Storia Inghilterra

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Storia Inghilterra

L’Inghilterra nell’età vittoriana (1837 – 1901)
Il 20 giugno 1837, dopo la morte del sovrano Guglielmo IV Hannover, saliva sul trono la diciottenne Victoria Alexandrina, nipote del sovrano defunto e figlia del duca di Kent (quarto figlio di Giorgio III Hannover). Il regno della regina Vittoria sarà straordinariamente lungo e durerà sino al 1901, caratterizzando un’intera epoca della storia inglese, europea e mondiale, giustamente denominata età vittoriana. Un'epoca, questa, che coinciderà anche con l'affermazione della classica civiltà liberale dell'Ottocento borghese, che in Inghilterra si affermò con decisione solo a partire dai primi anni Trenta, con la storica vittoria dei Whigs di Lord John Gray alle elezioni del 1830 e la conseguente – importantissima – riforma elettorale del 1832. Difatti, con il Reform Bill del 1832, approvato dopo quasi due anni di furiosa battaglia parlamentare, si iniziò ad intaccare il predominio politico quasi assoluto dei Landlords (i potenti proprietari terrieri dell'aristocrazia britannica) e a dare maggiore spazio rappresentativo alla nuova borghesia urbana e manifatturiera, che in Inghilterra era cresciuta in modo esponenziale grazie alla rivoluzione industriale.
Oltre a ciò, l'industrializzazione aveva enormemente accresciuto la ricchezza e la potenza della Gran Bretagna, benché in modo tipicamente contraddittorio, perché l'industria creava in modo esponenziale, oltre alla ricchezza, anche nuove sacche di miseria e di sfruttamento, originate sia dalla stessa evoluzione tecnologica, sia dalla sovrappopolazione dell'Inghilterra dell'epoca. Nel corso del Settecento, infatti, a causa del miglioramento del livello di vita la popolazione inglese si era accresciuta di molto, così come era accaduto nel resto d'Europa. L'accrescimento demografico portava però ad una pressione crescente sui mercati e all'innalzamento del costo della vita, mentre all'inverso creava disoccupazione o sottoccupazione per la forte eccedenza di manodopera. L'introduzione delle macchine a vapore e la nascita dell'industria moderna peggiorarono la situazione, tanto che – nei primi dell'Ottocento – si era diffusa la convinzione che le macchine rubassero il lavoro. Si ebbero pertanto vere e proprie rivolte operaie, passate alla storia con il termine di “luddismo” (da Ned Ludd, un fantomatico capo operaio che per primo avrebbe distrutto un telaio meccanico nel 1779). Queste rivolte, verificatesi soprattutto nei primi dell'Ottocento, furono duramente represse dalle autorità, anche se la loro eco ebbe ripercussioni sul mondo politico inglese, favorendo lo sviluppo del radicalismo filantropico e creando i prodromi del primo pensiero socialista (con Robert Owen, l'inventore del termine stesso “socialismo”).
D'altra parte, in un mondo dove non esisteva alcuna tutela del lavoro, gli impresari industriali tendevano a sfruttare al massimo l'eccesso di manodopera, impiegando massicciamente il lavoro femminile e quello infantile (le donne erano in genere pagate la metà degli uomini, mentre i fanciulli se la cavavano con il semplice vitto; bambini e donne erano normalmente impiegati nelle fabbriche e nelle miniere, con orari di lavoro pesantissimi).  In effetti, gli unici che potevano avere una qualche tutela erano gli appartenenti alle antiche corporazioni di mestiere, che l'organizzazione industriale del lavoro stava rapidamente dissolvendo. Così, da quelle antiche organizzazioni medioevali si originarono presto le prime “Trade Unions” inglesi, che tentavano di  affrontare i disagi del mondo del lavoro attraverso l'associazionismo mutualistico, spesso a sfondo religioso e filantropico (una vera e propria attività sindacale era ovviamente illegale, come illegale era lo sciopero, mentre le “società filantropiche” potevano ben proliferare).
La vecchia Inghilterra conservatrice dei Landlords poteva certo controllare questi fenomeni, tanto più che esisteva la valvola di sfogo dell'impero coloniale britannico (gli straccioni venivano spesso deportati nelle colonie o arruolati a forza nella Royal Navy), ma intanto il paese stava cambiando e le nuove borghesie urbane reclamavano un maggiore spazio politico. Così, alle elezioni del 1830 vinsero i Whigs, i quali realizzarono la riforma elettorale del 1832 (Reform Bill). Apparentemente nulla di straordinario, perché la riforma non mutava i requisiti di voto, ma semplicemente ridisegnava le circoscrizioni elettorali. Solo che, essendo quelle circoscrizioni rimaste quali erano alla fine del Seicento, prima della riforma consentivano a pochi proprietari terrieri (i pochi elettori residenti nei cosiddetti “borghi putridi” o “rotten boroughs”, che avevano il diritto di eleggere un deputato) di dominare la Camera dei Comuni. Il “Reform Bill” riequilibrò la situazione a favore delle borghesie urbane, soprattutto dei nuovi centri industriali, che precedentemente non avevano alcun peso politico. Iniziò così una nuova stagione politica, propriamente liberale, nella quale emerse anche la necessità di affrontare il problema sociale del lavoro, della miseria e del degrado umano creato dall'industria. Il problema fu sentito anche dai politici conservatori, consapevoli del rischio di una esplosione del disagio sociale. D'altra parte, che questo fosse possibile e che era necessario un cambiamento delle politiche tradizionali è dimostrato dallo sviluppo del “movimento cartista” alla fine degli anni Trenta: una imponente mobilitazione dell'opinione pubblica rivolta ad ottenere il pieno suffragio elettorale maschile (il termine “cartismo” derivava dalla “Carta del popolo”, che fu presentata nel 1838 al Parlamento con un milione di firme),.
Arrivarono così le prime leggi di regolamentazione del lavoro (specialmente quello minorile) e si iniziò a dibattere sulle famose “Corn Laws” (le leggi sul grano, strenuamente difese dai deputati proprietari terrieri Tory), che impedivano l'importazione di grani esteri in Inghilterra, con un conseguente innalzamento dei prezzi delle granaglie nazionali (con prosperi guadagni dei latifondisti e  fame per la plebaglia). Si mise mano alle “Poors Laws”, che in Inghilterra esistevano sin dal Seicento (con l'obbligo per le parrocchie di assistere agli indigenti in cambio di lavori socialmente utili), creando le famigerate e temute Workhouses, luoghi d'asilo e di lavoro per disoccupati e nullatenenti (in verità più che altro simili a manifatture per carcerati).
Attorno ai primi anni quaranta, fu soprattutto il conservatore Robert Peel ad esprimere questa tendenza alla sensibilità sociale (poi chiamata anche “torismo democratico”), creando altresì una spaccatura nello stesso fronte dei Tory, perché, in occasione della terrificante carestia della patata verificatasi in Irlanda (1845-49), Peel volle l'abolizione delle “Corn Laws”. Il partito conservatore si scisse così in “peeliti” (conservatori liberali) e in “Conservatives” vecchio stampo. La spaccatura costò la caduta del governo Peel (1846), ma avvicinò i liberali moderati alle posizioni dei liberali di sinistra, rendendo presto desueta la distinzione tra whigs e tories (ma purtuttavia si continuò ad usare anche questa distinzione, sebbene non avesse più il significato che aveva prima).
Dopo Peel, la politica britannica iniziò infatti a muoversi quasi esclusivamente nelle categorie del liberalismo, tanto che spesso è per noi difficile etichettare le posizioni più o meno conservatrici o radical progressiste dei vari leader britannici di questo periodo: sono tutti liberali, con posizioni a volte “Tory” a volte “Whig”, talvolta “progressisti” ma anche “conservatori”. In effetti, nel campo liberale non esistevano vere differenze ideologiche quali noi le potremmo oggi intendere, ma sensibilità  ed atteggiamenti diversi, talvolta anche meramente individuali.
Un buon esempio di ciò possono essere due dei politici britannici più in vista del periodo 1845 – 1860: Benjamin Disraeli ed Henry John Temple, visconte di Palmerson. Pur essendo egli stesso un Tory, Disraeli considerava finito il toryismo classico e non disdegnava di flirtare con il cartismo e con i radicali, pensando fosse importante legare la classe lavoratrice in un patto d'alleanza con l'aristocrazia terriera tradizionale, contro i “mercanti” profittatori (la nuova borghesia creata dall'industria). Insomma, una singolare miscela di conservatorismo e di populismo che in Inghilterra ebbe larga fortuna: Disraeli infatti, oltre che uno scrittore di fama, fu un personaggio di primo piano del fronte conservatore e si batté contro l'abolizione delle “Corn Laws”, determinando la caduta di Peel. In seguito, rimase uno dei leader conservatori più in vista e fu primo ministro dal 1874 al 1880. Inoltre,  fu sempre in ottime relazioni con la regina Vittoria, che lo stesso Disraeli proclamò imperatrice nel 1875.
Palmerston, invece, iniziò la carriera da Tory durante l'età napoleonica, per divenire poi nel corso del tempo uno dei personaggi di maggior rilievo del fronte Whig.  Sin dai suoi esordi politici Palmerston fu uno dei principali artefici della politica estera britannica, ricoprendo incarichi sia nei governi Tory precedenti il 1830, sia nei governi Whigs successivi, come Segretario agli Affari Esteri dal 1830 al 1841. Ritrovatosi all'opposizione durante il governo Peel, Palmerston non era però in buoni rapporti con gli altri leader Whigs,   a causa del suo temperamento fondamentalmente aristocratico e moderato. Ciononostante, Palmerston riuscì a tornare in sella e a guidare la politica britannica sino alla metà degli anni Sessanta, assumendo di nuovo l'incarico di Segretario per gli Esteri durante i governi Russell (1846 – 1852) e Aberdeen (1852 - 1855) e divenendo poi Primo Ministro per un lungo periodo (dal 1855 al 1858 e dal 1859 al 1865). I governi Palmerston erano “Whig”, ma definire perciò Palmerston un progressista sarebbe azzardato: l'uomo era di idee alquanto tradizionali e fortemente aristocratiche, benché di un tradizionalismo intelligente ed illuminato. In politica estera Palmerston difese sempre gli interessi inglesi, con pragmatismo e anche con spregiudicatezza, regolandosi sempre all'insegna della classica politica inglese dell'equilibrio continentale. Benché di posizioni assai moderate, Palmerston favorì sempre le rivendicazioni nazionali e liberali in Europa, servendosene per gli scopi strategici dell'Inghilterra. Ebbe perciò un ruolo nell'indipendenza greca (1830), in quella del Belgio (1830), nel sostegno ai regimi costituzionali di Spagna (Isabella II) e di Portogallo (Maria II); simpatizzò per le rivoluzioni del 1848 ma fu anche sostenitore del regime di Luigi Napoleone Buonaparte (con il quale si congratulò ufficialmente per il colpo di Stato operato dal futuro Napoleone III nel 1851, ma senza avvertire il governo, causando così le ire della regina Vittoria). Infine, Palmerston sostenne sempre con discrezione il movimento per l'unificazione italiana, appoggiando segretamente anche Garibaldi e la spedizione dei Mille (non ci sono prove di un diretto aiuto inglese, ma sono più che evidenti i segni di favore del governo di Sua Maestà verso l'impresa garibaldina).
Oltre a questo, all'epoca del governo Palmerston risalgono molte importanti riforme sociali (tra le quali la limitazione del lavoro minorile e dei casi in cui poteva essere impartita la pena di morte), anche se definire il personaggio un vero progressista è impossibile. In realtà Palmerston si oppose sempre all'allargamento del diritto di voto e si mantenne costantemente, rispetto agli altri whigs, su posizioni cautamente conservatrici. Come Disraeli (che ai Comuni era suo avversario) in fondo era un Tory che non poteva e non voleva essere più tale, senza per questo essere uno whig sino in fondo. Ovvero, Palmerston fu uno di quei politici che guidarono la transizione dalle vecchie categorie politiche al liberalismo (e, in un altro contesto, si sarebbe potuto definire un liberal conservatore moderato).
Più tardi, dopo la morte di Palmerston, nell'ultimo trentennio dell'Ottocento in Inghilterra prevalse un tipo di politica liberal conservatrice tinta di populismo che replicò lo schema del conservatorismo a sfondo sociale. Innanzitutto per prevenire possibili tensioni sociali e per creare una base di consenso politico più ampia possibile. In questo senso si spiega il “Second Reform Act” del 1867, che praticamente allargò il diritto di voto a quasi tutti i capofamiglia urbani (bastava essere proprietari di una casa o titolari dell'affitto di un immobile per 10 sterline all'anno). La legge escludeva di proposito le masse rurali (qui l'affitto doveva essere di almeno 50 sterline annue) ma consentiva di conferire il diritto di voto a circa il 35% dei maschi adulti. In pratica tutti gli artigiani agiati, le aristocrazie operaie e i settori della piccola borghesia urbana, ovvero quei settori della società che più facilmente erano attratti da un rassicurante conservatorismo borghese e perbenista. Difatti, la riforma stabilizzò la politica inglese su un asse liberal conservatore, rappresentato dal governo Disraeli prima e dal lunghissimo periodo di prevalenza dei liberali dell'ex peelita William Ewart Gladstone in seguito. Gladstone, che nell'arco di vent'anni (dal 1868 al 1898) fu quasi sempre al governo (con ben quattro incarichi di Primo Ministro), incarnò l'epoca del più classico liberalismo della fine dell'Ottocento, ben capace di realizzare riforme al momento giusto ma sempre rigorosamente “borghese” e moderato. Rigorosamente liberal in economia, critico verso le imprese coloniali senza però disdegnarle del tutto, profondamente religioso (in senso anglicano), Gladstone contribuì alla riforma elettorale del People Act del 1884, che estese i diritti elettorali della precedente riforma anche alle campagne (consentendo il voto a quasi il 60% dei maschi adulti), concesse l'Home Rule all'Irlanda, parificando anche la confessione cattolica irlandese a quella protestante (i cattolici non erano più obbligati a pagare le tasse al clero anglicano e venne abolito il giuramento religioso per entrare nelle università e per gli incarichi  pubblici). Seguirono anche riforme per migliorare le condizioni di lavoro, l'assistenza ai poveri, l'istituzione di un efficiente sistema di istruzione pubblica. Insomma, pur all'insegna di un moderatismo politico che divenne caratteristico dell'età vittoriana si ebbero grandi trasformazioni sociali, senz'altro agevolate  dalla grande ricchezza della Gran Bretagna, una nazione che all'epoca era “l'officina del mondo” e  che ormai governava un dominio mondiale sterminato, vasto quanto non si era mai visto al mondo. 
La politica imperiale britannica e la corsa coloniale di fine Ottocento  
In generale, caratteristica dell'era vittoriana sarà, oltre all'enorme progresso economico e industriale dell'Inghilterra, che praticamente non ebbe pari al mondo, la sempre più decisa affermazione della supremazia britannica a livello mondiale. Certo, anche prima l’Inghilterra era una delle nazioni più potenti ed evolute, con un vastissimo dominio coloniale, ma nel corso della competizione economica e della gara imperialistica che contraddistinse gli ultimi trent'anni dell'Ottocento, che furono anche gli anni della cosiddetta seconda rivoluzione industriale, l'Inghilterra rafforzerà al massimo grado questa sua supremazia, ponendo le basi di un dominio gigantesco che non aveva mai avuto eguali nel mondo: l’impero britannico.
Significativamente, Vittoria venne incoronata imperatrice nel 1874, dopo che il governo inglese aveva preso la decisione di assumere il governo diretto del gigantesco subcontinente indiano (un'estensione enorme, comprendente gli attuali Pakistan, India e Bangladesh, con circa 130 milioni di abitanti). Prima di allora, gli inglesi avevano controllato questi territori indirettamente, attraverso la Compagnia delle Indie e la sistematica manipolazione dei potentati locali, mentre il governo di Londra manteneva solo il controllo militare dei capisaldi strategici. Ma tale suddivisione, che poteva andar bene per un impero commerciale di tipo tradizionale, non era più adeguata nell'epoca dell'incipiente corsa coloniale, dove tutte le potenze del mondo sviluppato iniziarono a far la gara per accaparrarsi il controllo diretto di enormi estensioni di territorio, considerate come spazi indispensabili per una soddisfacente espansione delle loro economie. Ebbene, in questa corsa l'Inghilterra non ebbe eguali. L'India fu incamerata già nei primi anni cinquanta, dopo che la rivolta dei Sepoys (1852) manifestò l'inadeguatezza del controllo indiretto della Compagnia delle Indie. Nello stesso periodo, Londra si era già garantita l'accesso commerciale praticamente illimitato in Cina, dove il celeste impero aveva dovuto cedere nella famosa guerra dell'Oppio (1839 – 42) . Successivamente, nel corso degli anni settanta, l'Inghilterra iniziò la penetrazione in Egitto, soprattutto quando, a seguito di difficoltà finanziarie, nel 1874 il Bey del Cairo, Ismail Pascià, vendette tutte le azioni  egiziane del canale di Suez al governo di Londra. Il canale era stato iniziato nel 1859 dai francesi, sotto la guida di Ferdinand Lesseps, ma nel corso dei lavori, durati sino al 1869, la società aveva avuto molte difficoltà. Alla fine, fu facile per gli inglesi rilevare tutta l'impresa ed impadronirsi della strategica via di comunicazione. Così, nel 1882 l'Inghilterra occupò definitivamente l'Egitto, facendone un suo protettorato militare. All'Egitto seguì poi il Sudan (nominalmente egiziano), con un primo tentativo di occupazione condotto da un esercito mercenario egiziano guidato dal generale Gordon (“Gordon Pascià”). Tuttavia, la ribellione dei sudanesi sotto la guida del “Mahdi” (messia islamico), Muhammad Al Sayyid, provocò la caduta di Karthum, obbligando Londra all'invio diretto di una spedizione militare .
L'occupazione dell'Egitto e del Sudan rientrava nel quadro di una sorta di gara che si instaurò tra la Francia e la Gran Bretagna per l'occupazione del suolo africano. Gli inglesi occupavano ad Oriente, risalendo il bacino del Nilo, mentre i francesi si espandevano nella parte Occidentale dell'Africa, risalendo il bacino del fiume Congo. Tale gara non fu condotta solo con gli eserciti, ma anche a colpi di esplorazioni scientifiche, come quella famosissima di David Livingstone, persosi alla ricerca delle sorgenti del Nilo e ritrovato nel 1871 dall'altrettanto famoso esploratore inglese Henry Morton Stanley (“Dt. Livingstone, I presume”). Nel 1898 si ebbe persino un incidente diplomatico che quasi innescava la guerra, quando truppe francesi provenienti da Gibuti (Somalia francese) e truppe inglesi si incontrarono inaspettatamente nel villaggio sudanese di Fascioda: per fortuna, la possibilità di un conflitto fu evitato dalla diplomazia. 
L'intenzione inglese, fortemente sostenuta da Cecil Rhodes negli ultimi anni dell'Ottocento, era quella di trasformare l'intera parte orientale del continente in un dominio britannico, dal Cairo sino alla colonia del Capo. In questo senso si spiegano le due guerre combattute dagli inglesi contro i coloni boeri (di origine olandese) dell'Africa del Sud, che la presenza britannica aveva sospinto all'interno (dove i coloni avevano fondato le repubbliche del Transvaal e dell'Orange). La prima guerra anglo boera fu combattuta tra il 1880 e il 1881, mentre la seconda, molto più impegnativa e feroce, tra il 1889 e il 1902. L'esito fu la conquista dell'intero territorio che oggi coincide approssimativamente con quello della repubblica del Sud Africa.
La corsa coloniale nell'età dell'imperialismo
Mentre l'Inghilterra occupava la parte orientale dell'Africa, gli altri non stavano con le mani in mano. Soprattutto la Francia, che aveva già un vasto impero coloniale ed era presente in Africa sin dal 1830 (Algeria). Dopo la guerra franco – prussiana del 1870 i francesi incrementarono in maniera esponenziale la propria politica di acquisizioni coloniali, procedendo all'occupazione della Tunisia (1882) dell'Indocina (Vietnam e Cambogia, 1895), del Senegal e della Costa d'Avorio (1895), del Madagascar (1895) e di numerosi territori ed isole nell'Oceano indiano nel Pacifico. Alla fine del secolo, i francesi già controllavano la maggior parte dell'Africa Nord Occidentale.
Ovviamente, alla gara coloniale parteciparono anche le potenze minori. Accanto agli scampoli dell'antica potenza coloniale portoghese, spagnola ed olandese, persino il Belgio, su iniziativa del re Leopoldo II, fondò una sua colonia nel Congo (1885). L'Italia, invece, acquisì il suo primo possedimento coloniale nel 1882 (Baia di Assab), che presto si allargò all'intera Eritrea, nel corno d'Africa. l'Inghilterra stessa nel 1884 aveva invitato il governo italiano ad intervenire nella zona, al fine di collaborare all'avanzata in Sudan e prevenire un eventuale intromissione francese in quei luoghi, ma il disastro di Karthum bloccò tutto. Il governo fece allora avanzare truppe nell'entroterra etiopico, ma il massacro di una colonna di 500 uomini presso Dogali stroncò la penetrazione in Etiopia (1885). Meglio andò in Somalia, dove, accanto alla Gran Bretagna (Somalia britannica) l'Italia impose il protettorato su alcuni sultanati del luogo, dando origine alla futura colonia della Somalia italiana. Più tardi, sotto il presidente del Consiglio Francesco Crispi, nel 1896 si ebbe il fallimentare tentativo di invasione dell'Etiopia culminato nel disastro di Adua, dove quasi 18.000 soldati italiani furono soverchiati da quasi 80.000 abissini del Negus Menelik. Dell'Etiopia non si parlò più sino all'epoca fascista (con la conquista italiana del 1935-36). La Libia fu invece acquisita nel 1911, in piena epoca giolittiana.
La Germania invece arrivò per ultima, dando inizio ad una politica di espansione coloniale solo a partire dal licenziamento di Bismarck  (contrario ad avventure coloniali) e dal “Neue Kurs” dell'imperatore Guglielmo II (1892). Il risultato fu l'acquisizione di parti dell'Africa meridionale (Africa occidentale tedesca e Africa orientale tedesca), la “concessione” cinese di Tiensin e l'occupazione di alcune isole del Pacifico. Non rimanendo granché da occupare,  poco prima della guerra mondiale la Germania mostrò i muscoli nel tentativo di occupare il Marocco. Ne sortì una crisi internazionale che si concluse con il fallimento delle pretese tedesche e la spartizione del Marocco tra la Francia e la Spagna.
Riguardo invece ai paesi non europei, si devono ricordare gli Stati Uniti, l'impero russo e il Giappone. Per quanto riguarda gli Stati Uniti, benché già all'indomani della conclusione della guerra civile (1860 - 65) fossero già presenti ambizioni egemoniche e una particolare ideologia del “manifest destiny” americano, non si può parlare di vero e proprio imperialismo se non negli ultimissimi anni dell'Ottocento e nei primi del Novecento, sotto le presidenze di W. Mc Kinley e di Theodore Roosevelt. Infatti, dai primi dell'Ottocento sino alla fine del secolo la politica americana fu sempre concentrata sulle questioni inerenti l'egemonia nel continente nordamericano. In questo senso si spiega la guerra del presidente Madison nel 1812, in alleanza con la Francia napoleonica, contro l'Inghilterra, combattuta anche per le mai sopite aspirazioni americane verso il Canada. Probabilmente, persino la cessione della Lousiana francese da parte di Napoleone (1803) agli USA fu determinata dalla volontà dell'imperatore francese di facilitare l'egemonia di Washington sul Nordamerica (meglio consegnare la vallata del Mississipi agli americani piuttosto che all'Inghilterra, che ne avrebbe fatto un facile boccone). L'acquisizione della Lousiana quasi raddoppiò il territorio dell'unione e diede nuovo forte impulso alla colonizzazione di nuovi territori, materializzando così l'idea di un continente interamente americano . In questo senso si spiega l'allargamento della colonizzazione americana verso il Texas e l'Arizona (territori appartenenti al Messico) e la successiva guerra contro la giovane repubblica messicana (1846 – 48). La vittoria sul Messico comportò l'acquisizione di un territorio enorme, che andava dal Texas alla California, popolato perlopiù da indiani nativi e da pochi creoli di lingua spagnola. Il “riempimento” di questi enormi territori fu poi in parte bloccato dalla guerra civile, ma riprese con slancio enorme dopo il 1865, quando fu fatta sapientemente circolare la storia dell'Eldorado californiano (corsa all'oro compresa).  Negli anni settanta e ottanta dell'Ottocento tutto lo sforzo degli Stati Uniti era concentrato nell'avanzamento “ad Ovest” della “Frontiera”; uno sforzo che si materializzò poi nell'imponente opera di costruzione della prima ferrovia transcontinentale americana, realizzata nel 1869 e poi seguita da altre imponenti opere ferroviarie. La ferrovia consentì di accelerare la colonizzazione di questi immensi territori e di facilitare le comunicazioni con la California (anche se comportò lo sterminio del bisonte americano e degli indiani, che della carne di bisonte si alimentavano) .
Comunque, mentre passava l'epoca eroica dell'espansione ad Ovest della Frontiera, anche gli Stati Uniti iniziavano a guardarsi intorno e a darsi da fare. Innanzitutto per potenziare e proteggere i loro spazi commerciali, facendo capolino in Cina (durante la seconda guerra dell'Oppio, nel 1856) e in Giappone (con la spedizione dell'ammiraglio Perry del 1853). Ma solo più tardi, sotto la presidenza di William Mc Kinley (1897 – 1901) gli USA si avventurarono sulla strada dell'espansione imperialistica all'esterno. L'occasione fu data dalla ribellione di Cuba al dominio spagnolo (1895), che portò gli Stati Uniti ad intervenire direttamente “manu militari” contro Madrid (guerra ispano americana del 1897). La guerra non si limitò alla sola Cuba (che fu dichiarata indipendente, sebbene con la clausola esplicita di una sorta di “protezione” statunitense ), ma si allargò alle Filippine e ad altri possedimenti spagnoli dell'Atlantico e del Pacifico (oltre alle Filippine furono annessi Puerto Rico e l'isola di Guam, nel Pacifico). Nello stesso periodo fu annesso agli Stati Uniti anche l'arcipelago delle Hawaii (1898).
La guerra contro la Spagna suscitò in America un grande dibattito pubblico sul tema dell'imperialismo. Alla fine, ucciso in un attentato il presidente Mac Kinley (1901) , la questione fu risolta dal subentrante vice presidente Theodor Roosevelt, che impose quella che lui stesso chiamò “politica del grosso bastone”. Il “maledetto cowboy” (come lo chiamavano alcuni tra gli stessi repubblicani) era stato infatti tra i massimi protagonisti dell'impresa contro la Spagna ed era un convinto assertore della necessità di una politica americana di potenza. Il che significava allora anche risolvere un problema concreto: non solo dominare i Caraibi, ma facilitare il collegamento tra la costa orientale degli Stati Uniti e la California attraverso un collegamento via Mare che passasse dal Centro America.  Ovvero, riprendere il progetto della società francese di Ferdinand Lesseps (l'ideatore del canale di Suez) sullo scavo del canale di Panama. L'impresa francese era però fallita nel 1889 ed ora gli americani pensavano di realizzarla loro. Difatti, all'epoca i collegamenti tra una costa e l'altra degli Stati Uniti si realizzavano soprattutto via mare, ma i “clipper” americani erano costretti a circumnavigare l'intero Sud America e a passare per l'insidioso Capo Horn. Il canale avrebbe quindi consentito di abbreviare il percorso, ma era decisivo controllare strategicamente e militarmente la zona in cui sarebbe sorto. Per questo motivo Roosevelt iniziò una pesante opera di condizionamento sui paesi del Centro America. Sul Nicaragua inizialmente, sulla Colombia in seguito, paese al quale apparteneva la zona infine prescelta per il canale. Le resistenze Colombiane alle pretese americane portarono però gli Stati Uniti a provocare la secessione della repubblica panamense dalla Colombia (1903). Il canale e le zone limitrofe furono poi poste “in perpetuo” sotto il diretto controllo statunitense attraverso uno specifico trattato con il neonato governo di Panama. L'opera fu quindi realizzata nel periodo tra il 1907 e il 1914, anche se l'inaugurazione ufficiale (causa I guerra mondiale) avvenne solo nel 1920.
Come si vede, almeno prima della guerra mondiale del 1914, l'imperialismo americano non era tanto rivolto all'acquisizione indifferenziata di territori e colonie, ma era soprattutto funzionale agli interessi strategici e commerciali degli Stati Uniti, che avevano il loro baricentro nel continente americano e nel Pacifico. Analogamente, nello stesso periodo anche l'impero russo seguì una via simile: alla Russia non servivano lontani territori esotici (nei dominii dello zar di terra ce n'era anche abbastanza), ma sbocchi a mare, e l'unica possibilità rimasta era l'Oriente. Difatti, frustrata nei ripetuti tentativi di aprirsi la strada verso il Mediterraneo (guerra di Crimea e questione Balcanica), impedita nella velleità di aprirsi una strada verso l'Oceano Indiano dall'invasione inglese dell'Afganistan del 1878 (l'invasione britannica di questo paese fu causata soprattutto dalla necessità di sbarrare la strada alle ambizioni zariste), alla Russia rimaneva solo la strada del lontano Oriente. In questo senso si spiegano sia la costruzione della famosa linea ferroviaria transiberiana, concepita nel 1887 ed iniziata nel 1891 (anche se definitivamente completata solo nel 1916) sia gli sforzi russi di garantirsi una stabile presenza coloniale in Cina. Perciò, sin dal 1895 la Russia si assicurò una forte posizione in territorio cinese, facendosi cedere la città portuale di Lüshun (Port Arthur), iniziando la penetrazione in Manciuria e coltivando ambizioni sulla Corea e sul Mar del Giappone. Ma qui l'impero russo si scontrò con la nascente potenza del Giappone, che ambiva al controllo di quelle stesse zone.
L'antico impero giapponese era infatti appena risorto dalle nebbie del regime feudale degli Shogun, dalle quali fu improvvisamente ridestato dall'apparizione di una squadra navale da guerra americana comandata dall'ammiraglio Matthew Perry, che nel 1853 si presentò nella baia di Edo (Tokyo) per chiedere l'apertura di relazioni commerciali. Il regime dello shogun non aveva mezzi da opporre alle richieste americane e concesse i privilegi richiesti. Tuttavia, seguirono presto analoghe azioni della Gran Bretagna, della Russia, dell'Olanda e della Francia, che imposero anch'esse le loro rispettive “concessioni” commerciali. Ma l'arrivo degli stranieri creò un tale scompiglio nella società e nell'economia  giapponese da esasperare la tradizionale xenofobia nipponica, provocando infine il collasso del potere dello Shogun e la fine del sistema   feudale dei Daymo. Già nel 1868 il giovane imperatore Meiji rivendicò a sé il potere effettivo e si pose a capo del movimento per la modernizzazione del paese. Sconfitto l'ultimo Shogun Tokugawa, abolito il sistema feudale (1871), il Giappone iniziò così una rapida trasformazione industriale. Furono ridefiniti i “trattati ineguali” con le potenze occidentali e si sfruttarono sapientemente le loro rivalità per garantire piena indipendenza al paese (beneficiando in particolare dell'amicizia della Gran Bretagna). Già nel 1895 il Giappone era così in grado di procedere all'occupazione di Formosa (Taiwan) e di altre parti del territorio cinese. I giapponesi pensavano soprattutto alla Corea e alla Manciuria, dove i loro interessi si scontravano inesorabilmente con quelli della Russia. Perciò, nel 1904 l'esercito e la marina del Sol Levante lanciarono un imponente attacco navale e terrestre alla base russa di Port Arthur (8 febbraio 1904). Il caposaldo Russo venne espugnato dopo un durissimo assedio di 6 mesi e le truppe russe vennero sconfitte in tutto il teatro di guerra. Lo zar, che inizialmente aveva gravemente sottovalutato la potenza giapponese, diede allora l'ordine all'intera flotta da guerra imperiale di stanza nel Mar Baltico di muovere verso il Giappone (agosto 1904). Fu un'impresa epica e pazzesca, perché le navi russe dovettero circumnavigare l'intera Africa per raggiungere il teatro di guerra, senza poter passare per Suez o approvvigionarsi di carbone nei domini controllati dalla Francia e dall'Inghilterra (entrambe sostanzialmente favorevoli al Giappone). Perciò, dopo un viaggio di 10 mesi, la flotta russa arrivò logorata e malconcia in vista del Giappone, dove trovò la potente e moderna squadra navale dell'ammiraglio Togo, che nel corso della grande battaglia navale svoltasi al largo dell'isola di Tsushima (sullo stretto tra Corea e Giappone) affondò ad una ad una tutte le navi dello zar (27 maggio 1905) . Il mondo scoprì così nel lontano Oriente l'esistenza di una potenza capace di battere una delle nazioni più forti al mondo. Per la Russia zarista la sconfitta militare fu un disastro completo, anche perché la guerra aveva già innescato una crisi rivoluzionaria interna (rivoluzione russa del 1905). Le vittorie giapponesi fecero infatti da detonatore dell'accumulo di contraddizioni in cui viveva questo enorme paese: un singolare miscuglio di arretratezza e di miseria estrema della maggior parte della popolazione (contadini ai quali la recente abolizione della servitù della gleba, fatta nel 1861, ma in modo da avvantaggiare la borghesia possidente, non aveva certo giovato) e rade sacche di sviluppo urbano ed industriale (nelle quali si accentuavano però le diseguaglianze sociali indotte dall'industrializzazione, con gli operai urbani ridotti ad una condizione pressoché schiavile). Il tutto tenuto insieme da un'autocrazia anacronistica, reazionaria ed assoluta, che imponeva ai suoi sudditi ad un asfissiante controllo poliziesco e burocratico (reso altresì necessario per impedire pericolose “contaminazioni” democratiche e socialiste dall'esterno). L'opposizione politica era illegale e l'OCHRANA (la famigerata polizia segreta  zarista) era maestra nell'arte di stanare e neutralizzare preventivamente qualsiasi accenno di resistenza, politica o intellettuale che fosse .
Ma nel 1905 l'esasperazione popolare esplose e in tutte le città russe si formarono i famosi Soviet (consigli popolari di base) che chiesero a gran voce immediate riforme. L'innesco fu dato  dalla famosa domenica di sangue del 9 gennaio 1905 a S. Pietroburgo, quando una grande manifestazione popolare fu stroncata dalle fucilate dell'esercito (la guardia imperiale sparò sui dimostranti nel piazzale antistante il palazzo d'inverno). L'agitazione fu molto estesa con episodi celebri quali la rivolta di Odessa e il famoso ammutinamento dell'incrociatore Potemkin nel Mar Nero. Alla fine, lo zar Nicola II riuscì comunque a riprendere il controllo della situazione, anche se dovette impegnarsi a realizzare una riforma sostanziale del sistema di governo. Nel 1906 venne così eletta la prima Duma (il parlamento russo) e si tentò un'azione riformatrice, che negli anni successivi fu portata avanti in modo contraddittorio ed incoerente , tanto che alla vigilia della I guerra mondiale la Russia tornò presto ad essere una completa autocrazia.
Tutti questi fatti ebbero un grande rilievo per le sorti del mondo successivo (la rivoluzione russa del 1905 fu la prima avvisaglia della rivoluzione d'ottobre) e già prefiguravano il complesso gioco di interdipendenze che la lotta imperialistica e coloniale stava innescando a livello mondiale. Le grandi potenze si sfidavano ormai in un'esibizione muscolare che solo apparentemente era rivolta alla mera acquisizione di spazi coloniali e commerciali. In realtà era già una serrata lotta di supremazia in cui si prefigurava il futuro, disastroso, scontro mondiale che le avrebbe presto tutte coinvolte.  

 

    Le guerre dell'oppio furono in realtà due: la prima, dal 1839 al 1842, scoppiò per la pretesa inglese di commerciare liberamente l'oppio prodotto nel Sud Est asiatico e smerciato dalla Compagnia delle Indie nel celeste impero. La Cina fu battuta e dovette garantire pieno accesso alle merci inglesi e cedere il porto di  Hong Kong. La seconda guerra dell'oppio si combatté dal 1856 al 1860 e vide la Francia, la Russia e gli Stati Uniti dar man forte alla Gran Bretagna in difesa dei rispettivi “diritti” commerciali. Alla fine, l'impero cinese fu trasformato in una specie di condominio coloniale delle diverse potenze, le quali (dopo che alla fine dell'Ottocento si aggiunsero anche la Germania, il Giappone e persino l'Italia) pretesero tutte, a forza di cannoniere, apposite “concessioni” coloniali. La situazione divenne tale da poter facilmente spiegare come  poco più tardi, allo scadere del secolo, scoppiasse una terribile rivolta contro gli occidentali: la famosa ribellione dei Boxers (1899-1900). I “Boxers” (pugilatori) vennero repressi da un pesante intervento militare congiunto delle potenze coloniali, che, tra stragi e rappresaglie (si distinsero i tedeschi e i giapponesi), ribadirono congiuntamente il loro assoluto predominio in Cina. Naturalmente, alla spedizione contro i Boxers partecipò anche un contingente italiano.

    Vedi il film “Le tre piume” (2002), o il film “Karthum” (1966) con Lawrence Olivier, entrambi ambientati nell'epoca del “disastro di Karthum” e della conseguente spedizione coloniale britannica in Sudan.

    E' del 1823 la formulazione della famosa “dottrina Monroe”, per la quale l'omonimo presidente dichiarava al Congresso che gli USA non avrebbero accettato alcuna intromissione delle potenze europee nel continente americano, ad eccezione per quel che riguardava i loro possedimenti diretti nelle Americhe. La dichiarazione era effettivamente rivolta ad appoggiare l'indipendenza delle varie colonie del Sud e del Centro America che all'epoca si erano appena affrancate dal dominio spagnolo, ma poi venne regolarmente intesa nel senso di un insindacabile diritto di supremazia politica e strategica degli Stati Uniti sull'intero continente americano. Ancora oggi la “dottrina” vale in questo senso e la si è coerentemente applicata più volte (ad esempio, nei confronti di Cuba, durante la crisi dei missili del 1962) 

    Pare che negli ultimi trent'anni dell'Ottocento siano stati uccisi oltre 70 milioni di bisonti o “buffalos”, come li chiamavano gli americani. Le compagnie ferroviarie ingaggiavano regolarmente i cacciatori di bisonti (magari armati del potente Sharp, un fucilone a retrocarica capace di abbattere a distanza anche un elefante) e tutti conoscono il più famoso di questi cacciatori: William Cody, il leggendario “Buffalo Bill”.

    La Costituzione cubana prevedeva esplicitamente il diritto degli USA all'intervento, anche militare, per prevenire eventuali minacce agli ordinamenti stabiliti. Inoltre, una parte dell'isola di Cuba (dove attualmente è la base militare di Guantanamo) fu praticamente annessa agli Stati Uniti.

    Mac Kinley fu ucciso a pistolettate a Buffalo, per opera di un anarchico di origine polacca.

    I “clipper” erano veloci mercantili a vela con un'imponente alberatura, capaci di raggiungere anche punte di 20 nodi di velocità, che nel corso della seconda metà dell'Ottocento erano ancora preferiti ai bastimenti a vapore sulle lunghe rotte oceaniche. Il più famoso di questi vascelli è il britannico Cutty Sark, ancora oggi conservato a Greenwich.

    La flotta russa dell'Oriente, di base a Vladivostock, era stata già annientata dai giapponesi nella battaglia del Mar Giallo. A Tsushima si scontrarono 4 corazzate e 27 incrociatori giapponesi contro una decina di corazzate e mezza dozzina di incrociatori corazzati russi (più una serie di unità minori da una parte e dall'altra). Vennero affondate 21 navi dello zar e solo tre incrociatori e qualche nave minore scamparono (tra i superstiti fu il celebre incrociatore Aurora) 

    L'Ochrana usava sistematicamente la tattica dell'infiltrazione provocatoria: spesso i gruppi di dissidenza politica venivano organizzati dagli stessi agenti della polizia segreta, al fine di individuare, classificare e manovrare con il ricatto tutti i potenziali oppositori, che venivano poi in genere compromessi attraverso l'organizzazione di una qualche attività sovversiva. Anche l'organizzatore della manifestazione della “domenica di sangue” del 9 gennaio 1905, il pope ortodosso Georgij Gapon, era un agitatore della polizia. In quest'ultimo caso si giocò una partita molto complessa, perché le organizzazioni dell'opposizione erano occultamente manovrate da gruppi di pressione interni allo stesso apparato dello Stato zarista (al fine di condurre intestine lotte di potere e per condizionare le scelte politiche dello stesso zar).  

  Tra il 1906 e il 1914 le Dume furono ben quattro, ogni volta sciolte e poi riconvocate con manipolazioni continue dell'assurdo sistema elettorale, congegnato in modo da neutralizzare qualsiasi opposizione di tipo popolare e democratico. Le riforme furono invece solo di facciata, o fatte per dividere i principali gruppi di pressione sociale, come nel caso della famosa creazione dei Kulaki (contadini proprietari) nella riforma agraria del ministro Stoylpin, che fu concepita solo per creare un ceto di contadini agiati da contrapporre alle masse dei contadini immiseriti e nullatenenti. Infine, persino la quarta Duma, che solo a fatica si potrebbe considerare una vera assemblea rappresentativa, venne sospesa dallo zar alla vigilia della Grande Guerra.   

 

Fonte: http://lnx.liceicarbonia.it/j7250/images/Arangino%20dati/LInghilterra%20nellet%C3%A0%20vittoriana.doc

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