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La macchina fotografica
La macchina fotografica è basato sul principio della camera oscura, un dispositivo ottico relativamente semplice che è alla base di tutta la tecnica fotografica. Una camera oscura consiste in una scatola completamente chiusa, e quindi buia, con un piccolo foro, chiamato foro stenopeico, su un lato che lasci entrare la luce. Questa luce proietta all'interno della scatola, sul lato opposto del foro, l'immagine capovolta di tutto ciò che si trova all'esterno del foro. Più il foro è piccolo e più l'immagine proiettata risulta nitida e definita. Le prime camere oscure erano delle vere e proprie stanze e venivano usate soprattutto da pittori e scienziati. Il fenomeno della camera oscura fu descritto da Aristotele già nel quarto secolo a.C ma i primi veri studi risalgono all'XI secolo grazie all'arabo Alhazen. Successivamente furono in molti che approfondirono l'argomento tra cui Leonardo da Vinci, che fu il primo a proporre l'uso di una lente per migliorare la qualità dell'immagine, e Gerolamo Cardano che realizzò l'idea di Leonardo.
Una fotocamera non è altro che l'evoluzione di una camera oscura e come questa è formata da un corpo con un foro che permette alla luce di entrare. La luce è deviata e modificata ad arte da una serie di lenti (parte diottrica) e specchi (parte catadiottrica) utilizzati al posto del foro per migliorare, nonché controllare, la qualità dell'immagine. Un altra parte fondamentale è la superficie (o supporto) di memorizzazione per catturare l'immagine che viene riflessa che può essere una pellicola per il modello analogico o sensori CCD per gli attuali modelli digitali. Poiché si vuole memorizzare l'immagine e non proiettarla continuamente si ha bisogno di controllare, ed eventualmente impedire, l'ingresso della luce attraverso le lenti. Per questo motivo la grandezza, e quindi l'apertura, del foro è regolabile attraverso un dispositivo meccanico chiamato diaframma e l'ingresso della luce attraverso il diaframma, e quindi all'interno del corpo macchina, può essere consentito o negato tramite un dispositivo meccanico o elettronico di apertura e chiusura chiamato otturatore. La combinazione di questi due dispositivi permette di regolare la quantità di luce che entra all'interno della fotocamera.
Il sistema di lenti reflex
Sono dette anche SLR, acronimo inglese di Single Lens Reflex il cui significato indica che ciò che viene visualizzato nel mirino è esattamente l'immagine che verrà acquisita ed è riferito più che altro alle fotocamere analogiche (vedi nota in fondo alla pagina). Le fotocamere reflex sono tanto robuste quanto ingombranti, di dimensioni generose e anche se dotate di una comoda impugnatura ergonomica sono abbastanza pesanti e difficilmente impugnabili con una sola mano. Il loro vantaggio non è certo la portabilità, è senza dubbio neccessaria una borsa apposita che dovrà ospitare spesso anche i numerosi accessori disponibili. Uno dei punti di forza delle reflex è dato dalle ottiche intercambiabili (obiettivi fotografici) e quindi personalizzabili come meglio si preferisce anche se i costi per l'acquisto sono molto alti e spesso superano anche il prezzo del solo corpo macchina (il corpo macchina è una fotocamera senza la parte ottica). Gli obiettivi sono dotati di lenti di ottima qualità e di funzioni elettroniche integrate che comunicano con il corpo macchina e assistono l'utente durante lo scatto. Pur essendo dotate di un display per la visione delle immagini, l'inquadratura avviene esclusivamente attraverso un mirino ottico che, grazie ad un sistema di lenti e specchi denominato pentaprisma, riprende fedelmente ciò che viene inquadrato dall'obiettivo, esclusività questa tipica soltanto delle fotocamere reflex. Sugli obiettivi e sul corpo macchina sono poi installabili numerosi accessori addizionali più o meno costosi spesso compatibili tra differenti fotocamere grazie a caratteristiche sicuramente più standard rispetto ai modelli compatte o prosumer. Nelle fotocamere reflex la regolazione dei parametri fotografici e dei vari sistemi elettronici di cui sono dotate è completamente manuale e consente la regolazione di ogni singolo parametro favorendo il totale controllo della fotocamera da parte dell'utente anche se sono presenti modalità automatiche o semiautomatiche. La qualità delle immagini è ottima, la migliore che si possa trovare, e il costo è elevato anche se sono presenti sul mercato reflex di prima fascia modelli il cui prezzo concorre con le fotocamere prosumer (attenzione: nelle reflex bisogna considerare anche i costi per l'acquisto degli obiettivi se non compresi). Durante lo scatto di una foto lo shutter lag (ritardo allo scatto) è pressochè nullo, si parla di centesimi di secondo, e quindi trascurabile. L'utilizzo delle reflex è sconsigliato all'utente comune poichè, oltre che scomodo, non produrrebbe buoni risultati data la conoscenza tecnica necessaria per utilizzarle, ed è per questo che professionisti e fotoamatori evoluti trovano nelle reflex lo strumento ideale per il loro lavoro o hobby.
Un sensore digitale è essenzialmente un chip di silicio in grado di misurare la luce che lo colpisce. Poiché il sensore è il cuore di una fotocamera, nonché l'elemento più costoso, è bene conoscerne tipi, vantaggi e svantaggi e dettagli relativi al funzionamento. I sensori, come già accennato, sono formati da una piastrina rettangolare di silicio, di dimensioni variabili in base a marca e modello, sulla quale sono posti milioni di elementi sensibili alla luce chiamati fotositi. Quando i fotositi sono colpiti da luce convertono questa luce in carica elettrica, un po' come avviene per i pannelli solari, dopodiché una serie di circuiti accessori provvede a tradurre in numeri questa carica elettrica, elaborare questi numeri per ottenere informazioni, completare queste informazioni dove risultano incomplete e infine archiviarle per poterle rendere accessibili in altri momenti, luoghi e dispositivi. I sensori digitali si differenziano principalmente in due tipi a seconda della tecnologia utilizzata, la tecnologia CCD (Charge Coupled Device) e la tecnologia CMOS (Complementary Metal-Oxide Semiconductor). Nella tecnologia CCD i circuiti accessori sono separati, quindi esterni, al sensore. Potremmo dire che ognuno fa il suo lavoro. Questa metodologia porta sicuramente ad una qualità eccellente dell'immagine dato l'elevato pregio costruttivo dei componenti ma con costi e dimensioni superiori. I sensori CMOS invece sono più economici da produrre perché utilizzano la stessa tecnologia costruttiva già da tempo collaudata nei microprocessori e nei chip di memoria dei computer. Inevitabilmente i sensori CMOS, integrando i circuiti accessori al loro interno, non lasciano completamente lo spazio ai fotositi per la cattura della luce e ciò comporta un cosiddetto fattore di riempimento (fill factor) inferiore al 100%, diversamente dai sensori CCD, ciò si traduce praticamente nella necessità di maggiore luce per ottenere gli stessi risultati nonché un disturbo maggiore, il cosiddetto rumore (un particolare disturbo che verrà ripreso più avanti), nelle immagini. Tuttavia, se fino a qualche anno fa i sensori CMOS venivano utilizzati solamente laddove non vi è necessità di una eccellente qualità dell'immagine (webcam o cellulari ad esempio), oggi sono impiegati anche in fotocamere di fascia alta con ottimi risultati e come valida alternativa economica dei CCD. Forse i più ferrati in fisica avranno notato che fino ad ora si è parlato di quantità di luce che viene misurata e catturata, ma il colore? Beh il sensore non è in grado di distinguere i colori, è sensibile solamente all'intensità luminosa e quindi solo al bianco e nero. Lasciamo un attimo da parte la questione e cerchiamo di capire come l'occhio umano distingue i colori. L'elemento fotosensibile del nostro occhio è la retina, un insieme di cellule sensoriali chiamate coni (l'equivalente dei fotositi). Questi coni si distinguono in tre tipi, ognuno dei quali sensibile rispettivamente al rosso, al verde e al blu (non a caso i colori primari!). Proporzionalmente i coni sensibili al verde lo sono il doppio di quelli sensibili al rosso e al blu, ne deriva che l'occhio umano è più sensibile al verde. I coni dunque catturano le informazioni sul colore che vengono inviate sottoforma di impulsi elettrici attraverso il sistema nervoso al cervello che le elabora e le mette insieme di modo che noi percepiamo così i colori. Tornando al sensore digitale accade che viene posto un filtro davanti ad esso denominato RGB (Red Green Blue), materiale trasparente colorato secondo uno schema a scacchiera detto Bayer per cui ne risulta che ogni fotosito viene colpito da luce colorata di rosso, verde o blu. Cosi come accade nell'occhio umano, i fotositi posti sotto il verde sono il doppio di quelli sotto il rosso o il blu. Una volta acquisite le informazioni sui colori principali viene calcolato il risultato finale per interpolazione, un processo di calcolo affidato al processore della fotocamera che prevede l'uso di un algoritmo più o meno complesso. Una variante del filtro RGB è il filtro sottrattivo CMY che, utilizzando i colori ciano, magenta e giallo, ottiene gli stessi risultati producendo però più rumore a causa dei molti procedimenti di calcolo necessari. Esiste poi un terzo tipo di sensore chiamato Foveon privo di filtri e strutturalmente composto da tre sensori costruiti con particolari materiali impilati uno sull'altro, sensibili ognuno solamente al rosso, verde o blu e permeabili, cioè trasparenti, agli altri. Ovviamente i costi sono molto elevati e per ridurli vengono utilizzati sensori con un numero minore di fotositi. Succede a volte che una fotocamera venga pubblicizzata con sensore ad esempio di 12 Mpixel quando poi in realtà l'immagine scaricata sul computer è di 4 Mpixel, il vantaggio è da ricercarsi sicuramente nella qualità e nell'accuratezza cromatica. Per concludere ci sarebbero da evidenziare le differenze tra sensore digitale e pellicola fotografica, in particolare il comportamento di diversi obbiettivi fotografici con sensori digitali di dimensioni differenti ma è un argomento che verrà trattato più avanti.
L'otturatore è il dispositivo presente su ogni fotocamera che consente o nega l'ingresso della luce che andrà ad impressionare la pellicola o il sensore digitale all'interno del corpo macchina. La tipologia più diffusa è quella degli otturatori a tendina dove due superfici di stoffa o di metallo disposte parallelamente al piano dell'elemento fotosensibile e scorrevoli più o meno contemporaneamente. La velocità di otturazione (chiamata anche tempo di posa) è il tempo impiegato dall'otturatore per aprirsi e richiudersi, conseguentemente il tempo che l'otturatore rimane aperto, ed è uno dei parametri fondamentali per la regolazione della giusta quantità di luce necessaria durante lo scatto di una fotografia, per questo impostabile sulla fotocamera generalmente per mezzo di una ghiera o di comandi sul menu digitale. Dunque, utilizzando basse velocità di otturazione (tempi lenti) la prima tendina dell'otturatore scorrerà sul piano focale aprendo lo spazio necessario al passaggio della luce, raggiungerà il fine corsa e poi partirà la seconda tendina che provvederà a chiudere lo spazio per il passaggio della luce; passando ad alte velocità di otturazione (tempi rapidi) quello che succede è che la seconda tendina partirà prima ancora che la prima tendina abbia raggiunto il fine corsa lasciando di fatto solamente una piccola fessura che attraverserà tutto il piano focale. La velocità dell'otturatore può essere utilizzata in modo creativo da chi scatta una foto per esaltare per esempio il movimento di un soggetto scegliendo tempi lenti creando sull'immagine la scia del soggetto stesso, o fare apparire l'acqua di un ruscello soffice e priva di onde, o ancora impressionare la scia dei fari di un auto di notte, dunque per creare del mosso fotografico o creativo; è altresì possibile, utilizzando tempi rapidi, congelare il movimento della pioggia, o il passaggio di un treno, o ancora lo scoppio di un palloncino privando di dinamicità l'immagine fermando un istante tra milioni. La velocità di otturazione viene espressa in secondi e frazioni di secondo. E' bene considerare che la soglia che divide tempi lenti e tempi rapidi può essere posizionata all'incirca ad 1/100 di secondo, ovviamente è abbastanza soggettivo. Nelle moderne fotocamere i tempi lenti raggiungono gli 8 secondi mentre i tempi rapidi 1/4000 di secondo secondo la seguente scala in ordine dalle velocità più lente alle più rapide:
8 – 4 – 2 – 1 – 1/2 – 1/4 – 1/8 – 1/15 – 1/30 …
... 1/60 – 1/125 – 1/250 – 1/500 – 1/1000 – 1/2000 – 1/4000
Poi, a seconda del tipo di fotocamera, sono disponibili dei tempi intermedi tra i valori indicati sempre con intervalli regolari che riguardano l'esposizione, il cui concetto verrà esposto più avanti. La peculiarità della scala dei tempi su indicata è che passando da uno stop (termine usato in gergo per definire un valore) ad un altro in senso decrescente da sinistra verso destra, quindi dimezzando i tempi, si dimezza anche la quantità di luce che colpirà l'elemento fotosensibile. In modo analogo, andando in senso crescente da destra a sinistra, si raddoppiano i tempi e anche la quantità di luce. Per esempio passando da 1/500 a 1/125 avremo un tempo di 4 volte più lento e una quantità di luce 4 volte maggiore. In determinate situazioni i 4 o gli 8 secondi di posa offerti da più o meno tutte le fotocamere moderne potrebbero non essere sufficienti per il risultato ricercato. In questi casi è necessario utilizzare un tempo personalizzato chiamato Posa Bulb o Tempo B, generalmente disponibile soltanto su fotocamere reflex, con il quale l'otturatore rimane aperte per tutto il tempo che si tiene premuto il pulsante di scatto, con tempi che possono arrivare anche a diversi minuti. La posa B è una tecnica molto utilizzata in fotografie notturne e in campo astronomico o comunque laddove il soggetto è davvero scarsamente illuminato ma può essere utilizzata anche per creare particolari effetti di luce o di mosso interagendo con il soggetto stesso durante lo scatto. Visti i lunghi tempi usati con la posa B è sempre estremamente necessario posizionare la fotocamera su un cavalletto o su un piano ed utilizzare un accessorio per lo scatto remoto, come telecomando o scatto flessibile, per evitare movimenti della fotocamera durante la pressione del pulsante di scatto. Alcune fotocamere, oltre al tempo B, permettono di utilizzarne anche una variante molto apprezzata chiamata Tempo T, secondo la quale alla pressione del pulsante di scatto l'otturatore si apre e rimane aperto fino a quando non viene premuto nuovamente il pulsante di scatto. Le considerazioni ovviamente sono le stesse.
Ogni obiettivo fotografico, tranne quelli più economici, è dotato di un dispositivo meccanico ad apertura variabile chiamato diaframma che consente di regolare la quantità di luce che attraversa l'intero obiettivo. Sostanzialmente il diaframma è composto da una serie di lamelle metalliche disposte a iride che muovendosi aumentano o riducono l'area del foro che viene attraversato dalla luce. Maggiore è la quantità di lamelle e più il foro risulterà perfetto, simile ad un cerchio, altrimenti, con un numero minore di lamelle, il foro risulterà poligonale, formato da un certo numero di lati tanti quante sono le lamelle. E' evidente che la luminosità di un obiettivo si misura considerando la massima apertura possibile del diaframma, le chiusure diaframmali possibili danno luogo poi ad un'apertura relativa e controllata che viene utilizzata per scopi creativi che vedremo in seguito o semplicemente per necessità. Le varie aperture di diaframma possibili sono distribuite regolarmente su una scala standard di intervalli indicati sull'obiettivo o sul display digitale e detti numeri f, indicati con f/. In realtà, considerando la diversità dei vari obiettivi fotografici disponibili, è ovvio che un'apertura di diaframma di 25 mm di diametro non produrrà lo stesso effetto se impostata su un normale obiettivo 50 mm o su un teleobiettivo da 200 mm, per cui si è reso opportuno indicare con f/ il rapporto focale, cioè il rapporto tra lunghezza focale dell'obiettivo e il diametro dell'apertura di diaframma, permettendo così di avere a disposizione la stessa scala di valori per tutti gli obiettivi fotografici. Nell'esempio precedente si aveva un rapporto f/2 nel caso dell'obiettivo normale (50/25=2), e un rapporto f/8 nel caso del teleobiettivo (200/25=8), ciò per indicare che la quantità di luce che avrebbe raggiunto il sensore (o la pellicola) sarebbe stata molto differente nei due casi pur utilizzando lo stesso diametro di apertura di diaframma. La sequenza dei numeri f/ impostabili su una fotocamera è stata standardizzata nel 1905 al Congresso di Liegi e comprende i seguenti valori:
f/1 - f/1.4 - f/2 - f/2.8 - f/4 - f/5.6 - f/8 - f/11 - f/16 - f/22 - f/32 - f/45 – f/64
Generalmente gli obiettivi che si trovano in commercio non coprono completamente tutta la scala, ma variano all'incirca da f/2.8 a f/32 per gli zoom, mentre esistono in commercio ottimi obiettivi a focale fissa capaci di aprirsi fino a f/1.4 e oltre. Negli obiettivi presenti in commercio sono inoltre disponibili valori intermedi della scala sopra riportata. E' interessante evidenziare due concetti fondamentali: il primo è che il numero f/ è inversamente proporzionale al diametro dell'apertura del diaframma, cioè utilizzando un f/2 avremo un diaframma molto più aperto con un maggiore ingresso di luce rispetto ad un f/8; il secondo è che da un valore all'altro l'area del foro del diaframma raddoppia o si dimezza e di conseguenza anche la quantità di luce che raggiungerà il sensore (o la pellicola). Nella pratica accade che per ragioni tecniche, utilizzando diaframmi molto chiusi (da f/22 in poi), spesso l'immagine risulta più scura lungo i suoi bordi, difetto dovuto al fatto che la luce colpisce i bordi del sensore digitale in modo obliquo in questa situazione. Generalmente ogni obiettivo fornisce i migliori risultati con i valori intermedi utilizzabili. Se per esempio si ha a disposizione un obiettivo con un escursione che va da f/2 a f/32 si otterrano i migliori risultati con aperture che vanno da f/4 a f/16. La massima apertura possibile è sempre indicata sull'obiettivo poiché indice di luminosità dello stesso. Un ottica 50 mm f/1.4 è più luminosa della simile ottica 50 mm f/1.8, di conseguenza sarà anche più costosa poiché le lenti utilizzate saranno più grandi. Per quanto riguarda gli obiettivi zoom invece sono indicati due valori di apertura, corrispondenti entrambi alla massima apertura rispettivamente nella minima e nella massima lunghezza focale. Per esempio un 18-70 f/3.5-4.5 permetterà un apertura massima di f/3.5 alla focale di 18 mm e un apertura massima di f/4.5 alla focale di 70 mm (notare che non cambia il diametro del diaframma, ma la lunghezza focale!). Nelle fotocamere reflex, dove l'inquadratura avviene attraverso l'obiettivo, il diaframma rimane sempre aperto, per permettere di osservare un immagine sempre luminosa attraverso il mirino, e si chiude al valore impostato soltanto durante lo scatto. In genere questo tipo di fotocamere sono dotate di un pulsante che alla pressione chiude il diaframma al valore impostato per permettere di osservare un anteprima attraverso il mirino. Per concludere è bene notare che maggiore è la lunghezza focale dell'obiettivo e più ampia dovrà essere l'apertura del diaframma per ottenere bassi valori f/, su un 35 mm possiamo ottenere un apertura f/2 con un diaframma di appena 1,8 cm di diametro circa mentre per ottenere la stessa apertura su un teleobbiettivo di 200 mm dovremmo avere un diaframma di 10 cm di diametro e questo è il motivo per il quale gli obiettivi più luminosi sono anche i più costosi, il costo di lenti da 10 cm è estremamente superiore rispetto a lenti di 1,8 cm.
Quando osserviamo oggetti e persone intorno a noi abbiamo una percezione uniforme di tutto ciò che vediamo, cioè ovunque posiamo lo squardo tutto ci appare nitido allo stesso modo. In realtà i nostri occhi focalizzano continuamente ciò che vediamo ma se osserviamo un oggetto vicino, tutto ciò che nel nostro perimetro visivo è lontano non è a fuoco, cioè non è nitido. La stessa cosa accade in una fotocamera solo che, soprattutto nelle reflex, la distanza di messa a fuoco (o fuoco critico) ha un preciso valore per ogni scatto che eseguiamo. Il modo più rapido per impostare la distanza di messa a fuoco è quello di utilizzare il fuoco automatico per il quale premendo a metà il pulsante di scatto la fotocamera metterà a fuoco il soggetto inquadrato generalmente nell'area centrale del mirino. Il piano di messa a fuoco (o piano di fuoco critico) è un piano immaginario parallelo all'elemento fotosensibile della fotocamera posto da essa alla distanza di messa a fuoco. Durante lo scatto tutti gli oggetti e le persone disposte sul piano di messa a fuoco saranno perfettamente nitidi e ben visibili. Le fotocamere reflex e qualche prosumer offrono la possibilità di utilizzare il fuoco manuale regolabile solitamente girando una ghiera posta sull'obiettivo. Per cui una volta regolata e impostata la distanza di messa a fuoco rimarrà la stessa anche cambiando inquadratura e premendo a metà il pulsante di scatto. Ogni fotografia ha dunque un solo piano di messa a fuoco e, mentre tutto ciò che si trova su questo piano sarà nitido e ben distinguibile, tutto quello che sarà più vicino o più lontano dal piano risulterà via via sempre meno nitido fino a diventare indinstinguibile. Stabilire ad occhio nudo l'esatta distanza di messa a fuoco su una fotografia è pressoche impossibile poiché esiste una zona davanti e dietro al piano di messa a fuoco nella quale l'occhio umano percepisce ugualmente nitido e ben focalizzato ogni dettaglio che vi è ripreso. Questa zona prende il nome di profondità di campo e si estende all'incirca per 1/3 davanti al piano di messa a fuoco (nella direzione tra il piano di messa a fuoco e la fotocamera) e per 2/3 nella direzione opposta dietro il piano. L'ampiezza della profondità di campo non ha un valore fisso ma varia a seconda della distanza dal soggetto, della lunghezza focale dell'obiettivo e dell'apertura di diaframma utilizzata. Per avere una visione chiara di come la profondità di campo vari basti pensare che aumenta se rimpiccioliscono gli oggetti e diminuisce diversamente. Dunque avremo una profondità di campo più estesa se utilizziamo focali più corte (i grandangolari rimpiccioliscono gli oggetti), se il soggetto sarà più lontano da noi e se utilizzeremo aperture ridotte di diaframma (numero f più grande); mentre al contrario avremo una ridotta prodondità di campo se utilizzeremo teleobiettivi, se il soggetto sarà più vicino a noi e se utilizzeremo diaframmi più aperti (numero f più piccolo).
La corretta messa a fuoco è un requisito essenziale di ogni fotografia e la profondità di campo uno strumento creativo che ogni fotografo può utilizzare. Basti pensare alle dimensioni che questa zona può avere per immaginare gli effetti creativi ottenibili. Con un teleobiettivo e un diaframma aperto potremmo ottenere una profondità di campo nell'ordine di centimetri lasciando a fuoco, in un ritratto, soltanto il volto di una persona e sfocando tutto lo sfondo creando una cornice intorno al soggetto o ancora estendere la profondità di campo a diversi chilometri, se non all'infinito, per far si che, con un grandangolo in una foto di paesaggio, siano perfettamente visibili sia elementi in primo piano che il paesaggio sullo sfondo. Dato che la profondità di campo aumento con l'aumentare della distanza di messa a fuoco avremo una distanza tale che di li in poi tutto risulterà a fuoco, fino all'infinito. Questa distanza viene definita come distanza iperfocale ed è una caratteristica propria degli obiettivi poiché dipende esclusivamente dalla lunghezza focale e dall'apertura di diaframma dell'obiettivo utilizzato. E' interessante notare poi che alla distanza iperfocale la porzione di profondità di campo davanti al piano di messa a fuoco è pari circa alla metà della distanza tra la fotocamera e il soggetto, dunque se per ipotesi il nostro obiettivo ha una distanza iperfocale di 8 m e focalizzo manualmente a 8 m tutto ciò che sarà a 4 m dalla fotocamera fino all'infinito risulterà perfettamente nitido.
Fonte: http://ricercazione.weebly.com/uploads/1/2/7/1/12714269/fotocamera.doc
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"Ciò che sappiamo è una goccia, ciò che ignoriamo un oceano!" Isaac Newton. Essendo impossibile tenere a mente l'enorme quantità di informazioni, l'importante è sapere dove ritrovare l'informazione quando questa serve. U. Eco
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