Vip e letteratura

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Vip e letteratura

TV BOOK

 

Autrice Lidia Lombardi
prefazione di Mario Morcellini, Prorettore alla comunicazione. Università di Roma La Sapienza

 

Prefazione di Mario Morcellini Presentazione di Lidia Lombardi
Emanuela Aureli: amo I Buddenbrook, Calvino e Anna Frank
Pupi Avati: io dantista convinto, vorrei raccontare in tv la vita dell'Alighieri Pippo Baudo: io folgorato da 1984 di Orwell
Lorena Bianchetti, ecco i miei libri del cuore
Cesara Buonamici: la mia passione per Montalbano e Karen Blixen Buzzanca e la delusione che gli procurò Proust
Roberta Capua: io affascinata da Peter Cameron Circiello e la figura dell'intellettuale gastronomo
Rita Dalla Chiesa: quelle mie chiacchierate con Alberto Bevilacqua Eleonora Daniele: La lentezza di Kundera è il mio libro del cuore
Franco Di Mare: sono un lettore ubiquo, onnivoro e disordinato e vi spiego perchè
Francesca Fialdini: io affascinata da Tolstoj, Etty Hillesum e Dacia Maraini Giletti: ecco perchè amo Il deserto dei tartari
Luca Giurato e la passione per Salinger e Calvino
Ugo Gregoretti: con Il Circolo Pickwick ho portato il romanzo in tv
Anna Kanakis: il libro della mia vita? Le memorie di Adriano
Luigi Lambertini: quando Ungaretti si confuse recitando i suoi versi
Franca Leosini: quando Walter Siti vinse lo Strega anche grazie a me Simonetta Matone, è Proust il mio autore più amato
Marco Presta: L’idiota di Dostojevski è il mio libro del cuore Folco Quilici: vi racconto la mia amicizia con Calvino e Sciascia
Dario Salvatori: vi racconto il Moravia mondano che ho conosciuto Vanessa Scalera: il mio primo libro, le poesie di Totò
Savino Zaba: è Il profeta di Gibran il mio libro del cuore
Iva Zanicchi: vi racconto la mia amicizia con Ungaretti e Buzzati

Prefazione di Mario Morcellini

Esercizi di lettura di 25 personaggi dei media
Mario Morcellini,
Prorettore alla comunicazione. Università di Roma La Sapienza
In omnibus requiem
quaesivi, et nusquam
inveni nisi in angulo cum libro.
Umberto Eco

Devo anche io, come Lidia Lombardi, una parola preliminare di gratitudine per Marida Caterini, innovativa web editor e giornalista specializzata, per l’idea di interrogare i vip del palcoscenico mediale sulle proprie letture preferite. Lo dico con qualche umorismo, perché a prima vista si è tentati di credere che il tempo compulsivo di personaggi arrivati al successo renda più difficile misurarsi con la creatività degli altri, quella depositata nella fiction letteraria e, in generale, in quella “pila atomica” di stimolazioni che è il libro.
La cosmologia delle scelte di lettura non rappresenta solo una curiosità o un attributo del divismo. C’è molto di più: una singolare varietà delle scelte, che attesta orientamenti e personalità individuali, e dunque un’enciclopedia che diventa ben più interessante attraversando le tante storie di lettura offerte dalle interviste.
Cosa ci può insegnare questa scelta di interrogare personaggi noti sugli orientamenti di lettura - Anzitutto che i libri, e soprattutto i romanzi, sono uno straordinario elemento di correzione di quel potere regalato dalla comunicazione che gli intervistati si trovano temporaneamente fra le mani. Poche cose come le storie e i racconti degli altri aiutano chi dispone di quella risorsa storicamente nuova di influire sulla società a correggere proprio il rischio di un eccesso di percezione del potere. La letteratura, con la sua storicità e persino con la circostanza di essere sistematicamente messa alla prova dal ritmo delle generazioni di lettori che cambiano, può davvero essere un virus autocorrettivo dello strapotere spesso accreditato alle personalità dei media.
La prima conclusione che si può trarre dunque da questa carrellata di interviste è che i personaggi televisivi leggono, e scelgono con una notevole sapienza. Può sembrare una banalità, ma in tempi di comunicazione asintattica e di rottamazione del congiuntivo celebrati da non pochi personaggi del nostro festival televisivo, la conclusione è importante non meno della presa d’atto della cosmologia di preferenze dei singoli. E qui dobbiamo comunque interrogarci su qual è una seconda funzione della lettura, per personaggi che sono costretti a gestire tecnicamente la parola come arma di professionalità e di distinzione. Ebbene niente come la scrittura letteraria allena la creatività, la educa verso contenuti più elaborati (e dunque non facilmente riproducibili nel tempo televisivo), e funziona comunque come allargamento dall’esperienza comunicativa dei professionisti del piccolo schermo: una vitamina sociale, che rende più forte il loro patto con il pubblico.

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La scelta strategica di intervistare i personaggi sulle letture è dunque un punto di partenza per altre riflessioni sui professionisti di successo; apre a indagini più serrate sulla preparazione, sulla formazione e sulla personalità dei protagonisti, sempre tenendo conto che stiamo parlando di persone su cui la luce dei riflettori riverbera un’incidenza sui gusti degli altri certamente non trascurabile.
Scendiamo ora a livello delle scelte individuali, perché è sempre vero che il libro che ti viene in mente dice molto di te, delle tue aspettative e soprattutto delle visioni del mondo che si difendono. Troviamo quanti scelgono la lettura come esperienza collettiva (un orientamento postmoderno ben rappresentato da Roberta Capua), mentre colpisce di meno che un personaggio segnato da una folgorante carriera qual è Pippo Baudo si affidi allo scrittore che più ha anticipato gli eccessi di potere della comunicazione (ma anche la pressione delle Istituzioni sugli individui) come l’Orwell di 1984. La necessità di contestare, anche come docente di comunicazione, le pretese della neolingua dei media trovano nella dichiarazione d’amore di Baudo un messaggio rivolto a tutti i protagonisti. In generale, le scelte segnalano forme sofisticate di coinvolgimento su autori centrali per la cultura contemporanea: si va dalle Poesie d’amore di un ispirato Hikmet (Rita dalla Chiesa), a uno dei classici di Kundera, La lentezza (Eleonora Daniele), mentre Savino Zaba sceglie Il profeta di Gibran; più variegato il sistema di scelte di Luigi Lambertini che si muove tra Salgari e Verne da un lato e Voltaire in compagnia de Il piccolo principe.
Non pochi di chi ha risposto sceglie di parlare più che dei titoli degli autori: oltre a Pupi Avati, anche Franca Leosini cita Carrére, Valter Siti ma anche Sciascia ed Eco, su cui ritorneremo.
La letteratura americana è generosamente presente nei nostri lettori eccellenti: Frank McCourt, Roth, Hemingway, Salinger, Jonathan Franzen, David Foster Wallace, Kerouac, Ross, Ginsberg, Melville (tutti e quattro citati da Dario Salvatori), Steinbeck, accanto alla canadese Richler e a Garcia Marquez per l’America Latina.
Uno dei felici luoghi comuni in cui una buona parte degli intervistati si incontra è però la grande letteratura europea, già echeggiata nelle citazioni precedenti, ma che trova in Simonetta Matone, Emanuela Aureli, Marco Presta, Bianchetti, Buonamici e tanti altri, veri e propri classici come Dostojevski, Mann, Gide, Shakespeare, Stevenson, Bulgakov, Nietzsche, Yourcenar, Queneau, Hillesum, Sartre fino Sepulveda e Amado (questi ultimi dentro le ricche segnalazioni di Franco Di Mare). Proust e Stendhal ottengono più di una citazione (Pupi Avati, Manuela Aureli, Luca Giurato e Simonetta Matone, come del resto, non pochi italiani).
Calvino è presente sia con la trilogia (di nuovo Emanuela Aureli - Lorena Bianchetti), che con le splendide Lezioni americane; Pirandello è ricordato come autore sia da Iva Zanicchi che da Lando Buzzanca. Non manca Salgari come molti altri autori della letteratura d’avventura, ma ci sono anche le poesie di Totò, Cuore di De Amicis, Sciascia, Moravia, Pivano, Pavese, Fenoglio e Buzzati. Quest’ultimo è citato da Massimo Giletti in un contesto di letture riccamente diverse, anche impegnate sull’attualità.
Il vertice però di questa galleria di lettori è probabilmente raggiunto da Pupi Avati, perché non si è limitato a citare il suo libro ma ha confessato di avere nella sua biblioteca scelta un autore quale possibile sorgente della sua, peraltro elaboratissima, ispirazione cinematografica. È due volte un poeta chi sceglie Dante e al tempo stesso non esclude di considerare l’umana e divina Commedia come possibile plot di ispirazione cinematografica.

Chiudo questa breve carrellata rendendo onore a tutte le scelte, perché nel momento in cui sono dichiarate diventano una bandiera distintiva e un termine interessante di confronto comparativo. Mi cimento ora, è ovvio per un Prorettore di Comunicazione, con le alternanti citazioni per Umberto Eco. Non mi allarma l’idea che qualcuno dei nostri lettori lo discuta (e, per una volta nella vita, mi distinguo da quanto scrive Franco Di Mare). Mi conforta di più che, proprio nell’anno della sua amarissima morte, sia stata colta almeno, dentro quell’enciclopedia di stimolazioni che è Il nome della rosa, la sua natura di “romanzo di formazione”.
Fermiamoci a pensare al rapporto tra il giovane monaco e il Maestro di riferimento; Azzo cresce alla vita e alle relazioni sotto la protezione e il potere di orientamento di Guglielmo da Baskerville, ma anche quest’ultimo è colpito dalla freschezza e disponibilità a raccogliere, nei suoi occhi e nella sua mente, i saperi del mondo e il potere dei libri. Ne emerge plasticamente che l’educazione è un’attività non solo diretta al nuovo venuto, non confinata agli anni della scuola, ma è sempre una lunga autoeducazione reciproca.
È una bella formula per scolpire l’importanza dei testi nella vita delle personalità che stiamo presentando perché, come ci ricorda Eco nel proemio, “questa è una storia di libri”. E faccio un regalo finale ai nostri personaggi e agli eventuali lettori: le straordinarie pagine di apertura del romanzo disegnano letteralmente la grammatica dei piaceri che si possono trarre dalla
“repubblica delle lettere” e dall’esercizio della funzione intellettuale. Questa orazione civile a favore della cultura si chiude con un motto latino che Eco attribuisce a un celebre testo devozionale come L’imitazione di Cristo. Ma in realtà siamo di fronte a uno dei tanti tiri mancini che lui regala ai suoi lettori: un monito sulla necessità del silenzio e della solitudine per gustare appieno l’esercizio della lettura. Giro allora in volgare la citazione messa in testa a questa presentazione: “In tutte le cose ho cercato la pace, e non l’ho mai trovata se non in un angolo, con un libro”.

Presentazione. Di Lidia Lombardi
Che cosa leggono i volti del piccolo schermo, i quali in molti casi sono anche volti del cinema e a loro volta scrittori e intellettuali? Questa serie di interviste che indagano sui gusti letterari di 25 vip della televisione contengono grandi sorprese per chi avrà la curiosità di affrontarla. Ma soprattutto inducono a una riflessione. Attraverso la narrazione dei libri preferiti, del modo di leggerli, di conservarli, di consigliarli, di “consumarli” in senso lato, gli interpellati alzano il velo sul loro mondo più intimo. Sui sogni e sulla fantasia, sui valori ricercati attraverso la pagina scritta, sul modo di interpretare, con essa, la realtà. Insomma, loro che sono campioni dell’apparire – nel senso di mostrarsi al grande pubblico – diventano qui alfieri dell’essere. E ripercorrono con l’intervistatore il passato, la scuola, l’infanzia, un amore, un’amicizia, ma si proiettano anche nel futuro, prefigurando un autore da inserire nel proprio carnet, mai letto oppure da riscoprire, alla luce della esperienza raggiunta con gli anni.
Le predilezioni sono svariate: c’è chi adora la letteratura americana contemporanea, come Luca Giurato, e chi è un vorace lettore di titoli sul mare, al pari di Rita Dalla Chiesa. Chi adora le biografie di storiche donne, regine o eroine, come Simonetta Matone e chi è tanto appassionata di narrativa da far parte di un “gruppo di lettura”, ed è il caso di Roberta Capua. Pippo Baudo è stato folgorato da Orwell, Cesara Buonamici è tornata a quel classico della letteratura fantastica che è “Lo strano caso del dottor Jekill e mister Hyde”. Ancora, chi è quasi maniacalmente legato a Dante e desidera cimentarsi con un film tv sul Sommo Poeta, come ci ha confessato Pupi Avati.

È possibile anche tirar fuori una sorta di classifica degli autori più citati, più letti, più comprati. Un ideale compilazione di best seller. Ebbene, molti degli intervistati non hanno potuto prescindere da “Alla ricerca del tempo perduto” di Marcel Proust. E se alcuni affermano di aver ingaggiato una sorta di braccio di ferro con il capolavoro francese e di aver vinto la fatica di leggere i sette volumi della “Recherche” arrivando fino all’ultimo, altri ammettono di non essere andati oltre le “petit madeleines” del primo tomo. Al secondo posto, Umberto Eco. Con alterne valutazioni, anche se la bilancia pende decisamente a favore dell’autore de “Il nome della rosa”.
Un’ultima notazione. Le risposte – davanti a un argomento così particolare e che poteva risultare in certi casi spiazzante perché la lettura risulta ardua a quanti vivono i ritmi forsennati dello showbiz – non sono mai state banali, evasive, fuorvianti. Il “gioco” delle passioni letterarie è stato da tutti affrontato senza reticenze né infingimenti. Invece la cavalcata attraverso la saggistica, i romanzi, la poesia è stata affrontata sempre con entusiasmo e spesso con commozione. Così il lavoro è risultato facile per la sottoscritta e l’idea della serie, che si deve alla “domina” alla web editrice Marida Caterini, si è dimostrata stimolante. Speriamo anche per gli utenti del sito.

Lidia Lombardi
Lidia Lombardi, free lance dopo essere stata per 35 anni nella redazione del quotidiano "Il Tempo" dove ha ricoperto il ruolo di responsabile del servizio Cultura e Spettacoli dal 2001 al 2013.
La sua più ferma convinzione professionale: il giornalismo non è per solipsisti, ma un lavoro d'equipe.

Vip e letteratura, Emanuela Aureli:
amo I Buddenbrook, Calvino e Anna Frank
La voce di Emanuela Aureli nella cornetta. E, insieme alla sua, il cinguettio di un neonato. L’attrice-mattatrice ha tra le braccia il suo piccino, Giulio, ancora lattante. “Me lo sto godendo seduta in poltrona. Sa, l’ho tenuto con me durante la
tournée teatrale che mi impegna d’inverno. Ho portato in giro per l’Italia, tra gli altri spettacoli, uno con Milena Miconi, L’uomo perfetto, commedia brillante di Mauro Graiani diretta da Diego Ruiz”.
Allora, Emanuela, cominciamo proprio da Giulio per parlare di libri. Che cosa gli leggerà quando sarà grandicello, o che cosa gli suggerirà di leggere?
“Il piccolo principe di Saint Exupery. La storia di un bambino che sogna e che manda messaggi di saggezza al mondo. Un apologo sostenuto dalle illustrazioni dell’autore. Un libro di formazione per tutti i ragazzi. E anche per gli adulti, non crede?”.

E quando suo figlio sarà adolescente?
“Novecento di Alessandro Baricco. Un romanzo che ho amato e amo tanto. Nelle mie scorrerie in libreria lo comprai appena uscito. Anche la storia del pianista che ha paura di scendere dalla nave e di aprirsi al mondo è educativa nel suo significato più nascosto. È come se a un giovinetto si dicesse: tutto il bello della vita è là, a portata della tua mano. Basta solo che tu scenda dalla tolda che ti culla sul mare come appunto nel lettino di bimbo e che cominci a conoscere, a rapportarti con le persone, a dialogare con gli altri, a capire la diversità dei caratteri e delle situazioni. A non aver paura degli imprevisti, a imparare a fronteggiarli.
Anche il film di Tornatore, tratto dal libro, è tanto allusivo e magico, direi”. così appagante che la vorrei ripetere”.
Che cosa ha in mente?
“Un libro sulla maternità. Per dire alle donne che ne hanno timore perché potrebbe ostacolarle nel lavoro che un figlio è una gioia, un miracolo che ti cambia: vedi tutto con nitidezza, hai il mondo in mano. Un figlio aumenta il valore del rapporto con il partner. Un figlio ti permette di accettare ogni avversità. Mai rinunciare alla maternità per la carriera, lo dice una che aveva paura di affrontare la gravidanza. Invece, che mattina comincia quando il piccolo apre gli occhi e ti sorride… È meglio di qualsiasi applauso”.

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I titoli della sua giovinezza?
“I Buddenbrook di Thomas Mann, la Trilogia di Calvino, Il diario di Anna Frank. Amo la narrativa anche se ora i miei tempi di lettura sono molto lunghi. Il lavoro e questa bellissima maternità mi tolgono tempo. Però ho ripreso Il ritratto di Dorian Gray di Wilde, ma anche il Napoleone di Guido Gerosa. Poi sul comò hanno un posto d’onore Il manuale di sceneggiatura cinematografica e quello dell’Attore di Dario Fo. Cerco inoltre i volumi che diano linfa al mio lavoro, che mi insegnino nuovi modi di propormi al pubblico. Mi ha aiutato Se vuoi puoi di Roberto Cerè. Un coach della mente che ti insegna a ottenere certi risultati, a ridarti grinta in momenti di stanca…”
Ma va in libreria anche per gli altri?
“Adoro regalare libri. Quando mi sono recata in Canada per la trasmissione dedicata agli italiani all’estero ne ho acquistati parecchi in inglese, per le mie nipoti. La valigia è diventata pesantissima…”.
Lei tanto divertente non si converte mai a letture leggere?
“Sì, con i libri di Fabio Volo. Sono una sua fan, scrive pagine lievi e profonde insieme. Vorrei conoscerlo. Gli sono indirettamente grata per avermi dato il coraggio di firmarlo io, un libro”.
“Fra me e me”, uscito nel 2014 fa per l’editore Aletti.
“Già. Mi ha introdotto alla casa editrice la cara amica Solange. Ho raccontato la mia storia dall’alto dei quarant’anni. La fissazione per le imitazioni, mentre frequentavo il liceo sperimentale pedagogico a Terni, la mia città. I miei mi prendevano in giro, però assecondandomi. Mamma mi accompagnò alle selezioni della Corrida, al Brancaccino di Roma. Avevo 18 anni, era il maggio del ’92. Vinsi e mi sembrava un gioco. Il 27 maggio, il giorno del mio compleanno, mi chiamarono alla Dear per Stasera mi butto. C’erano Mirabella e Massimo Cinque. Superai anche questo provino e presi il volo. Conobbi Maurizio Costanzo, Frizzi, Lorena Bianchetti, Carlo Conti…”.
Con Conti è nato un bel sodalizio. È diventata un coach dell’imitazione per “Tale e quale Show”. “Carlo è una persona eccezionale, il successo della trasmissione si deve a lui. È serio e professionale. Capace di darti forza”.

Che cosa ha provato mentre scriveva “Fra me e me”?
“Un grande senso di libertà. Potevo svelarmi e donarmi al mio pubblico ben al di là dei cinque minuti che ti concede la performance sul piccolo schermo. Ho gustato la mia autonomia espressiva sui sentimenti, sul mio percorso di lavoro e di vita. Una esperienza.

Vip e letteratura, Pupi Avati: io dantista convinto, vorrei raccontare in tv la vita dell'Alighieri
Il rapporto di Pupi Avati con la letteratura è come quella di uno scapolo impenitente che poi, in età matura, si mette la fede al dito. Da indipendente e disincantato che era, diventa maniacale verso la tardiva conquista.
“Eh già – racconta il regista che tante emozioni ci ha dato, sul piccolo e sul grande schermo, con pellicole indimenticabili come Una gita scolastica e Regalo di Natale, Jazz Band e Con il sole negli occhi – quando andavo a scuola mi tenevo alla larga dai libri, perché in classe non li fanno amare. I classici imposti ai ragazzi si rovinano. Letti a sessanta anni, invece, annientano il pregiudizio e donano un estremo piacere a chi li affronta. Insomma, Virgilio e Omero si condividono in età avanzata”.

Ma insomma, Avati, quando ha rotto l’inimicizia con i libri?
“Intorno ai 27 anni, a ridosso dal mio matrimonio, ho cominciato a rendermi conto quanto la lettura regali in termini di conoscenza del mondo, delle persone. Così ho cominciato un percorso da autodidatta che mi ha reso un bibliofilo maniacale, compulsivo. Ho comprato migliaia di volumi, li ho sparsi in tutta casa: librerie nello studio, nell’ingresso, nella sala da pranzo. Confesso, quei volumi non li ho letti tutti, mi sono fermato al 20 per cento, e poi molte sono opere di consultazione, ora un po’ accantonate per l’uso di Internet. Però la lettura è il mio appuntamento serale preferito. A fine giornata mi stimola pensare che leggerò un libro che mi piace”.
E se non le piace, Avati?
“Non lo metto da parte, anche se è ostico. E’ successo per molti capolavori. Per esempio con la Recherche di Proust. Mi manca di leggere solo il settimo e ultimo volume, Il tempo ritrovato. E anche se molte volte sono stato tentato di lasciare, ho resistito e ho compreso che è l’insieme delle pagine a gratificarti . Lo stesso processo avviene con la musica classica o con il jazz: i brani che ti danno di più sono quelli che al primo approccio si presentano difficili. Poi ascolti, ascolti, ascolti e riesci a condividere i suoni”.


 

Immagino dunque che neanche ai suoi figli ha consigliato di lere?
“No, però loro sono persone acculturate e amano gli autori contemporanei. Invece io li conosco poco, preferisco i classici, anche se ho fatto un’eccezione per Daniele Del Giudice, che apprezzo molto”.
E quali scrittori l’hanno emozionata di più?
“Faulkner mi ha davvero folgorato. Poi i russi: Dostoevsk i, Tolstoi… i considero dissuasivi”.
Che vuol dire?
“Che chi affronta per esempio Guerra e Pace non può non chiedersi come sia stato possibile realizzarlo. E’ un’opera così complessa che sembra impossibile possa essere entrata tutta in una sola mente”.
Lei ha conosciuto Pasolini, con il quale ha sceneggiato Salò o le 120 giornate di Sodoma. Un intellettuale dalla cultura sterminata.
“Il Pasolini che ho visto io era il Pierpaolo quotidiano, a casa sua con la madre, Sergio Citti, la nipote: in un interno piccolo borghese, senza compiacimenti. Anche se la cosa che stavamo scrivendo, appunto Le 120 giornate di Sodoma, era terribile, atroce. Io ho forzato molto me stesso in quell’impegno, anche se ero sedotto dalla collaborazione con Pasolini”.

Ma poi se ne è pentito?
“No, anche se ho visto soltanto un pezzo del film, poi sono uscito dalla sala. In quella pellicola c’è qualcosa di mortuario, per questo non riesco ha guardarlo. Però il rapporto con Pasolini è stato bello. Lui si mostrava molto paterno nei miei riguardi. Mi trovavo in un passaggio difficile della mia vita, egli mi incluse nel trio – io, lui e Citti appunto – e mi aiutò a traghettare quel periodo duro”.
Quale altra amicizia con scrittori?
“Claudio Magris. Un legame felice, gli faccio leggere le mie cose. Cominciò così: la moglie, Marisa Madieri, si è cimentata con la storia del loro matrimonio. Attraverso quelle pagine capii Magris. Gli scrissi, ci incontrammo e da lì è cominciata l’intesa”.

E quali scrittori avrebbe voluto conoscere?
“Non Alberto Moravia, perché non mi ha mai incuriosito. Sì invece Carlo Emilio Gadda, persona davvero suggestiva e sfaccettata”.

Tra i lavori per la tv del prolifico Pupi Avati anche una serie ispirata al Vangelo.
“Sì, una compilation di film tv, come si dice, ispirati al Vangelo. Ambientato nel presente però. Il fil rouge è come sia necessario oggi, in quale modo vada vissuto, come instaurare un rapporto con gli altri, intesi come fratelli. E’ già andato in onda Le nozze di Laura che rimanda alle nozze di Cana. Altri due episodi, girati tra Pisa e Bologna e in attesa del via della Rai per la trasmissione che avverrà entro il 2016, sono ispirati al perdono e alla misericordia”.

E quale lavoro vorrebbe realizzare per il piccolo schermo?
“Un progetto ambizioso che si ricollega a quanto le ho detto sulla complessità disarmante di certe opere letterarie. Parlo di quella di Dante. Vede, io sono un dantista, posseggo un numero enorme di testi sull’autore della Commedia. Ma constato che la vita di Dante non è per niente chiara. Si sa che amò Beatrice, che partecipò alle lotte politiche, che finì in esilio. Niente di più. Addirittura alcuni anni fa si inscenò un processo per capire le ragioni per le quali fu condannato al rogo e al taglio della testa. Condanna inattuata, e derivata dall’accusa di baratteria, vale a dire di corruzione di pubblico ufficiale. Ne parla anche nel poema, spedendo all’Inferno e al Purgatorio suoi nemici. Ecco, sogno di raccontare la vita di Dante attraverso la biografia che ne scrisse il Boccaccio, il quale si recò a Ravenna per risarcire la figlia dell’Alighieri, Antonia, che si era fatta monaca col nome di Sorella Beatrice, ed effettuò molte ricerche sul Sommo Poeta. Un uomo tanto complesso e fondamentale per la nostra civiltà che mi sembra doveroso che la Rai, usa a realizzare biopic su tanti personaggi non solo della storia ma della cronaca, se ne faccia carico”.

Vip e letteratura, Pippo Baudo: io folgorato da 1984 di Orwell
Pippo Baudo nel 2016 è stato protagonista di serate trionfali. Tra le altre, in tv, una sul palco del Teatro Sistina di Roma, dove ha condotto insieme con Lorella Cuccarini uno show benefico, a favore di “Un respiro per la vita”, progetto per la prevenzione del tumore ai polmoni. Con Superpippo ospiti capaci di entusiasmare la platea, da Al Bano alla coppia D’Alessio-Tatangelo, a Peppino di Capri, a Rita Dalla Chiesa.
“Artisti con i quali ho stretto una felice amicizia, consolidata da anni di collaborazione sul piccolo schermo. Ma al Sistina siamo stati lontani dalle logiche televisive”, spiega.
Però il decano dei conduttori televisivi, lo showman, lo scopritore di talenti (come appunto la Cuccarini), il recordman del Festival di Sanremo (condotto finora per 13 volte), il pianista e l’esperto di teatro (ha diretto lo Stabile di Catania) è sempre stato anche un lettore forte. E mai come in questi anni. “Mi chiedono spesso di presentare libri - mi dice - e lo faccio molto volentieri. Uno degli incontri del 2016 si è tenuto al Salone del Libro di Torino. Ho parlato dell’ultima opera di Walter Veltroni, Ciao, dedicata al padre morto quando lui aveva un anno. Pagine dense di sentimenti. Anche a Domenica in presentavo un libro a settimana. Successe con Oriana Fallaci per Un uomo. Fui l’unico a farle un’intervista. E ne uscì un ritratto forte del suo compagno, Panagulis. Ma ricordo anche con piacere l’incontro con il grande storico Rosario Romeo, e quello con la figlia di Nenni venuta da Parigi in occasione della pubblicazione dei Diari del padre. La mia trasmissione conteneva un vero e proprio rotocalco culturale: libri, musica, teatro, cinema…Andavo a vedere ogni spettacolo del quale mi occupavo, con grande soddisfazione”.
Ma il Pippo appassionato lettore quando è nato?
“Da bambino e grazie a mio padre. Era avvocato e amava la cultura a 360 gradi. Era stato allievo di don Sturzo, il prete liberale, insieme con Scelba. Possedeva l’enciclopedia Treccani e ne leggeva cinque pagine al giorno. Mi avvicinò ai libri molto presto. Non tanto alle favole, ma a titoli più impegnativi, che mi leggeva e mi spiegava, aprendomi gli occhi sulle svariate situazioni esistenziali, sui nodi della realtà quotidiana. Ecco il Verga di Mastro Don Gesualdo, ecco Jonathan Swift dei Viaggi di Gulliver. Un libro, quest’ultimo, che gli permise di darmi un insegnamento morale: un uomo che si crede potente come un gigante in fin dei conti non è niente di fronte a intelligenti e minuscoli lillipuziani. Anche sulla storia della letteratura italiana volle dire la sua: non gli piacevano i miei libri di testo, volle che mi formassi sul De Sanctis, il critico che inventò la storia letteraria. Un tomo difficile, ma che non avrei dimenticato più, l’Arcadia, il Settecento, i grandi romanzi del XIX secolo, la poesia dal Dolce Stil Novo al Carducci…, i Promessi Sposi, commentati in famiglia da mio padre, identificando i novelli don Abbondio e don Rodrigo tra i nostri compaesani…”.
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Diventato adulto, quale il suo libro preferito?
“Diciamo quello che mi ha folgorato, sconvolto. E’ 1984, il capolavoro di George Orwell. Un comunista che scrive un libro anticomunista…Ho capito davvero molto sui nodi ideologici del marxismo, ho studiato il personaggio, e le vicende di Churchill e Stalin. L’invenzione letteraria per raccontare la Storia, un libro fondamentale”.
Cinema e letteratura a quali legami l’hanno condotta?
“A una collaborazione entusiasmante con Luchino Visconti. Stava girando Il Gattopardo dal romanzo rivelazione di Tomasi di Lampedusa e aveva bisogno di aiuto nella fase del doppiaggio per forgiare una traduzione in siciliano dei dialoghi tra i vari personaggi. Infatti Burt Lancaster masticava le parole senza liberarsi dell’accento americano, Delon usava il francese, la Cardinale non poteva proporsi con la sua voce roca. Insomma, bisognava adattare al labiale i termini siciliani più consonanti, oltretutto una lingua ottocentesca. Stetti per due mesi incollato a Luchino con l’ausilio di un vocabolario specialistico, vidi il film un’infinità di volte”.
Anche di Montanelli è stato grande amico.
“Direi di più, ebbi con lui un rapporto filiale. Era un carattere non facile, alternava momenti di euforia ad altri di depressione. Io riuscivo a stargli accanto, conquistando la sua fiducia. Mi metteva a conoscenza di suoi problemi personali. Riuscii a ritrovare il suo primo libro, Addio Vanda, su una prostituta di Messina, che credeva di avere irrimediabilmente perduto. Anche di Nantas Salvalaggio fui amico. Mi faceva leggere le bozze dei suoi romanzi, aspettava il mio giudizio prima dell’ok, si stampi”.
Ma lei, Baudo, ha mai pensato di scrivere un libro?
“Mi sollecitano continuamente, specialmente negli ultimi tempi. E credo che potrei realizzare un’opera interessante, tanti i personaggi che ho incontrato, le esperienze vissute. Ma non lo farò mai. Sa perché? Perché quando in libreria vedo le pile di volumi spesso inutili, insignificanti, mi prende la delusione”.
Non ama i contemporanei?
“Diciamo che tutti sono figli del tempo che vivono. E quello attuale non è esaltante, anche dal punto di vista dei valori. Ecco, c’è un Ken Follett tra gli autori di rilievo oggi. Ma alla fine i suoi e quelli degli altri sono titoli che si sfogliano, però non vale la pena di sottolinearli. Allora preferisco il recupero dei grandi del passato. Leopardi, per esempio. Ho visitato Recanati, conosciuto i suoi discendenti, visto con ammirazione il film di Martone e l’interpretazione che ha fatto del Giovane favoloso Elio Germano. E ho applaudito al Teatro Vittoria Corrado Augias, che ha messo in scena testi leopardiani. Insomma, sento di voler approfondire questo gigante della nostra letteratura perché mi sembra che in fondo non si sappia tutto di lui”.
Dove ha sistemato i suoi libri?
“In tre librerie. Una nella casa che abito a Roma, in via della Vite, l’altra nel mio ufficio in via Giulia e una nella villa di Militello, nella mia Sicilia. Lì ci sono i libri paterni e quelli di mio figlio, la mia tesi di laurea…insomma, il mio passato”.
Come lo vede?
“Non ho particolari rancori, né malinconie. Certo, ci sono cose che non ho fatto, e so che avrei potuto fare di più. Ma il bilancio è positivo, anche perché ho conosciuto tante belle persone”.
Che cosa pensa dell’Italia nella quale quasi ogni mattina emerge un episodio di corruzione tanto che Davigo ha scagliato tempo fa un anatema contro i corrotti che resistono e che non si vergognano?
“Guardi, io leggo i quotidiani con cura ogni giorno, per ore. Certo, Davigo non poteva venir meno alla sua funzione di castigatore. Ma non si possono fare generiche accuse nei confronti di tutti. Mi ha fatto ripensare a una gag di Grillo durante un’edizione di Fantastico. Rappresentanti del governo erano in viaggio in Cina. Andreotti era andato solo con la moglie, Craxi invece si era portato appresso la schiera dei suoi collaboratori. Beppe fece la battuta: ma se tutti i socialisti sono in Cina, in Italia chi ruba? Io mi arrabbiai. Bastava che ci fosse un onesto tra i socialisti, osservai, che quella boutade si rivelasse ingiusta e spuntata. Con questo voglio dire che il rapporto conflittuale tra magistratura e politica ce lo portiamo appresso dall’Unità d’Italia e mi pare evidente che la magistratura voglia dettare l’agenda politica. Però, se il Paese deve andare avanti, bisogna che alla fine trovino un modus vivendi”.
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Vip e letteratura, Lorena Bianchetti, ecco i miei libri del cuore

Lorena Bianchetti, jeune fille prodige della televisione - negli anni Novanta debutto sul piccolo schermo quando era under 20 con Piacere Raiuno, ruolo di presentatrice subito dopo con Italia in bicicletta - mette il sentimento in tutto quello che fa. Di “A sua immagine”, la trasmissione a lungo in onda su Rai Uno il sabato pomeriggio e la domenica mattina, dice che “fa parte del mio cuore”. E spiega: “Per nove anni ho avuto il piacere di condurla, sempre con lo stesso entusiasmo. Anche se ad altre trasmissioni mi sono legata a lungo: cinque anni a Italia sul 2, tre a Rai International”.
Anche nella lettura la bruna Lorena, romana, giornalista e laureata in Lingue e letterature straniere alla Sapienza, mette tanta parte di sé. Ha disegnato personalmente la sua libreria che occupa un’intera parete, sistemando con rigore, come in una biblioteca, i volumi secondo un preciso criterio archivistico, ogni riquadro gli autori di un Paese. Una scaletta sempre a disposizione la aiuta a tirarli fuori dagli scaffali. “Vede, io i libri li adoro anche come oggetto. E li vivo: ne sono gelosa, li sottolineo, aggiungo note a margine di pagina, li imbottisco di foglietti con i miei appunti”.
Quando legge?
“La mattina. La sera sono troppo stanca e sarebbe inutile. Perché immergermi in un libro significa per me allenare la mente e il cuore. Non è passatempo, è ossigeno. Oltre ad essere un aiuto per il mio lavoro”.
Come?
“In base al tema scelto per la puntata settimanale, invito in studio l’autore di un volume che mi permette di approfondire l’argomento. Tra questi Tornielli, Messori, Vittorino Andreoli del quale sono una fan al punto di essere entrata in contatto con lui”.


Perché?
“Sono appassionata di psicologia, una scienza del resto importante per un programma come A sua immagine. Per esempio Scusa se non ti chiamo più amore di Michela Pensavalli e Tonino Cantelmi analizza le cause delle scelte di ciascuno di noi a partire dall’infanzia. Quanto ad Andreoli, il suo L’uomo di vetro mi ha insegnato ad accettare le mie fragilità, a farmele valutare come ricchezza”.

E nella narrativa chi mette nell’Olimpo?
“Molti autori francesi. Stendhal, che è stato oggetto della mia tesi di laurea, è quello che preferisco. Il rosso e il nero, La Certosa di Parma sanno indagare in tutte le sfaccettature dell’animo, con una maestria che è da moderno sceneggiatore. Ma adoro anche Italo Calvino con la sua Trilogia e gli spagnoli de Rojas, la Vita di Lazzarillo De Tormes d’autore anonimo. E Voltaire, e Gide e i testi dedicati al cinema come alcuni del regista Bertrand Tavernier”.

I primi libri più apprezzati?
“Storia totale dell’arte. Comprato durante gli anni del liceo su consiglio dell’insegnante”.
Vorrebbe firmarlo lei, in libro?
“Ho cominciato a scriverne uno. Poi ho interrotto, mi manca il tempo. L’argomento ovviamente è top secret perché è un progetto che potrei non portare mai a termine. Recentemente Bernardo, mio marito, mi ha incitato a riprendere. Ma la scrittura è una cosa seria, richiede impegno e concentrazione che per ora non posso dedicarle. Un giorno, chissà?”

 

Vip e letteratura, Cesara Buonamici: la mia passione per Montalbano e Karen Blixen
Cesara Buonamici è una lady dell’informazione televisiva. Il suo elegantissimo “mezzobusto” compare sulle frequenze del Biscione fin dalla nascita del tiggì di Canale 5, nel 1992.
Insomma, è un volto-simbolo del telegiornale del quale è anche vicedirettrice, al punto che nella miniserie tv “Uno bianca” è comparsa interpretando sé stessa. Il savoir faire, unito alla professionalità che ha acquisito cominciando la professione giovanissima, le deriva dal blasone di famiglia. Nobile il padre, Cesare, che l’ha cresciuta nella villa di famiglia, a Fiesole.
L’attenzione alla bellezza del paesaggio, all’armonia della natura viene assecondata anche da una sua attività collaterale di imprenditrice, insieme con la madre e il fratello, nel settore dell’agricoltura biologica. E la letteratura quanto entra nella sua vita? Ecco che cosa ci ha risposto.

Signora Buonamici, che cosa legge? Narrativa o saggistica, poesia o inchieste giornalistiche, i cosiddetti instant book?
“Visto che con il lavoro che faccio passo il tempo a leggere di fatti, di inchieste e simili, quando posso tendo a dedicarmi a romanzi, intrecci di fantasia poiché della realtà mi nutro a ogni ora”.

E quando legge, in quali momenti della giornata, o della settimana? In vacanza o prima di addormentarsi?
“Risposta facile: quando posso e non stramazzo per il sonno”.

Quali sono i libri sul suo comodino?
“Un Montalbano fa sempre comodo per alleggerire la giornata”.


In questo periodo a quale libro si sta dedicando?
“Ammetto che sembra una risposta di altri tempi. Ma ho ritrovato un libercolo-regalo anni fa da una rivista. Che non avevo letto. E si intitola: “Lo strano caso del dottor Jekyll e mr. Hyde”, il capolavoro di Stevenson”.
E da ragazza?
“Mi intrigavano soprattutto libri di avventura, molto meno i racconti romantici”.
Quale il libro che le è piaciuto di più, quello diciamo nel cuore? “Contraddicendo quel che ho detto un attimo fa, ricordo con piacere La mia Africa di Karen Blixen”.
Frequentemente la televisione, anche in trasmissioni non specifiche, lancia un libro. Pensa che avvenga troppo spesso? E che avere la ribalta tv sia un privilegio per un autore a scapito di altri che non raggiungono questo media?
“E’ vero, talvolta la presentazione di libri si fa ossessiva. Certo chi va in televisione ha un bel vantaggio, ma proprio bello…”.
Lei ha ottenuto il Premio Alghero per Letteratura e Giornalismo e ha scritto per Polistampa “La mi’ Firenze”. Com’è stato il suo rapporto con l’editoria? “Facile. In fondo non avevo da presentare opere complesse. E’ stato un divertimento soprattutto”.
Ha nel cassetto altri libri?
“Non al momento. Non me lo permettono i miei ritmi di lavoro. Un domani si vedrà…”.
Che cosa pensa della fusione Mondadori-Rizzoli?
“Se migliora la forza culturale italiana, va bene, è un’operazione giusta”.
Dove tiene i suoi volumi, com’è la sua libreria?
“I libri, per loro natura, vanno ovunque. Difficile tenerli sempre ristretti sugli scaffali”.


Vip e Letteratura, Buzzanca e la delusione che gli procurò Proust

La filmografia di Buzzanca è più lunga di un rosario: novanta film per il grande schermo, dodici per la televisione, ma qui i set si decuplicano, perché l’attore siciliano, anzi il mattatore, è stato protagonista di fortunate serie, come l’ultima, “Il restauratore”, andata in onda per tre stagioni, dal 2012 al 2014. Ma Buzzanca Lando, di Palermo, classe 1935, figlio d’arte (erano attori il padre e lo zio) si è formato sul palcoscenico teatrale, in quella blasonata Accademia Sharoff, della quale adesso è presidente onorario. E dell’attore teatrale ha la statura morale e il carisma, che gli hanno per esempio suggerito, lui che si era affermato sul grande schermo con commedie nelle quali sosteneva spesso il ruolo di maschio siculo, di rifiutare i filmetti scollacciati e volgari degli anni Ottanta. “Tette e peti alla Alvaro Vitali non facevano per me”, mi dice con rinnovata saggezza. E ricorda un suo gran rifiuto: “Mi chiesero di fare Adamo ed Eva. Figurarsi, io con la foglia di fico…Meglio il teatro, pensai, e così feci, tornando sul palcoscenico dopo tanto cinema”.
L’aneddoto lo tira fuori, ridacchiando, durante una nostra conversazione dedicata alle sue passioni letterarie. Insomma, sul Buzzanca lettore prima che attore. Che cosa predilige? “Ecco, Pirandello è nel mio olimpo. Quando affrontai il personaggio di Liolà, un contadino agrigentino, ebbi un successo incredibile. Era estate e riempivamo le piazze nelle quali lo portavamo, oltre cinquemila persone a ogni replica en plein air. Ma c’è n’è un altro, di autore, in cima alla mia top”.

Chi, un altro siciliano?
“No, un inglese, William Shakespeare. Sul quale però ho una mia idea. Secondo me era italiano, come qualcuno ipotizza. Il suo cognome italiano sarebbe stato Crollalanza, del quale Shakespeare (shake uguale scrolla, speare uguale lancia) sarebbe la traduzione in inglese. Poteva appartenere a una famiglia fuoriuscita dall’Italia e approdata Oltremanica. Magari era nato in Sicilia, o in Veneto. Dipinge città e paesi italiani con grande perizia, ambienta sue opere in Laguna, come Il mercante di Venezia, o Otello. E a Verona vivono Romeo e Giulietta…”.


Ma è siciliano un altro autore al quale deve il suo successo sul grande schermo. Vitaliano Brancati. Nel 1967 lei è stato il protagonista di “Don Giovanni in Sicilia”, diretto da Alberto Lattuada.
“Ecco, Brancati. Disincantato e geniale. Aveva il talento dei siciliani, che non per niente sono stati per millenni al centro della cultura, gettonatissimi in ogni epoca”.
Nella nostra il più famoso è Andrea Camilleri.
“Lo merita. Con quella sua particolare storia, l’exploit di romanziere quando aveva superato i sessanta anni. Ha rilanciato e ricreato una lingua, nella quale io, palermitano, mi riconosco.
Prenda per esempio la parola “acchianare”, vuol dire salire, specie quando si è in affanno, in ritardo, come quando si deve montare su una nave. Oppure i celeberrimi “cabbasisi”. Me lo ricordo mio nonno, quando ammoniva me, ragazzino pestifero: Gigi (mi chiamavano così) smettila, non rompere i cabbasisi…E poi quel “taliare”, che non significa vedere, ma il più pregnante guardare. Camilleri è un autore che deve entrare nelle enciclopedie”.

Ma da bambino Buzzanca che cosa leggeva?
“Salgari e gli altri classici di avventure esotiche. Quando ero alle medie, facevo finta di avere la febbre per rimanere a letto a leggere Le tigri di Mompracem o Ventimila leghe sotto i mari di Verne. Però mi piaceva anche il lacrimoso Cuore di De Amicis”.

E ora che cosa sta leggendo?
“Una biografia di Marcel Proust. Nei miei primi anni all’Accademia Sharoff mi sciroppai con entusiasmo tutti e sette i libri della Recherche. Ma il personaggio Proust mi arrecò una grande delusione. Mi ero innamorato della giovinetta della Recherche, poi seppi che l’autore francese era omossessuale e che la fanciulla, Albertine, era in realtà un ragazzo. Ci rimasi davvero male”.
Ama altri autori stranieri?
“Mi colpì molto On the road di Jack Kerouac. Lo feci leggere agli allievi dell’Accademia Sharoff. Ma il lavoro successivo dell’americano, I vagabondi del Dharma, e tutto il resto che scrisse, non furono mai all’altezza del primo. Però il fascino di On the road mi portò a frequentare con interesse la letteratura americana. Così come Moliere è stato la mia porta d’accesso alla letteratura francese”.
Torniamo agli italiani. Lei è stato tra gli interpreti de I vicerè, diretto nel 2007 da Roberto Faenza e tratto da un altro nostro capolavoro, l’omonimo romanzo meridionalista di Federico De Roberto. “Il mio era il ruolo del principe Giacomo Uzeda, discendente a Catania dei Vicerè spagnoli. Un personaggio disegnato tanto bene nel romanzo che mi è stato facile entrarvi. Funziona sempre così. Se non hai un testo, una scrittura che ti sorregge, che cosa puoi realizzare tu, attore? Per questo motivo molte volte ho fatto da pungolo agli sceneggiatori. E’ successo ad esempio per il banchiere che dovevo interpretare nello sceneggiato in due puntate Lo scandalo della Banca Romana. Dissi agli autori: nel mio personaggio c’è sì il banchiere ma non c’è l’uomo. Loro si sono guardati in faccia e hanno accondisceso. Il carattere è stato approfondito e la miniserie è stata un successo”.

Davvero un successo, maestro Buzzanca. Che dovrebbe essere riproposto in televisione, a memento per tutti gli italiani, ora che tanti concittadini sono sul lastrico, di nuovo per colpa di disinvolti e poco controllati istituti di credito. La Storia si ripete. Come in un romanzo d’appendice.

Vip e letteratura, Roberta Capua: io affascinata da Peter Cameron
Ha divorato la saga di Harry Potter, legge di notte con l’iPad che illumina le pagine poggiato sul petto, macina almeno un libro al mese secondo le “regole” del gruppo di lettura al quale partecipa a Bologna, sua città di residenza da quando si è sposata con Stefano Cassoli.
Roberta Capua, la Miss Italia del 1986 poi divenuta indossatrice e conduttrice di fortunate trasmissioni televisive (Unomattina, Buona Domenica, I fatti vostri, Sei un mito) è davvero una lettrice “forte”, come si definiscono le persone appassionate di libri. E si racconta in questa propria predilezione con la medesima levità con la quale ha “giocato” con Gerry Scotti in “Caduta libera”, il game show di Canale 5.
Roberta Capua, mi parli del suo gruppo di lettura.
“Si chiama Books and pies perché le componenti, tutte donne, quando una volta al mese si riuniscono non solo dibattono sul romanzo che hanno letto ma ciascuna porta un dolcetto, una torta. Mi sono iscritta anni fa su consiglio di un’amica ed è molto stimolante: non soltanto perché affronto autori per me ignoti ma perché lo scambio di opinioni con le altre iscritte mi fa cogliere del volume che ci siamo proposte di leggere aspetti che mi erano sfuggiti. Così lo apprezzo meglio”.

Quando legge?
“Durante un viaggio e molto di notte. Sa, sono insonne…Mi aiuta in questo il tablet. Permette di non appesantire di volumi la valigia specie se si va in aereo e, quando si sta a letto, è leggero da tenere in mano. Però se un titolo mi piace molto, lo compro anche in edizione cartacea”.

Com’è la sua libreria?
“Alta dal pavimento al soffitto e intasata di volumi, in verticale, in orizzontale, incastrati. Quando anni fa traslocai a Bologna aprii gli scatoloni contenenti i libri e li divisi non tanto per autori o argomenti, ma, come dire?, per sentimenti. Poi, negli anni l’ordine è stato sopraffatto dalla confusione. Ma va bene così, è una libreria vissuta”.
Quale genere preferisce?
“I romanzi, soprattutto quelli ambientati in un periodo storico riconoscibile. Però amo anche i libri non impegnati, quelli cosiddetti d’evasione. Anzi, ho una mia teoria: anche un libro brutto ti lascia qualcosa, quantomeno la consapevolezza di riconoscere un libro bello. Come la metti la metti, la lettura insegna sempre…”.


Quale titolo è ora sul suo comodino?
“La lettrice scomparsa di Fabio Stassi, con al centro un professore di lettere precario che apre in via Merulana, a Roma, uno studio di counselor appunto di libri. Me lo hanno consigliato, lo sto valutando”.
E quello che preferisce in assoluto?
“Oscar e la dama in rosa di Eric-Emmanuel Schmitt. Il protagonista è un bimbo malato. Un libro triste, ma l’ho letto e riletto, l’ho regalato, consigliato, proposto al gruppo di lettura. Anche La cena di Herman Koch ha suscitato tra noi lettrici un dibattito acceso: propone un quesito morale sul quale tutte avevano da dire , ovvero se una madre e un padre devono denunciare il figlio delinquente, per quanto appena quindicenne”.
Al suo bambino, Leonardo, consiglia qualche titolo?
“Evito, perché la scuola gliene dà già tanti. Non voglio che la lettura diventi per lui un obbligo insopportabile. Quando sarà più grande chissà che cosa proporrà la letteratura per teenager, mica Harry Potter che io ho divorato, pur non essendo un’adolescente. Ma sicuramente gli dirò di affrontare Wonder di Palácio, la storia di un ragazzino vittima di una malattia che gli deforma il volto e deve farsi accettare dagli altri. È l’elogio della gentilezza e della fragilità”.
Le è capitato di conoscere qualche autore?
“Sì e l’incontro è stato talvolta illuminante, talaltra deludente. Mi ha affascinato Peter Cameron, che ha confermato l’idea lusinghiera che già avevo di lui. È un uomo semplice e insieme carismatico”.
Ha mai pensato di scrivere?
“No. Per farlo ci vuole talento, e io quel talento non ce l’ho. Nonostante oggi si mettano a scrivere tutti”.
Compra i volumi che vengono presentati in tivù?
“A seconda delle trasmissioni nelle quali passano. In alcuni casi non mi fido, in altri, come il programma di Fabio Fazio, che ospita autori poco inflazionati, mi soffermo sul titolo proposto. Perché comunque leggere è un’esperienza per la vita”.

Vip e letteratura, Circiello e la figura dell'intellettuale gastronomo

A 38 anni Alessandro Circiello, romano e romanista, ha un curriculum da leccarsi i baffi, tanto per rimanere nel personaggio, che è una star della cucina. E infatti è chef (premiato come Miglior Cuoco dell’anno 2010, con il Green Economy l’anno dopo e Stelle del Sud nel 2013) ma anche volto tv, tra l’altro su Rai Gulp con Ricette a colori e Ricette per ragazzi. Non basta. É pure insegnante nel campo alla Luiss, consulente del Ministero dell’Ambiente, membro della Commissione Nutrizione e Alimentazione del Ministero della Salute.
La chiave di tanto successo anche mediatico (sul piccolo schermo è ospite fisso nelle puntate di alimentazione di Porta a Porta, dopo essere stato volto di Mediaset e di Sky)?
La sua specializzazione in cucina salutista, il suo impegno in campagne per una corretta e sana alimentazione, l’attenzione ai prodotti naturali e di stagione. In più, un sorriso franco e una figura svelta e snella, che aggiunge fascino alla sua candida divisa.
Circiello, che rapporto ha con i libri?
“Intenso, perché c’è necessità di leggere sull’argomento cucina, che si rinnova continuamente”.
Però immagino abbia cominciato con i classici.
“Prima di tutto con Pellegrino Artusi, il fondatore, a mio dire, della cucina europea. E di una culinaria che unisce scienza e sapienza. Il suo trattato si intitola La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene. Egli testava, sperimentava ogni sua ricetta”.

Gli altri autori nel suo Olimpo?
“Carnacina, ovviamente. Poi coloro che seguono la rivoluzione degli anni Settanta, la Nouvelle Cousine. Ecco Paul Bocuse, ecco, tornando nell’Ottocento, Brillat Savarin, politico, filosofo ed esperto di cucina tanto da fondare la figura dell’intellettuale gastronomo e da legare il suo nome al celebre dolce…”


Già, anche il Italia abbiamo un filosofo gourmet ed esperto di cucina, Tullio Gregory… “Infatti. La cucina è scienza, pensiero, chimica, fisica. Indaga le reazioni che si determinano durante il processo di cottura, e che cosa invece avviene affrontando un ingrediente senza cuocerlo. Autore
importante in questo senso è Hervé This, professore all’università di Parigi, considerato il padre della gastronomia molecolare. Testi americani hanno inoltre analizzato la reazione di Maillard, ovvero i fenomeni che durante la cottura avvengono a seguito dell’interazione di zuccheri e proteine, evidente per esempio nella crosta del pane. Oltreoceano e oltre Manica sono molti i college nei quali si approfondiscono questi temi e si pubblicano i risultati delle ricerche. A differenza dell’Italia”.

Ma lei è un divulgatore del mangiar sano anche attraverso i suoi libri.
“Ho sempre avuto un unico editore, Eri, che mi ha sollecitato a pubblicare quanto desunto dalla mia esperienza e dalla mie trasmissioni. Grossomodo firmo un volume l’anno. Sono usciti di recente Ricette a Colori e Ricette per ragazzi, emanazione dei miei programmi per i più giovani. Che cosa contengono queste pagine? Rispondono alla necessità di far capire ai ragazzi cosa mangiano quando addentano un panino. Oppure, di spiegargli la stagionalità degli alimenti in modo che valutino la presenza sui banchi del supermercato, per esempio in pieno inverno, di ortaggi primaverili. Di spiegare loro che le uova non nascono nel cartone nel quale vengono messe in vendita…”.
Alessandro, lei quando legge?
“Di notte, il resto della mia giornata è così intenso che non me lo posso permettere se non a tardissima ora”. E che cosa mette sul suo comodino, oltre ai libri che fanno parte del mestiere? “Libri di arte, che talvolta mi rimandano al lavoro di cuoco. Sa che Toulouse Lautrec, di recente in mostra a Roma, si è interessato e ha scritto di cibo?”
Altre letture?
“L’attualità, le inchieste. E poi tutti i libri di Bruno Vespa. Perfetti appunto di notte, dopo Porta a Porta…”
E che ne pensa dell’enorme offerta di libri?
“L’editoria è come la cucina: tutti osano. Ma vendere è un’altra cosa, specie oggi che si registra l’invasione degli e-book”.

Anche il cinema rende gli chef protagonisti. Le è piaciuto Il sapore del successo, che appunto narra di un cuoco geniale ma isterico?
“É una pellicola che rispecchia certe realtà, lo stress, il ritmo di lavoro serrato in cucina, le difficoltà per affermarsi, la fatica di non concedersi mai una sosta, di lavorare ogni giorno dell’anno. Si arriva a una tensione tale che a qualcuno capita di andare in crisi. Anzi, in Francia è accaduto anche di peggio: un cuoco Tre Stelle Michelin si è suicidato per un flop professionale. Certo, sono situazioni limite, ma possono capitare”.
Lei si rilassa forse con le vicissitudini della Roma, la sua squadra. A proposito, che ne dice di Totti e Spalletti?
“Totti è una bandiera, da anni e in tanti momenti di difficoltà della società, sorreggendola anche con il marketing. Deve dire ciò che pensa, però anche Spalletti deve farlo. La cosa migliore è che facciano tandem”.
Magari a tavola, coccolati da un provetto chef. 18

Vip e letteratura, Rita Dalla Chiesa: quelle mie chiacchierate con Alberto Bevilacqua
Rita Dalla Chiesa possiede le più originali e identitarie librerie che abbia sentito descrivere in questo mio tour attraverso le passioni letterarie dei volti della tv e della radio. I libri li sistema su grandi ceste ricolme di sassi di mare, “pietre vere - ci tiene a precisare - che sono state nell’acqua”. “Su queste ceste, dentro, ma accastatati anche sopra, i miei adorati volumi sul mare: storie, percorsi, fotografie. Mai potrei fare un trasloco…Con essi viaggio nei posti più sperduti del mondo e anticipo con la mente le vacanze che preferisco, quelle in barca a vela”.

Rita Dalla Chiesa ha anche un vero e proprio scaffale. E’ vero lady Forum, la trasmissione Mediaset che ha condotto per due decenni?
“Sì, ce l’ho ed è pieno zeppo, con i libri in doppia fila. Disordinato, mica come quello del mio amico Gianni Togni, che ha sistemato tomi e dischi alla perfezione, attaccando su ogni mensola la lettera iniziale dell’autore esposto. No, la mia libreria è l’opposto. Però se manca una copertina me ne accorgo immediatamente. E poi pile di volumi sono sul comodino, sul trumeau dell’Ottocento. In tutti gli angoli di casa. Perché li conservo tutti, i libri, anche quelli dati come gadget con un giornale o una rivista. Magari non mi interessano, ma non riesco a gettarli, qualcuno ci ha lavorato, penso. E non mi chiedete poi di prestarlo, un mio libro. E’ come pretendere una parte di me. Le pagine sono vissute, sottolineate, evidenziate con le orecchiette. Mi hanno fatto piangere, o incavolare. No, non presto ciò che leggo. Preferisco comprarglielo nuovo, il libro, a chi me ne chiede uno mio”.
Ma insomma, Rita Dalla Chiesa, quali sono i suoi titoli del cuore?
“Quelli di poesia e, come detto, quelli che in qualche modo parlino di mare”.


Poeti, quali?
“I versi d’amore di Hikmet, il grande romantico turco. Me li porto ovunque, in ogni casa vada. Ma anche a Cardarelli sono molto legata”.

E le storie di mare?
“Per esempio i noir mediterranei ambientati a Marsiglia nella trilogia di Jean-Claude Izzo, con la città portuale francese scolpita nei suoi vicoli, nelle sue atmosfere. Proprio l’altro giorno ho comprato un altro volume dello stesso autore, fuori dalla serie. Si intitola Marinai perduti. Mai ha entusiasmato anche La settima onda di Daniel Glattauer, dove un amore finito si rinfocola e dura soltanto attraverso una corrispondenza virtuale, per e-mail. Il titolo si deve alla frase di un famoso ergastolano che vede dalle sbarre il mare e si ripromette si fuggire cavalcando la settima onda, quando arriverà. E’ il seguito di Le ho mai raccontato del vento del nord, nel quale quel legame si allaccia con enorme casualità, solo perché lei invia per sbaglio la sua missiva internet all’indirizzo di lui”.
Che cosa leggeva da bambina e da adolescente?
“I classici Piccole Donne, Incompreso, Il piccolo Lord, I ragazzi della via Paal. E anche i romanzi di Liala, che mi facevano sognare al punto che non ne ho tralasciato uno. Il piccolo principe invece lo affrontato da adulta. In effetti non è un’opera per bambini, se ne capisce il significato quando si è maturi”.
E gli italiani più vicini a oggi?
“Maria Venturi mi piace, anche per lo stile: ha una penna da giornalista, periodi corti, nessuna sbavatura. Apprezzo anche Sveva Casati Modignani, ogni titolo un bestseller. E poi Dacia Maraini, Alberto Moravia. Fanno rivivere un’epoca. Invece non mi piacciono i libri di storia, specie se ambientati nel Medioevo, un periodo che giudico tetro. Non ho mai aperto Il nome della rosa di Eco…”.
Ne ha conosciuti, di scrittori?
“A Milano ho incontrato Zucconi. A Roma Federico Moccia. E Alberto Bevilacqua. Abitava vicino a me e quando uscivo per comprare i giornali lo incontravo casualmente, ci salutavamo e ci fermavamo a parlare su una panchina dei giardinetti. Lui, parmense, mi diceva che ero una classica donna di Parma, per i miei occhi, per la mia bocca. Ed è vero perché i Dalla Chiesa sono appunto originari di lì. Erano minuti molto belli. Altra cosa Pasquale Festa Campanile: divertentissimo con quella sua aria di tombeur de femmes, pronto sempre a fare la corte…”.
Scriverebbe lei?
“Me lo hanno chiesto tante volte, ho sempre rifiutato. Oggi si improvvisa scrittore chiunque, a me non sta bene. La scrittura deve venire da dentro e dentro deve restare, ogni parola, ogni frase. Mi dicono: avresti tanto da narrare…Rispondo: la mia vita è mia, privata. Semmai scriverei sotto falso nome. Anzi, se lei un giorno vedrà esposto in vendita un libro di mare firmato da un autore sconosciuto, beh, pensi che forse è mio”.

Quando prende un volume in mano?
“Nei ritagli di tempo, che sono sempre di meno, perché la vita oggi è tutta una corsa, e poi ogni giorno mi dedico ai giornali, ne sfoglio l’intera mazzetta. Poi capita anche che legga tre libri contemporaneamente: ma allora significa che lo faccio per lavoro. Mai invece mi accontenterei dei tablet: per me un libro è un oggetto vivo, da far palpitare tra le mani. E possibilmente nella concentrazione, nel silenzio che rigenera. Sa che le dico? I momenti più belli per la lettura li passo in barca. A vela”.

Vip e letteratura, Eleonora Daniele: La lentezza di Kundera è il mio libro del cuore
Ha avuto tra i tanti un palco eccezionale, Eleonora Daniele. Quello allestito al Foro Romano per il concerto “Music for Mercm” promosso dal Teatro dell’Opera di Roma e dall’Opera Romana Pellegrinaggi. Un evento per il Giubileo che ha visto cantare artisti di tutto il mo mondo, ospiti di Andrea Bocelli, e la Daniele condurre la serata, trasmessa in diretta su RaiUno.
Un’emozione forte per la bionda Eleonora, abituata a sondare le storie della cronaca, gli eventi, come ha fatto a UnoMattina o ad Estate in Diretta, accanto a Salvo Sottile.
Un’attenzione alle vicende geopolitiche della nostra epoca, come ha testimoniato il suo impegno in “I nostri angeli” con Franco Di Mare. Senza dimenticare la leggerezza di certe sue trasmissioni, come “Ciak si canta”, o la prova d’attrice in “Un posto al sole”.
Ma Eleonora Daniele che lettrice è?
“Una lettrice costante. Non più di narrativa ma di attualità, di sociologia, di storia. Me lo impongono i miei impegni lavorativi. Ho bisogno di conoscere come sono nati i conflitti nelle aree più a rischio del mondo. Di comprendere i meccanismi dell’animo umano e come si sviluppa la conoscenza. Di tornare al passato, per mettere a fuoco l’oggi. Sto affrontando un libro sulla Guerra Fredda, ne ho letti altri sull’Intifada, sulla Guerra del Golfo, sull’antagonismo Iran-Iraq. Il terrorismo dei giorni nostri affonda in quei fatti. Molti sono volumi ormai introvabili”.

E lei dove li ha scovati?
“Nelle librerie di Roma specializzate in vecchie edizioni. Ne frequento soprattutto due, una dietro al Pantheon, l’altra in Corso Rinascimento. Trovo stampe di opere d’antan, ristampe di volumi antichi. Per esempio un testo del 1934 dell’Istituto di Studi Psichici. Mi ha intrigato. Sa, vorrei iscrivermi a psicologia. Un altro è del dottor Eugene Osty, già direttore dell’Istituto di Metafisica Internazionale di Parigi, dedicato alla trasmissione del pensiero. Tra le pagine ho trovato una banconota da mille lire…Dagli scaffali del negozio di Corso Rinascimento ho tratto la Storia del dopoguerra di Antonio Gambino e L’ombra rossa di Enzo Bettiza, un’autobiografia professionale. Insieme con la riproduzione per il ventennale dell’Alchimista di Paulo Coelho. Tutte copertine che mi affascinano. Perché tengo molto in conto l’oggetto-libro”.

Dove ha sistemato i suoi volumi? Ne ha qualcuno sul comodino?
“Io veramente il comodino non ce l’ho. Quanto ai libri, ne posseggo talmente tanti che li ho disseminati in tutta la mia casa. Nella libreria vera e propria li divido a seconda del colore. Ho un’attenzione particolare all’estetica, insieme con l’etica. Per me il libro è un tempio, vi stabilisco un rapporto mistico, è un oggetto del quale percepisco la profondità. E’ esso stesso parte del racconto, fornisce dettagli, rappresenta il carattere che possiedi. Tenerlo in mano è un’emozione. In libreria potrei stare per ore, non vado solo per comprare ma per viverli, i libri. E il mio modo di sistemarli in casa, a seconda del package, del colore delle copertine, riflette questa simbiosi. Infatti riesco a trovare perfettamente ogni titolo nel momento che mi serve”.
Da adolescente leggeva?
“Molto. Tutto Italo Calvino, La coscienza di Zeno ma anche, anticipando forse il mio lavoro sulla cronaca, Le confessioni di Tommaso Buscetta. Da sempre ho fatto della lettura non un passatempo ma una ricerca, un viaggio nella profondità dell’essere”.

Allora, mi dica qual è il suo libro del cuore.
“La lentezza di Kundera. E’ vero, amo molto anche L’insostenibile leggerezza dell’essere, che è stato uno spartiacque della mia vita, anche per una sorta di educazione alla sessualità attraverso il filtro della letteratura. Ricorda la scena nella quale lei aspetta lui con la bombetta? Beh, secondo me l’umanità non può fare a meno di un autore come Kundera. Ma privilegio La lentezza perché è un’opera poco conosciuta. In un altro versante, quello della saggistica, uno scrittore che mi piace molto è Bauman, il filosofo della cosiddetta paura liquida. Spero di stringergli la mano, un giorno”.

Ma lei ne ha conosciuti, di letterati?
“Alda Merini, Montefoschi, Franco Scaglia. L’incontro con la Merini non lo dimenticherò mai. Aveva le calze tutte rotte ma la forza delle sue parole era opposta alla fragilità dimessa del suo apparire. Una grande impressione mi fece anche Giulio Andreotti. Era una delle mie prime interviste, un tal personaggio mi intimidiva. Però lui rispose a tutte le mie domande, scrutandomi serio. Imperturbabile a tutto quello che lo circondava, la segretaria, lo squillo di telefoni nell’ufficio. Per me una folgorazione”.
Che ne pensa dei passaggi dei libri in tv?
“Un filosofo diceva che in tv non è importante quello che fai ma come lo fai. Se presentare libri costituisce uno spunto alla discussione, allora va bene”.

E allora parliamo di Eleonora Daniele scrittrice.
“Ho firmato nel 2015 Storie vere per Rai Eri. Un’antologia di racconti di vita vissuta, scelti per la loro forza tra quelli che mi ha squadernato la cronaca. Narro tra l’altro di una donna ricca finita a vivere per strada, di un’altra che conduce il padre a Basilea, per farlo morire lì. Il volume ha vinto il Premio Capalbio, dandomi soddisfazione”.
Dunque, replicherà.
“Mi piacerebbe scrivere sull’autismo. Se il tempo me lo permetterà”.
A un bambino che cosa consiglierebbe di leggere?
“Le favole, fin quando può. I piccoli passano troppo in fretta dalle letture fantastiche a quelle crude. Fin dalle elementari affrontano tragedie come l’Olocausto. Se questo è un uomo di Primo Levi diventa già un volume da mettere sul banco di scuola. Certi titoli dovrebbero essere affrontati con un adulto accanto. Io, se avessi un figlio, lo terrei il più possibile ancorato alle fiabe. Poi, il primo libro diciamo più serio che gli comprerei è Le avventure del Barone di Munchausen. Surreale, con qualche brivido, ma divertente”.

Vip e letteratura, Franco Di Mare: sono un lettore ubiquo, onnivoro e disordinato e vi spiego perché
Con la puntata del venerdì chiude le settimane alla conduzione di Unomattina. E spesso è pronto, nella controra che dà il via al week end, a salire su un aereo per l’ennesimo viaggio. Non perde l’abitudine di inviato speciale Franco Di Mare, che ha confezionato per la Rai reportage e cronache da tutto il mondo, dagli scenari di guerra del Kosovo e della Bosnia a quelli del Medio Oriente e dell’Africa, dall’America Latina agli Usa e alla Russia.
“Prima di affrontare il volo, faccio sempre una picchiata nella libreria dell’aeroporto. Ci vado ogni volta come se fosse un negozio per gourmet. Recentemente ne sono uscito con La leggenda del morto contento del mio amico Andrea Vitali e Mi sono perso in un luogo comune di Giuseppe Culicchia”, mi dice con la consueta propensione al dialogo che sprizza simpatia.
Mi sembra di capire che con la lettura ha un buon rapporto, Franco Di Mare. “Diciamo che sono un lettore ubiquo, onnivoro e disordinato”.
In che senso?
“Che i libri per me sono una calamita. Li compro a raffica, me li porto a casa, li affastello e, confesso, non li leggo proprio tutti…”

Bella sincerità.
“Vede, rivendico il diritto a lasciar da parte un volume se non ci appassiona. Lo consiglia anche Daniel Pennac in un saggio sulla lettura. Stila un elenco di comandamenti per il lettore e tra questi ti dà la facoltà di mettere in un angolo il libro che se non ti va. A me è successo con la Recherche di Proust. Non sono andato oltre il primo libro, Un amore di Swann. Del secondo, All’ombra delle fanciulle in fiore, non mi sono cibato nemmeno una pagina. Un altro esempio, legato al grande Umberto Eco. Io ho appena comprato Pape Satàn Aleppe, il primo titolo de La nave di Teseo, l’editrice da lui fondata con Elisabetta Sgarbi dopo la fusione Rizzoli-Mondadori. Però sfido chiunque a giurare di aver letto cinque libri di Eco…Oggi è l’autore più citato, ha scritto di tutto, il suo nome è di moda, le sue opere oggetto di consumismo più che di consumo consapevole. Credo che verrà apprezzato e capito di più quando il rumore mediatico suscitato dalla sua comparsa si sarà attenuato”.
E quando torna dai suoi viaggi che cosa trova sul comodino?
“Un titolo di Mauro Corona, altro mio amico. Poi, mi divido tra la scrittura feroce di Roth e quella dolce di Sepulveda e di Jorge Amado. Considero le seicento pagine di Chiamalo sonno, appunto di Roth, e Le ceneri di Angela di McCourt Frank due capolavori”.

Per certi libri mi sembra abbia una vera e propria venerazione.
“Una passione, direi. Prenda La versione di Barney. Mordecai Richler, l’autore, ha raccontato l’amore virile come mai nessuno ha saputo fare meglio: con ciglio asciutto. Per me è stato fantastico scoprire che si possa scrivere d’amore senza diventare melensi”.

Mi sembra di capire, dalle opere che ha messo nel suo Olimpo, che lei non sbrodi per la saggistica.
“E’ un genere che ho frequentato a vent’anni, per farmi bello con le ragazze dei collettivi di sinistra. Certi libri pallosissimi….Però salvo due volumi di Eco, Kant e l’ornitorinco e Dire quasi la stessa cosa, una serie di riflessioni sulla traduzione”.
Ma per lei cosa è un romanzo?
“Mi spiego: un romanzo è come un film, un saggio è come un documentario. La narrativa ti propone un viaggio straordinario, ogni volta irripetibile”.
Quando è nato questo amore?
“Quando ero bambino. Con le favole, e la modalità della narrazione orale, quella della mamma o dei vecchi. Ricordo ancora la fascinazione della voce di mio nonno quando mi annunciava: adesso ti racconto una storia…”
E da ragazzo?
“Da ragazzo del liceo scientifico - ma a posteriori dico che sarebbe stato meglio frequentassi il classico, che ha una marcia in più - ho avuto la fortuna di avere un prof di lettere che ci affascinava. Nelle sue lezioni spiegava comparativamente letteratura e storia dell’arte. Il mondo di Fattori e in controluce quello di Verga, per esempio, denso di umori contadini, del colore della terra, del rumore dell’aratro. Mi ha insegnato, quel professore, ad amare la letteratura. Con questo spirito affrontai poi i romanzi che tutti i giovani leggono, e che plasmano l’educazione sentimentale: quelli dei grandi russi, Anna Karenina, Memorie dal sottosuolo, Guerra e pace. Magari non ne coglievo tutti i significati, magari rileggendoli oggi mi procurerebbero sensazioni diverse, ma per Franco adolescente erano un subbuglio di sentimenti”.
Tra le personalità che ha intervistato ci sono anche tanti scrittori: Amado, Oz, Mahfouz. Che cosa ricorda di questi incontri?
“Premetto che prima di vederli avevo letto tutte le loro opere. Perciò con Amado, per esempio, mi creai un feeling preventivo, che poi ho consolidato come lettore dei suoi libri. Del Nobel Mahfouz, che ho intervistato al Cairo, mi resta il ricordo del suo carisma e la commozione che qualche tempo dopo mi provocò la notizia del’accoltellamento del quale fu vittima, ad opera dei Fratelli Musulmani.
Con Mario Luzi invece feci un viaggio a Sofia, per la riunione degli Scrittori per la Pace. Lui guidava la delegazione italiana. Quando si trattò di stilare il documento, venne nella mia camera d’albergo. Io avevo la macchina per scrivere e battei sui tasti, sotto sua dettatura, la dichiarazione conclusiva”.

Franco Di Mare è anche autore di libri di successo. Da uno, “Non chiedere perché”, è stata tratta la fiction “L’angelo di Sarajevo”, interpretata da Giuseppe Fiorello. Com’è il suo rapporto con il mondo dell’editoria? “Felice e nato per caso. Anni fa scrissi una pièce, una testimonianza civile sulla guerra. Sul palco parlavo dei conflitti e mi affiancava un attore quando si trattava di recitare qualche brano. Portammo lo spettacolo in giro per le scuole. Ne parlò il Corriere della Sera. Un articolo intitolato: Franco Di Mare dai teatri di guerra ai teatri. L’editor di Rizzoli mi telefonò e mi propose di scrivere un libro. Mi venne più facile cominciare con dei racconti. Nacque così Il cecchino e la bambina. Poi venne Non chiedere perché, entrato nella Selezione Bancarella. La strada era tracciata e ho continuato a scrivere. Mi sono anche cimentato con un romanzo puro, privo di riferimenti autobiografici, Il paradiso dei Diavoli, ambientato a Napoli. Un’operazione che mi ha molto divertito, come quella legata ad un altro mio libro piccolino, Casimiro Rolex”.
Però c’è un po’ del suo mondo anche negli ultimi titoli citati. Lei è nato a Napoli. E lo spirito campano resiste anche nei più recenti lavori.
“Mi sono creato la mia piccola immaginaria Macondo. E’ un luogo della Costiera Amalfitana, si chiama Bauci. Un paesino della collina, una delle cinquanta città invisibili di Calvino. Sono ambientati lì Il caffè dei miracoli e Il teorema del babà. Penso che continuerò”.

Vip e letteratura, Francesca Fialdini: io affascinata da Tolstoj, Etty Hillesum e Dacia Maraini
Francesca Fialdini ha due pile di libri accanto al capezzale. “Una sul comodino di destra, l’altra su quello di sinistra”. Ci sono “Racconti di un pellegrino russo” di autore anonimo (“Me l’ha consigliato un amico”) e “Cinque lettere a uno studente” di Simone Weil; “Luoghi comuni” di Umberto Broccoli
(“Vanno da Catullo a Lucio Battisti”, spiega), “I sogni di Andrea Camilleri”, “La parola contraria” di Erri De Luca, “Le visioni” di Anna Katharina Emmerick (“Dedicato alla vita della Vergine Maria”). “Ma per ora ho letto solo un volume sull’Isis, di Alessandro Orsini, per documentarmi giornalisticamente”, aggiunge.
Perché la conduttrice di UnoMattina comincia la giornata alle 4,30. “Sfoglio tutta la mazzetta dei giornali, mi butto sulle notizie quotidianamente, la sera alle 22 mi abbandono al sonno e così rimando il piacere della lettura all’estate, nelle mie vacanze a Marina di Massa o all’estero, come ho fatto l’anno scorso scegliendo la Grecia e Natalia Ginsburg”.
Ma che tipo di lettrice è Francesca Fialdini?
“Una lettrice nata negli anni dell’università. Sa, nell’adolescenza non amavo i libri oltre a quelli imposti a scuola. Ero brava nello studio, pensavo che non dovessi impegnarmi su ulteriori pagine. Tutt’al più mi avvicinai a Italo Svevo, autore che sentivo allora funzionale al mio carattere schivo. Eppure mia madre è un’appassionata dei libri, ne ha un numero spropositato”.

La “conversione” come è avvenuta?
“Accorgendomi che i miei colleghi universitari mettevano spesso al centro dei loro ragionamenti appunto i volumi appena usciti. Non esistevano ancora i blog, ma i gruppi di lettura sì, e io mi sentivo stupida a non destreggiare il tema. Così cambiai atteggiamento. Ma senza farmi condizionare dall’autore in voga di volta in volta. No, sceglievo io, autonomamente. E allora toccò all’esotico Garcia Marquez, ad Isabel Allende, poi ai classici russi presi negli scaffali di mia madre, Dostojevski e Tolstoi, soprattutto Tolstoi. Mi innamoravo più degli autori che del singolo libro”.


Il preferito?
“Etty Hillesum, un incontro che mi ha folgorato. Ha cambiato la mia prospettiva nei confronti del mondo, è una di quelle letture circolari, che ritornano dando sempre nuovi spunti di riflessione. Sull’altro, sulla sofferenza, sulle armi per vivere in modo attivo. Anche nei campi di concentramento dove fu internata. Agiva non per risolvere i problemi, perché era impossibile, ma per essere accanto al prossimo”.
La tappa successiva?
“Attraverso Etty sono arrivata a Rilke, quello delle prose più che dei versi, introspettivo, spirituale”.
OItre che sui comodini dove sistema i suoi libri?
“Ovunque in casa. Nella libreria del corridoio, dove ho messo il titolo che leggerò per primo in vacanza, L’amore bugiardo di Gillian, dal quale è stato tratto il bel film con Ben Affleck. In cucina, in mezzo alla dispensa, nei tre camerini adiacenti alla camera da letto, sul mobile per i vestiti…”

Lei ha condotto la serata finale del Premio Strega e ha lavorato a Cultbook. Cosa ne ha tratto? “Al Ninfeo di Valle Giulia ho vissuto solo la dimensione televisiva, una trasmissione convulsa, sul filo di lana per gli orari da rispettare e i voti ai cinque finalisti da inseguire. Durante il periodo di Cultbook una scoperta letteraria, quella di Corman McCarthy”.

L’incontro con un autore che le ha dato qualche particolare sensazione?
“Quello con Dacia Maraini, durante un’intervista. Ho provato ammirazione e insieme soggezione, quasi una difficoltà ad affrontare il personaggio, che si porta dietro un’aura di grandezza, un carisma irrintracciabile negli autori più giovani, affermatisi di recente. Sa, oggi tutti scrivono, e non è un bene per la letteratura”.
Dunque lei non scriverebbe?
“Solo se mi chiedessero un’opera giornalistica, un reportage. Ma non un romanzo, un Libro con la maiuscola. Forse sono anacronistica, ma ho un’idea sacra della scrittura. Insomma, Hermann Hesse, per fare un esempio, è sulla vetta, io sarei nel fondovalle”.

A un figlio che cosa consiglierebbe?
“Di sperimentare, secondo la sua indole e senza porsi limiti. Vede, mio fratello è un matematico e adora la Divina Commedia e l’Orlando Furioso. Eppure lavora con i numeri. Io che lavoro con le parole preferisco invece Il giovane Holden e non ho mai letto fantascienza. Eppure siamo figli della stessa madre. Che comunque, da bibliofila, ci ha dato, a chi prima e a chi dopo, l’input sulla lettura come percorso di formazione”.

Vip e letteratura, Giletti: ecco perchè amo Il deserto dei tartari

Massimo Giletti è un recordman. Conduce per l’ennesimo anno L’Arena, lo spazio domenicale da lui ideato, prima segmento di Domenica In, poi, in virtù dell’audience lusinghiera, svincolato dal contenitore. Così ogni giorno di festa, dopo pranzo, all’ora del caffè, si presenta - rampante gentiluomo, giornalista di razza capace di dire la sua con schiettezza ed eleganza - alla vasta e variegata platea televisiva. Giletti mette a frutto la lunga esperienza (tra i suoi programmi gli speciali su Padre Pio, le maratone Telethon, le Miss Italia, i Festival di Sanremo) cominciata nel 1988 nella fucina di Mixer, indimenticata trasmissione di Gianni Minoli. E anche a quegli anni torna in questa intervista.
Ma insomma, Giletti, in tanta affannosa attività, trova il tempo per leggere?
“Cerco sempre di ritagliarmelo. Per crescere è fondamentale catturare questo spazio, altrimenti si rimane a un livello primordiale. Ma non mi chieda quando leggo. Io ho un rapporto strano con il tempo, trovo momenti per fare ciò che ritengo importante senza pormi regole. Insomma, amo gestire io il mio tempo, non esserne
succube”.
E che cosa legge?
“Dipende dai periodi, dall’umore e dalle storie in cui mi trovo. Di recente ho affrontato un volume di Maurizio Torrealta su Ultimo, il capitano che arrestò Toto Riina. E poiché sono stato in Iraq, mi ha intrigato Isis - il Marketing dell’Apocalisse, di Ballardini. Ancora, ho messo sul mio comodino “A noi! , di Tommaso Cerno, su cosa ci resta del Fascismo da Berlusconi a Grillo e a Renzi. E però gli sistemo accanto anche i versi di Hikmet, il grande poeta turco. Questi aiutano l’animo, gli altri libri la curiosità e la necessità di andare oltre la notizia, comunque di essere informato”.

 


Insomma, predilige la saggistica.
“Sì, anche in questo modo preparo il mio lavoro. Per esempio, quando dovevo fare una serata con Bocelli e la Loren, andai a cercarmi cose scritte parecchi anni prima sul mondo dello spettacolo. E trovai il racconto del viaggio nella Jugoslavia di Tito che Ponti fece con Sophia per convincere il dittatore a fargli girare entro i suoi confini Il dottor Zivago. Una scelta obrligata per contenere il budget. Tito incontrò il produttore nell’isola di Brioni, dove si recava per le vacanze estive. Il fascino della Loren poteva facilitare l’accordo, visto che il
comunista era sensibile alla bellezza femminile. Insomma, trovai immagini rarissime della nostra diva accanto al leader jugoslavo”.
Un libro che vorrebie rileggere?
“ceh, è Troppo teneri con le donne di Queneau. Chissà dov’è finito nella mia libreria, non riesco a trovarlo. E’ una storia fantastica, che racconta perfettamente come è una donna. Ed è uno dei libri meno famosi dello
scrittore francese. Neanche Giampiero Mughini, che è un suo fan, lo conosceva. E mi ha ringraziato dopo che, dietro mia segnalazione, lo ha letto”.
Il suo titolo del cuore.
“Il Deserto dei Tartari di Buzzati. Ha segnato la mia giovinezza. Perché io sono uno che vive nell’attesa, che scruta l’orizzonte convinto che laggiù c’è sempre qualcosa da cui possa venire del buono. Io non mi fermo mai, vado al di là della siepe. Mi identifico così nel capitano Drogo, anzi, visti i miei anni, nel colonnello…”.
Lei ha frequentato il liceo classico e si è laureato con lode a in Giurisprudenza. Amava i libri che ha dovuto studiare a scuola?
“ceh, l’imposizione toglie un po’ il piacere della lettura. Però il liceo è stato un periodo straordinario della mia vita, e i bei ricordi si estendono anche all’Iliade e all’Odissea”.

Nei suoi talk ha mai lanciato un libro?
“Sì, nel vero senso della parola. E’ stato quando, lo scorso febrraio, ho lanciato per terra il volume di Mario Capanna. E’ stato un errore, che peraltro mi è costato ventimila euro di multa dalla Rai. Ma la mia non è stata mancanza di rispetto verso la pubrlicazione in sé. Piuttosto mi è risultato insopportabile che Mario Capanna, il sessantottino che in gioventù era stato sulle barricate per difendere i diritti degli ultimi, approdato alla maturità sia diventato il paladino dei vitalizi ai quali anche lui è approdato in qualità di politico. Vabrè, però altri volumi li ho avviati al successo”.

Racconti.
“Io sono nato professionalmente con Mixer Cultura. Il libro era uno spunto per avvicinarsi all’attualità, non un oggetto fine a se stesso da parcheggiare sui comodini. Ricordo i primi scontri con Vittorio Sgarbi, le discussioni con Arnaldo Bagnasco…Altro appuntamento con l’editoria lo ebri nel programma Casa Raiuno: divertente fu la
trasmissione nella quale ho ospitato la grande tessitrice del Premio Strega, Anna Maria Rimoaldi”.

E lei vorrebie scriverne uno, di libro?
“Me lo chiedono spesso, ma sono diffidente. O si fa bene una cosa o se ne fa un’altra. Sono obrligato a vivere velocemente, invece la scrittura richiede riflessione. E, francamente, avere un ghostwriter significherebre per me ingannare i lettori. Non mi piace e non lo faccio”.

Vip e letteratura, Luca Giurato e la passione per Salinger e Calvino

L’aria sorniona e apparentemente svagata, la simpatia che gli è valsa qualche premio, la capacità di affrontare con competenza ma senza mai annoiare qualsiasi argomento, le proverbiali gaffes, i lapsus linguae creati un po’ per gioco, come amava fare Bongiorno: tutto questo ha reso Luca Giurato un personaggio amatissimo dal pubblico del piccolo schermo. Ma dietro al conduttore di Domenica in, di Unomattina c’è una formazione giornalistica rigorosa, cominciata da giovanissimo e trascorsa per la maggior parte in Rai, che ha portato Giurato a dirigere il GR1 e ad essere fino al 1990 il vice direttore del TG1. Così, per questo professionista nato in Sicilia, figlio di un diplomatico e nipote del drammaturgo e regista Gioacchino Forzano, la preparazione culturale è stata sempre un pallino.
Luca Giurato, dunque con la lettura ha un buon rapporto.
“Ottimo, fin da bambino sono stato un lettore vorace. Una inclinazione di famiglia, anche per quel nonno autore di teatro e d’opera, rappresentato con successo nel periodo tra le due guerre, autore di libretti per Puccini, Mascagni, Leoncavallo”.

E quali libri amava lei, magari Pirandello?
“Beh, Pirandello l’ho scoperto tardi. Invece, a parte i canonici Odissea, che preferivo, e Iliade, a parte l’Inferno della Divina Commedia, ebbi una passione speciale per Il rosso e il nero di Stendhal. E in seguito ho divorato Hemingway”.

E oggi?
“Sono rimasto un lettore forte, come si dice. Anzi, nelle attività del tempo libero – sport, jogging - la lettura ha il posto preminente. Al punto che in ogni mio viaggio lungo – sono andato negli Emirati Arabi, spesso mi reco negli Stati Uniti - mi porto appresso due libri, sempre gli stessi. Quasi fossero i miei talismani. Il primo è Il giovane Holden del mitico Salinger, l’altro Lezioni americane di Italo Calvino. Di questi autori ho letto tutto. Per Salinger ho una venerazione. Al punto che sono andato un’infinità di volte al laghetto del Central Park, memore della famosa domanda di Holden al tassista: ma quando il laghetto gela, le anatre dove vanno?”.


Le altre passioni letterarie?
“Sono un fan di Jonathan Franzen. Ho comprato negli States il suo “Purity”, anticipando la traduzione in italiano. Me lo hanno segnalato nella libreria Book and Book di Miami, dove sono un habitué. L’altro mio autore di culto è Wallace, indimenticabile il suo La ragazza con i capelli strani. Di lui mi affascina l’humour bieco, che però sa diventare divertente. Per farla breve, da Shakespeare in giù adoro la letteratura anglosassone”.

Ha mai conosciuto uno di questi scrittori?
“E’ successo con Franzen. Venne a Roma per presentare il suo Le Correzioni. Incontro con il pubblico all’Auditorium, Parco della Musica. Affollato di gente, manco fosse un divo del rock. Quando giunse il mio turno per fargli una domanda, gli chiesi che cosa pensasse dell’attacco di Inghilterra e soprattutto della Francia alla Libia, l’operazione chiamata Odissey Dawn. Lui però mi rispose che era un inusuale quesito e non si sbilanciò sull’argomento. Ora aspetto che torni a Roma per farmi autografare Purity”.

La saggistica la interessa di meno?
“Sì, eccetto quella di argomenti storici. Mi serve anche per confrontarmi con l’informazione giornalistica e valutare tutti gli aspetti dei grandi conflitti internazionali”.

Ma a Luca Giurato non è mai venuto in mente di scrivere un libro?
“Me lo hanno chiesto in tanti, e il mio libro potrebbe essere zeppo di fatti e aneddoti, tante ne ho viste e seguite in mezzo secolo di giornalismo. Però non lo scriverò mai. I libri lasciamoli agli scrittori.
Vede, gli scaffali delle librerie sono pieni di volumi di giornalisti, grandissimi professionisti sì, ma che a contatto con il mondo dell’editoria si piegano ad operazioni commerciali, e si vede. A questa inflazione di libri di colleghi io, pur stimandoli, non mi adeguo. Ognuno è libero di fare le proprie scelte, ma io non li compro. Concentriamoci invece sul nostro lavoro, vorrei suggerire loro. Adesso per esempio sono tornato con grande piacere alla scrittura giornalistica, con due rubriche personalizzate su Novella e su Visto. Mi diverto moltissimo”.

E non pensa di riprendere la conduzione in tv?
“L’ho fatto per undici anni, adesso non ne ho più voglia. Sono contento quando mi invitano a qualche trasmissione, ringrazio ma accetto solo se mi piace. Insomma, dopo cinquanta anni di carriera, non mi viene il magone se non ho i riflettori addosso”.

Vip e letteratura, Ugo Gregoretti: con Il Circolo Pickwick ho portato il romanzo in tv
La versatilità di Ugo Gregoretti (regista di teatro, opera e tv, oltre che giornalista e scrittore) risale al suo esercizio di lettore bambino. E a ciò che leggeva. “Sa - dice l’ironico intellettuale romano - furoreggiavano negli anni Quaranta le enciclopedie per ragazzi. La mia si chiamava Il Tesoro, edita da quel monumento della divulgazione che era la Utet. Alle discipline più svariate che dovevano concorrere alla formazione dei giovani univa un’antologia letteraria. Lì ho imparato a conoscere le fiabe di tutto il pianeta: Le Mille e una notte, quelle russe, tedesche e del resto dell’Occidente. Quel mondo favolistico mi nutriva. La mia amata Utet poi fornì agli adolescenti altre collane di letteratura classica distinta per età: dieci, undici, dodici anni. Erano riduzioni tanto efficaci e ben scritte che in molti casi hanno esaurito la mia voglia di leggere l’originale. Diciamo che si presentavano già compiute così”.
Da allora a oggi il passo è breve, vero Gregoretti?
“Già. Perché proprio negli anni della canizie mi sono impegnato a Torino in un esperimento teatrale che mi è piaciuto molto. La messinscena in otto puntate dei Tre Moschettieri di Dumas, un librone che conobbi proprio da bambino. Le puntate sono state realizzate da altrettanti drammaturghi e registi, tra i quali Gigi Proietti, Piero Maccarinelli, io, il polacco Talarczyk e l’ideatore, Beppe Navello”.
Ideatore in che senso?
“La prima edizione di questa maratona su Athos, Porthos, Aramis e D’Artagnan andò in scena nel 1986 a L’Aquila, dove Navello era direttore del Teatro Stabile. La riproposta di questo gioco teatrale è invece avvenuta sul palcoscenico dell’Astra, uno spazio restaurato in occasione delle Olimpiadi invernali di Torino, un toccasana per la città”.
Perché?
“Perché non è più la metropoli-fabbrica che conobbi quando ne diressi lo Stabile, dall’85 all’89. E’ diventata allegra, leggera, briosa. E questo Dumas disarticolato e riunificato come in un divertente puzzle ne è sembrato lo specchio. Anche gli interpreti hanno contribuito alla ventata fresca. Sono venuti, dopo selezione, dalle massime scuole di formazione, di Genova, di Milano, dell’Accademia d’arte drammatica di Roma. Insomma, il fior fiore della studenteria attoriale italiana. Che poi le repliche abbiano registrato il tutto esaurito mi ha dato una soddisfazione non trascurabile. Sa, io a Torino sono legato. Oltre alla guida dello Stabile, ho curato qui regie liriche al Regio e programmi televisivi”.


E veniamo all’impegno che le ha dato la notorietà. Un impegno legato alla letteratura e che le ha imposto accurate letture.
“Fin dal mio esordio in quelli che si chiamavano teleromanzi, lanciati dalla Rai negli anni Sessanta. Cominciai con Il Circolo Pickwick di Dickens. Una storia comicissima nella quale mi tuffai con entusiasmo. Ma consapevole che era in certe situazioni un po’ invecchiata. Allora inventai una chiave più attuale per alcune pagine. Rimanendo però così fedele allo stile dello scrittore inglese che nessuno si accorse della farina del mio sacco. Insomma, fu un lavoro di svecchiamento, non un tradimento”.
E cominciò la divulgazione della narrativa attraverso il tubo catodico.
“Un lavoro, quello di adattarla al linguaggio televisivo, che mi ha accompagnato per anni. Ma rendevo ogni titolo con un metodo differente. Per esempio per Le Tigri della Malesia di Salgari usai il metro della parodia e pensi che cosa ne venne fuori con Gigi Proietti nei panni di Sandokan, letteralmente preso per i fondelli. Però il tono canzonatorio non piacque troppo a Viale Mazzini, che si apprestava a varare l’operazione Sandokan-Kabir Bedi. Insomma, la mia riduzione fu censurata, nascosta, nel timore che sembrasse una presa in giro preventiva”.
Allora cambiò tattica?
“Divenni serio. Affrontando cinque libroni altrettanto gravi, come I misteri di Napoli, L’assedio di Firenze, La freccia nel fianco. Fu la serie intitolata Romanzo popolare italiano e mi costò un grande sforzo di lettura e di riduzione: mille pagine da condensare in un’ora! In certi casi operai una lettura strutturalistica, individuando e mettendo in evidenza gli snodi del plot. Vede, lo strutturalismo negli anni Settanta era di moda e io in fondo in fondo riuscii a fare il verso anche a questa branca della critica letteraria”.
Ma gli autori stranieri li ha amati?
“Molto, specie i russi. Considero Le uova fatali di Bulgakov un capolavoro. Oltretutto mi permise l’uso degli effetti speciali che allora cominciavano a spopolare. Me la spassai a rendere visivamente l’invasione delle rane nell’istituto nel quale lavora il protagonista Persikov e a inseguire i risvolti delle invenzioni attuate nel settore della zoologia nella Russia degli anni Venti che Bulgakov prende in burletta”.
Ha conosciuto scrittori?
“Zavattini, dirò subito. Era un grande autore, anche se deve la sua fama alle sceneggiature per il cinema. Io però gli resi omaggio appunto come narratore, accendendo i riflettori della tv sulla antologia dei suoi racconti brevi, molte volte finiti nel calderone del cinema. E lui, che soffriva di essere nell’ombra come scrittore, ebbe con me una profonda consuetudine aprendomi tutto il suo mondo poetico. Ma con lui ingaggiai anche battaglie di idee. Combattevamo, nel cinema, la censura oppure l’uso mercantilistico che se ne faceva”.
Con Achille Campanile ha operato in teatro.
“Misi in scena il suo Ma cos’è questo amore?, romanzo surrealistico. Egli era divertente quanto i suoi scritti, anzi di più”.
E i contemporanei?
“Camilleri, un contemporaneo ultranovantenne che lega bene con me che ho superato gli 85. Beh, abbiamo impersonato il Gatto e la Volpe in una rilettura del Pinocchio che è stata musicata da mio figlio Lucio. Una proposta operistica comica per ragazzi nella quale il burattino di Collodi viene sottoposto a processo perché querelato appunto dal Gatto e la Volpe. E’ stato rappresentato al Massimo di Palermo e all’Auditorium Rai di Torino. Mi ha divertito tuffarmi in questa nuova prova. Io e Camilleri non siamo in scena ma compariamo a inizio spettacolo in un video camuffati dai due imbroglioni che si beffano di Pinocchio. Recitiamo versi scritti da entrambe, un’introduzione all’azione vera e propria”.
Ovviamente un classico come Collodi non poteva mancare nella sua libreria. A proposito, come l’ha sistemata nel suo appartamento?
“I libri sono sparsi dappertutto. Però ho ricavato degli scaffali in un ambiente che chiamo La Galleria. Ci sono tutti i volumi che possiedo, da quelli di quando ero ragazzino a quelli acquistati da giovanotto a rate. Ma, non sazio di ciò, mi sono divertito ad acconciare come una biblioteca anche l’armadio dei miei indumenti. Sugli sportelli ho fatto dipingere il dorso di innumerevoli libri, con i titoli in bella vista, titoli autentici, dico. E mi diverto un sacco quando chi mi viene a trovare vuole prenderli. Allora apro il guardaroba che, invece di pagine stampate, contiene giubbetti, cappelli, sciarpe, maglioni”.

Vip e LetteraVip e letteratura, Anna Kanakis: il libro della mia vita? Le memorie di Adriano
È domenica. Mi risponde al telefono dalla veranda del suo buen retiro, 50 metri quadrati a Porto Santo Stefano. “Sto incollata al balcone e vedo il mare. È inquieto, ma il cielo è di un azzurro incredibile. Adoro guardare il mare, a volte mi rassicura, a volte mi turba”. Anna Kanakis - la siciliana di padre greco diventata Miss Italia nel ’77, a quindici anni, e poi modella e attrice di cinema e tv - è sempre senza fronzoli, diretta: nello sguardo e nella voce profonda. Per esempio, la scelta del “buchetto” a Porto Santo Stefano? “ È vicino a Roma, dove vivo con mio marito dopo i 10 anni passati insieme a Milano, ha un mare bellissimo e non è soffocata dalla movida di Porto Ercole”. Nel 2007 l’abbiamo vista in televisione nella miniserie “La terza verità”. Poi, le dico e lei apprezza il paragone, il baco diventa farfalla.
Ovvero, Kanakis passa dal set alla scrivania. Insomma, scrive romanzi. Nel 2010 l’esordio con “Sei così mia quando dormi”, l’anno successivo “L’amante di Goebbels”.
Signora Kanakis, dunque un rapporto speciale con la letteratura, il suo.
“Nato precocemente, quando ero bambina. E continuato sempre. Un libro, dico io, è una coperta per la vita, un volo per la testa. È l’arma del sapere, della curiosità”.

Che cosa tiene sul comodino?
“Ho portato con me al mare Troppi paradisi di Walter Siti e Così parlò Zarathustra” di Nietzsche”.
Due scelte eccentriche tra di loro. Come mai?
“Lo Zarathustra lo avevo letto tanti anni fa. Sono anche andata a Sils Maria, in Engadina, dove Nietzsche ha passato parte della sua vita. Ma l’ho rispolverato mentre stavo scrivendo il mio secondo romanzo che ha per protagonista l’amante di Goebbels. Per un capitolo mi è servito documentarmi su alcuni concetti che ispirarono il nazionalsocialismo”.

E Siti?
“C’entra con un mio plot. Una storia particolare per la quale ho dovuto calarmi nei panni di un intellettuale. Delineare il milieu dei personaggi è fondamentale quando una vicenda è collocata temporalmente, in un preciso momento storico, in questo caso i primi del Novecento. Ho cercato Siti per avere un consiglio, lui gentilissimo mi ha suggerito appunto Troppi paradisi”.


Ma in genere che cosa ama leggere?
“I classici, che rispolvero incessantemente, volando sempre indietro, insomma. Non amo troppo i contemporanei. La mia Bibbia, per intenderci, è Memorie di Adriano, della Yourcenar. Lo definirei il libro della vita. Per lei che lo ha scritto e riscritto. Per il lettore perché gli fa comprendere la precarietà dell’esistenza. Insomma, ci toglie i grilli che abbiamo in testa, a proposito di quel Superuomo al quale ho accennato”.
E poi è un cavallo di battaglia di quel Maestro della scena che è Giorgio Albertazzi.
“Già, e mi lega a lui con un suggestivo retroscena. Ci incontrammo a Ischia per un evento, eravamo stramazzati su un divano e lui mi recitò alcuni passi del suo Adriano. Momenti indimenticabili.”
E Anna Kanakis ragazza che cosa sfogliava?
“Sono cresciuta con i libri di Oriana Fallaci, una penna che adoro”.
La Oriana Fallaci che ci avverte sulla prepotenza dell’Islam?
“Quella non mi ha entusiasmato. Piuttosto sono legata a Lettera a un bambino mai nati, a Insciallah, a Un uomo, il racconto sul suo amore Panagulis. Sa, mio padre era greco…Quei libri, così come il teatro di Franca Rame, sono lo specchio del tempo in cui crescevo. Tempo di contenuti”.
Dove ha sistemato i suoi libri?
“Non a Porto Santo Stefano, perché lo spazio è limitato. Invece nella mia casa romana, un appartamento al secondo piano, dove domina la penombra, che le dona un’atmosfera crepuscolare, dannunziana, per me adorabile. Una grande libreria lascia spazio nel mio studio soltanto a una scrivania. Altri volumi sono nella stanza che io chiamo il pensatoio. Un ambiente a due livelli dove si guarda la tv, si ascolta musica, si riflette, si legge, appunto, scegliendo i volumi da uno scaffale che ho messo nel piano superiore”.
Ora la seconda vita di Anna Kanakis. Com’è approdata alla scrittura?
“Ci ho sempre navigato. Da bambina amavo scrivere, dicevano che fosse la cosa che facevo meglio, al punto che l’insegnante di italiano pubblicava i miei temi su un giornale chiamato Sicilia. La mia vita, conquistata la fascia di Miss Italia, ha preso un’altra piega, ma ho sempre continuato a scribacchiare. Pure aggiustando i copioni. È successo per esempio con Vento di ponente, lunghissima seria tv. Gli sceneggiatori cambiavano qualche battuta a poche ore dal set, io non mi ritrovavo nel mio personaggio e ci mettevo del mio, stando attenta a non toccare troppo le parti dei colleghi attori, che magari avevano già memorizzato. All’inizio il produttore era seccato, poi si accorgeva che le modifiche funzionavano e mi lasciava fare”.
Vabbè, ma la trasformazione in romanziera?
“Per caso. Era il 2007, avevo finito le riprese del tv movie La terza verità, bellissima esperienza con Enzo De Caro e Bianca Guaccero diretta da Stefano Reali e vista da otto milioni di spettatori. Un set faticosissimo. Decido di concedermi un periodo di relax e mi metto a leggere la biografia di George Sand, donna controcorrente, mio mito giovanile. E mi imbatto nel suo ultimo amante, Alexandre Manceau, giovane incisore. Un uomo così dolce da far abbandonare nelle sue braccia, e per un lungo periodo, la tigre Sand. Un personaggio che mi strega. Comincio a fissarlo buttando giù pagine manoscritte. Capitoli affrontati ovunque mi capitasse, al bar, sulla barca di amici. La sera trasportavo quei fogli volanti sul pc. Non immaginavo che sarebbero diventati un romanzo. Per me quell’esperienza era vivere in un’altra dimensione. Pianti e tormenti quando dovevo scrivere della prematura morte del mio protagonista: righe strappate alle mie viscere. Poi venne la parola fine e inviai quelle cartelle a due editori. Entrambi mi cercarono. Uno di loro era Cesare De Michelis della Marsilio. Mi affido a lui, parliamo di quattro possibili titoli e della copertina, mi mette in contatto con la editor, persona discretissima, mai invadente. Finiamo questa fase e una settimana dopo mi arriva a casa un pacco con venti copie di quello che io chiamo il mio bimbo di carta, visto che stata l’esplosione delle mia fatiche, il reificarsi del tempo rubato qua e là”.

Sensazioni mai provate, nonostante lei di exploit ne avesse fatti tanti, fin da adolescente. “Già, ma questa era davvero un’altra cosa. Nel libro tutto era mio, non rappresentavo un solo personaggio ma ciascuno di quelli che si affacciavano alla storia. Una sbornia di libertà, di indipendenza da chi, come avviene nel mestiere dell’attore, ti sceglie e dopo ti dirige”.

Il libro è stato un successo.
“Inatteso. Come inattese le recensioni. Mi aspettavo una valanga di stroncature sulla Kanakis attrice che si mette a firmare romanzi. Invece ho avuto 19 articoli di critica, tra cui quello di Isabella Bossi Fedrigotti, tutti positivi. E, quel che conta, trasversali”.

Ci ha preso gusto.
“Ho deciso che avrei continuato, lasciando perdere la Anna attrice. Imponendomi però metodo: otto ore di lavoro al giorno, ricerche, appunti presi la notte, incontri con persone che mi consentono di documentarmi. Poi è il libro che ti porta per mano in un viaggio che si può fare in solitudine indagando nelle vite degli altri. Davvero credo che sia il mestiere più bello”.

 


Vip e letteratura, Luigi Lambertini: quando Ungaretti si confuse recitando i suoi versi
Luigi Lambertini è una voce e una penna. Una voce perché - bella e capace di modulare in perfetto italiano, con appena un’inflessione del Nord – ha parlato attraverso i microfoni di Radio Rai per oltre trent’anni. Una penna perché è ha saputo essere critico d’arte e cronista culturale oltre che animatore di dibattiti sul Bel Paese e perché ora che ha i capelli bianchi coltiva con entusiasmo e ottimi risultati (selezione al Premio Strega per il suo Gola di Pietra) una passione di sempre, scrivere libri, di narrativa soprattutto. Egli in Rai ha fatto tutti gli step: assunto negli anni Sessanta nella sede di Trento dopo collaborazioni al Carlino e a Avvenire, poi trasferito a Roma al Giornale Rai e al Gr2 diretto da Gustavo Selva, poi caporedattore e capostruttura a RadioUno. Insomma, uno che ha parlato tanto, con timbro pastoso, in trasmissioni settimanali come “Sette Arti”, “Arte per arte”, “L’immagine parlata”, negli speciali della radio, in rubriche che davano conto prima del week end, nello spazio-capestro di un minuto e dieci secondi, delle mostre appena inaugurate. Uno sperimentatore, anche. Negli anni Sessanta, quando ancora la radio prevaleva nel carisma su una televisione ancora troppo giovane, affrontò i primi “documentari radiofonici”, reportage di venti minuti nei quali, come quello dedicato ai villaggi Sos, cuciva le interviste, i rumori di fondo (una fontana, una campana, il verso di un animale) e i suoi testi di raccordo. Ha molto visto e scritto, questo giornalista radiofonico di lungo corso che da tempo vive a Sutri, scelta per le memorie archeologiche e medievali, ma anche per il fascino del paesaggio. E ha anche molto letto.
Che cosa, Lambertini?
“Poesia e narrativa, soprattutto. Ovviamente insieme con un’infinità di libri d’arte”.
E adesso che cosa ha sottomano?
“Sul mio tavolo ci sono le Fiabe italiane di Calvino, Il Giornalino di Gian Burrasca di Vamba, i Fiori del Male di Baudelaire, i Turbamenti del giovane Torless di Musil”.
Letture disparate.
“Sì, volumi ritrovati in casa e che ho amato, altre comprati in edizioni d’antan”.
Ma il suo libro preferito?
“Non uno, ma quattro. Un’antologia personalissima partita dall’infanzia: Gli ultimi filibustieri di Salgari, L’isola misteriosa di Verne, Il piccolo principe di Saint Exupery, Candide di Voltaire”.

Perché li predilige?
“Perché, specie i primi due, contengono il senso dell’effimero, di qualcosa che finisce, anche la perversità. Insomma, il tramonto, il superamento: una sensazione che mi affascina anche per le mie vicende familiari. Il piccolo principe poi è quel capolavoro che mischia fantasia e realtà, l’avventura veramente vissuta dall’aviatore Saint Exupery e il suo volo fantastico, alla ricerca dei perché. Il Candide, infine: un affondo nella storia dell’umanità intessuta di ferocia, furbizia, avidità. Con quell’insegnamento finale segnato da un utilitarismo all’ennesima potenza: meglio coltivare il proprio orticello…”.
E tra i poeti chi sceglie?
“Montale, Ungaretti…Difficile indicare preferenze. Ho letto tanto, facilitato anche dal mio lavoro. E ho spaziato nel cinema, nel teatro, nella letteratura. E dunque non posso dimenticare Philip Roth, o Alain Robbe-Grillet, il teorico del nouveau roman e nel cinema della “scuola dello sguardo”. Una scelta stilistica minimalista, che ho cercato di seguire anche nei miei libri, con l’uso di un dialogo scarno, spezzato, allusivo”.

Chi ha incontrato tra i grandi della letteratura?
“Ungaretti, Repaci, Diego Valeri. Dell’autore di Sentimento del tempo al quale feci un’intervista conservo una dedica su una raccolta di poesie: A Luigi Lambertini che con molta delicatezza ha cercato di sondarmi l’animo. Quella stessa intervista fu inclusa insieme a molte altre in un disco prodotto dalla Rai. E qui c’è un aneddoto. A Ungaretti, durante il nostro incontro, chiesi di recitare alcuni suoi versi. Lui si impaperò, ebbe uno scatto d’ira che si trasformò in un ruggito, tipico della sua voce cavernosa, che non finiva più. Nell’incisione questo brontolio- rantolo venne cancellato, in ossequio alla pulizia del suono. Peccato, diceva molto del personaggio”.

C’è una foto scattata a casa sua durante una “rimpatriata” con un bel gruppo di intellettuali. Tra questi Mario Verdone.
“Un mio amico. Lo conobbi negli anni Settanta perché tra le sue molteplici specializzazioni contava anche quella di storico del Futurismo. Anni dopo mi colpì una cosa: sul figlio Carlo, eccezionale attore e regista, aveva un atteggiamento affettuoso e insieme ironico. Pareva si scusasse di essere il papà di un cineasta leggero, lui che fondò la prima cattedra di storia del cinema”.

Lei ha conosciuto Burri, De Chirico, Fontana, ma è stato molto legato a Giorgio Morandi. Ne parla in due suoi libri, in “Cartacarbone”, raccolta di racconti, e in “Un aquilone, perché?”, appena ripubblicato.
“Sì, andavo spesso nella sua casa di via Fondazza, a Bologna. Era affettuoso con me e mia moglie in un momento nel quale tiravamo la cinghia. Maria Pia era insegnante e cercava di avere delle supplenze e la sorella di Morandi, che lavorava al Provveditorato, ci indicava i plessi nei quali qualche maestra andava in maternità.
Ovviamente nessuna raccomandazione, che non avremmo mai chiesto…Beh, Morandi ci accoglieva ospitale. Tirava fuori una vecchia carta militare del Genio, si faceva prendere dai ricordi. Lui aveva il diploma di maestro e aveva fatto l’ispettore nelle scuole. Diceva in dialetto bolognese: “mo’ sa, andavo qui vicino a Rioveggio…”. Io ribattevo: “Ma ci passa l’A1”. “Però

– spiegava –ai miei tempi ci passava la mulattiera e c’era il biancospino”. Sì, il biancospino, con quelle foglie sporche
di polvere e quel senso di natura malinconica, del fluire delle cose, come nel suo mondo artistico, popolato da bottiglie polverose. Non voleva essere chiamato maestro, ma professore. E sa perché?”.
Perché?
“Perché quando Bottai gli fece avere la cattedra di incisione all’Accademia di Bologna egli ebbe nel prestigioso Istituto una stanzina, mentre Virgilio Guidi, pittore importante ma mai quanto lui, era sistemato in una grande sala e voleva essere chiamato Maestro. Allora Morandi, un giorno che una ragazza si presentò a lui apostrofandolo con un Maestro, per ripicca la corresse: “Io sono il professor Morandi, Maestro è quello di là…”.

Lambertini, dove tiene i suoi libri?
“Guardi, avevo quindicimila pubblicazioni di arte contemporanea. Ho regalato tutto il fondo alla Biblioteca Civica di Rovereto. Ho tenuto per me soltanto i libri di narrativa, poesia e teatro. Li ho sistemati nel mio studio, accanto alla camera da letto e nel salotto.”
Parliamo invece di Lambertini scrittore. Come ha cominciato?
“Intanto a dodici anni fondai un giornalino, Il Tredicino, copia unica e numero unico. Negli anni del liceo invece a scuola andavo malissimo. Soffrivo della mia situazione familiare: mia madre andò via di casa, mio padre si sposò di nuovo, ma c’erano incomprensioni tra me e la matrigna. Schiacciato in questa realtà, scrivere per me era una rivalsa. Tra le prime cose pubblicate, ma era già il Sessantotto, un racconto di famiglia, Nonn’Elia pubblicato con due incisioni di Orfeo Tamburi. Era appena cominciata la mia fantastica avventura in Rai”.

Vip e letteratura, Franca Leosini: quando Walter Siti vinse lo Strega anche grazie a me
Franca Leosini è tra i personaggi più amati della Rai. Di una Rai che non ride, non si veste di lustrini, non si concede alla chiacchiera. É la Rai della Terza Rete di Angelo Guglielmi e di Sandro Curzi. Non la Rai dei grandi mezzi e della megaproduzioni. Invece quella che scava nella realtà, che fa pensare, che sonda l’animo umano. Prima autrice di “Telefono giallo”, poi, dal 1994, di “Storie maledette”, che conduce anche, Franca Leosini tratteggia attraverso faccia a faccia scarni e pregnanti identikit di condannati famosi, protagonisti di delitti che hanno stregato e spesso diviso l’opinione pubblica. Uomini e donne che per i telespettatori diventano diversi da quelli che i luoghi comuni della cronaca nera in certi casi creano. Meno mostri, più individui, pur se scheggiati da un sasso nero che ha bucato irrimediabilmente il loro vissuto.
Una giornalista a contatto da tanto tempo con storie eccezionali, che filtra attraverso la rigorosa lettura degli atti processuali, dev’essere anche contigua al pozzo senza fondo della letteratura.
Allora, signora Leosini, quali libri legge?
“Sono onnivora, ma non di gialli, a meno che non siano di scrittura catturante. Dunque sì Sciascia, sì Eco, ma non i thriller confezionati alla svelta, che vanno tanto di moda. Insomma, non mi interessa tanto la trama. Mi interessa lo stile”.
Per esempio?
“Quello di Carrere. L’avversario è uno dei libri più belli che ho letto recentemente”.
E ora che cosa ha sottomano?
“La pazza di casa, di Rosa Montero. Sa, la pazza in questo caso è la fantasia. E per me che per mestiere costruisco storie è un argomento fondamentale. La scrittura viene concepita da una mente che non smette mai di lavorare, anche di notte, che è poi il momento da me privilegiato per la lettura. Io ho sempre a portata di mano un post-it, un blocco notes, anche sul comodino. Perché se concepisci una frase con la formulazione giusta, la devi fermare subito sul foglio di carta. Sennò non ti viene più perfetta, rotonda, esatta come l’hai generata”.

E cos’altro legge?
“Il passato e il presente. Lolita di Nabokov, per esempio, è legato alle mie Storie Maledette. A tredici anni leggevo Pirandello, eppure non ero un’intellettuale ante litteram. Piuttosto ero una sventata, una ragazzina in linea con l’esuberanza dell’adolescenza. Però quella predilezione era un segno di ciò che sarei diventata. Prediamo Uno, nessuno e centomila. Disegna una personalità contraddittoria, che, magari sollecitata dagli altri, rivela angolature impensabili”.

Ma qual è il libro della sua vita?
“Non esiste e sarebbe una sciocchezza indicarlo. C’è invece il libro del momento, quello che ti intriga in una particolare situazione della tua esistenza”.

Allora quale autore le piace?
“Amo molto Walter Siti”.

Lo conosce?
“Sì. Ecco come. Anni fa, nel suo romanzo Troppi paradisi affermava di vedere spesso le mie Storie maledette. Qualcuno me lo riferì ed io, molto lusingata, oltre a comprare il libro, cercai il suo numero telefonico sull’elenco e lo chiamai. Da allora siamo diventati amici”.

Nel 2013 ha vinto il Premio Strega con “Resistere non serve a niente”.
“Lui dice di aver ottenuto quell’alloro anche grazie a me”.

Si spieghi.
“Me ne inviò una copia in redazione con una bella dedica. La lasciai in ufficio e il giorno dopo non c’era più. Allora gli telefonai dispiaciutissima: “Mi hanno rubato il tuo romanzo con le parole che hai indirizzato a me…”. Lui stava per salire su un aereo e commentò: “Mi dai una bella notizia. Se rubano un libro vuol dire che la scrittura è una cosa preziosa. Tranquilla, te lo rimando. Ma intanto con questa faccenda mi porterai fortuna”. La sera che fu proclamato vincitore dello Strega gli telefonai subito. E lui: hai visto che mi hai messo in contatto con la buona sorte?”.

Lei è legata anche a Raffaele La Capria.
“Eccome. Dudù fa parte della vita della mia famiglia, mia suocera era amica della madre, io lo conosco da quando ero ragazzina. E ogni volta che leggo un suo articolo, sul Corriere o su Il Mattino, penso che gli anni lo hanno migliorato. Certo, il suo Ferito a morte è una grande opera e gli ha dato il successo. Ma le tante primavere che si porta sulle spalle hanno acuito la sua lucidità. Anzi, direi che il suo è un cervello “ragazzo”. E allora, adesso che si parla tanto di rottamazione, facciamola, però con i cretini”.
Signora Leosini, dov’è la sua libreria?
“Ce n’è una in ogni mia casa, perché vivo tra Roma e Napoli, la mia città. Ovunque ho sistemato scaffali in quanto il libro mi piace fisicamente. Azzardo a dire che io vivo dentro la libreria”.

Ma vorrebbe una copertina che rechi il suo nome come autrice?
“Guardi, io do grande importanza alla scrittura. Dalla carta stampata sono passata alla televisione, Storie maledette sono un grande lavoro autoriale, oltre che di documentazione. Da dieci anni mi corteggiano tutte le case editrici, chiedendomi di pubblicare con loro. Mondadori, Einaudi…Un editor di Rizzoli è voluto venire in treno con me a Milano, dove ho partecipato alla presentazione dei palinsesti Rai, solo per convincermi, durante il viaggio, a firmare un volume con il suo marchio. Io rispondo a tutti: mi lusingate ma come vi permettete di chiedermi un libro, un altro tomo che vada a rimpinguare le pile esposte dietro le vetrine? Il tono della mia ramanzina è scherzoso, però penso davvero che si scrive troppo e troppa roba inutile. La scrittura, come la intendo io, richiede concentrazione, solitudine. Io ora sono troppo impegnata con Storie maledette per dare a un libro il rovello che si merita. Anche se poi, in un certo senso uno ne ho scritto, ed ho pure ottenuto un riconoscimento…”

Racconti.
“Ho partecipato a Goliarda Sapienza, un concorso riservato a carcerati. Ognuno di loro aveva un tutor, scrittori di esperienza, come Susanna Tamaro o Carlotto. A me hanno chiesto di seguire Doina Matei, la ragazza romena che in metro con l’ombrello uccise preterintenzionalmente una donna. Si trattava di aiutarla a narrare la sua vicenda in venti pagine. Ebbene, da lei ho preso solo i dati storici e ho rimontato tutto a modo mio. Ho potuto farlo perché ero in vacanza, a Capri. Ho rinunciato ai bagni e mi solo dedicata all’impresa. E ho avuto la soddisfazione di vedere la mia operazione riconosciuta come la migliore e premiata con la pubblicazione in Racconti dal carcere edito da Mondadori”.

 

E questa affermazione non l’ha sollecitata a praticare ancora il campo della letteratura? “Ripeto, è un impegno che non posso permettermi. Del resto ogni testo di Storie maledette deriva da una mia applicazione cesellata alla scrittura. Il librone che mi vedete di fronte quando incontro il protagonista di ciascuna puntata contiene il mio lavoro di autore, che quasi solfeggio, come uno spartito musicale. Insomma, ogni puntata è una biografia dell’animo, che articolo trovando spunti nelle pieghe di un verbale. Il segno della scrittura è personalissimo, non si può delegare a nessuno, né tirar via”.
Che cosa pensa dei magistrati romanzieri?
“ Scrivono bene e hanno la fortuna di trarre molti spunti dalla loro professione. De Cataldo, per esempio, è molto bravo. Però faccio un’osservazione, la stessa espressa quando ho presentato Non sono un assassino, di Francesco Caringella, ora al Consiglio di Stato ma prima giudice ordinario. Per valutare il valore letterario di questi autori, bisogna che non firmino solo noir ma che si cimentino in altri generi letterari. Altrimenti non sono scrittori, ma soltanto magistrati che scrivono”.

Vip e letteratura Simonetta Matone, è Proust il mio autore più amato

A un seminario per l’aggiornamento professionale dei giornalisti dedicato alla cronaca nera in tv David Parenzo ha paragonato Simonetta Matone, presente all’incontro, a una delle maschere delle
“rappresentazioni” di Porta a Porta. Maschere nel senso più alto, come nei classici greci: ovvero fissazione di un tipo umano. Alla criminologa Bruzzone tocca quella dell’accusatrice implacabile e un po’ barricadera nei confronti dei “maledetti” della cronaca nera; allo psicologo Crepet quella di raffinato interprete in pulloverino della mente umana; a Taormina quella dell’avvocato spesso sopra le righe. A Simonetta Matone, sostituto procuratore generale presso la Corte di Appello di Roma, quella del giudice che sa coniugare imparzialità e buonsenso, comunicativa e rigore. Più di tutti i comprimari seduti nel salotto di Bruno Vespa, la signora Matone gode di popolarità, di audience. Insomma, è diventata un volto televisivo tout court. Ed ha accettato volentieri di entrare nella nostra serie di interviste sulle predilezioni letterarie dei personaggi della tivù e della radio.
Signora Matone, che cosa legge oltre ovviamente alle carte processuali? Narrativa o saggistica, poesia o magari, per deformazione professionale, gialli e polizieschi?
“Adoro da sempre la narrativa. Non amo la poesia, tranne quella superscolastica. Dante, Foscolo, Leopardi e Shakespeare. Amo altresì la saggistica, ma solo quella dedicata alle figure femminili della Storia, quasi sempre poco studiate e conosciute”.

E quando legge, in quali momenti della giornata, o della settimana? In vacanza o prima di addormentarsi? “Leggo furiosamente in vacanza d'estate. Poco d'inverno, dovendo scegliere tra tenermi informata e svagarmi”.
Quali sono i libri sul suo comodino?
“In questo momento la biografia di Stefen Zweig su Maria Antonietta, vilipesa da una storiografia d'accatto, ferma alla storia delle brioche, che è pure falsa…”.


In questo periodo a quale volume si sta dedicando?
“Non riesco ancora a finire per motivi di tempo 'Il diavolo e il suo compare' di Alessandra Necci, bellissimo e dedicato a Fouche e a Talleyrand”

E da giovane?
“Da ragazza ho letto e poi riletto La Recherche di Proust, magnifico, immaginifico, evocativo, un vero capolavoro”.

Il titolo più amato in assoluto?
“Il mio libro del cuore è 'Du coté de chez Swann', per l'appunto del divino Marcel”.

Molto spesso la televisione, anche in trasmissioni non specifiche, lancia un libro. Pensa che avvenga troppo spesso? E che avere la ribalta tv sia un privilegio eccessivo per un autore, a scapito di altri?
“Ma magari i libri venissero lanciati. Continuamente. Purtroppo il valore di un libro non si misura col numero di passaggi televisivi. Anzi spesso è inversamente proporzionale. Ricordo un romanzo magnifico, uno dei più belli che abbia mai letto, 'Mio cugino il fascista' di Luigi Ciampi, grande scrittore, di cui ho conosco tutto. Ovviamente ignoto alle masse”.

Scriverebbe un libro?
“Se avessi tempo sì”.

Già, il tempo…Lei ha più volte ricordato come abbia in passato rinunciato a incarichi professionalmente importanti per poter dedicare parte della giornata ai suoi figli piccoli, alla famiglia. E di avere sempre a mente il monito di una collega affinché come giudice potesse tenersi lontana da qualsiasi delirio di onnipotenza: ovvero essere capace la mattina di comminare un ergastolo e però, il pomeriggio, in cucina, di fare il sugo…Ma, tornando alla letteratura, ha conosciuto più da vicino scrittori?
“Sono amica di Riccardo Perissich, che di mestiere fa tutt'altro, è stato un grande manager di Stato, che ha scritto tre libri gialli,veramente belli. Ho presentato con grande gioia due di questi. E mi sono tanto divertita”.
Che cosa pensa dei magistrati diventati autori di narrativa?
“Fanno bene a scrivere. Noi abbiamo esperienze di vita straordinarie ed è peccato sprecarle”.

Dove tiene i suoi volumi? Com’è la sua libreria?
“Un tempo era ordinata e ragionata. Ora è confusa come i tempi che viviamo. Solo le biografie delle donne stanno tutte insieme. Che so? Lucrezia Borgia vicino a Paolina Borghese, la Regina Vittoria vicino a Marilyn Monroe. Ma non credo ne soffrano”.

Ai suoi tre figli quali libri ha consigliato?
“Quelli che strada facendo leggo. Poi li passo soprattutto alle femmine e aspetto i commenti”.

Giudice Matone, lei conosce molto bene il mondo carcerario. In un penitenziario che posto ha, o dovrebbe avere, la lettura?
“Il primo tra le attività ricreative ed educative. Ma l'amore per la lettura è come il coraggio di manzoniana memoria. Se uno non lo ha non se lo può dare...”-

Vip e letteratura, Marco Presta: L’idiota di Dostojevski è il mio libro del cuore

Ventidue anni sulla cresta dell’onda a RadioRai2. Il recordman è Marco Presta, che con Antonello Dose scrive e interpreta dal 1995 ogni mattina “Il ruggito del coniglio”. Inevitabile chiedergli se tra le sue letture ci sia stato “Alice nel Paese delle meraviglie”.
“Ma certamente. Con una totale identificazione in Bianconiglio. Lui ha perennemente problemi di tempo, così vive in simbiosi con un orologio. Anche io e Antonello, dovendo andare in trasmissione la mattina presto, siamo sempre in lotta con ore, minuti, secondi”.

Presta, allora il tempo per leggere dove lo trova, lei che ha decine di impegni oltre che alla radio, dalle sceneggiature come quella per Un medico in famiglia alle messinscene di commedie teatrali?
“Mi ritaglio comunque lo spazio per un impegno che giudico fondamentale come la lettura. Diciamo però che d’estate è più facile”.
Che cosa legge?
“Di tutto, dai libri evocativi di un’epoca al poliziesco, ai classici. La grandezza di uno scrittore è indipendente dal genere letterario che pratica”.

Ma il suo libro del cuore qual è?
“L’idiota di Dostojevski. Un romanzo straordinariamente moderno. La prima volta lo affrontai sui banchi di scuola, il liceo classico Augusto di Roma. Ma è nel novero dei libri che vanno riletti e che, come dicevo, non invecchiano mai”.

 


Tra gli autori italiani chi predilige?
“Ovviamente Ennio Flaiano, per altro per la sintonia con quello che faccio, che ha sempre una cifra ironica. E poi Buzzati, Calvino, Pontiggia. Nel dopoguerra ci sono stati molti scrittori interessanti.
Erano figli di un’Italia diversa. Soprattutto Buzzati mi intriga e lo rileggo spesso. E’ un autore poco esaltato, rispetto per esempio a Moravia, che andava di moda. Del resto Buzzati faceva di tutto per non avere i riflettori addosso e anche per questo mi suscita simpatia come persona. E poi era un intellettuale sui generis: sapeva disegnare, amava l’arte, fu scenografo e costumista. E un grande giornalista al Corriere della Sera dove cominciò con la cronaca”.

Ai suoi due figli poco più che adolescenti, Caterina e Giacomo, che cosa consiglia di leggere?
“I classici. L’Iliade, Don Chisciotte, Shakespeare…Li sprono a partire dagli autori fondamentali, dalle pietre miliari della letteratura. Ma poi fanno di testa loro. Giacomo per esempio si è cimentato con Bukowsky, un autore che ritengo si capisca meglio dopo il periodo scolastico. Ma la scelta deriva da una sorta di ribellione a ciò che la scuola impone di studiare. Lo capirà più tardi”.

Dove tiene i suoi libri?
“Ho due librerie, una nello studio l’altra in soggiorno. Però regna la confusione massima. Mi riprometto sempre di mettere ordine, ma non lo faccio mai. Forse è bello proprio così. Quando per esempio mi chiedo: voglio leggere Saul Bellow, ma dove sarà finito…? Una specie di caccia al tesoro”.
Adesso parliamo di Marco Presta scrittore. Ha firmato tre romanzi e un libro di racconti: Un calcio in bocca fa miracoli, L’allegria degli angoli, Il piantagrane e Il paradosso terrestre.
Come ha cominciato?
“Pubblicai i racconti con un piccolo editore. Li lesse Luciana Littizzetto che abbondò in complimenti e mi consigliò di inviarli alla Einaudi. Che li ha ripubblicati e ha poi mandato in libreria gli altri titoli. Così mi sono ritrovato ad avere un editore prestigioso e una editor, Dalia Oggero, che mi segue benissimo. Tra poco uscirà il mio nuovo libro. Intanto, gli altri sono stati apprezzati anche dalla critica”.

Quando scrive?
“L’estate, la domenica, o incastrando questo impegno con gli altri. Però scrivere per me è un’urgenza, mi piace più di ogni altra cosa, anche del lavoro in radio, che pure mi diverte e che però è stato casuale, perché davvero affrontare la pagina bianca è il mio mestiere”.

Ha conosciuto autori?
“Beh, attraverso l’Einaudi mi capita di incrociare alcuni, anche se non spesso e se sono visto talvolta con sospetto da questi, diciamo, colleghi perché provengo dal mondo dello spettacolo. Invece ho conosciuto bene Andrea Camilleri, che è stato mio insegnante all’Accademia Nazionale di Arte Drammatica. E soprattutto Enrico Vaime, con il quale ho cominciato a lavorare. Da lui ho imparato come si fa l’autore televisivo, che cosa significa impastare i filoni tematici. E lui è un autore a tutto tondo: scrive davvero e non si limita, come tanti ora, a redigere le scalette”.

Vip e letteratura, Folco Quilici: vi racconto la mia amicizia con Calvino e Sciascia
Folco Quilici, il ferrarese ultraottantacinquenne, non si stanca di viaggiare. Ora lo fa soprattutto con la penna, firmando libri di spessore storico. Per Mondadori è tra l’altro uscito “L’isola dimenticata”, un romanzo derivato da fatti realmente accaduti. L’isola del titolo si trova nel Tirreno. Nel 1943 è ridotta alla fame, poiché i tedeschi impediscono qualsiasi contatto con la terraferma. Il grande documentarista non smette di pensare a nuove storie.
Mentre ne esce in libreria una, ne ha già pronta un’altra per il proprio editore. Del resto, la casa in cui vive è una raccolta di ricordi di viaggio e di trofei. Come quelli conquistati per i film e per le serie tv e gli altri ricevuti per i libri: dal Premio Chatwin al Salgari, fino all’Acqui Storia e al Premio Italia.
Quilici, tanti viaggi e tante iniziative corrispondono anche a un impegno come lettore? “Sì, per piacere e per documentarmi”.

E che cosa legge?
“Volumi di storia, soprattutto contemporanea. Di recente mi ha intrigato un saggio americano dedicato alle vicende dello sviluppo della bomba atomica”.

La narrativa non le piace?
“Ne leggevo tanta fino a qualche anno fa, praticamente tutta la letteratura italiana fiorita dal Cinquanta in poi. Ma pian piano sono scomparsi i grandi scrittori, almeno per me. L’ultimo è stato Umberto Eco. Sicché ora mi capita di comprare un romanzo, cominciarlo e poi metterlo da parte dopo le prime pagine perché mi annoia”.
Lei dei grandi autori del Novecento ne ha conosciuti molti. Addirittura tante firme hanno fornito il testo per l’edizione editoriale dalla sua più raffinata serie tv, “L’Italia vista dal cielo”: erano scrittori del calibro di Calvino, Sciascia, Soldati, Piovene, Prisco, Silone…..
“Con alcuni di loro, per esempio Augusto Frassineti, affrontai altri lavori e strinsi anche una sincera amicizia. A patto di saperli prendere”.


Racconti.
“Italo Calvino, per dirne uno. Con lui ho fatto Tikoyo e il suo pescecane. E’ stato il più difficile da trattare, non era agevole conviverci. Aveva sempre tempi stretti, ed è comprensibile visto il suo impegno alla Einaudi e il lavoro di scrittura. Però quando veniva a Roma riuscivo a passarci insieme parecchio tempo. E poi abbiamo condiviso una passione comune, la montagna. Con memorabili escursioni”.
Anche Sciascia fu suo sodale.
“Pure lui, e mi considero fortunato. Vede, Leonardo aveva un carattere dolcissimo ma era molto chiuso. Viveva appartato in un borgo siciliano, non possedeva il telefono, o almeno faceva finta di non averlo, visto che non dava il numero a nessuno. Però mi riuscì di scardinare le spigolosità del suo carattere”.
Da ragazzo amava leggere?
“E’ stata la mia passione che mi ha anche formato. Ovviamente la parte del leone la facevano i libri di avventura e quelli di viaggio. Come Caccia alla balena di Cesco Tomaselli, poi tutti i Salgari e i Verne”.
Dove tiene i libri?
“Oh, una volta erano tutti in perfetto ordine. Ora sono così numerosi e accatastati ovunque che se ne devo trovare uno vado a comprarmelo, tanto la ricerca è complicata”.

E a suo figlio Brando, anch’egli suggestivo regista, ha dato qualche consiglio di lettura? “Ho provato, cercando di istradarlo su opere che ritenevo adatte, ma lui è molto diverso da me, preferisce titoli di analisi politica, di economia. Anche il suo cinema ha un taglio scientifico, diverso dal mio, che pure si basa su accuratissime ricerche”.

Ha in programma nuovi film?
“Sono avanti con gli anni, le mie pellicole richiedono set impegnativi, in luoghi impervi, in situazioni limite. In questa stagione della vita per me è meglio scrivere. L’ultimo lavoro fatto con l’Istituto Luce per la tv, sullo sbarco in Sicilia del ’43, è andato molto bene ed è uscito nel circuito dei video”.

Com’è nato “L’isola dimenticata”?
“E’ il libro che ha avuto la più lunga gestazione. L’idea mi venne intorno al 1975, mentre filmavo le isole italiane. Nell’arcipelago toscano c’è un promontorio affacciato sulla cosiddetta Cala Rossa, conseguenza di un’eruzione vulcanica. E in una fenditura della roccia scorsi una scheggia metallica. E’ quanto resta della corazza di una mina, mi disse chi mi aveva accompagnato fin lì. In seguito mi imbattei in un analogo frammento incastrato nella scogliera di Capo Carbonara, in Sardegna. Mi spiegarono che durante la seconda guerra mondiale gli abitanti affamati di certe isole o di sperdute località marine usavano l’esplosivo contenuto nelle mine per prendere nel mare i pesci, unico cibo possibile. Ho montato e rimontato nella mia testa queste storie e ho creato il mio plot, che ha al centro un giovane tenente ferito in Africa nel ’43 e tornato alla sua sperduta isola”.

Quanto è durata la stesura di questo romanzo?
“Due anni, nei quali però alla scrittura ho inframmezzato altri impegni. Sa, anche Mondadori, mio editore di sempre, ora ha rallentato gli anticipi di compenso per i suoi autori. La crisi c’è ovunque”. Però dopo la lunga gestazione de L’isola dimenticata si è rimesso subito al lavoro.
“Sì, ovviamente con l’editore di Segrate. A novembre 2016 l’uscita del volume sugli animali usati in guerra. Una sequenza di episodi che ritengo sia insieme toccante e interessante”.

Vip e letteratura, Dario Salvatori: vi racconto il Moravia mondano che ho conosciuto
La tv swinging lo annovera tra i suoi maestri, la radio tra le sue voci più amate. E’ Dario Salvatori, l’esegeta per eccellenza della canzone, italiana e non. Un epigono di Renzo Arbore (col quale ha lavorato da Bandiera Gialla a Quelli della notte) non sono per l’enciclopedica conoscenza del settore, ma anche per lo stile: sorprendente il suo abbigliamento autenticamente anni Cinquanta - Sessanta, confermato da un accenno di ciuffo sulla fronte; coinvolgente la sua ironia. C’è dietro la full immersion nella cultura del passato prossimo e del presente. E dunque, ecco anche l’incursione nel Dario Salvatori lettore.

Dario, quanto tempo dedica ai libri?
“Molto, sia per piacere che per lavoro. In questo secondo caso, non posso ignorare quelli che scrivono di musica, e sono molti, specie nella saggistica. E però attualmente mi sta coinvolgendo professionalmente ed emotivamente Il resto è rumore di Alex Ross, critico musicale del New Yorker. Un tomo di quattrocento pagine firmato da quello che io considero un dio assoluto nel campo per ampiezza di vedute, per il talento straordinario. Il pregio di questo libro? E’ un saggio scritto con godibile leggerezza”.
La narrativa la frequenta di meno, mi par di capire.
“Sulla mia scrivania prevale senza dubbio la saggistica. Ma mi appassionano certi autori. Su tutti, Alberto Moravia. Bompiani, il suo editore di sempre, ha recentemente pubblicato una raccolta di lettere dal ’28 al ’41, per lo più inedite, scritte appunto a Valentino Bompiani, alle sorelle, ad amici. Tra l’altro spiega perché, negli anni Trenta, non sposò una donna inglese che pure lo aveva coinvolto molto. Del resto, egli ebbe molti amori, ma la fede al dito se la fece mettere soltanto da Elsa Morante in gioventù e a 79 anni da Carmen Llera. Un personaggio particolarissimo, che ho conosciuto personalmente: anzi, ho conosciuto soprattutto il Moravia mondano”.

Ci racconti.
“Lo vedevo alle feste. Nonostante fosse claudicante per la Tbc ossea che lo aveva a lungo confinato in un sanatorio a Cortina e costretto a studi irregolari, egli amava ballare. Certo, anche durante i party non nascondeva il suo caratteraccio e l’atteggiamento maschilista nei confronti delle donne. Il cliché era questo: la notte gli piaceva girare, qualcuno gli proponeva una festa, lui riluttante accettava, arrivava, ballava, corteggiava qualcuna, poi assumeva l’aria scocciata, dando a vedere di annoiarsi a morte. Beh, questo personaggio che, nonostante la fama, non rimaneva abbottonato, si faceva comunque coinvolgere in un ambiente di gente molto più giovane di lui, ebbene, mi divertiva moltissimo. Del resto il suo matrimonio con la spagnola Llera, 45 anni in meno di Alberto, fu assai chiacchierato. Ma dal mio angolo visuale rientrava perfettamente nel Moravia che avevo frequentato”.
Scommetto però che tra la narrativa da lei amata non possono non esserci gli autori della Beat Generation. “Esatto. Con una premessa, però. Anche da adolescente mi aveva affascinato la letteratura americana. Jack London, Melville, ai quali affiancavo però il francese Jules Verne. E non chiamatela letteratura per ragazzi, i loro sono romanzi che squarciano temi esistenziali comuni a tutta l’umanità. Poi, certo, ho letto e riletto Ginsberg, Kerouac, purtroppo scomparsi presto. E fui tra la folla del Festival dei Poeti di Castel Porziano, dove conobbi Gregory Corso e Lawrence Ferlinghetti. Del resto, se sul versante musicale la mia guida è stato Arbore, in quello letterario e culturale in senso lato la mia maestra è stata Fernanda Pivano”.
Che cosa le ha insegnato?
“Il senso dell’internazionalità, lei che era traduttrice degli scrittori del Nord America e che, di famiglia abbiente, aveva sempre viaggiato. Ma, soprattutto, da lei ho imparato a costituire un archivio. Adesso che anche io ho l’età per dare indicazioni a qualcuno, dico che l’archivio personale è fondamentale. La Rete non lo sostituisce affatto, al massimo può essere utile a un’informazione rapida e per sommi capi. Altrimenti, ovvero se bisogna approfondire un argomento, Internet è fallace”.

Da questo archivio desumo derivino anche i tanti libri che ha scritto.
“Sì, e sono di diverso tenore. Ma negli ultimi anni ho creato nel campo musicale quello che hanno fatto in quello cinematografico Molendini e Mereghetti. Così ogni anno esce “il Salvatori”, ovvero il catalogo di tutte le canzoni, a partire dalle villanelle medievali per arrivare ad oggi. Alle edizioni 2014 e 2915 ho unito la 2016: in totale ho preso in considerazione 15 mila titoli, mille in più ogni anno. E di ciascuno fornisco giudizio critico, storia, pettegolezzi, retroscena, plagi, eccetera”.

Come giudica il mondo dell’editoria?
“Ho pubblicato sia con grandi Case, come Mondadori e Rizzoli, sia con medie, sia con piccole. Problemi e successi si possono trovare in ciascuna di esse. Questo è un mondo nel quale contano le idee, i best sellers sono casuali, non è più il tempo di Linder, il re degli agenti letterari. Certo, molti dei successi sono robaccia. E non è vero che il best seller lo fa solo in titolo, o che il titolo lo veste di vera nobiltà. Per esempio, “Io speriamo che me la cavo” ha un titolo furbo, creato a tavolino dall’editor, ma dietro c’è un’idea. “Cento colpi di spazzola prima di andare a dormire” ha egualmente un titolo acchiappa-lettore, ma dentro non c’è niente”.
Quando legge Dario Salvatori?
“Dipende. Se devo recensire, mi isolo davanti al testo in qualsiasi ora del giorno. Invece i libri che affronto per piacere li sistemo sul comodino. Di notte, anche tarda, leggo molto, accalorandomi quando non condivido ciò che è sulla pagina e incuriosendomi a scardinare il meccanismo di un best seller, a capirne la tecnica, che è poi anche quella di catturare il lettore nelle prime 150 righe.
Leggere è un modo meraviglioso per chiudere la giornata. Certo, non è un granché per due partner. Quando uno dei due dice: che fai, leggi? significa che la passione è finita…”.

Vip e letteratura Vanessa Scalera: il mio primo libro, le poesie di Totò
E’ stata una dirompente Lea Garofalo nel film tv di Marco Tullio Giordana prodotto dai Rai Fiction, applaudito al Roma Fiction Fest 2015, andato in onda su Rai Uno con ottimi ascolti. Ma è anche volto del cinema e del teatro. Sul grande schermo con Marco Bellocchio in “Vincere” e “Bella addormentata” e con Nanni Moretti in “Mia madre”. E ama moltissimo il teatro, che l’ha impegnata tra l’altro a Roma con la trilogia di Filippo Gili, una riflessione inusuale sulla morte. E’ Vanessa Scalera, versatile e riservata attrice pugliese dagli occhi ardenti e dalla figura slanciata, dallo sguardo profondo che sa aprirsi però al sorriso più coinvolgente. Vanessa, nel progetto di “Lea”, il film tv sulla testimone di giustizia calabrese che ebbe il coraggio di denunciare il marito e che, dopo anni di esilio con la figlia, venne eliminata dal coniuge e dalla sua banda, c’è anche l’impegno di Libera, l’associazione di don Ciotti, di proiettare il film nelle scuole, per diffonderne il messaggio di contrasto civile alle mafie. “Sì, Giordana ha presentato il film nelle scuole, talvolta accompagnato da Alessio Praticò, che impersona il marito assassino di Lea, Carlo Cosco. Io ho detto a don Ciotti che sono pronta a parlare dell’argomento ovunque egli voglia. La pellicola è stata anche proiettata allo Spazio Oberdan di Milano. Ancora a Milano, la città che vide l’esecuzione di Lea Garofalo, l’opera di Giordana è stata programmata nell’ambito del Festival dei Diritti Umani. Non ho mancato agli appuntamenti”.
Dopo tv e teatro, che cosa vuole fare?
“Ci sono alcuni progetti, vedrete quando si definiranno”.
E nei momenti di pausa lascia spazio a quello che considera, ha detto spesso, il passatempo preferito, la lettura….
“Già, anche se lo accumuno alla passione per la bicicletta. Che posso mettere in pratica però soltanto quando sono a Mesagne, la mia città natale, perché Roma, dove vivo, col suo caos non è un posto per le due ruote”.
Ma come è diventata come si dice “lettrice forte”?
“Ho cominciato da bambina. Ero alle elementari, ricordo che passavano a scuola rappresentanti di commercio per la vendita di libri. Non li acquistava nessuno, io invece chiedevo a mia madre che me li comprasse. E quando li avevo tra le mani mi affascinava subito l’odore di quei volumi. Conservo ancora quella memoria olfattiva”.

Qual è il primo libro che lesse?
“Le poesie di Totò. Le leggevo e poi le recitavo. Avevo dodici anni, percepivo il dialetto napoletano di quei versi come lingua perfetta per la recitazione. Poi vennero per me altri autori di culto: Gabriel Garcia Marquez, con il suo mondo fantastico e misterioso, eppure facile da leggere per un’adolescente, molto più della trilogia di Calvino”.
E dopo?
“Dopo i grandi classici russi, primo tra tutti Dostojevski, che resta il mio autore preferito. Ancora, Sartre, e, tra gli italiani, Fenoglio e Pavese. Insieme, ovviamente, ai testi teatrali, che sono stati il pane per il mio lavoro. L’ultimo che ho tenuto sul comodino e che ho portato in teatro, l’Antigone di Sofocle”.
E mentre Vanessa Scaleva leggeva e cresceva, nasceva l’attrice. Come?
“Parlare su un palco è stato un sogno accarezzato fin da bambina. A 19 anni ho lasciato Mesagne per Roma. Nella Capitale ho frequentato un corso di recitazione a La Scaletta. Sa, la mia è una famiglia semplice, genitori infermieri, poca conoscenza dei meccanismi di formazione di un’aspirante attrice…”
Però quello che ha imparato alla Scaletta ed evidentemente il suo talento naturale sono bastati se poi, a 22 anni, è andata in tournée con Johnny Dorelli…
“Memorabile esperienza con un signore della vita e della scena. Rappresentammo ovunque in Italia una commedia, L’amico di tutti, che aveva trionfato a Broadway. Io interpretavo una ragazza spigliata, vivace. Insomma, un ruolo perfetto per la Vanessa Scalera di quegli anni”.

Invece poi ha affrontato il più delle volte ruoli drammatici.
“Già, ma amerei anche tornare ai leggeri. Commedie, non musical, perché non so cantare e perché è un genere che non mi piace. Ma soprattutto sogno di interpretare personaggi maschili: vorrei vestire i panni di Enrico IV di Pirandello o dello shakespeariano Amleto”.

Torniamo alla lettura. Quando?
“Di notte, e sto sveglia magari fino alle quattro. Talvolta mi riprometto, di giorno: ora leggo. Però le ore del silenzio notturno sono quelle che mi ammaliano di più per affrontare un libro”.

E dove tiene i libri?
“In casa ho due librerie. Una in camera da letto, ed occupa un’intera parete. L’altra, più piccola, nello studio”.
Ha letto Eco, il gigante scomparso a febbraio 2016?
“Sì, ma non lo amo moltissimo. I suoi romanzi non hanno la capacità di colpirmi, di coinvolgermi. Forse si percepisce troppo la formazione intellettuale dell’autore, che egli inevitabilmente trasmette ai suoi personaggi”.
Mi pare che non si dedichi molto ai romanzieri contemporanei.
“E’ vero. Quando devo scegliere un titolo, finisco per orientarmi verso i grandi classici. Forse perché amo immedesimarmi nei personaggi simbolo della letteratura mondiale, le Bovary, le Karenine…Chi non vorrebbe interpretarle? Invece riguardo agli autori contemporanei mi dico: ho talmente tanto da leggere e tanta voglia di farlo che troverò il tempo anche per loro”.

Ha presenziato al Festival International du Film d’amour di Mons, dove è stata in giuria insieme tra gli altri a Daniele Luchetti. Che effetto fa stare dall’altra parte della barricata?
“Strano, nel senso che è tutto più semplice di quanto si immagini. Se sei un giudicato, pensi che i giurati siano dei mostri di cattiveria. In realtà sono persone amabili e normali, alle quali l’occasione permette di discutere, di mettere in evidenza i loro gusti personali e di confrontarli con gli altri componenti della giuria. Però una cosa mi preme dire: preferisco essere valutata che valutare”.

In bocca al lupo, Vanessa Scalera, tanti di questi concorsi e di questi libri.

Vip e letteratura, Savino Zaba: è Il profeta di Gibran il mio libro del cuore
Savino Zaba è un “camaleonte”dello spettacolo: ha cominciato nel 1987, a sedici anni, con la radio, anzi le radio, private, rampanti, vivaio di personaggi. E’ approdato poi alle tv, da Telemontecarlo col Tappeto Volante di Luciano Rispoli, a mamma Rai, dove, per restare all’ultima performance, conduce “A qualcuno piace cult”. Ma anche le tavole del palcoscenico lo conoscono, per il suo impegno nel “teatro canzone”, addirittura sfociato sul grande schermo come nel caso di “Il bene mio”, omaggio a un faro della canzone popolare, Matteo Salvatore, e diventato docu-film con il titolo di “Prapatapumpapumparà”. Infine, l’incursione nel web, in una serie per Rai Radio2, “Per così poco”.
In tanta vulcanica attività, che posto hanno i libri nella vita di questo cerignolese orgoglioso di esserlo? Insomma, che cosa legge Savino Zaba?
“Ultimamente sono molto catturato dalla saggistica, quella linguistica, e le spiegherò dopo perché. Ma da sempre mi piace la narrativa. Meno i libri-inchiesta. Della cronaca e dell’attualità mi nutro attraverso i quotidiani”.
Ma che cosa ha sul comodino?
“Più che comodino è una lunga mensola, capace quindi di ospitare parecchi volumi: tra questi Emmaus di Baricco, Né qui né altrove di Carofiglio, E se la vita fosse una jam session? di Renzo Arbore”.
Ora che cosa sta leggendo?
“Open di Andre Agassi. Sembra un libro leggero, in realtà racconta con snodi drammatici la vita del campione di tennis. Idolo malgré lui, perché allo sport è stato costretto da piccolo da un padre dispotico. Il tennis lo ha odiato e ne è stato in un certo senso esistenzialmente consumato. Ma la consapevolezza di possedere un grande talento lo ha inchiodato ad andare avanti”.
Da ragazzo quali titoli ha amato?
“I più disparati: da Ragazzi di vita di Pasolini a Fontamara di Silone, ad Alta fedeltà di Nick Hornby. Ondivago nella vita, ondivago nella lettura, vede?”.


Il libro del cuore?
“Qui non ho dubbi. Il Profeta di Gibran: una grande lezione di vita che si apre ai temi fondamentali, lo spirito,la mente, la natura. Con un afflato latamente religioso, ma una religione che non sposa nessuna fede, che è quella dell’uomo”.

Ha conosciuto autori di letteratura?
“Alcuni occasionalmente, come Pino Aprile, Maria Latella, Andrea Scanzi al Premio Sila che ho condotto. Baricco e Carofiglio li ho incontrati con soddisfazione. Ma quello che mi ha dato di più è stato il vincitore del Premio Strega 2015, Nicola Lagioia, pugliese come me. Gli inviai la bozza del mio libro, Beato a chi ti Puglia. Mi rispose molto gentilmente e ci confrontammo anche sulle tecniche di scrittura”.
Dunque, veniamo a Savino Zaba scrittore.
“Ecco, Beato a chi di Puglia è nato dalla voglia di raccontare la mia terra. E’ una serie di fotografie, di polaroid direi, del posto dove sono nato e dal quale sono emigrato. Un emigrante non con la valigia di cartone, ma molto fortunato. Renzo Arbore ha firmato la prefazione. Ed è stata una bella esperienza personale. Editorialmente meno. Mi pubblicò Palomar di Bari che poi ha chiuso i battenti. Epilogo per me: contratto rescisso, non un euro dalle copie vendute. Ma tant’è. il mondo dell’editoria è difficile, si stampa troppo, ci vuole coraggio a diventare imprenditore in questo campo. Gli editori sono eroi, affrontano il loro lavoro come una missione”.
Lei intanto ci riprova a pubblicare.
“Stavolta mi cimento in uno studio sull’evoluzione del linguaggio radiofonico dal primo vagito, il 6 ottobre 1924, a oggi. Per questo, accennavo all’inizio, mi sto occupando di saggistica linguistica, La storia della lingua italiana di Migliorini e La storia della radio e della televisione di Monteleone”.
Come si intitola?
“Per ora, provvisoriamente, Parole parole…alla radio. Analizza come dal parlato scritto degli anni Venti si sia arrivati al parlato parlato. Il tutto raccontato anche attraverso interviste ai protagonisti e un focus su un opuscolo del 1953 di Gadda, il geniale autore di Quer pasticciaccio brutto de via Merulana. Lavorava in Rai e scrisse un libriccino, Norme per la redazione di un testo radiofonico, che ho analizzato valutandone l’attualità”.
Un lavoro impegnativo.
“Diciamo che mi sto facendo un regalo per i miei trent’anni alla radio. Ho cominciato il 24 giugno del 1987, la radio è stata la colonna sonora della mia vita. La scrittura invece è un completamento, un gioco. E infatti se va alla mia voce su Wikipedia, troverà tante definizioni di me come uomo di spettacolo, ma non come scrittore”.
Che ne pensa dei passaggi dei libri in tv?
“Giusto che i media li promuovano. Però sono troppi, non c’è spazio per tutti e sulle tv generaliste sono privilegiati i più famosi. Ora però, per gli altri, suppliscono internet e i social”.
A suo bambino Niccolò quale libro consiglierà?
“Quando imparerà a leggere, gli comprerò Robinson Crusoe di Defoe, Il Gabbiano di Livingston, Il piccolo principe di Saint Exupery. Dei classici della letteratura per l’infanzia. Spero che ne sia catturato”.
Lei quando legge?
“Soprattutto quando viaggio e sono in vacanza. Ecco, questo nostro colloquio avviene mentre sto per partire in aereo. E sono contento perché approfitto dell’occasione che avrò tra qualche ora per dedicarmi alla lettura”.
Com’è la libreria di Savino Zaba?
“Ce ne sono in molti angoli della mia casa. Dalla mensola sul letto, di cui le dicevo, alla libreria nel soggiorno. Poi quella del mio ufficio, ricavato in un’ala dell’appartamento. Libri, cd, foto hanno un ordine preciso, tutto mio. Sono catalogati per genere: viaggi, comicità, narrativa, sport, saggi. Facile, no? Così riesco a ritrovare ogni copertina che in un particolare momento mi interessa”.

Vip e letteratura, Iva Zanicchi: vi racconto la mia amicizia con Ungaretti e Buzzati
Iva Zanicchi mi ha risposto subito al cellulare. Era in automobile, insieme con Corinne Clery e Barbara Bouchet. Per due stagioni hanno portato in tournée una commedia brillante, “Tre donne in cerca di guai”, del francese Chevret per la regia di Anselmo Nicasio: impersonavano un terzetto di signore di mezza età capaci di reagire con verve alle delusioni della vita. E Iva si è divertita moltissimo, lei che di verve ne ha a iosa e di delusioni invece non ne ha avute poi troppe rispetto al successo ottenuto. Una vita di record e di affermazioni, la sua: dalla vittoria, unica donna, a tre Festival di Sanremo al concerto al Madison Square Garden, prima italiana a calcare quel palco; dall’exploit in televisione come conduttrice di lungo corso (chi non ricorda “Ok, il prezzo è giusto” su Canale 5) all’esperienza politica come parlamentare europea prima con Forza Italia, in seguito con il Popolo delle Libertà.

Signora Zanicchi, in tanto lunga e articolata carriera la lettura trova posto?
“Certo. Le dirò di più: è il mio passatempo preferito. Però ora un po’ meno, perché la vista non mi aiuta. E non mi dica di ricorrere agli audiolibri. Non sono la stessa cosa rispetto a un volume da sfogliare, da usare e usurare, magari tornando indietro di qualche pagina per fissare meglio un concetto, un passaggio della trama”.
Quando è diventata lettrice forte?
“Da bambina. Con tutte le difficoltà che in questo campo mi ha imposto la mia impareggiabile infanzia. Ligonchio, il paesino di montagna dove sono nata, non aveva mica librerie o biblioteche. Mi accontentavo dei libri che avevamo in casa. Pochi. Sicché li ripassavo infinite volte. Quello sugli animali lo conoscevo a memoria. Idem Il Vangelo. E poi le gesta dei Crociati nella Gerusalemme Liberata. A Ligonchio la mandavano a memoria e poi la recitavano in piazza. E nel bagaglio di questa cultura orale c’era anche l’Inferno di Dante. Un amico di mio padre non ne tralasciava una parola. Lo declamava, tutto a mente”.

 


Ma avrà anche scoperto la narrativa.
“Girando di casa in casa. Una mia amica mi prestò Via col vento. Avevo nove anni, lo lessi tutto d’un fiato. Una vecchietta mi dava i romanzi di Liala e di Carolina Invernizio. Che effetto mi fece Il bacio di una morta…Poi ho scoperto la letteratura americana e me ne sono innamorata: Hemingway, Steinbeck. E Pirandello. E D’Annunzio, il grande D’Annunzio negli anni Sessanta oscurato perché tacciato di essere fascista. Che stupidaggine quando l’ideologia politica affibbia etichette e se non sei della parte dominante su di te cala il sipario”.
Veniamo a tempi più recenti.
“Ho amato Umberto Eco de Il nome della rosa, ma non ho finito di leggere Il pendolo di Focault. Mi intrigano Camilleri, Ken Follett, Faletti”.
Lei ha dedicato una canzone a Ungaretti.
“Sì, e l’ho conosciuto bene, frequentandolo un’intera settimana a Salsomaggiore Terme, in occasione del premio per la regia televisiva. Un poeta bambino lo definirei, tanto mi parve candido. Era il 1970, qualche mese dopo morì”.
Nella swinging Milano degli anni Settanta c’era l’occasione di altri incontri.
“Era l’ombelico del mondo. Buzzati lo conobbi in un salotto bene, quando frequentava la libreria- galleria Cortina, dove poi espose molte sue opere. Era un affascinante affabulatore. E ricordo le serate con Mario Luzi, con De Chirico, con Carlo Bo, al quale mi legò una cordiale amicizia durata anni”.
Dove ha sistemato le sua libreria l’Aquila di Ligonchio?
“Non esiste una mia dimora senza libri. Mi sembrerebbe spoglia. C’è una libreria nella casa di montagna e due in quella di città, una ufficiale e un'altra più intima”.
Intima? Si spieghi.
“E’ nel salottino attiguo alla mia camera da letto. Ci sono i volumi ai quali sono più attaccata. Un certo periodo non facevo che leggere le biografie di regine e donne famose, dalla Callas a Caterina di Russia”.

Ma ci sono anche i libri firmati da Iva Zanicchi. Il primo, Polenta di castagne, è stato un successo.
“Mi ha dato tanta soddisfazione. Ha avuto critiche positive, come quella di Aldo Grasso, mi ha fatto vincere il Premio Alghero Donna, ha venduto 120 mila copie. Un libro autobiografico: narra delle donne della mia famiglia, povera ma orgogliosa come poteva esserlo un nucleo dell’Appennino tosco-emiliano negli anni Cinquanta. I miei nonni erano immigrati, la vita era stenti e fame, combattuta appunto con la farina delle castagne locali. All’improvviso, nel decennio successivo, la svolta: partecipai a Castrocaro, agguantai il successo”.
Ha scritto anche altro.
“Con il secondo libro, I prati di Sara, ho voluto tentare il romanzo. Beh, ho peccato di presunzione, e allora i critici mi hanno castigato per aver osato troppo. Dunque sono tornata all’autobiografia per il terzo mio titolo: l’infanzia, la guerra, l’avvio come cantante, l’affermazione. Fino all’avventura in politica”.

Lei ha una figlia. Che cosa le ha fatto leggere da bambina e che cosa vorrebbe che leggessero anche oggi i piccoli?
“Pinocchio. E’ bellissimo, una storia di formazione piena di poesia e schiettezza. Ma non mi stancherei di ripetere ai ragazzi: prendete in mano un libro il più possibile. E lasciate un po’ da parte cellulari e internet. E dopo aver letto, tornate a scrivere lettere”.

Fonte: testo tratto da http://www.maridacaterini.it/ftp/vipeletteratura.pdf

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