastico' e, a suo parere, non è possibile alcuna perfezione evangelica al di fuori della vita monastica. Presenta due tipi di perfezione: quella dei cenobiti (primitiva comunità di Gerusalemme), quella degli anacoreti (solitudine per la contemplazione). La perfezione ha come modello la vita angelica. Per raggiungerla, il monaco deve quindi lasciare il mondo, rinnegare la propria vita passata, le passioni dello spirito e della carne. Cassiano dà molta importanza alla virtù della castità. Il monaco deve desiderare le cose invisibili; dunque deve rinunciare persino al ricordo di coloro che ha lasciato e deve considerare anche il sacerdozio come una tentazione. Cassiano cita questo detto dei Padri: “Il monaco deve assolutamente evitare le donne e i vescovi", significando con ciò che l'ordinazione non consente più al monaco un taglio netto con il mondo. La perfezione è diventata monopolio dei monaci. Per lui il segno di discriminazione tra le persone non è tanto il battesimo quanto la professione religiosa. Reagì contro quella che gli sembrava un'insistenza esagerata sulla debolezza umana nella teologia di Agostino.  Si allontana da questi assai più per la sua psicologia dello sforzo personale che non per la sua teologia.
Marsiglia e Lérins daranno alla Gallia diversi vescovi. Questi monaci, formati alla lettura delle opere di Cassiano, trapianteranno nella dimora vescovile il loro precedente genere di vita monastica. L'ideale monastico, presentato come unico modello di perfezione cristiana e il reclutamento dei vescovi nei monasteri hanno probabilmente contribuito ad accelerare in Gallia l'istituirsi dell'obbligo della continenza per i diaconi, i preti e i vescovi sposati (Christophe, p.95 99).

Lerino
Sull'isola di Lerino, presso Cannes, sant'Onorato (+430) nel 410 fondò un monastero da cui usci una nuova ondata monastica. Un magnifico centro di spiritualità e di conquiste, un vivaio di illustri predicatori, centro attivissimo di alta cultura monastica, centro di istruzione in cui si formò una nuova schiera di vescovi-monaci che diffusero l'ideale monastico nelle loro diocesi. Il florido stato della chiesa in Gallia, sotto i primi merovingi, va attribuito per la massima parte all'influsso di Lerino.
Consigliato dal suo amico Leonzio, vescovo di Fréjus, Onorato finì col rifugiarsi a Lerino. Il mare lo proteggeva dall'indiscreta devozione della gente, sempre disposta a turbare la pace degli eremiti, e poteva tranquillamente dedicarsi alle mortificazioni del corpo, recitando il salterio, meditando le Scritture e pregando giorno e notte alla maniera dei solitari che vivevano nelle altre isole del Mediterraneo. Ma, come era naturale, non riuscì ad Onorato di mantenere completamente l'incognito. La fama della sua santità attirò numerosi discepoli desiderosi di imitarlo. La vita di Onorato fu interamente consacrata alla cura di tutti e di ciascuno dei suoi fratelli. Per premiare le sue virtù, il vescovo di Fréjus lo ordinò sacerdote, e verso la fine del 427 la chiesa di Arles lo volle come vescovo. Fin dall'inizio a Lérins dominò soprattutto un ideale: l'imitazione dei monaci copti e orientali. Troviamo un misto di cenobitismo ed eremitismo che ricorda le laure della Palestina. Onorato diede al suo monastero una regola scritta? Probabilmente sì, anche se non è giunta sino a noi. Comunque i monaci di Lérins furono campioni di disciplina, fervore e santità. Da parte dei contemporanei pochi centri monastici misero insieme una quantità così grande di lodi. "Ciò che gli altri predicano, voi lo mettete in pratica leggiamo in un sermone anonimo dell'epoca, diretto ai monaci di Lérins quello che gli altri dicono, voi lo fate. Siete uomini ancora con i piedi sulla terra e già mostrate cos'è la vita degli angeli, poiché l'esistenza celeste che gli eletti contempleranno un giorno, voi la rendete accessibile fin da ora. Siete, come dice il Salvatore, la luce del mondo".

L'Irlanda. Colombano (530/540 615)
Il futuro apostolo dell'Irlanda, san Patrizio (389 461), aveva dimorato per qualche tempo a Lerino e di 1ì era partito per trapiantare la vita monastica sull’“isola verde”. Quando san Patrizio morì nel 461, l'Irlanda non solo era stata cristianizzata, ma in essa la chiesa era addirittura guidata dai monaci. Un altro vero apostolo del paese fu Colomba o Colombano (+597) il vecchio che esplicò importante attività missionaria, partendo da un monastero da lui fondato nelle isole Ebridi.
L'Irlanda  non era mai appartenuta all'impero romano. Non possedeva città. I primi centri di cultura furono i monasteri. La chiesa fu monastica. I vescovi, se non erano abati essi stessi, dipendevano da qualche abate. A differenza del monachesimo occidentale del continente, i monaci irlandesi non davano grande importanza alla stabilità e dal secolo VI in poi il monaco celtico girovago divenne una figura comune in Europa. Il monachesimo fu straordinariamente popolare, scuola di vita spirituale e di devozione: insula doctorum et sanctorum.
Ebbe influenza sulle strutture della vita ecclesiastica. Il monaco sacerdote s’identificò - in Irlanda – con il sacerdote in cura d’anime e questi caratteri sacerdotali del suo ministero furono poi trasmessi anche nel continente, grazie alla missione iroscozzese.
Dal monastero di Bangor, sul finire del VI secolo, partì il più giovane Colombano con dodici compagni, fra cui san Gallo, per il continente. Essi diedero alla chiesa in Europa un impulso assai prezioso, anche se col loro spirito d’indipendenza furono causa di qualche difficoltà. Colombano si volse alla Borgogna e vi fondò il grande monastero di Luxeuil, poi giunse in Italia e fondò il monastero di Bobbio, presso Piacenza. I monasteri fondati da lui e dai suoi discepoli adottarono in seguito la regola benedettina.
Da Colombano promanarono impulsi religioso etici di altissimo valore; ma il gran santo ignorò completamente il diritto monastico allora vigente nell'area gallo-franca. Resse con autorità assolutamente autonoma le sue fondazioni, viaggiò a suo piacimento, fece celebrare cerimonie d'ogni sorta da un vescovo diverso da quello del luogo, non riconobbe al vescovo diocesano alcun diritto sul patrimonio conventuale, né a riscuotere tributi nei monasteri e a farvisi ospitare, ed esercitò funzioni pastorali al di fuori dell'ambito del monastero. Quando, alla fine, arrivò persino a rifiutarsi di comparire nei sinodi e a minacciare arbitrariamente di scomunica il re Teodorico II, nel 610 fu espulso dal regno burgundo e riparò nel monastero di Bobbio da lui fondato, dove morì nel 615. Nella storia del diritto canonico è citato talvolta il nome di Colombano in relazione al sorgere dell'esenzione claustrale, cioè dell'indipendenza dalla giurisdizione del vescovo. Ciò corrisponde a verità solo nel senso che Colombano, abituato alla situazione propria della sua Irlanda nativa, non pensò mai di sottomettersi ad un vescovo diocesano. I monasteri si trovavano quasi tutti in località remote e i vescovi non si interessavano di loro. Ma è ben difficile parlare a quei tempi di uno speciale privilegio ecclesiastico di carattere giuridico. Il suo successore Valdeberto mitigò la sua regola con quella benedettina.
NB A proposito di esenzione il CJC al can. 591 dice: "Per meglio provvedere al bene degli istituti e alle necessità dell'apostolato, il Sommo pontefice, in ragione del suo primato sulla Chiesa universale, può esimere gli istituti di vita consacrata dal governo degli ordinari del luogo e sottoporli soltanto alla propria autorità, o ad altra autorità ecclesiastica, in vista di un vantaggio comune".

San Benedetto (480 547)
Colombano e i suoi furono dei precursori che aprirono la strada al più importante fra tutti gli ordini monastici, quello benedettino. San Benedetto in realtà visse prima di Colombano, ma la fondazione da lui operata cominciò a diffondersi soltanto nel VII secolo, per la gran parte proprio sul territorio preparatogli dall'irlandese. Veniva da Norcia. A Roma ricevette una formazione letteraria; scandalizzato dalla vita dissoluta di questa città, si ritirò a Subiaco come eremita. Raccolse attorno a sé i primi discepoli e, venuto a conflitto con il clero locale, cercò un nuovo eremitaggio: Montecassino (529), dove compose la sua celebre regola monastica che costituisce una vera e propria legislazione claustrale, ricca tanto di sapienza e moderazione quanto di gravità e profondità, che guadagnò ben presto larghissima fama.
A proposito di regole monastiche di questa epoca di transizione (VI secolo) si deve dire che queste sono oggetto di dibattito intenso e non ancora conchiuso: si tratta della cosiddetta Regula Magistri (RM) e della Regoladi Benedetto da Norcia (RB). Fra le due sussiste una così pronunciata affinità di contenuto e forma, che s'impongono necessariamente anzitutto il problema della loro reciproca dipendenza, in secondo luogo quello della priorità cronologica dell'una rispetto all'altra. La RM è anonima e in confronto con la RB, è di mole pressoché tripla; quale autore della seconda, nella maggior parte dei manoscritti è indicato un Benedetto, che evidentemente si identifica con quel Benedetto di Monte Cassino, i cui segni e azioni miracolose papa Gregorio Magno descrive nel II libro dei suoi Dialoghi e al quale attribuisce una regola monastica che si distingue per discretio e lucidità di dettato. Gregorio offre pochi cenni cronologici. Quale esito accertato e quasi universalmente accettato del dibattito di cui si è detto, si può oggi considerare la priorità della RM e se ne può porre il periodo genetico nei primi tre decenni del secolo VI, dato che, fra l'altro, essa presenta un cenobitismo meno evoluto rispetto alla RB. Minore concordia si ha circa il luogo di provenienza della RM; alcuni parlano dei dintorni di Roma, altri della Provenza. Altrettanto certo della priorità della RM è il fatto che se ne sia servito Benedetto, poiché non si è potuto dimostrare in modo convincente né l'esistenza di uno scritto preesistente a entrambe le regole, né la tesi secondo cui Benedetto sarebbe autore dell'una e dell'altra. Fra le fonti comuni la Scrittura è al primo posto; inoltre entrambe si rifanno a Cassiano; è loro noto anche Cipriano, mentre l'uso parsimonioso degli apocrifi da parte di Benedetto lascia indovinare più che una conoscenza diretta dei medesimi, un prelievo di peso dalla RM. Benedetto ha maggior familiarità con una letteratura più ampia: vitae patrum, la Regola del nostro santo padre Basilio, l'Historia monachorun, la Pachomiana e soprattutto la Regola di Agostino. Patrimonio peculiare della RM sembra essere la conoscenza di Giuliano Pomezio, di Cesario di Arles, di Niceta di Remesiana (Jedin, III p.320 323). La RB é ispirata anche alla regola di Pacomio, di Basilio. Essa si sforza di conciliare due concezioni diverse della vita cenobitica. Alla RM e a Cassiano s'ispira per quanto riguarda l'asse verticale della vita monastica, per l'importanza dell'abate, delle virtù dell'obbedienza e dell'umiltà, per l'acquisizione delle virtù per mezzo del rinnegamento di se stessi, della propria volontà e della sottomissione alle direttive dei superiori. Alla regola di sant'Agostino s'ispira per ciò che riguarda l'asse orizzontale dell'esistenza monastica: lo spirito comunitario, le relazioni fraterne tra monaci, la comunione dei beni, il dare il necessario a ognuno (Christophe, p.120). La RB ha creato il tipo del monastero occidentale, l'abbazia. Suo fondamento è la stabilità, a cui il monaco si obbliga nel momento stesso in cui entra a farne parte. Il monastero non è una prigione, ma è comodo e bello, e produce di tutto, assai meglio che al di fuori delle sue mura. Il servizio liturgico è ricco, edificante, e non opprime con lunghe ore di preghiera. Il monaco ama la propria abbazia che è la sua patria. Qui regna la pax benedettina, una pace che il mondo non può dare. Questa regola reca le tracce dell'epoca tormentata in cui è nata: la guerra tra Bizantini e Goti devasta l'Italia e ciò fa comprendere perché il lavoro nei campi sia non solo autorizzato, ma anche imposto dalle necessità e dalla durezza dei tempi. Il merito principale della RB sembra consistere soprattutto nell'avere operato una sintesi compiuta delle precedenti esperienze monastiche, manifestando grande saggezza, moderazione ed equilibrio nell’organizzazione della vita cenobitica.
"Ma, in questo monastero in cui accoglie Romani (spesso di origine aristocratica) e Goti, egli organizza una comunità retta da un padre abate, investito di un’effettiva autorità, ma mitigata sul modello del pater familias romano. L'ideale è bastare a se stessi, ma questo microcosmo autarchico che è il monastero finisce per realizzare piuttosto un modello urbano anziché un modello eremitico. Ad ogni modo, ad imitazione della città romana, si tratta di una città rurale. Michel Meslin vi ha scorto con l'introduzione di un'aspirazione alla stabilità, un momento importante per la storia dell'intero occidente: in quest'epoca di invasioni, di migrazioni forzate di popolazioni in cerca di terre e che fuggono di fronte alla fame, esso contribuisce a stabilizzare una società fluida. D'altro canto, incitando i monaci al lavoro manuale, pur considerandolo una forma di penitenza e un mezzo per resistere al diavolo, il monachesimo benedettino contribuisce a valorizzare un'attività ritenuta degradante da un'aristocrazia permeata dall'idea dell'otium romano, abituata dalla pratica militare barbarica a disprezzare il contadino, portata dalla lettura del Vangelo ad aspettarsi dalla provvidenza o dallo sfruttamento degli umili il cibo degli uccelli del cielo e le vesti dei gigli dei campi. Una regola ed una pratica equilibrate, che ammettevano, delle eccezioni, degli elementi di mitigazione. Uguale peso per la vita attiva e per quella contemplativa. Adattamento alla sussistenza, senza escludere tentativi di espansione, anche se si è esagerata la portata dell'attività economica, dell'iniziativa di dissodamento dei Benedettini dell'alto Medioevo" (JACQUES LE GOFF in Storia del Cristianesimo a cura di HENRI CHARLES PUECH, Bari 1983 pp. 253 254).
Nel VI e VII secolo, nella maggior parte dei monasteri d'occidente si adotta la RB, anche in quelli il cui fondatore aveva avuto inizialmente idee molto diverse.
Se ai nostri giorni la cultura europea ha un reale legame con quella degli antichi greci e dei romani, è perché i monaci diligenti dell'alto medioevo si sono impegnati a conservare preziosi manoscritti.
A. Momigliano nel suo libro "La caduta senza rumore di un impero nel 476 d.C." a p. 422s scrive: "Conquistati da eretici, i latini d'occidente si tengono saldi nella loro fede e in definitiva riescono a convertire i vincitori...
E' la chiesa che assicura una continuità di appartenenza sociale a chi deve cambiare di sudditanza politica: e tanto più precisamente in quanto il conquistatore è pagano o, più spesso eretico, ariano. Accadde così che tra il 400 e il 500 d. C., mentre l'impero crolla, la cultura latina riprende vigore e originalità, di cui danno la misura sant'Agostino che apre il V secolo e san Benedetto che apre il secolo successivo", e Siniscalco aggiunge: "soprattutto san Benedetto così come lo presentano e lo fanno rivivere i Dialoghi di Gregorio Magno" (P.SINISCALCO, o.c. p. 280).
'Fu salvatore della civiltà in tempo di barbarie, conservatore della cultura classica, promotore di una nuova architettura, protettore del lavoro umano, assunto a nuova dignità e addirittura elevato all'altezza della preghiera secondo il celebre motto Ora et labora. Lo stemma di San Benedetto dove la Croce si leva sull'aratro, riassume l'opera che le mistiche e laboriose abbazie benedettine compirono nel tessuto consunto e smagliato della società europea dopo la caduta dell'impero romano e l'imperversare della bufera barbarica" (P. Bargellini).

Non significa affatto sminuire l'opera di Benedetto, né il posto che gli compete, se si rinuncia a qualificarlo, perché storicamente inesatto, il fondatore del monachesimo occidentale o addirittura il padre dell'Occidente.

 

Il clero nella chiesa imperiale

E' da gran tempo convinzione generale che all'inizio del IV secolo esista all'interno della chiesa cristiana un preciso ordinamento dei chierici, organizzati per gradi diversi ai quali sono attribuiti compiti specifici nel servizio della comunità.

 

La chiesa imperiale

Per la realtà ecclesiale determinatasi nel mutevole ‘su e giù’ della po­litica religiosa imperiale del IV secolo è stato coniato il termine di ‘chiesa imperiale’ che tuttavia rende necessarie alcune osservazioni chiarifica­trici al fine di prevenire possibili errori di interpretazione dell'effettivo sta­to di cose con tale termine indicato. La denominazione vuole caratterizzare in forma concisa quella situazione generale nel rapporto tra chiesa e stato che arrivò sotto Teodosio ad una prima provvisoria definizione. Fondamentale per questo rapporto è il principio che autorità statale e chiesa formano un in­sieme assai stretto nel campo pubblico. Ciò è ora possibile in quanto l'imperato­re professa, sia personalmente sia quale rappresentante del potere dello stato, la fede annunciata dalla chiesa e che la maggioranza dei sudditi ha fatto propria. E, dato che questa fede è stata proclamata religione ufficiale dell'impero, lo stato assicura alla chiesa privilegi e favori di ogni genere. Esso ne sostiene l'attività sociale e caritativa, esonera il clero da determinate funzioni, dal ser­vizio militare e da alcune imposte; i vescovi vengono inoltre inseriti nella giurisdizione statale. Per quanto riguarda altre comunità religiose, come gli ultimi residui del paganesimo tuttora esistenti, il giudaismo e specialmente quelle confessioni cristiane considerate eretiche dalla chiesa ufficiale, questo stato cristiano non può né favorirle né essere verso di esse tollerante o anche semplicemente neutrale.
La chiesa da parte sua accetta per principio questo impero divenuto cri­stiano e riconosce l'indipendenza della sfera statale. Sottolinea nella sua pre­dicazione che il potere di questo stato viene da Dio e da Dio dipende. Prega nella sua liturgia per questa autorità statale e le conferisce con ciò un valore religioso ed un’assicurazione di fedeltà. La critica degli scrittori ecclesiastici nelle contese di politica religiosa del IV secolo non si indirizza contro lo stato come tale e neppure, come tale, contro l'autorità imperiale, ma va contro gli interventi di singoli rappresentanti di tale autorità nel campo della vita e de­gli affari interni della chiesa. Non viene messo in questione il legame straor­dinariamente stretto delle due autorità, tanto più che, secondo le vedute del­l'epoca, non si conosce né si potrebbe conoscere una possibile alternativa.
Gli enormi pericoli che portava con sé un'alleanza di questo genere tra i due contraenti e creatori di tale chiesa imperiale sono stati però visti perfet­tamente da taluni rappresentanti della chiesa; e come tali espressi. Essi sanno molto bene che la potenza statale è sempre esposta alla tentazione di abusi nei confronti della chiesa. Altri ancora sentono con chiarezza che i privilegi accor­dati dallo stato e richiesti e sollecitati da molti vescovi disposti a tutto nuoc­ciono alla credibilità della predicazione della chiesa: ne è un esempio Girola­mo quando scrive: "Da quando la chiesa ha imperatori cristiani, essa è certamente cresciuta in potenza e in ricchezza, ma è diminuita in forza morale".
Va infine osservato che il termine ‘chiesa imperiale’ riproduce solo un aspetto molto esteriore della realtà complessiva della chiesa di quel tempo. Sarebbe innanzitutto un grave equivoco supporre che la coscienza della chiesa d'allora si esprima completamente in ciò che viene definito con ‘chiesa imperiale’. I migliori teologi del tempo sanno perfettamente che la chiesa, nella sua natura più propria e profonda, appartiene ad un'altra sfera, e cioè a quel­la realtà che si realizza solo con la grazia e che è donata all'umanità dall'azio­ne redentrice di Cristo.

Chiese di campagna
Nei primi cinque secoli della sua esistenza, la chiesa cristiana fu soprattutto la chiesa di città. Tuttavia all'inizio del IV secolo, in occidente aveva già cominciato a diffondersi nelle campagne (in oriente ancor prima). Di solito questa, penetrazione avveniva in occasione delle missioni di predicazione dei vescovi, che fondavano delle chiese nei villaggi principali per provvedere ai bisogni spirituali dei neo convertiti. In un primo tempo, i preti della città si recavano di tanto in tanto in queste chiese, ma dal secolo VI in poi, a cominciare dalla Gallia, ogni chiesa di campagna cominciò ad avere i suoi sacerdoti residenti. Questi sacerdoti erano ordinati e controllati dai vescovi della città, ma potevano amministrare i sacramenti. Prendeva così forma il ministero pastorale parrocchiale locale, tipico del medioevo e dei tempi moderni. Nel V e nel VI secolo viene completata dappertutto l’organizzazione parrocchiale di campagna.
Nello stesso periodo si sviluppò un'altra specie di chiesa di campagna: quella fondata da un proprietario terriero a beneficio dei suoi dipendenti. Di solito egli provvedeva una dotazione per la chiesa e si riservava il diritto di nominare­ il sacerdote titolare. Questi sacerdoti, pur essendo soggetti al vescovo, erano però meno controllati dei parroci.

 

NB. Alcune osservazioni
PARROCCHIA istituzione ecclesiastica
Parrocchia è termine di deriva­zione greca (paroikía), che si ri­chiama all'abitare presso, inteso sia come vicinanza, sia come temporaneità (l'ospite, il pellegri­no... ). Come istituzione ecclesia­stica è nata nel IV sec., quando il cristianesimo dalle città si dif­fuse nei piccoli centri rurali. Ne è responsabile un presbitero, che prende il nome di parroco. Fa riferimento a un territorio come parte della diocesi. Fu molto po­tenziata dalla riforma promossa dal concilio di Trento. L'urbaniz­zazione e la mobilità crescente nel '900 scuote il suo radicamento territoriale: la secolarizzazione  diffusa rischia di relegarla ad agenzia (peraltro generalmente apprezzata) fornitrice di prestazioni culturali e assistenziali; la diminuzione numerica dei presbiteri la trova sempre più spesso senza pastore residente. Di fron­te a questo, la parrocchia risco­pre la sua indole comunitaria; si fa estroversa e attenta ai pro­blemi dell'uomo sul territorio: si sforza di trasformare la domanda da consumo religioso e richiesta assistenziale in cammino di fede e in costruzione di umanità rinnovata. Si apre a una maggiore corresponsabilità di tutti mediante i Consigli pastorali. Essa rimane sul territorio struttura aperta e accogliente, umanamente preziosa ed ecclesialmente insostituibile; deve tuttavia integrarsi con la pastorale de­gli ambienti (lavoro, scuola, università, sport ... ) e con le altre realtà pastorali operanti sul terri­torio, secondo un sistema di rete efficacemente interconnesso.

DIOCESI di diritto divino
Diocesi è termine (dal greco dioikesis: amministrazione) che nell’impero romano designava una circoscrizione amministrativa di varia  estensione. Nel diritto delle Chiese orientali indica un’ampia circoscrizione ecclesiastica, formata da più chiese particolari (corrispondenti alle diocesi occidentali e chiamate eparchie), presieduta da un patriarca.
L’origine delle diocesi coincide con gli inizi della predicazione cristiana; nei contesti dei viaggi di Paolo è visibile. Nei centri urbani, punti strategici missionari e più popolati da cristiani, vennero insediati i vescovi. L’istituzione di una diocesi sarà sempre più legata, oltre che al numero dei fedeli, al sorgere di nuove città (conc. di Calcedonia can. 17). Per i vescovi vige l’obbligo di residenza. Per l’Italia, a fine sec. III, le diocesi documentate sono 16; nel sec. IV ne sorgono 55; nel sec. V altre 155; nel sec. VI  57 e all’inizio del sec. VII, altre 13. In totale, all’inizio del 600, l’Italia peninsulare e insulare, conta 258 diocesi. Ragioni di tale aumento sono oltre la libertà della chiesa (rescritto di Milano, 313), le eminenti figure di vescovi, come s.Ambrogio a Milano, s.Eusebio a Vercelli, s.Massimo a Torino ed il ruolo determinante del vescovo di Roma.
In occidente indica a partire da Innocenzo I (sec. V), l’ambito territoriale  della giurisdizione del vescovo; tale accezione è costante dal XIII sec. Ma il suo significato non è soltanto né principalmente giuridico. “La diocesi è una porzione del popolo di Dio, che è affidata alle cure pastorali del vescovo, coadiuvato dal suo presbiterio, in modo che, aderendo al suo pastore e per mezzo del vangelo e dell’eucaristia, unita nello Spirito Santo, costituisca una Chiesa particolare, nella qua­le è veramente  presente e agisce la chiesa di Cristo, una, santa, cattolica e  apostolica” (concilio Vaticano II, CliristusDominus, 11). La diocesi, quindi, non è una suddivisione amministrativa della chiesa universale, ma piuttosto la chiesa  universale che si mani­festa e vive in un determinato gruppo di fedeli. Reciprocamente, la Chiesa Universale non risulta dall'addizione delle Chiese particolari ma dalla loro comunione. Le Chiese particolari, infatti, come insegna il concilio Vaticano II sono formate a immagine della Chiesa universale; è  in esse e a partire da esse che esiste la sola e unica Chiesa cattolica (Lumen gentium, 23).

I diversi gradi dell'ordinazione
La situazione attuale è data dal Codice di Diritto Canonico:
can. 1009 - Gli ordini sono l’episcopato, il presbiterato e il diaconato.
can. 1035 - § 1. Prima che uno venga promosso al diaconato, sia permanente che transeunte, si richiede che abbia ricevuto i ministeri di lettore e accolito e li abbia esercitati per un tempo conveniente.
§ 2, Tra il conferimento dell’accolitato e del diaconato intercorra un periodo di almeno sei mesi.
E' comune nel IV secolo la suddivisione del clero in due gruppi: clerici superioris et inferioris ordinis. Al primo appartengono vescovi, presbiteri e diaconi, la cui consacrazione è riservata esclusivamente ai vescovi. I gradi inferiori sono il suddiaconato, l'accolitato, l'esorcistato, l'ostiariato e il lettorato.
Il primo grado della carriera ecclesiastica fu giudicato solitamente il lettorato, di cui spesso nel IV secolo venivano investiti già dei ragazzi. In origine il lettore era incaricato di leggere la Scrittura durante la funzione sacra, di cantare i salmi. L’oriente distingue il cantore dal lettore. A Roma il coro durante la funzione sacra  è formato da lettori.
Piuttosto incerte appaiono nelle fonti la carica e le funzioni dell’ostiarius, che non è nemmeno citato negli elenchi dei vari ordini in Siricio (384-399), Innocenzo I (402-417) e Zosimo (417-418), mentre Gelasio I (492-496) lo nomina, ma non lo considera un grado della carriera ecclesiastica. A Milano, però, sotto Ambrogio esiste, in Africa è un chierico e gli Statuta ecclesiae antiqua parlano della sua ordinazione. In oriente appare in alcune fonti del IV secolo. Al tempo di Giustiniano l'ostiario non appartiene più al clero. Il nome e la consegna delle chiavi al momento dell'ordinazione gli attribuiscono la custodia della casa di Dio e la tutela dei suoi frequentatori durante le celebrazioni liturgiche.
L'esorcista non ha un'ordinazione particolare, in quanto egli possiede un carisma che gli viene direttamente da Dio, che consiste nella capacità di curare gli ossessi e di assistere i catecumeni. A partire dal V secolo questa carica perde sempre più d'importanza fino a scomparire del tutto.
L’accolitato, mentre non riuscì mai ad imporsi in oriente, guadagnò in occidente una certa considerazione, soprattutto a Roma; qui gli accoliti erano i coadiutori dei suddiaconi con funzioni poco chiaramente precisate.
Il suddiaconato va visto come una carica derivata direttamente, quasi per scissione, da quella del diacono, ma le sue funzioni esatte non sono comunque chiaramente precisate.
Nel corso del IV secolo si arriva ad un’altra differenziazione dei compiti di diacono e presbitero la cui esatta delimitazione presenta talvolta notevoli­ difficoltà. Poiché i diaconi sono per molti aspetti i diretti collaboratori del vescovo talvolta addirittura i suoi rappresentanti essi ricoprono un ruolo particolare nell'amministrazione del patrimonio della chiesa, nella scelta dei candidati all'ordinazione e nelle funzioni liturgiche la loro considerazione e la loro influenza sono spesso maggiori di quelle del presbitero. A Roma formano il collegio dei sette diaconi con un presidente che nel VI secolo è chiamato arcidiacono; da tale collegio è eletto per lo più il papa (o anche l'antipapa). Rivendicano funzioni riservate ai presbiteri; ma i sinodi ricordano loro il proprio rango effettivo che li collocava in modo inequivocabile dopo i presbiteri. La diminuzione dell'importanza del diaconato, divenuto un ufficio che precede il sacerdozio, costituisce uno sviluppo più tardivo. I presbiteri avevano la piena facoltà di amministrare il battesimo e di celebrare l'eucaristia se erano assegnati ad una chiesa propria; altrimenti, sostituivano in queste funzioni il vescovo durante la sua assenza.
Nel IV e nel V secolo si verificano dei tentativi di rivalutare il presbitero al rango del vescovo. Anzi alcuni teorizzano che non c'è differenza tra vescovo e presbitero (anche per la consacrazione dei chierici?). La concezione di un Aerio di Sebaste (IV secolo) per cui episcopato e presbiterato sono dello stesso rango (voleva l'uguaglianza tra vescovi e sacerdoti in quanto chiamati ad esercitare le stesse funzioni ed entrambi ordinati con l'imposizione delle mani) è respinta da Epifanio di Salamina (vescovo dal 365 al 403) con la motivazione che soltanto il vescovo può consacrare i presbiteri; anche secondo Crisostomo (354 407) l'unica differenza tra presbitero e vescovo è costituita dal fatto che quest'ultimo ha la facoltà di procedere alla consacrazione dei chierici. In occidente l'Ambrosiaster, vissuto nel IV secolo, (E' l'autore dei Commenti alle tredici lettere paoline che per tutto il Medioevo furono attribuiti ad Ambrogio; il riconoscimento, in epoca rinascimentale, della non autenticità di tale attribuzione, ha procurato all'anonimo autore dell'opera la denominazione di 'Ambrosiaster') e Girolamo non considerano originaria la differenza tra i due gradi d’ordinazione, perché il presbitero e il vescovo sono per principio sacerdotes, e la successiva differenziazione nel rango risale a semplici considerazioni pratiche. CosìIsidoro di Siviglia (+636).
Tale tendenze interpretative sono tuttavia respinte già da Innocenzo I (402 417), il quale chiama espressamente i presbiteri secundi sacerdotes e Gelasio I (492 496) intende punire con la destituzione le violazioni dei presbiteri nell'ordinazione di accoliti e suddiaconi e nella consacrazione del crisma.
Mentre il sinodo di Sardica (342-343) decise ancora in via generale che il chierico doveva dare buona prova di sé per un certo periodo nei singoli gradi dell’ordinazione prima di passare ad un grado superiore, i papi Siricio e Zosimo stabilirono per la permanenza in un ordine determinati periodi (tempora, i successivi interstizi).
Sulla consistenza numerica del clero sia nelle singole comunità sia nelle intere province e regioni non possediamo per questo periodo notizie molto sicure, ma indubbiamente il numero dei chierici della chiesa imperiale del IV secolo aumentò in misura considerevole parallelamente al numero dei cristiani. Sono comunque documentate lagnanze sullo scarso incremento di sacerdoti in Africa al tempo della controversia donatista ed in Italia durante le invasioni barbariche.

Presupposti per l'ammissione allo stato ecclesiastico
1) La chiesa imperiale ha ammesso agli ordini ecclesiastici solamente gli uomini. Le diaconesse, che in occidente non raggiunsero mai l'importanza che avevano in oriente, furono sì ammesse alla loro ordinazione mediante un rito particolare­ imposizione delle mani e preghiera ma non fu mai loro aperto il campo sacramentale. Il loro servizio si indirizzava prevalentemente alle donne della comunità che si preparavano al battesimo, e si risolveva nell'assisterle nell'atto battesimale, nel prendersene cura in caso di malattia e nello stabilire i contatti tra esse e il clero della comunità.
2) La legislazione ecclesiastica del tempo esigeva generalmente per l'ammissione ai singoli gradi dell'ordinazione una maturità che corrispondesse alla loro importanza, ma nel fissare l'età necessaria alla consacrazione, essa si presenta ancora oscillante e tutt'altro che unitaria.
Dalle decretali di papa Zosimo (417 418) sulla durata degli interstizi (intervalli di tempo prescritti nel passare da un ordine sacro all'altro) si ricavano le seguenti età minime: per l'accolito ed il suddiacono 21 anni, per il diacono 25, per il presbitero 30, per il vescovo tra i 45 e i 50 anni. Ci sono però numerose eccezioni.
3) Mentre fino al V secolo si richiedeva da parte dell'aspirante all'ordinazione integrità del corpo e la salute fisica, a partire da quella data sono fatte precise distinzioni. Mutilazione, storpiatura naturale, cicatrici molto deformanti, mancanza di una parte del corpo escludevano dall'ordinazione, e allo stesso modo una malattia mentale e l'epilessia.
4) Più importante era però per la chiesa, per ammettere allo stato ecclesiastico, l'idoneità caratteriale e morale. Non era idoneo chi aveva durante la persecuzione rinnegato la fede, chi veniva alla chiesa cattolica da una comunità scismatica o eretica (in questo caso si era più flessibili), chi era stato sottoposto alla disciplina della penitenza pubblica, l'usuraio, il sobillatore e chi si è fatto giustizia da sé. Che molte volte queste norme non siano state rispettate è però indicato dalle ripetute lagnanze dei papi sulle ordinazioni di indegni e dall'esclusione dei colpevoli, da loro decretata, dalla condizione di chierico.
5)  Il clero deve possedere un'adeguata cultura teologico pastorale. I vescovi avevano frequentato scuole profane e quindi erano in grado di procurarsi personalmente la necessaria cultura teologica. In oriente potevano disporre di alcune scuole di teologia (famosa quella di Antiochia). Per la grande maggioranza del clero inferiore non c'erano centri di cultura teologica, ma corsi organizzati dalle comunità locali. Posti privilegiati erano Roma con la schola cantorum, Vercelli con la vita communis e Ippona col monasterium c1ericorum. A partire dal V secolo anche vari monasteri dell'occidente latino danno grande importanza alla formazione dei chierici, come il monastero di Lerino.
La crisi culturale ed economica che seguì alle invasioni barbariche e la conseguente scarsità numerica delle nuove leve, comunque, fecero spesso cadere, l'osservanza di disposizioni seguite in passato.
6) Non erano ammessi allo stato ecclesiastico perché non liberi, gli schiavi, i coloni e i liberti. Così non erano accettati i titolari di cariche statali o urbane perché assorbiti dai loro impegni civili o perché, dovendo rispondere personalmente a oneri finanziari, si sottraevano a questi entrando nel clero o in un monastero.

Matrimoni di chierici e inizi del celibato
La diversa disciplina adottata riguardo al matri­monio dal clero latino e da quello ortodosso è il ri­sultato di una storia lunga e complessa.
1) Nei primi tre secoli nessuna legge ecclesiastica vieta l'ordinazione di uomini sposati e nessun canone (regola) li obbliga ad osservare la continenza dal momento della loro ordinazione. Peraltro non risultano documenti che provino chiaramente  il divieto fatto ai preti celibatari di sposarsi dopo la loro ordima­zione.
2) Nel IV e nel V secolo, il divieto riguardante dia­coni, preti e vescovi di sposarsi dopo l'ordinazione entra in vigore dal concilio di Ancira (=Ankara) nel 314 e da quello di Neocesarea (tra il 314 ed il 325), e alla fine del V secolo è saldamente stabilito sia per l'Occidente che  per l'Oriente con l'eccezione della Chiesa persiana. Il concilio di Bet Edrai nel 486 afferma ancora che il matrimonio è legittimo.
D'altra parte, nello stesso periodo in Occidente si impone l'esercizio della continenza ai chierici sposati fin dal momento della loro ordinazione. Il primo as­sertore dell'obbligo è il concilio di Elvira (= Grana­da) verso il 300, il quale, però, presuppone una pra­tica precedente. Ma il concilio di Nicea (325) rifiuta di imporre ai chierici sposati di rinunciare alla vita coniugale. Tuttavia questo obbligo entra in vigore in Occidente nel IV secolo. Ribadito nei concili di Car­tagine del 390 e del 401, di Torino del 398, di Tole­do nel 400, e dal magistero di san Leone Magno, esso si impone definitivamente nel V secolo.
Una tale disposizione ha le sue radici in una con­cezione negativa della sessualitá, già presente nella cultura pagana e nella tradizione vetero testamenta­ria. A tutti i fedeli viene richiesto di astenersi dai rapporti sessuali prima della comunione. In Occiden­te, dunque, la vita coniugale sembra incompatibile con la celebrazione quotidiana dell'Eucarestia. Si può anche scorgere in questa imposizione il richiamo ad una disponibilità più grande verso Dio, prendendo ad esempio la vita monastica. La regola imposta è quella della continenza e i chierici sposati possono tenere la propria moglie sotto il proprio tetto.
3) Nei secoli VI e VII la Chiesa orientale dà una forma definitiva alla sua disciplina nel concilio di Trullo (692). I preti e i diaconi possono condurre vita coniugale prima e dopo la loro ordinazione. Ma colui che viene designato vescovo deve osservare la continenza e sua moglie entrerà in un monastero. Questa regola prende origine da una legge di Giusti­niano che voleva evitare lo storno dei beni della Chiesa a favore della famiglia del vescovo. La prassi della Chiesa Orientale si rivolge allora al reclutamento dei vescovi in mezzo ai monaci.
Nello stesso periodo in Occidente viene ricordato ai chierici sposati l’obbligo della continenza. I canoni chiedono di impegnarsi nell'osservanza della castitá e propongono un anno di prova (conversio) prima del­l'ordinazione. Alcuni concili prevedono la destituzio­ne di quei diaconi o preti sposati che non la osservino. Per aiutarli in questo impegno viene loro impo­sta la presenza di un altro chierico.
Durante l'epoca carolingia, in Occidente la Chiesa continua ancora ad ordinare uomini sposati, chiedendo loro in tal caso di osservare la continenza pur continuando a vivere con la propria moglie sotto lo stesso tetto, possibilità che permane fino all'XI seco­lo. Ma in questo periodo vengono ordinati soprattutto giovani celibi grazie alla loro formazione più pre­coce favorita dalla riorganizzazione delle scuole epi­scopali ed abbaziali a partire da Carlo Magno. Malgrado il divieto, che viene loro ricordato, di accogliere sotto proprio tetto donne poco affidabi­li, il concubinaggio o il matrimonio dei preti si dif­fonde un po' dovunque nei secoli X e XI, in un’epoca di disordini che è frutto del dissolvimento dell'impero carolingio e del moltiplicarsi deì poteri locali. Vescovadi e curie cadono nelle mani dei laici. La frantumazione feudale e la ricerca della carica eccle­siastica in vista del beneficio, favoriscono il diffon­dersi del nicolaismo. Gli stessi vescovi prendono mo­glie. Questa unione è tanto più facile per il fatto che il matrimonio dei preti, gravemente illecito, è a quel tempo sempre considerato valido.
Per ristabilire la continenza dei chierici, la Rifor­ma Gregoriana (1074) vieta ogni coabitazione ai vescovi, ai preti, ai diaconi e suddiaconi, e non fa più distinzio­ne tra i preti sposati prima dell'ordinazione e i preti dopo di essa. Ma1grado le opposizioni, questa riforma finisce per imporsi, con l'appoggio delle correnti riformatrici.
4) Nel 1139 il concilio Laterano II per la prima volta stabilisce che il matrimonio di un prete non è valido. Alessandro III, nel 1170, vieta agli uomini sposati l'accesso agli ordini maggiori, a meno che la moglie non abbia dato il suo consenso facendo ella stessa voto di castità.
L'evoluzione della Chiesa occidentale in materia può considerarsi concluso. La legge della continenza, imposta nel V secolo in Occidente ai chierici degli ordini maggiori, nel XII secolo diventa legge del celibato ecclesiastico: in pratica, il sacerdozio viene riservato ai celibi e ai vedovi. Tuttavia bisogna aspettare il codice di diritto canonico pubblicato nel 1917 perché questa legge venga imposta esplicita­mente. Dopo il V secolo l'ordinazione costituisce un impedimento al matrimonio e, dopo il XII, il matrimonio costituisce un impedimento all’ordinazione.
In Occidente la riforma dei costumi del clero ha una storia complessa che varia secondo il tempo ed il luogo. La storiografia in materia sembra dimostra­re che, dopo il secolo XIII, solo una minoranza di chierici si dimostra infedele a questi impegni. Il ve­scovo di Mende, Guglielmo Durand, propose tutta­via al Concilio generale di Vienne (1311 12) di adot­tare la disciplina delle Chiese d'Oriente, permettendo il matrimonio dei chierici prima di ricevere gli ordi­ni maggiori.
Nel 1964, il concilio Vaticano Il, restaurando il diaconato permanente, è ritornato di fatto per i dia­coni alla disciplina delle chiese orientali. In via eccezionale i papi la tollerano per alcuni preti quando si tratta di pastori sposati ordinati in seguito al presbiterato nella chiesa  cattolica.

NB. Per quanto riguarda la condotta del clero bisogna dire che questo offre un quadro diverso a seconda del luogo e dell'epoca. Tempi confusi e bellicosi come quelli di Carlo Martello, degli ultimi Carolingi e del secolo X presentano specie in Italia, in Francia e in Germania una deprecabile decadenza. Una speciale difficoltà presentava la legge del celibato ecclesiastico, a cui a partire dal IV V secolo la Chiesa occidentale aveva obbligato i chierici maggiori. In quasi tutte le regioni i sacerdoti di campagna convivevano con donne, o in concubinato o in matrimonio regolare. Non pochi chierici o canonici impegnati nelle chiese di città seguivano il loro esempio. Talvolta c'erano addirittura vescovi e nei monasteri decaduti anche monaci che possedevano donne e figli. Il concubinato di un vescovo, di un monaco o di un canonico era in generale considerato una cosa insostenibile, mentre nei sacerdoti di campagna era ampiamente tollerato. Quando singoli vescovi come Attone di Vercelli (+961) [che rimprovera i suoi preti: "Mi vergogno di dirlo, ma penso sia pericoloso tacere: parecchi di voi sono talmente soggiogati dalla passione da permettere a oscene cortigiane di vivere nelle loro dimore, di dividere la loro mensa, di mostrarsi in pubblico con loro. Sedotti dalle loro grazie, lasciano che dirigano le loro case, fanno dei loro bastardi i loro eredi, e infine, per permettere a quelle donne di essere adorne, le chiese vengono spogliate e i poveri soffrono"], Raterio di Verona (+974) [che dice di non potere deporre i preti sposati, conformemente a quanto stabilito del concilio di Neocesarea, perchè si sarebbe ritrovato senza preti] e Dunstan di Canterbury (959 988), oppure anche i sinodi, da ultimo quello di Bourges (1031), inculcavano con insistenza il dovere del celibato, era come se parlassero al vento. La preoccupazione della chiesa ufficiale era poi rivolta quasi principalmente al patrimonio ecclesiastico, in quanto esso veniva sovente sfruttato per mantenere i figli. Per scongiurare soprattutto questo pericolo, nel 1022 il sinodo di Pavia, su iniziativa del papa Benedetto VIII (1012 1024), emanò alcuni severi decreti. Era necessario che il celibato fosse approvato interiormente da vasti strati  della cristianità e che di conseguenza la sua violazione fosse condannata. Ed è proprio questo che a poco a poco si verificó. Forse all'inizio questo movimento ebbe pochi seguaci, ma poi lentamente acquistò una tale forza, che nella seconda metà del secolo XI il papato riformatore potè fare leva su di esso. In questo periodo per il matrimonio dei sacerdoti fu coniato il termine nicolaitismo, che assunse il significato di malcostume, incontinenza.
NB I Nicolaiti sono seguaci della setta libertino-gnostica paleocristiana, diffusasi ad Efeso e a Pergamo, menzionata nell’Apocalisse (Ap. 2,6.15). Indicati come discepoli di Nicola, uno dei primi sette diaconi (At. 6,5), si ritenevano in possesso del carisma profetico; venivano accusati di essere la causa del rilassamento morale di alcune comunità cristiane dell’Asia.

La corruzione della Chiesa: causa della riforma protestante?
Benché, come abbiamo visto,  tutti gli storici contemporanei siano d'accordo nel ritenere che la causa immediata della rivoluzione protestante non debba cercarsi nella corruzione della Chiesa, è innegabile che questa reale corruzione abbia reso più facile la diffusione della rivolta. Bisogna però sottolineare il fatto che la decadenza morale in Germania  era per lo meno altrettanto e forse più grave che in  Italia. In Germania l'alto clero era tratto esclusivamente dalla nobiltà: vescovi, canonici conducevano una vita mondana, cercando di cumulare nelle proprie mani vari benefici, celebrando raramente, passando il tempo fra le cacce e i divertimenti: del vescovo di Colonia Hermann von Wied, si dice che in tutta la sua vita abbia celebrato la messa tre volte. Il proletariato clericale era molto numeroso: si potrà accettare o no la cifra di uno storico luterano del Cinquecento, Agricola, di 1.400.000 ecclesiastici (dei due sessi) su 15 milioni di abitanti, ma altri computi confermano l'alta percentuale del c1ero, che costituiva spesso il 5 o il 10 per cento della popolazione. Poveri, poco istruiti, questi sacerdoti in forte maggioranza non osservavano il celibato. Negli ordini   religiosi che non avevano abbracciato una riforma, la situazione non era consolante: la decadenza era palese soprattutto nei conventi femminili, dove le famiglie nobili collocavano a forza le figlie. Si diffonde in questo periodo l'opinione che la lussuria semplice non costituisce peccato mortale. E’ inutile fermarsi ulteriormente su quest'aspetto della situazione.
Non dimentichiamo però che il quadro complessivo deve tener conto anche delle iniziative di rinnovamento in atto prima di Lutero, come del vasto movimento di riforma degli ordini religiosi.
L'ambasciatore del duca di Baviera in un pubblico discorso al concilio di Trento, il 27 giugno 1562, affermava che in Baviera al più il 4 o 5 per cento del clero non viveva in pubblico concubinato (Conc. Trid. Acta, VIII, p. 622). L'affermazione è ripetuta in modo analogo da altri testimoni contemporanei.

Elezione e consacrazione del clero
La nomina avveniva attraverso una elezione di tutta la comunità: clero e popolo. Il nuovo vescovo veniva nominato tra il clero della chiesa locale. Il popolo confermava; si richiedeva l’approvazione dei vescovi della provincia e del metropolita. Anche nell’elezione di una serie di papi è documentata la partecipazione del popolo.  Gradualmente però questa venne limitata da numerosi fattori. Intervengono solo più laici del ceto socialmente elevato; il popolo si limita all'acclamazione. Cresce l'influsso dei vescovi della provincia ecclesiastica. Il papa interveniva per casi controversi. Anche l'autorità profana si inserì nell'assegnazione delle sedi vescovili vacanti. Se in genere venne eletto vescovo un candidato degno della carica, anche nel IV V secolo è documentato un alto numero di elezioni episcopali che furono macchiate da intrighi simoniaci o similari.

NB. Elezione del papa nella storia

  • III e IV secolo: il papa è eletto dal collegio dei sette diaconi; poi su designazione del clero e del popolo, da ratificarsi dai vescovi della provincia.
  • Giustiniano (527-565) sottomise l’elezione del papa all’approvazione imperiale (Vigilio 540 e Pelagio 543) fino al 731 (Gregorio III).
  • In seguito il papa è eletto dal clero e dal popolo romano sotto il controllo del potere civile o la pressione delle fazioni politiche.
  • Nicola II nel 1059 con la bolla in Nomine Domini riservò l’elezione ai soli cardinali vescovi.
  • Nel 1179 Alessandro III estese l’elezione a tutti i cardinali; l’eletto doveva raccogliere i 2/3 dei voti – concilio Lateranense III.
  • Nel 1274 Gregorio X e il II concilio di Lione impongono il conclave, non lungo perchè dopo tre giorni solo una portata ad ogni pasto, dopo cinque giorni solo più acqua, vino, pane...! durante il conclave non ci sarà alcun diritto a provvigioni e ad altre entrate provenienti dalla curia romana…!
  • Gregorio XV (1621-1623) ha dato due rinnovate Costituzioni per l’elezione pontificia, in balia dei tre grandi stati cattolici di allora, Aeterni Patris e Decet Romanorum Pontificem che ribadivano la clausura e la maggioranza dei due terzi; il voto doveva essere segreto.
  • Le potenze cattoliche continuarono a intromettersi con il diritto di veto che venne abolito da Pio X con la Costituzione Commissum nobis del 1904.
  • Dal 1970 con il compimento dell’ottantesimo anno di età i cardinali perdono il diritto di eleggere il Romano Pontefice e quindi anche il diritto di entrare in conclave (lettera apostolica di Paolo VI Ingravescentem Aetatem)

Nell'occidente latino il termine ordinatio viene ora riservato nella lingua parlata dei cristiani ad indicare il rito dell'ordinazione mentre il termine consecratio si riferisce alla preghiera di consacrazione che accompagna il rito dell'imposizione delle mani. I vescovi di questo tempo devono essere richiamati all'osservanza della norma secondo la quale essi possono esercitare i loro diritti di ordinazione soltanto all'interno della propria diocesi e su membri della propria chiesa locale.

I privilegi dello stato ecclesiastico
Costantino dispensò il clero dai cosiddetti munera, prestazioni nei confronti dello stato, come ad esempio l’obbligo di assumere la carica di decurione oppure di provvedere convenientemente al seguito imperiale o alle truppe di passaggio.              
Un’esenzione dall’imposta fondiaria, accordata ai chierici da Costanzo nel 346, fu limitata già nel 360 ai beni originari della chiesa, e tutti i privilegi di imposta degli ecclesiastici furono annullati nel 441 da Valentiniano III a motivo della precaria situazione finanziaria dell’impero.
Il clero viene esentato dalla lustralis collatio, un compito che dovevano assolvere i commercianti ogni cinque anni (questo privilegio porta a notevoli abusi, e crea continue lagnanze su chierici dediti al commercio).
Di particolare importanza per la valutazione della chiesa nella vita pubblica fu il riconoscimento della attività giudiziaria del vescovo anche nelle controversie civili, cioè l’inserimento della cd. Audientia episcopalis nel processo civile romano. Verso il V secolo è limitata alla funzione conciliativa. Valentiniano III riduce questa attività a casi esclusivamente ecclesiastici.
Si svilupparono un vocabolario cristiano per rivolgersi ai titolari di cariche ecclesiastiche ed una serie di titoli relativi di cui si servì anche la cancelleria imperiale, il che consente di riconoscere una graduale differenziazione per ranghi nella gerarchia ecclesiastica che, come tale, può ben essere derivata dal modello statale. In ambito statale vanno ricercati anche i modelli di una serie di segni distintivi vescovili come il pallio, la stola, il tipo di calzatura...
La carica di vescovo aveva raggiunto un'enorme autorità nell'ambito della società del tempo. Un notevole aumento di prestigio venne però alla carica vescovile anche da quella multiforme attività caritativa che tanto spesso trasformò i vescovi del periodo tra il tardoantico ed il primo medioevo in sostenitori dei poveri e dei bisognosi, in soccorritori dei fuggiaschi, in intercessori per i prigionieri e spesso addirittura in difensori della città sede dell'episcopato dalla minaccia delle invasioni. I titoli di pater popoli, pater civitatis, pater urbis et pater patriae sono alquanto eloquenti.

La collegialità dei vescovi
I presbiteri non costituiscono alcun collegio, mentre i vescovi formano l'ordo episcoporum. Un punto in cui particolarmente si manifesta la collegialità dei vescovi è la consacrazione del vescovo (devono essere almeno tre presenti). Sisto III (432-440) esorta i vescovi che erano rimasti dalla parte di Nestorio a ‘rientrare nel sinedrio dei vescovi’ per essere riaccolti nella comunione ecclesiastica. Papa Leone I (440-461) approfondisce questo concetto della collegialità vescovile quando sottolinea che ogni vescovo porta la responsabilità di tutta la chiesa al di là del proprio vescovato, che alla fine è lo Spirito Santo ad attuare l’unità interna di questo collegio e che comunque nessun vescovo può esercitare il suo compito  pastorale nella chiesa se non è in comunione con il successore di Pietro. Quest’idea della collegialità è sostenuta anche dagli altri papi del V secolo fino a Gelasio I (492-496) il quale dà rilievo al fatto che la legittimità del collegio dei vescovi deriva dal collegio degli apostoli e proprio per questo si distingue da ogni collegium haereticorum.
L'idea della collegialità vescovile fu in seguito oscurata o addirittura dimenticata in conseguenza di altri processi di sviluppo.

Preminenza del vescovo di Roma
In questo tempo si verifica un fatto di estrema importanza: la crescita dell'autorità del vescovo di Roma. In teoria tutti i vescovi erano uguali; tuttavia fin dai primi tempi, alcuni erano più importanti di altri a causa dell'importanza della loro città. Le principali città dell'impero erano Alessandria, Antiochia, Roma e Cartagine. Il concilio di Nicea riconobbe le prime tre come preminenti nelle loro aree. Ad esse fu aggiunta Costantinopoli nel 381, quando il concilio radunato in quella città dichiarò che era seconda solo a Roma. Il vescovo di Roma si oppose a tale decisione che faceva dipendere la posizione di una chiesa e del suo vescovo dall'importanza della loro città nell'impero. Un concilio tenuto a Roma, probabilmente nel 382 sotto papa Damaso, dichiarò che la preminenza di Roma non dipendeva da motivi storici né da decreti di sinodi, ma dalla posizione del papa in quanto successore di Pietro, fondatore della chiesa romana, sul quale Cristo aveva promesso di edificare la sua chiesa. Questa elevata concezione ecclesiale, pur avendo richiesto parecchio tempo per essere accettata anche in occidente, costituì la base della supremazia del vescovo di Roma nella chiesa medioevale. Il regno del primo imperatore cristiano, Costantino, fu di importanza enorme per il vescovo di Roma. La chiesa romana si trovò all'improvviso non solo libera da persecuzioni, ma anche arricchita di possedimenti e doni. L'imperatore fece costruire una basilica sulla tomba di Pietro e sulla tomba di Paolo. Il palazzo lateranense fu donato al vescovo di Roma. Tuttavia Costantino non fu certamente l'imperatore che ci dipinge la leggenda in ginocchio davanti a papa Silvestro per implorare il perdono dei peccati, oppure in atteggiamento di donare al papa, come afferma l'apocrifa 'Donazione di Costantino', il governo di Roma, dell'Italia e dell'occidente.
Damaso (366 384) fu il primo papa a chiamare la chiesa di Roma 'Sede apostolica', e i vescovi delle altre chiese 'figli' anziché 'fratelli'. Non sempre però alla teoria corrispose la pratica.
Leone I (440 461) e Gelasio I (492 496) furono senza dubbio i papi più importanti del V secolo. Leone poteva svolgere con i barbari un ruolo che di per sé spettava all'imperatore. Al concilio di Calcedonia, letta la sua dichiarazione, i padri esclamarono: “Pietro ha parlato per bocca di Leone!”. Essi poterono provare grande soddisfazione per le acclamazioni ottenute dall’epistola dogmatica ed interpretarle nel senso  di una riconosciuta conferma dell’autorità dottrinale di Roma. In realtà la situazione era di gran lunga tutt’altro che pacifica e univoca. Senza dubbio la lettera a Flaviano fu discussa ancora una volta dal concilio ed una parte dei vescovi avanzò delle riserve su certe formulazioni che dovettero essere cancellate. Le acclamazioni all’epistola andavano interpretate come una constatazione da parte del concilio che la dottrina di Leone concordava con la tradizione dei padri ed il concilio si ritenne quindi autorizzato ad esaminare prima la cosa e poi a farne la proclamazione. Ancora più indipendente si dimostrò il concilio nelle questioni giurisdizionali, come ad esempio a proposito della reintegrazione dei vescovi destituiti della loro carica, su cui decise con competenza propria. Nella maniera più decisa questa indipendenza si affermò nella risoluzione del concilio, espressa nel canone 28, che riconosce alla cattedra di Costantinopoli gli stessi privilegi di Roma, in quanto le due città, come sedi imperiali, avevano lo stesso rango. Da ciò derivava per il vescovo di Costantinopoli il diritto di consacrare tutti i metropoliti delle diocesi del Ponto, dell’Asia e della Tracia e tutti i vescovi di queste regioni. Nonostante la protesta dei legati papali, il concilio rimase fermo su questa decisione, e tuttavia, dopo la chiusura della sessione, indirizzò al papa una lettera in cui riconosceva espressamente la sua autorità dottrinale, chiariva il senso del canone e lo pregava di ‘onorare con il suo riconoscimento’ questo decreto. Leone I però considera il canone 28 un grave colpo contro le decisioni di Nicea e ne afferma solennemente la non validità; ma ottiene soltanto una sospensione provvisoria.
Guardando a questa complessa situazione, si dovrà dire che il concilio di Calcedonia non pronunciò alcun riconoscimento pieno e illimitato della concezione del primato propria di Leone, ma che l’autorità dottrinale di Roma nel senso più stretto non trovò mai, né prima né dopo, un tale consenso; non poté invece affermarsi la competenza di Roma in questioni di disciplina ecclesiastica e di giurisdizione, che fu accettata solo occasionalmente da alcuni vescovi. Quanto poco durevole, però, doveva essere anche questo relativo successo, lo dimostrò chiaramente la lotta che ebbe inizio ben presto sul valore del Calcedonese in oriente; certo in occidente il primato del vescovo di Roma non fu più messo in discussione. A ciò contribuì sicuramente la personalità superiore di questo papa, con cui nessuna figura dell’occidente di quel tempo poteva mettersi a pari. Difende Roma e l’Italia da Attila (452) e dai vandali di Genserico (455).   
Gelasio durante lo scisma acaciano ribadisce il primatus iurisdictionis del vescovo di Roma e il suo diritto di confermare, annullare o rettificare le deliberazioni dei sinodi episcopali. In una lettera indirizzata nel 494 all’imperatore Anastasio I, afferma inoltre l’origine divina della distinzione dei due poteri (sacerdotale e politico), la loro reciproca autonomia nelle rispettive sfere di competenza nonché il ‘maggior valore’ (gravius pondus) della ‘sacra autorità dei vescovi’ (auctoritas sacrata pontificum) in rapporto alla loro responsabilità davanti a Dio. In campo civile, d’altronde, Gelasio riconosce il dovere, da parte dei superiori ecclesiastici (antistites), di obbedire alle leggi imperiali.
Gelasio diede così la forma definitiva alla teoria del papato del medioevo.
Per più di mezzo secolo dopo Gelasio la posizione reale dei papi fu assai più modesta delle loro rivendicazioni. Il papato adottò un atteggiamento di sottomissione verso Costantinopoli per molto tempo dopo la morte di Giustiniano e la fine dell'amministrazione romana in Italia. Fino al 741, le elezioni papali dovevano essere convalidate da Costantinopoli o dall'esarca imperiale di Ravenna.
Gregorio Magno (590 604) accrebbe l'autorità del papa e segnò così la transizione dall'antico mondo della Roma imperiale alla cristianità medioevale unita intorno alla chiesa cattolica romana.
La chiesa romana svolse una parte di primo piano nella transizione verso il medioevo: trasmise la cultura romana, ogni città era guidata da un vescovo, la legge canonica era modellata sulla legge romana...
Chiesa e società nel IV e V secolo

Nel processo di cristianizzazione della popolazione romana dell’impero processo che abbraccia tutto il IV secolo la chiesa si trovò a confrontarsi anche con strutture sociali, rapporti economici, forme della vita culturale ed abitudini quotidiane della società dell'epoca tardoantica, che per diversi riguardi portarono necessariamente ad un conflitto di posizioni.
La Chiesa ha preso posizione in senso positivo o negativo riguardo ad aspetti importanti della vita sociale? Ha cercato di raggiungere o addirittura ha raggiunto un mutamento? In quali campi la società tardoantica ha subito qualche trasformazione in seguito all'esistenza e all'influsso del cristianesimo?

Matrimonio, famiglia e moralità
La chiesa ha accettato in larga parte vari punti del diritto matrimoniale del tempo. Se alcuni scrittori della chiesa riferiscono di contrapposizioni tra l'istituto del matrimonio cristiano e le leggi matrimoniali profane, si riferiscono concretamente alla diversa valutazione di questioni singole e non vogliono rifiutare il complesso della legislazione matrimoniale dello stato.
Un deciso rifiuto da parte cristiana incontrò tuttavia ogni disposizione del diritto matrimoniale romano che applicava una norma diversa nella valutazione dell'adulterio da parte dell'uomo e della donna. Era sentita come ingiusta una legge che puniva in ogni caso l'adulterio della donna mentre quello dell'uomo veniva punito soltanto se era stato consumato con una donna sposata. Tale legge era inoltre disapprovata per il fatto che costringeva il marito, mediante un procedimento prescritto, a separarsi dalla moglie colpevole di adulterio, togliendogli così la possibilità di perdonare e di salvare in tal modo il matrimonio. La Chiesa ha forse permesso un nuovo matrimonio dell'uomo (non della donna) separato dalla moglie per adulterio di costei? Pare di no. Comunque problematica è apparsa nel corso dei secoli l'interpretazione del famoso inciso di Matteo "eccetto in caso di πορνεια" (Mt. 5,32 “Fu detto: chi ripudia la propria moglie, le dia l’atto di ripudio; ma io vi dico: chiunque ripudia sua moglie, eccetto il caso di concubinato, la espone all’adulterio, e chiunque sposa una ripudiata, commette adulterio”) che ha dato luogo a prassi diverse nella cristianità (ortodossi e protestanti ammettono, almeno per il coniuge innocente, il riacquisto della libertà di stato in caso di adulterio). Non mancano fonti anche ecclesiastiche, che hanno legittimato una limitata apertura a favore del divorzio per adulterio. Però bisogna considerare:
• l'influsso  del  costume  e  delle  leggi  imperiali   poteva   facilmente  indurre                                                                                                                                          all'eccezione al di là del giusto;
• parecchi di quei casi sarebbero rientrati oggi tra le unioni annullabili;
• la Chiesa arriva ad esplicitare la sua fede solo progressivamente;
• singoli vescovi possono errare.
Che non sempre sia facile dedurre dalla storia un atteggiamento univoco da parte della Chiesa nei confronti dell'indissolubilità del matrimonio (teoricamente sempre accettata), basta pensare al complesso ma conosciuto caso di Enrico VIII e Caterina d'Aragona (1534). Il re tentò di ottenere la dichiarazione di nullità del matrimonio. Il processo ebbe due fasi distinte, in Inghilterra fino al 1529, a Roma negli anni seguenti. Nel primo periodo Clemente VII, timido ed incerto, dette al re varie speranze di un esito favorevole della causa di nullità. Nel 1529 Caterina si appellò a Roma e il papa si mostrò più risoluto fosse per la convinzione della validità del primo matrimonio o per il timore di dispiacere all’onnipotente Carlo V, nipote di Caterina. Sotto pena di scomunica intimò ad Enrico di non contrarre un nuovo matrimonio prima della sentenza definitiva
La chiesa difese decisamente contro lo stato l'indissolubilità del matrimonio.
A chi tentava di svalutare il matrimonio cristiano con l'esaltazione entusiastica dell'ideale di verginità, replicano Crisostomo e Agostino che chiariscono come il rango più alto preteso per la verginità non doveva affatto significare una svalutazione del matrimonio.
La chiesa introdusse nuovi impedimenti al matrimonio (tra cristiani e pagani, tra cristiani e giudei). Mentre il diritto romano negava ogni valore giuridico al matrimonio tra schiavi, la chiesa lo considerò valido. La chiesa inoltre mutò il significato e la misura che la patria potestas romana attribuiva al padre nella definizione del matrimonio dei figli. La chiesa ha determinato in maniera nuova il rapporto dei coniugi.
Anche il rapporto tra genitori e figli subì per influsso del cristianesimo dei mutamenti, le cui conseguenze sono chiaramente visibili nella società dell'epoca tardoantica. Trasforma la patria potestas in paterna pietas e cerca di dare alla madre un peso maggiore nell'educazione del figlio. La chiesa condanna la prassi di vendere i figli, di esporli, l'aborto...
La chiesa riuscì a porre fine ai combattimenti dei gladiatori, ma le corse dei cocchi, le cacce alle belve e le rappresentazioni teatrali più immorali durarono a lungo, nonostante la condanna della chiesa e i divieti dell'imperatore.
Le severe norme sessuali della chiesa non erano osservate dalla maggior parte dei cristiani, ad eccezione dei molti che si rifugiavano nei monasteri o negli eremi del deserto, o dei pochi che come i gruppi di donne cristiane che si radunavano attorno a Girolamo e ad Ambrogio potevano permettersi di condurre vita celibe nelle proprie case.
Per la maggioranza era difficile vivere da buoni cristiani nel mondo. Ad esempio, un magistrato cristiano poteva essere costretto ad ordinare torture o esecuzioni capitali. Perciò si consigliava spesso ai cristiani di rinunciare alle cariche pubbliche per salvarsi l'anima. Probabilmente quest’atteggiamento della chiesa contribuì al declino della moralità pubblica nel tardo impero; spesso, infatti, le cariche erano esercitate da gente senza scrupoli.

Il campo sociale
Lo stato assoluto creato da Diocleziano e perfezionato da Costantino aveva a disposizione un’amministrazione centrale rigidamente organizzata e una forte burocrazia periferica. Le tasse richieste per mantenere un simile apparato danneggiarono le piccole aziende artigiane, i contadini e i piccoli affittuari. Per sfuggire a tale coatto stato di cose molti di questi ultimi passarono come coloni sotto la protezione di un latifondista, ma barattarono la libertà di cui godevano fino  a quel momento con una dipendenza ancora più pesante e rimasero legati per sempre con i loro discendenti alle terre del nuovo padrone con una legge del 332. Si avvia quel procedimento sociale che si chiamerà servitù della gleba.
I cambiamenti che nel quadro sociale e politico del mondo romano maturano durante l'età imperiale incidono arche sulle strutture della grande e media proprietà fondiaria, la cui conduzione tende a sostituire l'impiego prevalente e diretto di manodopera schiavile, spesso anche inte­grata dal ricorso al lavoro salariato, con l'affidamento di porzioni di essa a famiglie di coltivatori tanto di condizione servile quanto  libera. La definizione per legge dell'obbligo di resi­denza sui fondi agricoli coltivati, stabilita alla fine del sec. III soprattutto  per motivi di ordine fiscale, induce un forte avvicinamento tra schiavi accasati su lotti di terreno da sfruttare ora autonomamente e coltivatori liberi costretti da necessità o da pressioni di vario tipo ad entrare alle dipendenze di grandi possessori, accomunandoli tutti in un ceto tendenzialmente omogeneo di coloni obbligati a corrispondere a quelli canoni in natura e prestazioni di lavoro. In tal modo il colono si trovava ascritto (ad scriptus = vincolato) al fondo (gleba = zolla e quindi terra, terreno) attraverso un legame di dipendenza che lo poneva, di fatto, in uno stato di completa soggezione nei confronti del proprietario fondiario secondo forme facilmente assimilabili a quelle tipiche della condizione schiavile, che peraltro continuava a mantenersi con un proprio specifico statuto giuridico.
Il fatto che tra i secc. XII e XIV, riesumando formule tratte dal diritto romano, il concetto di adscriptio glebae sia stato riproposto nel contesto di patti agrari stipulati con coltivatori, soprattutto nell'area toscana ed emiliana esprimen­dolo direttamente con tali termini od anche equiparandolo allo stato dei contadini definiti ancora come coloni, oppure villani o manenti (con particolare riferimento, in quest'ultimo caso, all'obbligo di risiedere sul fondo e di non abbandonarlo senza il consenso del padrone), ha promosso la fortuna del­l'espressione onnicomprensiva di servi della gleba che però riassume una varietà di situazioni, per il Medioevo, assai differenziate.      
Un'aristocrazia numericamente esigua aveva nelle mani insieme con i possedimenti statali un'alta percentuale dei terreni amministrati e sfruttava senza scrupolo i propri privilegi economici. Anche i decurioni, titolari di una carica in origine onorifica nell'amministrazione delle città (consigli municipali), ora non solo dovettero garantire con le proprie facoltà il risanamento delle finanze e la copertura dei tributi delle città stesse, ma furono legati a questa carica per legge insieme con i propri eredi. A coercizioni ancora maggiori furono sottoposti gli operai delle imprese statali e i commercianti. Il tentativo di sfuggire a questa situazione con la fuga fu prevenuto mediante pene assai severe. Lo stato poneva rimedio alla mancanza di forze operaie con condannati e vagabondi. La serie di leggi che si susseguono rapidamente l'una all'altra mostra ancora una volta quanto lo stato già a quest'epoca fosse pressato da problemi economici ed il loro contenuto rivela un atteggiamento sempre più disumano nei confronti della gran massa di coloro che erano socialmente deboli. Così il mai risolto contrasto tra potentiores e umiliores divenne un importante fattore nel processo di disgregazione dell'impero romano d'occidente.
Come si comportò la chiesa in questa situazione?
a) I potenti e i sottoposti
Il sistema politico sociale dell'impero non è messo in discussione dalla chiesa. Le crudeltà e le ingiustizie sono considerate conseguenze del peccato. Un mutamento degli ordinamenti esistenti, eventualmente anche con la violenza, non fu dalla chiesa ritenuto né degno di particolare considerazione, né giusto.
La schiavitù è in teoria condannata, ma in pratica è considerata una componente necessaria dell'ordinamento economico amministrativo del tempo.
La chiesa però s’impegna a migliorare le condizioni degli schiavi in maniera tanto ampia e risoluta quanto nessuna altra istituzione  o gruppo sociale del mondo di allora e dal IV secolo aumentano i casi di emancipazione dopo avere garanzie di sicurezza sociale. Un'ulteriore possibilità di aiutare gli schiavi si presentò alla chiesa quando fu esteso alle chiese cristiane l'antico diritto di asilo. Così anche gli schiavi che si rifugiavano in una chiesa venivano a trovarsi sotto la protezione particolare della stessa.
La chiesa non ebbe molto successo nel controllare l'abuso del potere. Agostino dichiara apertamente che molti grandi proprietari terrieri del Nordafrica hanno acquistato la ricchezza con la truffa e la rapina. Il proverbio 'tanto hai, tanto sei’ è la parola d'ordine di tali predatori, di questi oppressori della povera gente, di tutti coloro che si appropriano con la violenza dei beni altrui e negano ciò che è stato loro affidato. Molti senatori cristiani in Africa non si preoccupano della sorte dei loro coloni. E Agostino deve confessare: nessuno osa dirlo loro (ai potenti) in faccia, perché ciò è troppo pericoloso. Il rimprovero che si preferisce ormai tacere delle azioni di violenza e dei metodi di sfruttamento dei potenti o che si osa parlare solo a mezza voce, è esteso da Salviano di Marsiglia (sec.V) anche ai vescovi, i quali non si comporterebbero però in tal modo per viltà, ma per non spingere ancora al peggio i colpevoli, con la conseguenza che poveri, vedove, orfani devono continuare a soffrire. L'impero sta agonizzando anche per questo motivo. Anche le disposizioni sinodali cambiano ben poco nella situazione generale. Gli Statuta ecclesiae antiqua (documento del V secolo della chiesa gallo romana) ordinano ai vescovi di non accettare alcuna offerta da parte di coloro che opprimono i poveri.
b) I ricchi e i poveri
E' strano che in quest'epoca le classi più umili e sfruttate non si siano sollevate più spesso, come fecero invece i Bagaudi nella Gallia.  Sichiamavano così, nel Basso Impe­ro, gli abitanti delle province romane appartenenti alla classe meno agiata, specialmente contadini, spesso viventi in squallida miseria, i quali si riunivano in leghe armate per sottrarsi alle vessazioni dei funzionari romani e alle violenze dei ric­chi, o anche per opporre resistenza ai barbari. Il loro nome, d'incerta etimologia, compare per la prima volta in Gallia al principio del regno di Diocleziano. Nel 285 guidati da due ambiziosi, Amando ed Eliano, i Bagaudi si ribellarono all'Impero mettendo a sacco le campagne e minacciando le stesse città. La rivolta fu repressa da Massimiano Erculio, parte con la forza, parte con la clemenza. Nell'anno 408 Saro, generale di Onorio, per poter attraversare le Alpi e venire in Italia, do­vette consegnare ai Bagaudi il bottino fatto nella Gallia. Negli anni   441, 448 e 454 avvennero sollevazioni di Bagaudi in Spagna. La Chronica Gallicariferisce all'anno XII dopo la morte di Onorio (435), che nella Gallia ulteriore i Bagaudi, capitanati da un tale Tibattone, si sollevarono contro l'Impero d’occidente, provocando anche la ribellione degli schiavi di quasi tutto il paese. La lotta si protrasse fino al 437, nel quale Tibattone fu preso e gli altri capi dei rivoltosi in parte furono imprigionati e in parte uccisi. Forse Ezio, impegnato nel 435 contro i burgundi, condusse la lotta contro i Bagaudi per mezzo dei suoi luogotenenti, e intervenne nella repressione solo nell’ultima fase assalendoli nelle fortezze in cui si eran­o ritirati e riducendoli all'obbedienza di Roma.
I padri accettano le ingiustizie come un dato di fatto. Riconoscono la proprietà privata, ma sottolineano con estrema energia il dovere sociale della proprietà. Basilio, Crisostomo e Ambrogio (Ambrogio protestò contro l'espulsione dei forestieri dalla città di Roma in tempo di carestia e organizzò una raccolta di fondi per comprare grano da distribuire ai poveri) presentano impressionanti quadri di facoltosi commercianti, di ricchi scialacquatori che dilapidano somme enormi, sfruttando i poveri. La chiesa sviluppò un'opera di assistenza sociale che rese credibile la sua predicazione. I vescovi erano i responsabili, gli organizzatori erano i diaconi. Proprio in questo momento le comunità cominciano a possedere, attraverso lasciti, dei beni immobiliari, ma i proventi di questi, con cui il vescovo deve mantenere anche il suo clero e le chiese del suo vescovato, non sono sufficienti a quest'epoca per tutti i compiti che vanno affrontati. La creazione del tutto autonoma di un’assistenza sociale cristiana, che vede Cristo nel bisognoso e nello straniero, distingue fondamentalmente tale assistenza dalle poche iniziative non cristiane di tipo analogo instaurate nell'antichità, le quali si basavano su principi non religiosi ma genericamente umanitari.
Giovanni Paolo II nell’Enciclica Sollicitudo rei socialis afferma: “Fa parte dell’insegnamento e della pratica più antica della chiesa la convinzione di esser tenuta per vocazione – essa stessa, i suoi ministri e ciascuno dei suoi membri – ad alleviare la miseria dei sofferenti, vicini e lontani, non solo con il ‘superfluo’, ma anche con il ‘necessario’. Di fronte ai casi di bisogno, non si possono preferire gli ornamenti superflui delle chiese e la suppellettile preziosa del culto divino: al contrario potrebbe essere obbligatorio alienare questi beni per dar pane, bevanda, vestito e casa a chi ne è privo” ( nella nota 59 vengono richiamati testi di san Giovanni Crisostomo e di sant’Ambrogio).    

Le prime istituzioni caritative furono gli ospizi per gli 'stranieri' in viaggio, pellegrini diretti verso luoghi famosi. L'alta valutazione che dell'ospitalità ebbe il monachesimo portò alla costruzione di uno ξενοδοχειον in ogni monastero cenobitico maggiore. L'inclusione del monachesimo nell'opera caritativa della chiesa doveva avere conseguenze particolarmente positive, in quanto essa non solo arrecava alla chiesa forze nuove, ma realizzava anche un durevole legame tra il monachesimo e l'attività quotidiana della chiesa stessa. L'impresa più significativa è legata al nome di Basilio il Grande che fece costruire alla periferia di Cesarea un complesso edilizio il quale comprendeva, accanto ad un monastero e alle abitazioni per il clero, un ospizio per gli stranieri ed uno per i poveri, ai quali erano annessi tutti i servizi di assistenza, medici, infermieri, officine, botteghe, mezzi di trasporto. Anche ad Antiochia la comunità cristiana dispone di un grande ospedale e di un ospizio per gli stranieri; così anche a Costantinopoli. Nell'occidente latino (Roma, Nola, Ippona...) tra il IV e V secolo si guarda al modello orientale.
Nella sua cura caritativa la chiesa ha compreso anche i prigionieri e i detenuti.
Lo stato aiutò la chiesa per la sua attività caritativa, ma non organizzò nulla di analogo.

Il campo culturale
All'inizio del IV secolo la cristianità rappresenta solo una minoranza nella società tardo antica: culturalmente domina il paganesimo. Col crescere del numero di quei cristiani che per la loro origine e per la loro posizione dovevano la propria formazione alla cultura pagana, si pose il problema: "Come doveva inserirsi la chiesa nella cultura del tempo: accettarla, adattarla, rifiutarla?". Le soluzioni sono assai diverse, in parte determinate dalla esperienza personale degli scrittori, in parte dipendenti dall'importanza che il singolo attribuiva ad alcuni aspetti di questa cultura; col passar del tempo alcune tendenze della vita culturale si dissolvono.
La letteratura profana è rifiutata dalla maggioranza. La mitologia che vi domina è condannata come immorale, lo stile di vari autori è giudicato futile e vano.
Non le viene però negato da tutti un valore culturale. Così Basilio, Gregorio Nazianzeno ("Tutte le capacità speculative devono essere poste al servizio della causa di Cristo e la conoscenza della letteratura profana può portare anche al rafforzamento della fede"), Ambrogio. Caso emblematico è quello di Agostino. Con il battesimo inizia un processo critico. Cicerone e Virgilio hanno però una grande importanza. La vera rottura con la cultura antica è realizzata da pastore d'anime. Rinuncia comunque alle invettive grossolane di altri perché si è reso conto che tale letteratura, come la cultura che l'ha espressa, è destinata ormai a scomparire. Presenta un particolare corso di studi ben definito per il clero e per il cristiano laico che ha come base la Scrittura con quelle scienze naturali che portano ad una migliore comprensione della Scrittura stessa. Agostino e gli altri padri non hanno sollecitato la creazione di una scuola cristiana (é la famiglia che deve curare l'educazione religiosa). Manca qualunque traccia di un tentativo da parte della chiesa di esercitare un influsso sullo stato per quanto riguarda la pianificazione degli studi nella scuola. Ed anche nella legislazione ecclesiastica trova un'eco assai scarsa l'atteggiamento di distacco della chiesa nei confronti della cultura profana.
Gli scrittori più significativi della chiesa di quest'epoca lasciano riconoscere l'influsso formale della loro istruzione scolastica profana (Gregorio di Nazianzo, Gregorio di Nissa, Prudenzio, Paolino da Nola, Eusebio, Teodoreto di Ciro, Orosio, Basilio, Girolamo, Agostino...).
Verso il teatro, i giochi del circo e la concezione della natura del divertimento, l'atteggiamento della chiesa rimase assolutamente negativo per le enormi spese e per l'immoralità. Crisostomo ed Agostino si lamentano assai per il fatto che nei giorni in cui si tengono spettacoli le chiese rimangono quasi vuote. Relativo successo ebbe la campagna contro i giochi gladiatori che, a causa della loro brutalità e dei loro effetti di imbarbarimento sollevavano delle riserve anche da parte pagana. Già nel 325 Costantino li aveva proibiti in oriente. Onorio li abolì all'inizio del V secolo in occidente. Lo stato però non toccò in un primo momento le altre forme di spettacolo, teatro e circo. I missionari e i predicatori della chiesa erano convinti che queste forme di divertimento costituivano un ostacolo sostanziale alla diffusione e alla accettazione della dottrina morale cristiana.
Gli attori devono abbandonare la loro attività se vogliono ricevere il battesimo e ai cristiani è negata la comunione. Con l'appoggio degli imperatori Costantino e Teodosio si eliminano diverse festività profane e si introduce la domenica cristiana.

Quali cambiamenti si sono realizzati?
La società è divenuta una maggioranza cristiana da pagana che era. In tale maggioranza cristiana due gruppi diventano rilevanti dal punto di vista sociale: il clero, cresciuto nel grado e nella sfera d'azione, ed il monachesimo i quali ebbero modo di agire come categorie particolari ed ebbero da allora in poi grande influenza nella società. Accanto ad essi si incontrano poi gruppi mutevoli i quali si sviluppano nelle accese controversie, che occupano tutto questo spazio di tempo, sulla retta interpretazione del contenuto della fede cristiana e portano di quando in quando alla formazione di confessioni cristiane. Da questa lotta per l’ortodossia si sviluppa un grave irrigidimento della intolleranza religiosa che contraddistingue questa società e che si ripete come una eredità nell'epoca successiva. Nessun gruppo può concedere all'altro il diritto ad una propria interpretazione della fede, per  'ortodossia'  ariani, donatisti, macedoniani e monofisiti, coloro che appartengono di volta in volta all'altro gruppo sono degli eretici che si cerca di abbattere con l'aiuto della potenza dello stato e di indebolire colpendoli anche nei loro diritti civili.
Nell'ordinamento statale di base questa società cristiana in divenire non volle mutare nulla, nelle strutture economiche e sociali poté mutare solo poco. In alcuni campi (famiglia, matrimonio, figli, schiavitù, proprietà, carità... ) furono compiuti, talora con discreto appoggio dello stato, passi iniziali decisamente positivi. E' difficile commisurare più esattamente il mutamento nell'atteggiamento etico morale di questa società. La predicazione morale del tempo conferma che non si era ancora introdotto un mutamente radicale. Soltanto una
minoranza sembra impegnarsi seriamente nell’etica cristiana. C’è però un mutamento poco spettacolare che deriva da una graduale e silenziosa infiltrazione di modelli, idee e contenuti cristiani…
In molti campi, intesi non solo in senso spaziale, la chiesa si trovava ancora in una situazione di missione.  I 125 anni tra Nicea e Calcedonia furono ancora epoca di semina, piuttosto che di raccolta.

 Archeologia Cristiana

L'archeologia in genere si può definire Scienza ausiliare della Storia, che aiuta a conoscere il passato per mezzo di monumenti, resti di edifici, o altri oggetti che vengono scoperti. Questa scienza ha un'importante applicazione negli studi biblici e, in generale, in quanto riguarda i primi tempi del cristianesimo.
Disciplina che studia le società del passato attraverso le loro testimonianze materiali. Viene suddivisa sulla base degli ambiti storico culturali presi in considerazione in: a. preistorica, orientale, classica, cristiana, precolombiana, medievale...

Definizione e scopi
L'a.c. in quanto scienza storica si pone come oggetto della propria ricerca lo studio dei monumenti e della cultura materiale del primo cristianesimo, dalle sue origini sino alla fine del mondo antico (intorno all’anno 600). L'a.c. in quanto scienza storica ricostruisce nell'ambito della cultura antica la vita della comunità cristiana così come si è espressa nelle testimonianze della cultura materiale. Rappresenta una disciplina a sé nel quadro d'insieme degli studi archeologici. Essa deve da un lato tener conto, nelle proprie ricerche, dei risultati conseguiti nei campi limitrofi, soprattutto dell'archeologia classica, la storia dell'antichità, la filologia classica, la bizantinistica, le antichità giudaiche, la storia della chiesa antica, la liturgia, la patristica; ma a sua volta mette a disposizione di questi campi il materiale da lei studiato ed esaminato su basi s scientifiche, le sue indagini alle discipline teologiche.
L’a.c., che conserva denominatori comuni e gli stessi metodi delle altre archeologie, può definirsi quella parte della scienza dei monumenti che è destinata alla ricostruzione integrale  e obiettiva della vita cristiana nell’antichità e nell’alto medioevo.
Duplice è il suo compito:

  1. preparare  metodicamente il materiale scientifico;
  2. perseguire la ricostruzione sintetica della vita cristiana in tutte le sue manifesta-zioni, con la ricerca del vero nesso causale di queste manifestazioni religiose, con l’ausilio dei monumenti e dei resti storici in tutto il loro insieme.

Tenendo conto della molteplice tipologia dei resti archeologici cristiani, normal-mente le vengono assegnate tre insiemi di monumenti:
1. Gruppo architettonico (domus ecclesiae, basiliche…), monumenti funerari.
2. Gruppo iconografico che include raffigurazioni pittoriche (affreschi e mosaici), sculture e arti minori.
3. Gruppo epigrafico che accoglie tutte le iscrizioni…

Storia
L'A.C. trae le sue origini da una particolare situazione storica, cioè il  Rinascimento europeo e conseguenti mutamenti culturali e religiosi che portarono ad una nuova impostazione degli orientamenti generali. Il nuovo interesse storico porta alla riscoperta di monumenti paleocristiani. Ciriaco di Ancona (1391-1452), Antiquarius mercante-umanista, negli anni 1435 38 e 1444 48 nei suoi viaggi attraverso la Grecia e le isole greche copia con particolare interfesse scientifico anche le iscrizioni cristiane. Onofrio Panvinio (1529 1568), erudito e storico, studiò a Verona e a Padova, si stabilì a Roma, fu protetto dal cardinale Alessandro Farnese, futuro Paolo III, e da Pio IV; i suoi studi furono rivolti soprattutto alle antichità romane; redige un trattato di antichità cristiana (De ritu sepeliendi mortuos apud veteres christianos et eorumdem coemeteriis, Lovanium 1522). Dei 43 cimiteri elencati sulla base delle fonti letterarie, ne conosce di persona solo tre.
Questo interesse per le ‘antiquitates' riceve nuovo impulso dagli sconvolgimenti determinati dalla Riforma e Controriforma nel XVI secolo. Gli eruditi protestanti ed umanisti nel loro rifiuto delle forme di culto della chiesa, condannando in particolare il culto dei santi e delle reliquie, si richiamano ai modi di vivere e all'insegnamento della chiesa primitiva. Così nascono le prime grandi opere di storia ecclesiastica quali la Historia ecclesistica secumdum centurias degli “studiosi et pii viri in urbe Magdeburgica” (1559 e ss) in cui i monumenti paleocristiani appaiono citati per la prima volta in senso polemico.

N.B. Centurie di Magdeburgo. E’ la prima storia del cristianesimo compiuta dai Protestanti, così chiamata perché divisa in secoli o centuriae e perché iniziata a Magdeburgo. Fu ideata da Flacio Illirico nel 1553, con l’intento di dimostrare l’identità della dottrina riformata con quella dei primi secoli della chiesa; egli ebbe diversi collaboratori come J. Wigand e B. Faber e altri denominati i centuriatori di Magdeburgo. L’opera fu stampata a Basilea in 13 volumi tra il 1559 e il 1574. Dal campo cattolico la replica più efficace fa data dal Baronio con gli Annales ecclesiastici.
A fronte di tale giustificazione del protestantesimo attraverso il protocristianesimo, la Controriforma, a sua volta, si richiama alla storia della chiesa primitiva e anche ai monumenti che appaiono in una luce particolare per via della loro innegabile obiettività come testimonianza di vita e di fede veterocristiana.

Centro spirituale l'Oratorio di S.Filippo Neri da cui uscì il fondatore della storiografia ecclesiastica scientifica, Cesare Baronio (1538-1607). Sacerdote, laureato in giurisprudenza, nella sua monumentale opera Annales ecclesiastici (titolo originale: Historia ecclesiastica controversa)(1588-1607), con la quale rispondeva, su incarico della chiesa, alla storiografia ecclesiastica  protestante, si avvale anche dei monumenti del primo cristianesimo, che non solo porta come prove, ma che fa anche riprodurre. L’intento apologetico non infirma la validità dell’opera. Scopre fortuitamente una catacomba sulla via Salaria con pitture e numerose iscrizioni con conseguenze interessanti. Non era la prima scoperta del genere, ma in quel momento si era venuto a creare un clima spirituale adatto per apprezzare in pieno un tale ritrovamento. Nel contempo lo stesso Filippo Neri frequenta le catacombe di S. Sebastiano, le uniche a lui note, per effettuarvi gli esercizi spirituali e per la preghiera.  Nel clima spirituale di quel periodo l’interesse antiquario per i monumenti paleocristiani si congiunge con l’interesse religioso e apologetico per quegli stessi monumenti, dovuto alla spinta controriformista.
In questo spirito il rappresentante dell'ordine di Malta a Roma, Antonio Bosio, (nasce a Malta nel 1575) che, da giovane un po’ scapestrato aveva con i suoi compagni compiuto delle bravate nelle catacombe, da adulto si dedica per primo allo studio  serio di Roma sotterranea e quindi delle catacombe. Comincia con lui l'esplorazione scientifica delle stesse e nasce l'A.C. intesa come disciplina scientifica. I cimiteri e i relativi monumenti sono addotti nei confronti degli eruditi protestanti come prove della continuità della dottrina della Chiesa dagli inizi fino ai tempi moderni. La conseguente visione romantica del martirio e dei martiri diviene sfavorevolmente evidente negli epigoni che non raggiungono i livelli di un Baronio o di un Bosio: lo studio dei monumenti registra un periodo di stasi quasi fino alla fine del XVII sec.  Ma anche a Roma lo studio di questi monumenti subisce una stasi. Gli scavi effettuati in quel periodo nelle catacombe da privati, non sono basati su metodi scientifici, ma vengono eseguiti su ordine di privati cittadini o di monasteri alla ricerca di martiri e di reliquie.
A Roma i papi Urbano VIII (1623-1644), Alessandro VII (1655-1667), e Clemente XI (1700-1721) sono indotti ad istituire la carica di custode delle reliquie e dei cimiteri a tutela delle catacombe. Il 'custode' Raffaele Fabretti (1619-1700), erudito, tesoriere di papa Alessandro VII, precursore della moderna a.  pubblica così nell'VIII volume delle sue Inscriptionum antiquarum explicatio (Roma 1699; 1702) iscrizioni greche e latine provenienti dalle catacombe. Il suo successore Marcantonio Boldetti prosegue in tale studio e scopre nuove regioni cimiteriali. E' la prima volta dopo il Bosio che viene presentata un'ampia raccolta di nuovi materiali, ma a differenza dell'opera di Bosio, qui manca qualsiasi sistema e metodo. A ragione la critica protestante evidenzia la prevalente tendenza apologetica dell'opera. In effetti l'opera voleva essere prevalentemente una risposta alle critiche mosse sia da parte protestante che cattolica alla ricerca delle reliquie e dei martiri nelle catacombe. Boldetti propone a Clemente XI di costituire in Vaticano una raccolta epigrafica cristiana, ponendo così le basi per un museo cristiano archeologico. Sono di grande utilità alcune raccolte di reperti del periodo di passaggio dal XVII e XVIII sec. in quanto ci tramandano manufatti oggi perduti. Tuttavia fino a metà del XIX sec., lo studio dei monumenti perde d'importanza. In questo periodo non viene fatta nessuna ricerca diretta sulle catacombe romane. Cresce in genere l'interesse per i monumenti cristiani fuori Roma.
Il Romanticismo porta ad un nuovo apprezzamento del Medioevo cristiano in contrapposizione all'antichità classica. Si riscoprono in questo modo i monumenti del cristianesimo primitivo, divenuti oggetto di studio non più vincolato strettamente ad aspetti teologici. Verso la metà del XIX sec. lo studio delle catacombe romane riceve nuovi impulsi. G.B. de Rossi (1822 1894), archeologo ed epigrafista,  applica allo studio delle catacombe un rigoroso metodo scientifico, divenendo il fondatore dell'A.C., in quanto moderna scienza storica per lo studio delle testimonianze monumentali del primo cristianesimo. A lui si deve la scoperta della cripta dei papi nel 1849 a S. Callisto e la tomba di santa Cecilia, dopo aver identificato alcuni anni prima le omonime catacombe fino a quel tempo sconosciute.
L'interesse si sposta ora verso i monumenti cristiani dell'Oriente e dell'Africa del Nord.
Si trovano opere di tipo enciclopedico come la Storia dell'arte cristiana nei primi otto secoli della Chiesa di R. Garrucci (1812-1885), archeologo, gesuita, nessuno fu oggetto di giudizi così disparati, e in un secondo momento le grandi raccolte di J.Wilpert (nasce in Slesia nel 1857) sacerdote, che viene a Roma e fa parte della commissione archeologica. Queste opere sono ancora oggi un’insostituibile raccolta di materiale.
I primi scavi aventi come fine la ricerca di un monumento cristiano sono stati quelli effettuati nel 1835 e 1850, nella navata trasversale di S. Paolo fuori le Mura a Roma, per ritrovare la tomba dell'apostolo.
Sempre ai fini dell’A.C.  giovano altri scavi effettuati nel duomo di Treveri nel 1848-58, mentre l’attività a Roma rimane essenzialmente circoscritta alle importanti esplorazioni delle catacombe effettuate dal De Rossi.

Le catacombe
Introduzione
Le catacombe sono gli antichi cimiteri sotterranei, usati ad un tempo dalle comunità cristiane ed ebraiche, soprattutto a Roma. Le catacombe cristiane, che sono le più numerose, ebbero origine nel secondo secolo e lo scavo conti-nuò fino alla prima metà del quinto.
In origine esse furono solo luoghi di sepoltura. Qui i cristiani si radunavano per celebrare i riti funebri, gli anniversari dei martiri e dei defunti.
Durante le persecuzioni, in casi eccezionali, servirono come luoghi di rifugio momentaneo per la celebrazione dell'Eucarestia. Non furono usate come nascondigli segreti dei cristiani; questa è una pura leggenda, una finzione proposta da romanzi e film.
Terminate le persecuzioni, soprattutto al tempo del papa San Damaso I (366 - 384), le catacombe divennero veri e propri santuari dei martiri, centri di devozione e di pellegrinaggio di cristiani da ogni parte dell'impero romano. A quel tempo anche a Roma esistevano cimiteri all'aperto, ma i cristiani, per diversi motivi, preferirono i cimiteri sotterranei. Prima di tutto i cristiani rifiutava-no l'usanza pagana della cremazione del corpi. Sull'esempio della sepoltura di Cristo, essi preferivano l'inumazione, per un senso di rispetto verso il corpo destinato un giorno alla risurrezione dai morti.
Questo vivo sentimento dei cristiani creò il problema dello spazio, problema che influì grandemente sullo sviluppo delle catacombe. Se essi avessero utilizzato soltanto cimitero all'aperto, dal momento che i cristiani normalmente non riutiliz-zavano le tombe, lo spazio disponibile si sarebbe ben presto esaurito. Le catacom-be risolsero il problema in forma economica, pratica e sicura. Siccome i primi cristiani erano in maggioranza poveri, questa forma di sepoltura fu decisiva.
Ci furono pure altri motivi che portarono alla scelta dello scavo sotterraneo. Era vivissimo nei cristiani il senso della comunità: essi desideravano trovarsi assieme anche nel "sonno della morte". Inoltre questi luoghi appartati, in partico-lare durante le persecuzioni, permettevano raduni comunitari riservati e discreti e consentivano il libero uso dei simboli cristiani.
In conformità alla legge romana, che proibiva la sepoltura dei defunti entro le mura della città, tutte le catacombe sono situate lungo le grandi vie consolari e, generalmente, nella immediata area suburbana di quel tempo.
Storia delle catacombe

  • Nel primo secolo i cristiani di Roma non avevano cimiteri propri. Se possede-vano dei terreni, seppellivano là i loro defunti, altrimenti ricorrevano ai cimiteri comuni usati anche dai pagani. Per tale motivo San Pietro fu sepolto nella "necropoli" ("città dei morti") sul Colle Vaticano, aperta a tutti; come pure San Paolo fu sepolto in una necropoli della Via Ostiense.
  • Nella prima metà del secondo secolo, in conseguenza di varie concessioni e donazioni, i cristiani presero a seppellire i loro morti sottoterra. Ebbero così inizio le catacombe. Molte di esse sorsero e si svilupparono attorno a dei sepolcri di famiglia, i cui proprietari, neoconvertiti, non li riservarono soltanto alla famiglia, ma li apersero anche ai loro fratelli nella fede. Col passare del tempo le aree funerarie si allargarono, talvolta per iniziativa della Chiesa stessa. Tipico è il caso delle catacombe di San Callisto: la Chiesa ne assunse direttamente l'organizzazione e l'amministrazione, a carattere comunitario.
  • Con l'editto di Milano, promulgato dagli imperatori Costantino e Licinio nel febbraio del 313, i cristiani non furono più perseguitati. Potevano liberamente professare la fede, costruire luoghi di culto e chiese dentro e fuori le mura della città, e comperare lotti di terreno senza pericolo di confische. Tuttavia le catacom-be continuarono a funzionare come cimiteri regolari fino all'inizio del quinto secolo, quando la Chiesa ritornò a seppellire esclusivamente sopratterra o nelle basiliche dedicate a martiri importanti.
  • Quando i barbari (Goti e Longobardi) invasero l'Italia e scesero a Roma, vi distrussero sistematicamente molti monumenti e saccheggiarono molti luoghi, incluse le catacombe. Impotenti di fronte a tali ripetute devastazioni, verso la fine dell'ottavo e l'inizio del nono secolo, i papi fecero trasferire le reliquie dei martiri e dei santi nelle chiese della città, per ragioni di sicurezza.
  • Una volta terminata la traslazione delle reliquie, le catacombe non furono più frequentate, anzi vennero totalmente abbandonate, ad eccezione di quelle di San Sebastiano, San Lorenzo e San Pancrazio. Col passare del tempo, frane e vegeta-zione ostruirono e nascosero le entrate delle altre catacombe, tanto che se ne persero perfino le tracce. Per tutto il tardo Medioevo non si sapeva neppure dove fossero.
  • L'esplorazione e lo studio scientifico delle catacombe iniziarono, secoli dopo, con Antonio Bosio (1575-1629), soprannominato il "Colombo della Roma sotterranea". Nel secolo scorso l'esplorazione sistematica delle catacombe, e in particolare di quelle di San Callisto, venne eseguita da Giovanni Battista de Rossi (1822-1894), che è considerato il fondatore e padre della Archeologia Cristiana.

Situazione attuale e prospettive
Alcune tra le più importanti scoperte sono state fatte durante gli scavi a Dura Europos, una guarnigione romana presso l'Eufrate, negli anni 1920 e 1930.  Sito archeologico della Siria orientale costituito da una città fortificata fondata come colonia macedone nel secolo III a.C., passata ai Romani sotto Traiano e da loro tenuta fino al 265 d.C., espugnata in seguita dai persiani sassanidi e successivamente abbandonata. Ne rimangono importanti resti. Sono state riportate alla luce le rovine di una sinagoga e dell'unica chiesa cristiana finora conosciuta sistemata in una casa privata la quale è anche il più antico edificio di culto cristiano: ambedue risalgono alla prima metà del III sec.; nella chiesa si distingue la sala di preghiera e la sala della cena. Nella sala di preghiera si trova la vasca battesimale con pareti ornate di pitture. Un graffito dell’umile Siseo invoca Cristo e sta a testimoniare come, pur essendo cristiano, avesse lavorato nella sinagoga. L’amicizia tra ebrei e cristiani a Dura Europos è attestata anche dal ritrovamento di pergamene ebraiche nella zona della sinagoga, che recano preghiere eucaristiche, come quelle della Didachè. Particolarmente importanti sono gli scavi eseguiti negli anni '40 su incarico di Pio XII sotto la basilica di S. Pietro, alla ricerca della tomba di s. Pietro che la tradizione localizzava proprio in quel punto. Questi scavi sono un evidente testimonianza di come la ricerca dell'A.C. sia indissolubilmente legata a quella dell'archeologia classica. Sono state infatti rinvenute parti di una necropoli romana con ricchi edifici sepolcrali ed in mezzo a questi una semplice edicola di modeste dimensioni, risalente al 160 d.C. Questa evidentemente circoscriveva il punto in cui la tradizione della comunità cristiana della seconda metà del II sec. localizzava la tomba del principe degli apostoli: così le esplorazioni hanno rese accessibili le testimonianze di una tradizione cultuale cristiana quasi bimillenaria che è anche un momento di basilare importanza per la storia universale. Riprendendo quanto già si è detto su questi fogli alla pag. 38, si amplia il discorso con alcuni cenni circa gli studi di una grande competente Margherita Guarducci, la quale racconta: "Gli studiosi che eseguirono tra il 1939 e il '49 gli scavi sotto la Basilica, trovarono davvero quell'antica tomba veneranda, ma a quell'epoca non le reliquie di Pietro". Toccò a Margherita Guarducci, nel 1952 riprendere questi lavori con risultati sorprendenti. Sotto l'attuale altare papale della Basilica di s. Pietro, si è rinvenuta un'edicola funeraria appoggiata a un muro contemporaneo (circa anno 150) detto 'rosso' per il colore e particolarmente prezioso per i numerosi graffiti sovrapposti: ella li decifrò con la nota competenza. Tutti contengono invocazioni a Pietro al quale sono uniti talvolta i nomi di Cristo e Maria S.S., con l'acclamazione di 'vittoria' in greco: è l'augurio della vita 'in Cristo' e 'in Pietro', il cui nome viene espresso dalla sua simbolica chiave. Nella stessa necropoli vaticana, sulla tomba dei Valerii, Margherita Guarducci lesse: Petrus, roga pro sanctis hominibus chrestianis ad corpus tuum sepultis. ("Pietro, prega per i santi uomini cristiani sepolti presso il tuo corpo"), Nel nome dell'Apostolo, il vocativo era stato sostituito, come non di rado in tarda epoca dal nominativo. E' evidentemente una supplica per i cristiani tumulati presso il corpo dell'Apostolo, segno che proprio 1ì Pietro era stato sepolto e 1ì veniva invocato. Di decisiva importanza l'altro graffito, risalente al 160 circa, che tradotto dal greco significa: 'Pietro è qui dentro'. Questa annotazione scritta sul 'muro rosso', indica il luogo preciso della tomba dell'Apostolo Pietro. In base a questi graffiti l'a. asserì che già intorno al 150 d.C., questo luogo di Roma sul colle Vaticano era meta di pellegrini. Ma con la tomba ella scoprì gran parte delle ossa di Pietro. Nel suo libro "La Tomba di San Pietro" scrive: "1962-1963 – le ossa vengono sottoposte agli esami antropologici del professor Venerando Correnti. Tali esami danno a me la possibilità di riconoscere quelle ossa come reliquie di Pietro e, successivamente di difenderle. 1963-1964 – Riconosciute da me le ossa come reliquie di Pietro, si svolgono intensamente le mie ricerche in vari campi di studio e il mio lavoro per il coordinamento dei dati offerti dai cultori delle scienze sperimentali. 1963 – Esce la mia prima pubblicazione sulle reliquie di Pietro. Nelle drammatiche vicende delle reliquie di Pietro si alternano luci ed ombre. Ma le ombre vengono sopraffatte dallo splendore della realtà. Pietro è presente non soltanto idealmente, ma anche concretamente nella Basilica che di lui porta il nome". Questi studi hanno contribuito in modo essenziale a chiarire la storia del culto dei martiri. L'intrecciarsi dell'A.C. con lo studio sulla antichità tarda, permette di ricostruire le fasi di passaggio del mondo antico e di individuare il ruolo che il cristianesimo ha ricoperto come forza dominante a partire dal IV sec. Questi studi dimostrano inoltre come l'A.C. sia andata modificandosi dai suoi inizi improntati principalmente sulle controversie teologiche e apologetiche nell'interpretazione dei monumenti della chiesa primitiva, per divenire una moderna scienza storica, la quale si avvale dei reperti archeologici per delineare una storia dell'arte e della cultura nella fase finale dell'evo antico. Al contempo essa mette questo materiale a disposizione delle scienze teologiche che se ne servono per ricostruire la storia della chiesa primitiva, delle sue istituzioni e delle sue forme di culto.

 

Fonte: http://anteprima.qumran2.net/aree_testi/studi/storiachiesa/storia-chiesa-antica.zip/Storia%20chiesa%20antica.doc

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