Sviluppo dopo la rivoluzione industriale

Sviluppo dopo la rivoluzione industriale

 

 

 

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Sviluppo dopo la rivoluzione industriale

 

  I fattori del cambiamento

 


Il commercio. Nei primi cinquant'anni del XVIII secolo il commercio inglese rafforzò le sue posizioni su scala mondiale. La riduzione dei rischi legati al commercio d'oltremare e l'aumento dei profitti, insieme alla politica del governo inglese tesa a ridurre il potere delle grandi compagnie privilegiate, consentirono l'ingresso nel settore di uomini nuovi e il dispiegarsi della libera iniziativa. Londra, al centro di questi traffici, sviluppò una rete sempre più estesa di servizi di credito e assicurativi, assumendo il ruolo di capitale finanziaria di tutta Europa. Molti storici hanno considerato il commercio estero come il tratto più significativo della diversità inglese, tanto da porlo al primo posto tra i fattori della rivoluzione industriale. E' certo infatti che il controllo del mercato internazionale fornì alle manifatture britanniche la possibilità di un rapido e poco costoso approviggionamento di cotone grezzo, materia prima essenziale alla nacita della moderna industria tessile, e insieme garantì un ampio mercato di vendita per i prodotti inglesi. Lo sviluppo commerciale favorì inoltre la formazione di opertaori economici dotati di mentalità imprenditoriale, di disponibilità al rischio e di spirito di iniziativa.
La rivoluzione agricola. Nel corso del '700 l'assetto proprietario e le strutture produttive dell'agricoltura inglese subirono cambiamenti tanto profondi da generare una vera e propria rivoluzione agricola. Il possesso delle terre si concentrò nelle mani di pochi grandi e medi proprietari con la costituzione di ampie unità di produzione gestite spesso da fittavoli con criteri imprenditoriali e basate sul lavoro di salariati agricoli. Questa trasformazione degli assetti proprietari, determinata dal fenomeno delle enclosures e delle privatizzazioni, portò alla formazione di un nuovo ceto di braccianti. La rivoluzione agricola contribuì ad avviare e sostenere il processo di industrializzazione su vari piani. In primo luogo sopperì al fabbisogno alimentare di una popolazione in rapida crescita. In secondo luogo contribuì alla formazione di un mercato interno che si rivelerà un importante fonte di domanda per i prodotti inglesi. Molti industriali inoltre provenivano dal mondo rurale dei piccoli e medi produttori o da quel settore ricevettero, in molti casi, i capitali necessari per impiantare le prime manifatture.Decisivo fu, infine, il ruolo della rivoluzione agricola nel favorire (con la riduzione delle opportunità per i piccoli proprietari e i contadini autonomi) quel massiccio esodo dalle campagne che consentì lo sviluppo del proletariato industriale.
La rivoluzione demografica. Strettamente intrecciata alle trasformazioni de mondo rurale fu la rivoluzione demografica. Dai 6 milioni di abitanti del 1740 si passò agli oltre 14 milioni del 1830, grazie soprattutto al notevole aumento della natalità determinata dal progressivo abbassamento dell'età del matrimonio e dall'aumento degli stessi. La rivoluzione demografica rese disponibile all'industria nascente una manodopera numerosa e quindi a basso costo. Una manodopera che, uscendo dal ciclo dell'autoconsumo, divenne sempre più dipendente dal mercato per il soddisfacimento dei proprio bisogni alimentari.
Il dinamismo della società. Un ruolo determinante è svolto anche dal sistema politico e dal clima culturale inglese del Settecento. La stabilità politica, il rafforzamento del ruolo del Parlamento, la vivacità della società civile rendevano la società inglese più dinamica di quelle continentali, aperta alle innovazioni e percorsa da un forte spirito pragmatico.

 

  La fabbrica e le trasformazioni della società

 


L'avvento del sistema di fabbrica sconvolse i metodi di produzione e le forme di organizzazione del lavoro. In Inghilterra, fino alla metà del '700, la maggior parte dell'attività lavorativa si svolgeva o nelle botteghe artigiane o più comunemente nei sobborghi e nelle campagne dove il metodo di produzione prevalente era quello a domicilio. Con l'introduzione delle macchine e del vapore questo sistema venne progressivamente ma ineluttabilmente smantellato ed il lavoratore divenne un operaio: abbandonò cioè tutte la altre attività che nell'impresa familiare continuava a svolgere, in particolare quella agricola, ed ebbe nella fabbrica il suo unico impiego. Inoltre cominciò ad eseguire solo l'operazione parziale affidatagli sulla base di una crescente divisione del lavoro che, mentre rendeva sempre più complesso da un punto di vista tecnico l'insieme del processo produttivo, semplificava le operazioni in cui era suddiviso. La macchina impose una nuova disciplina; il lavoro doveva essere svolto in una fabbrica, al ritmo stabilito da una macchina instancabile e inanimata, nell'ambito di una schiera di operai che doveva cominciare e smettere all'unisono, tutto sotto l'occhio attento di sorveglianti che disponevano di mezzi di coercizione marale, pecunaria e a volte anche fisica. Il sistema di fabbrica trasformò, insieme a quella interna ai luoghi di produzione, anche l'organizzazione territoriale del lavoro e ridisegnò con essa l'immagine topografica e architettonica delle città e il paesaggio. Infatti l'attività lavorativa si concentrò progressivamente nei centri urbani che crebbero in misura considerevole secondo tipologie edilizie di tipo intensivo, mentre anche la campagna circostante modificava le sue colture in funzione di una popolazione urbana in forte aumento. A questo insieme di trasformazioni si associa usualmente la nascita del proletarito industriale la cui formazione fu comunque lenta e complessa.

L'avvento del sistema di fabbrica impose condizioni di lavoro molto gravose, che prevedevano orari oscillanti fra le dodici e le sedici ore giornaliere. La semplificazione del processo produttico rese possibile il largo impiego, soprattutto nell'industria tessile, di donne e di bambini che furono sottoposti a livelli disumani di sfruttamento. La condizione operaia era caratterizzata dalla estrema precarietà del posto di lavoro ed era inoltre aggravata da tutti i problemi connessi al processo d'inurbamento; gli operai erano costretti ad abitare in situazioni di sovraffollamento, in case fatiscenti e in pessime condizioni igieniche, potendo contare su un'alimenatzione povera in quantità e qualità. La formazione dei grandi agglomerati di popolazione urbana e le nuove modalità di aggregazione sociale rappresentate dalla fabbrica e dal quartiere operaio, da un lato resero più omogenei bisogni e condizioni di vita, dall'altro, attraverso l'intensificarsi dei contatti, diffusero la consapevolezza di un destino comune. Questi furono i presupposti per il sorgere di forme nuove di analisi e di azioni politica.
La diffusione del sistema di fabbrica e delle macchine, lo sviluppo dell'industria e dei servizi a scapito dell'agricoltura, la formazione di nuovi strati sociali (classe operaia e ceti medi) non sono che gli aspetti più significativi dei profondi mutamenti intervenuti nell'Occidente sviluppato a partire dalla fine del '700. Per tutti questi motivi la rivoluzione industriale ha assunto, con la rivoluzione francese, il valore periodizzante di inizio di una nuova età, quella contemporanea. Un'età in cui, fra profondi squilibri e contrasti talora durissimi, si è registrata, per i paesi industrializzati e per una parte del mondo da essi dipendente, l'uscita dalla penuria alimentare e dalla povertà. Un'età dominata dall'ideologia del progresso e da una nuova mentalità, fatta di disponibilità continua al mutamento e di promozione di ulteriori mutamenti. A distanza di duecento anni dalle sue origini, la rivoluzione industriale si è confermata come garnde dispensatrice di benessere e di ricchezze materiale, ma non sempre di quella "felicità" che riformatori e utopisti avevano ritenuto dovesse essere il compito e il principale obiettivo del progresso economico e sociale.

 

  La seconda rivoluzione industriale

 

 

Negli ultimi trent'anni del secolo XIX il sistema dell'economia capitalistica subì una serie di trasformazioni di tale profondità e di tale portata da giustificare, in riferimento a questo periodo, l'uso del termine seconda rivoluzione industriale. Si modificarono le tecniche produttive con la nascita di nuove branche dell'industria; cambiarono i rapporti tra i vari settori della produzione e quelli tra i poteri statali e l'economia nel suo insieme; cambiarono anche i rapporti economici internazionali e le gerarchie mondiali della potenza industriale.
Uno dei segni più vistosi della nuova stagione fu il declino dei valori della libera concorrenza, che avevano largamente ispirato nel ventennio precedente le teorie degli economisti e le scelte dei governanti. Le nuove dimensioni assunte da un mercato internazionale dove diventava sempre più difficile farsi largo e l'esigenza di aumentare continuamente gli investimenti spinsero gli imprenditori a cercare nuove soluzioni al di fuori dei canoni liberisti. Nacquero così le grandi consociazioni (holdings) per il controllo finanziario di diverse imprese; i consorzi (cartelli o pools) fra aziende dello stesso settore che si accordavano sulla produzione e sui prezzi; le vere e proprie concentrazioni (trusts) fra imprese prima indipendenti. Fenomeni di questo genere non erano nuovi nella storia del capitalismo industriale, ma ora assunsero dimensioni imponenti, soprattutto negli Stati Uniti e in Germania, fino a determinare in qualche caso un regime di monopolio. Un ruolo decisivo, in questi processi, fu svolto dalle istituzioni finanziarie. Solo le grandi banche potevano assicurare gli imponenti e costanti flussi di denaro necesari alla nascita e alla crescita dei colossi per i quali i profitti, per quanto elevati, non erano sufficienti a ricostituire il capitale di investimento. Fra banche e imprese si venne così a creare uno stretto rapporto di compenetrazione: le imprese dipendevano sempre più dalle banche per il loro sviluppo e le banche legavano in misura crescente le loro fortune a quelle delle imprese. Questo intreccio fra industria e finanza fu definito dagli economisti marxisti col nome di capitalismo finanziario.
Con il tramonto dei principi liberisti, i governi delle grandi e piccole potenze vennero man mano allargando i loro interventi in favore dell'economia nazionale. Questi interventi potevano prendere la forma di sostegno diretto alla grande industria, attuato per lo più mediante le commesse per le forze armate (fu questo, in particolare, il caso della Germania); ma soprattutto si esercitavano attraverso l'inasprimento delle tariffe doganali, volto a scoraggiare le importazioni e a proteggere in tal modo la produzione interna. Anche in questo caso fu la Germania di Bismark a indicare la strada varando, nel 1879, nuovi dazi fortemente protezionistici. Solo la Gran Bretagna, patria del liberoscambismo e primo paese esportatore del mondo, restò estranea alla tendenza generale, ma ne fu doppiamente danneggiata, in quanto vide ridursi gli sbocchi di mercato per le sue merci e dovette assistere allo sviluppo delle industrie nei paesi concorrenti, protetto dalle barriere doganali. Alla perdita del primato industriale e alla riduzione dei suoi spazi commerciali in Europa, la Gran Bretagna reagì rinsaldando e ampliando il suo già vasto impero d'oltremare e intensificando gli scambi con le colonie.
La ricerca di nuovi mercati per i propri prodotti, di nuovi rifornimenti di materie prime, di nuovi sbocchi per l'investimento di capitali fu del resto comune, in questo periodo, a tutte le economie più avanzate. Soprattutto nell'ultimo ventennio del secolo la corsa ai nuovi mercati assunse proporzioni macroscopiche: tanto da costituire uno dei tratti distintivi di quella fase della storia del capitalismo cominciata negli anni '70 e ancora oggi comunemente identificata con l'età dell'imperialismo.

 

  Scienza e tecnologia

 

 

Negli anni fra il 1870 e il 1900 fecero la loro prima apparizione una serie di strumenti, di macchine, di oggetti d'uso domestico che sarebbero poi diventati parte integrante della nostra vita quotidiana: la lampadina e l'ascensore elettrico, il motore a scoppio e i pneumatici, il telefono e il grammofono, la macchina da scrivere e la bicicletta, il tram elettrico e l'automobile. E' stato soprattutto a questo proposito che si è parlato di seconda rivoluzione industriale: una rivoluzione che fu forse meno radicale della prima quanto alle conseguenze di lungo periodo, ma che certo fece sentire i suoi effetti su un'area più vasta ed ebbe una diffusione più capillare, mutando le abitudini, i comportamenti, i modelli di consumo di centinaia di milioni di uomini e di donne. Ma la vera novità di questo periodo non consistette tanto nelle conquiste della scienza, quanto nell'applicazione su sempre più larga scala delle scoperte (recenti o meno recenti) ai vari rami dell'industria, nel legame sempre più stretto che si venne a creare fra scienza e tecnologia e fra tecnologia e mondo della produzione. Nessun settore produttivo rimase estraneo all'ondata di rinnovamento tecnologico degli ultimi decenni dell'800. Ma gli sviluppi più interessanti si concentrarono in industrie relativamente "giovani" come quella chimica o come quel particolare ramo della metallurgia dedito alla produzione dell'acciaio. Furono questi settori - assieme a un altro completamente nuovo come l'elettrico - a svolgere nella seconda rivoluzione industriale quel ruolo trainante che cent'anni prima, in Inghilterra, era stato svolto dall'industria del cotone e poi da quella meccanica.

  Sviluppo industriale e razionalizzazione produttiva

 

 

A partire dalla fine del secolo, l'economia dei paesi industrializzati conobbe una fase di espansione intensa e prolungata, interrotta solo da una breve crisi nel 1907-8. Se il periodo 1873-95 era stato caratterizzato soprattutto dalle innovazioni tecnologiche, dall'affermazione di settori "giovani" (acciaio, chimica, elettricità) e dalla crescita di nuove potenze industriali (Germania e Stati Uniti), gli anni 1896-1913 furono segnati da uno sviluppo generalizzato della produzione che interessò quasi tutti i settori e toccò anche paesi "nuovi arrivati" come la Russia e l'Italia. In queto periodo, l'indice della produzione industriale e quello del commercio mondiale risultarono più o meno raddoppiati. I prezzi crebbero costantemente, anche se lentamente, dopo il 1896. Ma crebbe anche, e in misura più consistente, il livello medio dei salari, e il reddito pro-capite dei paesi industrializzati aumentò nonostante il conntemporaneo, cospicuo aumento della popolazione.
La crescita dei redditi determinò a sua volta l'allargamento del mercato. Le industrie produttrici di beni di consumo e di servizi si trovarono per la prima volta a dover soddisfare una domanda che sempre più assumeva dimensioni di massa. Beni la cui produzione era stata fin allora assicurata solo dal piccolo artigianato o dall'industria domestica (abiti e calzature, utensili e mobili) cominciarono a essere prodotti in serie e venduti attraverso una rete commerciale sempre più estesa e ramificata: nelle città, ma anche nei piccoli centri, si moltiplicarono i negozi; i grandi magazzini crebbero in numero e in dimensioni; si aprirono nuovi canali di vendita a domicilio e per corrispondenza, con forme di pagamento rateale che rendevano gli acquisti più accessibili ai ceti meno abbienti; i muri dei palazzi e le pagine dei giornali si riempirono di annunci e cartelloni pubblicitari.

Le esigenze della produzione in serie per un mercato di massa spinsero le imprese ad accellerare i processi di meccanizzazione e di razionalizzazione produttiva. Nel 1913, nelle officini automobilistiche Ford di Detroit, fu introdotta la prima catena di montaggio; un'innovazione rivoluzionaria che consentiva di ridurre notevolmente i tempi di lavoro, ma che, frammentando il processo produttivo in una serie di piccole operazioni, ciascuna affidata a un singolo operaio, rendeva il lavoro ripetitivo e spersonalilzzato. La catena di montaggio fu del resto il culmine di una serie di tentativi volti a migliorare la produttività non solo mediante l'introduzione di nuove macchine, ma anche attraverso un più razionale controllo e sfruttamento del lavoro umano. Il tentativo più organico e più fortunato in questo senso lo si dovette a un ingegnere statunitesne, Frederick W. Taylor,autore nel 1911 di un libro intotolato "Principi di organizzazione scientifica del lavoro". Il metodo di Taylor (taylorismo) si basava sullo studio sistematico del lavoro in fabbrica, sulla rilevazione dei tempi standard necessari per compiere le singole operazioni e sulla fissazione, in base ad essi, di regole e ritmi cui gli operai averebbero dovuto uniformarsi, eliminando le pause ingiustificate e gli sprechi di tempo.

Il periodo compreso compreso tra il 1896 e il 1913 vide anche la trasformazione scientifica della medicina, dovuta a quattro fattori: prevenzione e contenimento delle malattie epidemiche attraverso la diffusione delle pratiche igieniste, l'identificazione dei microrganismi, i progressi della farmacologia, la nuova ingegneria ospedaliera. I progressi della medicina e dell'igiene, sommandosi allo sviluppo dell'industria alimentare, determinarono in Europa una riduzione della mortalità. Nonostante il calo delle nascite verificatosi nei paesi economicamente più avanzati (dovuto alla diffusione dei metodi contraccettivi e a una nuova mentalità tesa a programmare razionalmente la famiglia), si ebbe così un sensibile aumento della popolazione.


LA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE

 

 

 

Fonte: http://magikbox.altervista.org/sito/archivio/LA_RIVOLUZIONE_INDUSTRIALE.doc

Sito web da visitare: http://magikbox.altervista.org/

Autore del testo: Roberto Nieddu 4Cabacus

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