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Innanzitutto vi saluto; mi presento: sono stato invitato perché abito vicino a Pinerolo, sono pinerolese di nascita però il fatto è che sono direttore della Caritas di Torino e mi chiamo Pier Luigi Dovis. Sono l'unico direttore non prete della Caritas degli Uffici della Diocesi di Torino. Cerco di affrontare questo tema, abbastanza complicato da affrontare in poche battute. Non è che abbia da proporre qualcosa di esaustivo: è un tentativo di riflessione ad alta voce a partire dal mio osservatorio che è la città metropolitana, quindi con alcune leggere diversità rispetto alla situazione di Pinerolo, e quello della partecipazione ad un certo numero di gruppi di lavoro che la Regione Piemonte ha, quindi c'è anche una visione un po' più ampia della situazione ed è quella in alcuni casi dell'Italia a partire dall'Osservatorio che la Caritas italiana ha rispetto a 254 realtà territoriali che sono le Diocesi con le problematiche inerenti al mondo della povertà e del disagio. Le notizie che ho sono molte però sono un po' parziali , non ho tutto l'aspetto ad es. dell'ente pubblico con cui collaboriamo ma avendo una dimensione territoriale che copre ben 10 consorzi socio-assistenziali più un comune metropolitano come quello di Torino diventa un po' difficile avere una interlocuzione così precisa come magari potete avere in una realtà come Pinerolo, in una città di queste dimensioni. Detto questo vado un po' a ruota libera come mio costume, ma vorrei partire con una premessa: mi pare che sia il volontariato che l'ente pubblico che la cultura ambiente nella quale ci troviamo a vivere quando parla di povertà oggi debba per lo meno cambiare l'idea su tre concetti collegati a questa realtà: il concetto di povertà
Il concetto di disagio
Il concetto di esclusione e per contrasto quello di inclusione
Mi pare che questi concetti utilizzati 10, 20 anni fa avessero una valenza particolarmente pregnante; in parte sta cambiando. Parto dal concetto di povertà: mi pare di capire che oggi non possiamo più parlare di povertà al singolare, nel modo più assoluto ma dobbiamo cominciare ad abituarci a parlare di povertà al plurale, anche se non cambia la desinenza in italiano ma cambia la sostanza e questo non solo riferito alle nostre società, alle nostre città. Quindi non solo dicendo nella nostra città ci sono più povertà ma anche quando ci riferiamo alla singola persona questa è sempre più vittima di una serie di povertà e non più di una povertà . Ce ne sarà sempre una maggioritaria in qualche modo ma sono delle correlazioni di situazioni di povertà. Cosa a mio giudizio importantissima perché l'ente pubblico come quello privato non può pensare più di riuscire sempre ad incasellare il Sig. Giovanni che vive più povertà in una sola casella nella quale si cerca di trovare una strada di soluzione per il suo problema. Abbiamo bisogno di porci in una situazione di laboratorio per trovare delle soluzioni innovative a partire dalla attuazione delle politiche sociali passando attraverso la correlazione tra sanità ed assistenza per arrivare al rapporto tra il pubblico e il privato nei servizi che vengono resi alle persone. Questo mi pare sia un primo dato molto importante quindi povertà al plurale.
Il disagio: il disagio è correlato con la povertà, ma non necessariamente è la stessa cosa, molti poveri sono anche in disagio sociale. Ci sono dei disagiati a livello sociale che non vivono le dinamiche proprie della povertà però anche qui non possiamo più parlare di un disagio univoco perché sta crescendo, pur rimanendo ancora questo disagio più univoco, il numero di soggetti portatori di multi-problematicità all'interno del disagio. E' rarissimo trovare il tossico e basta. C'è il tossico malato di mente con problemi economici (faccio esemplificazioni per capirci). La multi-problematicità nel disagio è un fattore di ulteriore rischio ed è un fattore di ulteriore difficoltà nell'affrontare il problema che il disagio o la persona che è in situazione di disagio ci pone di fronte. Ancora: oltre alla multi-problematicità il disagio sta in questo momento subendo una espansione. Noi siamo forse abituati dalla nostra cultura mass-mediatica a pensare il disagio in un certo ambito, per cui diciamo (le statistiche ce lo dicono) abbiamo meno tossicodipendenti. Quindi stiamo andando meglio. Sarà anche vero che abbiamo meno tossicodipendenti ma abbiamo più persone che fanno uso di sostanze leggere, ma stanno crescendo dei fenomeni particolarissimi quali quello del bullismo che nelle scuole medie e primi anni delle superiori in alcuni situazioni non degradate, non sto parlando del quartiere più degradato della città, sto parlando neanche della Crocetta, sto parlando di in quartiere normale dove questo fenomeno sta chiaramente dicendo di un disagio giovanile che non si esprime più attraverso le categorie classiche valide fino a qualche tempo fa ma sta prendendo dei canali diversi, c'è un canale del disagio giovanile ad es. che sta pigiando l'acceleratore su forme di sfida al destino, le corse pazze in moto, macchina, in certi viali a certe ore, sono un modo di concepire la propria esistenza che porta se non controllata ad una forma di disagio. Quale è questo modo di concepire la propria esistenza? "Se la va vuol dire che merita vivere, se non la va vuol dire che non merita vivere". Attenzione, questa è l'anticamera di un disagio che ti porterà tutta la vita a vivere tentando ma non tentando positivamente, tentando al limite delle tue possibilità. Quindi, di qui il passaggio alle droghe pesanti è abbastanza semplice, ... Per cui, un disagio che si sta aprendo su queste dimensioni: dove sta il problema? Nel fatto che molte volte noi non ce ne accorgiamo non se ne accorgono i soggetti ma neanche noi perché non abbiamo ancora l’orecchio attento a questo tipo di segnale che ci viene in questo ambito. Sul concetto di esclusione penso ci sia da fare attenzione al fatto che stiamo ampliando nuove categorie di esclusione che erano assolutamente inedite: allora parlare di esclusione per la famiglia di un operaio Fiat 10 anni fa pareva non possibile; oggi un operaio Fiat di 55 anni che non ha una certa capacità produttiva e che quindi è messo in mobilità (magari in mobilità lunga) rischia non necessariamente di entrare in una categoria di esclusione che è completamente nuova da quelle che avevamo noi in testa, ed è l'esclusione non dal mondo del lavoro ma dalla significatività del lavoro, che lo porta a fare entrare la propria famiglia nella esclusione dalla cosiddetta vita normale; perché devo fare dei tagli, facendo questi tagli mio figlio non è più uguale agli altri (adesso lo banalizzo) non riesce più a tenere il passo con quelle che sono le esigenze più o meno giuste che la società ti propone quindi questa è un'esclusione di fatto o può diventare un'esclusione di fatto. Non un'esclusione di tipo grave ma è quella che i sociologi oggi chiamano "le finestre delle povertà grigie".
E le povertà grigie sono sicuramente un ambito nel quale noi dovremo andare ad indagare molto di più: leggevo l'altro giorno sulla Stampa: 90.000 i poveri piemontesi (ricerca condotta dalla Provincia) ma 90.000 sono quelli che si vedono; le povertà grigie emergono con grandissima difficoltà. Nella mia città le povertà grigie sono anche quelle degli anziani, ma non sono solo quelle degli anziani, c'è tutta una fascia di adulti, famiglie con bambini ancora sotto la soglia della maggiore età che stanno entrando in questa soglia grigia. Non sono poveri, ma non sono neanche più ricchi e basta un nonnulla per entrare nell'ambito della povertà. Vi porto un esempio concreto in un paese qui vicino, capitato l'altro giorno: una persona malata psichiatrica, non di grande livello. Abita in una piccola casa che confina con un grattacielo. Questa persona avendo delle difficoltà psichiche non riesce a regolare bene il volume della sua radio di casa, quindi ogni tanto questa radio è un po' "fortina" ma non è che mette un amplificatore da chissà quanti mega sotto casa, è un po' fortina ... soprattutto nel periodo estivo aveva le finestre aperte; 12 condomini del condominio vicino gli hanno fatto causa per disturbo della quiete pubblica. La legge giustamente è intervenuta, ha riconosciuto la colpa del signore in questione, lo ha condannato a pagare un'ammenda neanche avesse fatto un concerto in Piazza Castello alle due dopo mezzanotte, senza avere l'autorizzazione. Questa persona non era un escluso, perché un piccolo reddito ce l'aveva, era in grado di mantenersi la sua piccola casa, e nonostante la sua piccola disabilità psichiatrica riusciva a curarsi in qualche modo. Adesso questa persona per pagare l'ammenda a cui è stato condannato e le spese, ha deciso di vendere la sua casa. Dicendo "Poi me ne compro una più piccola". Non riuscirà mai a prendere una casa più piccola, il mercato della locazione lo sapete benissimo non lo permette, sta diventando un escluso. Per colpa della legge? No semplicemente perché mancano delle soluzioni innovative che in quel caso poteva essere un modo di conciliazione dei conflitti, fatto non dal punto di vista della legge, ma ad es. fatto a livello della comunità locale con un conciliatore capace di trovare una soluzione alternativa che tenesse insieme non il diritto ma la dignità di questa persona e i diritti dei suoi vicini a non essere disturbati. Quindi, insegnargli ad usare le cuffie. Ho fatto un esempio molto banale per dirvi di come l’esclusione abbia in questo momento una tendenza ad allargare il proprio concetto. Idem per il concetto di inclusione che deve basarsi su una nuova forma di cittadinanza e quindi diritti e doveri coniugati in un modo diverso, in un modo che veda protagonista la persona e qui c’è uno sforzo da parte di molti (anche di enti pubblici) perché ci sono delle reticenze alcune realtà che si lasciano ancora guidare dall’aspetto meramente assistenziale rispetto a queste persone. C’è un cammino culturale da fare sia dal punto dell’ente pubblico che dal punto di vista dell’ente privato. Vorrei aiutarvi, a partire dal mio punto di vista, a focalizzare alcune situazioni di povertà che sono nuove, il che non vuol dire che non c’erano 10 anni fa, vuol dire che oggi si presentano in modo diverso, perché la povertà sta diventando un elemento in evoluzione e un fenomeno sociale in evoluzione. Se è in evoluzione, dobbiamo fare attenzione a non affrontare la questione in modo statico, ma dobbiamo essere aperti a processi di innovazione.
In ordine sparso: normalmente abbiamo tre categorie di povertà o di disagio o di esclusione: minori, adulti e anziani. Nelle nostre province gli anziani sarebbero al primo posto, gli adulti all’ultimo e i minori in mezzo. Di fatto le statistiche ci dicono che nella provincia di Torino ad es. la fascia più a rischio è quella degli adulti, seguita dagli anziani e dai minori. Però, al di là di queste concettualizzazioni, ritengo che quando diciamo la parola minore, sulla quale voglio farvi in questo momento, abbiamo molta attenzione al minore “piccolo” ma c’è una fascia di minore, a cavallo tra minore e maggiore età, che è in questo momento ad alto rischio, e comprende la fascia tra i 17 e i 21 anni. Perché fino a 17 li tengo in comunità, ad es., li tengo sotto tutela ma al compimento del diciottesimo anno quel ragazzo, che era a rischio fino a ieri, oggi non è più un ragazzo a rischio; il minore straniero che fino a ieri era tutelato, mandato a scuola, per imparare un mestiere, con una casa di accoglienza oggi diventa clandestino perché ha compiuto il diciottesimo anno di età. Questa fascia, tenendo conto che la società sta portando ad un avanzamento dell’adolescenza per cui un 17enne, un 18enne, da molti è ritenuto ancora un ragazzo (se io che tra qualche anno compio 40 anni sono ancora ritenuto un giovane, figuriamoci … il 30enne è un post-adolescente). La fascia 17-21 è a rischio, non solo della dipendenza da droghe ma è a rischio ad es. di tutti quei fenomeni che citavo precedentemente, della sfida alla vita , è a rischio di abbandono dello studio, e del non inserimento nel mondo del lavoro. Poi il lavoro interinale è servito, sta servendo abbastanza agli stranieri, è servito e sta servendo abbastanza ai giovani con una qualifica, ma per i giovani senza qualifica e per le persone più adulte uscite dal mondo lavorativo non è una grossa risorsa, poi qualcuno ci riesce ma nel complesso non è da considerarsi una risorsa.
Seconda categoria: le donne. Noi abbiamo un Ministero per le pari opportunità e questo non è casuale, perché le donne in modo particolare le capo-famiglia sole con prole, in questo momento stanno aumentando, a causa di separazioni, divorzi, a causa di errori fatti da alcuni uomini che non è che abbiano sempre la testa sul collo, ma stanno anche aumentando perché c’è da parte della donna una maggiore coscienza delle proprie possibilità, che però non sono infinite. Una questione forte che può portare una famiglia in una situazione di povertà è dove c’è una donna con prole con lavoro precario, questo lavoro precario va a rotoli, oppure viene messa in mobilità o cassa integrazione, quella famiglia diventa ipso facto una famiglia nelle povertà grigie, e di lì in poi il passo può essere anche abbastanza breve. Calcolate che non ci sono sempre le reti di protezione che c’erano anni addietro, ovverossia i genitori, i nonni, l’ambito dell’amicato, in genere è meno forte, e questo è probabilmente più vero nelle grandi città piuttosto che in piccole realtà, e questo mette a rischio la questione donna. La questione donna si declina anche nel mondo del lavoro: in alcune situazioni, il mondo del lavoro utilizza la donna in un modo non sempre proprio, la sottovaluta, oppure la sopravaluta ovvero le chiede cose che sono in contrasto con i suoi compiti familiari, ad es., per cui nasce tutta una serie di difficoltà relazionali da parte della prole. Vi dirò qualcos’altro sulle donne parlando delle donne straniere perché quelle secondo me costituiscono un fenomeno a parte.
Altra categoria: la depressione. La depressione è una malattia, quindi di per sé non dovrebbe interessare il comparto sociale in quanto tale, però è una malattia sociale. Noi stiamo vedendo una crescita esponenziale di forme diverse di depressione, maschile (perdita del lavoro, soprattutto, o abbandono del tetto coniugale) femminile, in modo particolare per questioni legate alla salute propria o dei congiunti e alla mancanza di reddito. La questione depressione è una questione che in questo momento è nel limbo più atroce, perché chi è depresso non va dal medico a farsi curare, finchè non arriva ad uno stadio avanzato, la società non lo sente né come malato né come povero, e quindi viene lasciato in balia di se stesso con le conseguenze che questa cosa può portare. Una di queste conseguenze è l’incapacità di gestire il proprio patrimonio, non solo economico, ma anche di forze, di capacità, di possibilità per cui il depresso spesso lascia il lavoro, anche se il lavoro non lo avrebbe lasciato a casa. Il depresso spesso entra nell’alcolismo, o spesso entra in formule di appagamento di questo tipo. Quando poi si accorge di essere malato, probabilmente è già molto tardi. Questa cosa da chi viene valutata? Faccio una battuta cattiva, ma tutti i farmaci per curare la depressione son tutti farmaci da banco, quindi se tu sei un depresso alto locato va bene, ma se sei un depresso basso locato ti curi fin quando puoi … ma questa è una battuta. Chiaramente, non è sempre così, non bisogna estremizzare però…
Un’altra categoria: le persone senza fissa dimora. Le persona senza fissa dimora checchè se ne dica stanno aumentando. Non solo nella città di Torino! Nella città di Torino sono 1500 sicuri, e 1500 incerti perché è difficile fare il censimento di una persona che non sai dove va a dormire la notte … Cos’è che preoccupa rispetto ai senza fissa dimora, oggi? Preoccupa il modo con cui entrano nella condizione di senza fissa dimora, arrivano in quella condizione certamente non più per scelta, ma per fallimento del rapporto coniugale, familiare, relazionale con qualche partner, lo/a sposo/a, la famiglia, e via discorrendo. Arrivano in quella condizione a seguito di problemi nel mondo del lavoro, o non ci sono entrati o sono stati mandati via. Arrivano in quella condizione perché non sono più in grado di gestire la loro casa, perché gli affitti sono troppo alti, non ce la fanno più, magari alle loro spalle hanno una vita di non pagamento ci sono famiglie in quartieri di Torino che erano nella case ex IACP su consigli di persone degne di fede hanno scelto di non pagare, dovevano pagare 50000 L. al mese, han detto “Non paghiamo”, adesso che tutto è stato rimesso a nuovo, quindi anche l’ATC ha la necessità giusta e doverosa di rientrare dei debiti, gli arriva la morosità esponenziale, perché son 20 anni che non pago più, magari sono subentrato a mia mamma e mio papà nell’alloggio, loro non avevano mai pagato e io oggi non ce la faccio e finisco sulla strada. Gli sfratti esecutivi ci sono, attenzione io non ce l’ho con gli sfratti esecutivi, perché la certezza del diritto è una cosa importante nel nostro ordinamento, nella nostra società, però dico che questo è un motivo per entrare nella povertà nera. Ancora, sui senza fissa dimora: sono sempre più giovani, sempre più donne, questo deve far pensare, sono sempre più multiproblematici per cui sono quasi tutti con malattie psichiatriche, ma sono tutti con patologie correlate che rendono molto più difficile “svegliare” la propria volontà, di rimettersi in cammino, perché sono più prostrati di quanto fossero i senza fissa dimora di qualche tempo fa. Chiaramente non sto parlando dei clochard che lo fanno per scelta di vita. Sui senza fissa dimora il grosso problema non è il dormitorio, il grosso problema è cosa fare durante la giornata e le soluzioni che le istituzioni, del volontariato da una parte e del pubblico, dell’ente pubblico dall’altra, sono ancora basate nella loro genericità su un concetto più passato, che è quello di dire facciamo in modo che abbiano un letto e un pasto. Cosa che deve rimanere ma la cosa vera è il cosa faccio durante la giornata, è centrale in un’ottica di educazione e di emancipazione della persona,.
Altra categoria: la questione delle dipendenze. Vorrei sfatare la voce secondo la quale abbiamo in pugno la situazione delle dipendenze. Abbiamo abbastanza in pugno la dipendenza da un certo tipo di stupefacenti, questo sì, bisogna vedere come è in pugno però, perché se andate a vedere la presenza di tossicodipendenti nelle comunità di recupero sta scendendo, mentre sta aumentando la presa in carico sul territorio attraverso i SERT. Ottima cosa, c’è però il rischio che alcuni SERT o questa filosofia porti a metadonicizzare la situazione del tossicodipendente cronicizzandola. Cioè col metadone tengo la cosa sotto controllo; non risolvo, tengo la cosa sotto controllo. Non dico che la comunità risolva sempre, perché c’è la libertà dell’individuo … quindi è in pugno ma più o meno, forse è un po’ meno visibile … Ma non è in pugno quell’altra dipendenza da sostanze che è la dipendenza da crack , dalla mistura tra alcool e droga più leggera, la dipendenza indotta dallo spinello, attenzione dico indotta non è lo spinello in sé, che mi porta a cercare forme nuove di sballo, attraverso formule sintetiche o formule di cocktail. Questa è una formula di dipendenza forte, che però non può essere fatta dal tossicodipendente che non ha più un euro in tasca, perché costa di più, può essere sostenuta in un contesto di benessere, da famiglie che hanno un reddito più alto e quindi sono di fatto più nascoste, rispetto agli occhi della società. Ma ampliamento della forma di disagio queste persone comunque sono in disagio perché nel giro di alcuni anni capiscono di avere obbligato il proprio ad un corpo ad un ritmo che poi li condiziona in tutte le loro scelte. Ma tra le dipendenze una che sta emergendo piano piano, molto adagio, ma che è molto subdola, è la dipendenza da gioco, le sale bingo tanto per dire, che fanno un gran bene all’economia locale, perché comunque introitano soldi e danno lavoro a un po’ di persone, però quello che preoccupa è che ci sono dei “santi” anziani che vanno a passare i loro pomeriggi nelle sale bingo perché quello è un punto di aggregazione, allora è un bene che sia un punto di aggregazione, quello che non va è che è un punto di aggregazione a pagamento per cui c’è l’induzione al gioco, è quello che non funziona … dalla televisione, dai mass-media, .. c’è queta induzione, il super-enalotto da milioni e milioni di euro, è sicuramente un’induzione, bisogna vedere chi va ad impattare, se va ad impattare una persona che ha già carenze generali nella sua strutturazione personale, dovuta alla sua storia, … capita che se ho già pochi soldi e li vado a investire nel lotto può darsi che vada bene, ma non è necessariamente così … e io posso dirvi che al nostro centro di ascolto diocesano dove passano circa 1000 persone l’anno, tutti rigorosamente italiani, abbiamo incontrato nell’anno passato circa una cinquantina di famiglie in povertà estrema a motivo del gioco. Povertà estrema, il capofamiglia o la capofamiglia o il figlio che si sono venduti tutto e questa cosa porta una disabilità da parte del giocatore terribile, diventa una malattia e pensa solo a quello, nel lavoro non rendo più, il datore di lavoro mi manda via, e quindi la catena … Non ne faccio un dramma, perché questa situazione non è generalizzata, però dico attenzione al futuro, attenzione al fatto che ci sono dei giovani che stanno entrando in questo circuito, non tanto del lotto ma delle sale da bingo.
Un’altra forma di dipendenza è quella da alcool: lasciamo perdere i nostri bravi ubriaconi delle nostre contrade che sono anche un po’ folcloristici, sto parlano dell’abuso di alcool ad alte gradazioni e sto parlando dell’abuso di alcool a bassa gradazione. Alte gradazioni riguardano fasce di giovani - adulti che vanno sui superalcolici, entrano poi in contatto con la droga, con queste droghe sintetiche e via discorrendo. Quello che preoccupa è l’uso dell’alcool a bassa concentrazione, cioè della birra. Mi preoccupa non perché si ubriaca di birra anche uno di sessanta anni, … ma se il bevitore ha 14 anni le cose forse cambiano … Eppure soprattutto in alcune periferie, in alcune zone degradate della nostra città stiamo assistendo all’accrescersi del numero di ragazzi che abusano di questo tipo di alcool, con le conseguenze che questo può avere.
Passo agli stranieri: attenzione, gli stranieri non sono una fascia problematica, togliamocelo dalla testa. In Torino, la sanatoria sta dicendo che siamo intorno a meno del 10% della popolazione torinese. In tutta la Regione dopo la sanatoria arriveremo ad avere meno di 100.000 stranieri regolari. In molti casi, hanno più risorse personali che non le persone più al margine, gli italiani più al margine della nostra società. Basta andare a vedere la Camera di commercio … quanti sono gli stranieri che stanno mettendo in piedi piccole attività imprenditoriali. Sono percentualmente di più degli italiani. Se poi andate a vedere come vanno a finire, finiscono meglio gli stranieri degli italiani. Quindi dire che lo straniero per il fatto di essere straniero è in situazione di povertà o disagio è assolutamente errato. Ma ci sono alcuni stranieri in situazioni di disagio o di povertà. Lascio perdere i non regolari perché la legge Fini – Bossi prevede che nel giro di poco dovrebbero sparire dal territorio nazionale, se poi spariscono o meno non lo saprei dire …, gli stranieri più a rischio sono di tre categorie: le donne vittime della tratta
I minori non accompagnati
I richiedenti asilo (nella Provincia di Torino sono 120, però il richiedente asilo fatta la domanda, per un anno non sa più niente, in quell’anno non può fare alcun lavoro stabile, ha un sussidio per il primo mese, e poi? Magari dopo un anno si vede negato il riconoscimento del soggiorno per motivi umanitari. Questa categoria vive situazioni di povertà perché sono quelli che non avendo garanzie alle spalle sono più facilmente sfruttabili. Sono quelli che dormono in 8 in una stanza di 4 mq. A Torino capita, non so se capita anche a Pinerolo, sicuramente i vari Mohammed che vedete girare per Piazza Fontana, che vengono da Torino quasi sempre, potrebbero essere in quel tipo di situazione. I richiedenti asilo però hanno progetti specifici fatti dall’ente pubblico a loro favore, in questo c’è già un cammino ma cosa sarà del futuro? Dopo tutta questa situazione delle guerre medio orientali, per es.
I minori non accompagnati. Sono quelli per i quali si spende di più, perché gli si dà un alloggio, gli si dà da mangiare e gli si insegna un lavoro. Qual è il problema? È cosa capita dopo, cioè quando diventano adulti. Non sempre si riesce ad inserirli nel mondo lavorativo, ad inserirli stabilmente in Italia, vuoi per motivi giuridici ma anche per motivi progettuali, cioè i nostri progetti spesso si fermano al giorno prima del compimento del 18esimo anno di età. Questa capacità di andare oltre è spesso lasciata alla buona volontà.
Sulle donne vittime della tratta: è un grande capitolo, sono molte, molte in provincia di Torino, non sono prostitute, fanno le prostitute ma sono schiave, e hanno bisogno soprattutto del cammino di reinserimento, quindi la casa, il lavoro, stare per un po’ nascoste dai protettori… Faccio un esempio: qualche anno fa a Torino era scoppiato il caso delle nigeriane. Non potevano fare nulla perché i protettori le privavano del passaporto, non avevano quindi un riconoscimento di nessun tipo. Cosa fare? La legge impediva qualsiasi tipo di aiuto, se non fuori dalla legge, erano irregolari, non riconosciute. Quindi l’aiuto non arrivava certamente dal comune, ma andava il volontariato. L’innovazione ha fatto in modo di trovare un escamotage, far venire il console di quel paese a Torino e fargli produrre un certificato di autentica, che faceva da sostituto del passaporto. In questo modo, queste donne hanno potuto essere inserite nei vari cammini dell’aiuto sociale, e 400 sono uscite dalla strada. Allora, l’innovazione sta su questi fronti: qui c’è la dignità della donna, le politiche poi devono andare a colpire i nostri bravi uomini che ci vanno insieme, questo è indubbio, perché si da colpa sempre solo agli sfruttatori e questo è giusto ma c’è anche l’altro aspetto, più educativo.
Questa è una povertà che non è ancora stata debellata, è un’esclusione che non è ancora stata debellata, è stata in parte debellata verso i paesi del sud del mondo, di meno verso l’Albania, la Romania, verso alcuni altri paesi dell’Est europeo. A fianco di questa categoria, ci sono gli zingari. Qui è difficile dire che gli zingari sono in situazione di povertà, perché … diciamo che normalmente si arrangiano. Però c’è all’interno del mondo zingaro una serie di clan che vivono situazioni forti di povertà, ma non riusciamo a capirlo perché sono mascherati dagli altri. Esempio, Torino prendete il tram 15, vi trovate sicuramente qualcuno che suona la fisarmonica, rom generalmente che non sono ricchi ma neanche poveri che hanno quel modo di procacciarsi il vivere. Quando lo capiamo, diciamo che tutti gli zingari sono così. Per cui non andiamo più a capire quali sono i problemi ad esempio degli zingari minori e degli zingari ammalati, due realtà che finiscono poi magari bruciati nella roulotte o cose di questo tipo.
I disabili, a partire dai disabili con malattie psichiatriche: una categoria pienamente esclusa dalla società a cui vanno aggregati anche i loro familiari. Le leggi di fatto scaricano spesso e volentieri sulla famiglia la gestione della persona con questa disabilità, è difficile intervenire a sostegno della famiglia. Non basta l’abbattimento delle barriere architettoniche, ci sono disabili di serie A e disabili di serie B, non tanto per i servizi pubblici privati, quanto dalla cultura ambiente. E’ ancora un disonore per molti in una famiglia avere un figlio che ha dei problemi di disabilità psichiatrica.
Stesso campo di esclusione è il carcere. Il carcere è una dimensione esclusa e dimenticata e la cultura ambiente sta
“pestando” su questa cosa “Mettiamoli in carcere, il carcere è chiuso e quello che ci sta dentro il carcere non ci interessa, basta che non siano fuori”. Eppure, la povertà che si sviluppa all’interno del carcere è molteplice, perché c’è la malattia, la malattia psichiatrica, la droga, c’è la difficoltà della “redenzione”, cioè del cambiare vita, e poi c’è la difficoltà atroce, in questo momento quasi insuperabile, del reinserimento all’interno della società. Perché non basta il lavoro, non basta la casa, bisogna avere la accettazione. Allora, qui l’innovazione è un elemento che dovrebbe e potrebbe fare il cambio: cioè come qualche anno fa per gli stranieri c’era l’istituto dello “sponsor” forse dovremmo essere in grado di istituire uno sponsor, una sorta di sponsorship per queste persone che escono dal carcere. Con l’idea di partire quando sono ancora in carcere, perché altrimenti i progetti fatti solo fuori o solo dentro si esauriscono solo fuori o solo dentro. Questo è indubbio. Chiaramente, i grandi fili rossi che legano tutte queste realtà sono il lavoro, in tutte le sue forme, e il lavoro che non c’è e la casa. A mio giudizio, noi oggi siamo molto attenti al lavoro: il ho avuto il piacere di essere invitato alla Conferenza Europea sulla povertà, voluta dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri in occasioni del semestre di presidenza della U.E., incontro che si è tenuto a Torino nel mese di ottobre. Era presente il Ministro del welfare che ha spiegato le strategie di inclusione, dove si dice che la strategia dell’inclusione è il lavoro. Vero ! ma io dico, con molta forza, che non basta! Io mi sto in questi giorni incontrando con la problematica della casa, che guardate bene non è direttamente proporzionale al lavoro, perché anche se ho un lavoro che mi dà 1500/1600 euro al mese, se ho la faccia più scura di tutti gli altri la casa non me la danno, ma anche se ho un trascorso diverso da quello degli altri non me la danno. E poi, il lavoro è sempre più precario o è sempre più mobile. Un lavoro fluttuante non sempre mi consentirà di tenere il bene chiamato casa con quello che c’è dentro che è il bene maggiore, cioè la relazione familiare. Mi pare che anche qui bisogna andare al di là della semplice sistemazione nel mondo lavorativo che da sola non basta! Il fatto che questa cosa non basta me lo dice il fatto che in Italia l’anno scorso 11.300.000 persone, quasi tutte in situazioni di povertà hanno ricevuto aiuti alimentari dalla catena di solidarietà assistenziale, che è quella che va dalla parrocchia al banco alimentare, all’associazione di volontariato che da il famoso “sacchetto” alle mense; ogni giorno nella città di Torino vengono distribuiti 3500 pasti, 3500 persone che mangiano tutti i giorni, togliamone 500 che ne approfittano, ok! 3000 persone al giorno! Mi pare un numero forte in una città di 900000 abitanti; se andate nella città di Ciriè che è un paesetto più piccolo di Pinerolo, 55 pasti ogni giorno! Io mi chiedo perché? Nella mia diocesi che è un po’ più vasta della città (2200000 abitanti teorici) 30000 famiglie ricevono all’anno dei pacchi alimentari; togliamo sempre una parte, e gli altri? Allora, probabilmente, molti di questi hanno un piccolo lavoretto ma mancano le relazioni. Ultima cosa che dico: il grande cambiamento delle povertà oggi si gioca sull’interpretarle non più solo ed esclusivamente dal punto di vista economico. L’Istat, le grandi ricerche, dico che la povertà è X in base a calcoli economici, le nuove povertà hanno oggi sì l’aspetto economico ma hanno anche forte l’aspetto della relazionalità, quasi tutte sono frutto di una povertà relazionale, e quindi richiedono soluzioni che sono fondamentalmente di tipo relazionale, queste soluzioni possono essere maggiormente efficaci se portate avanti congiuntamente dall’ente pubblico e dalla cosiddetta società civile 8termine che non mi piace perché sembra che l’ente locale sia la società incivile). Il lavoro congiunto perché la relazionalità non possiamo vederla come merce da acquistare al supermercato … il cammino sinergico potrebbe essere una formula di innovazione importante, però questo significa che se è sinergico siamo 2 attori con pari dignità, compiti diversi, ruoli diversi (l’ente pubblico deve garantire le possibilità di esecuzione) però deve esserci una paritarietà , al tavolo la mia opinione è l’opinione di uno che se ne intende come l’opinione del sindaco è l’opinione di uno che se ne intende … Allora, la sussidiarietà a livello di istituzione rispetto al volontariato, al terzo settore, alla società civile deve entrare in quell’ottica che non è semplice non perché qualcuno dei due sia cattivo ma semplicemente perché le metodologie di azioni sono giustamente differenziate. Ci vuole la “conversione” (lasciatemi usare questi termine un po’ cattolico) da parte dell’uno e dell’altro, quindi la riduzione della burocratizzazione in alcuni casi ma anche la capacità di progettazione dalla parte opposta. Questo è indubbio, altrimenti mettiamo delle pezze, diceva il card. Saldarini “facciamo la pietosa infermiera della storia” , noi dobbiamo andare alla ricerca delle cause e cercare di “curare” le cause non mettere i tamponi, poi mettiamo anche i tamponi se necessario, ma le cause … dalla parte dell’ente pubblico ci vuole il riconoscimento di ciò che non è ente pubblico, dall’altra parte ci vuole la responsabilità ; non posso dire io sono volontario, quindi faccio quello che voglio… Da parte dell’ente pubblico ci vuole la capacità di lungimiranza, cioè di vedere più in là quali sono gli sviluppi della società, ma da parte della società civile ci vuole la capacità di leggere queste cose, normalmente il volontariato anticipa, capisce prima, ma di saperle comunicare a chi ? all’ente pubblico in prima istanza, attraverso un dialogo non attraverso una sterile rivendicazione ma il è il dialogo vero che riesce … soprattutto da parte dell’ente pubblico , dell’ensemble politico, ci vuole la capacità di fare scelte prioritarie. Le scelte di politica sociale in questo momento non in Italia, nell’Europa non sono le scelte prioritarie: non dico che debba essere l’unica scelta ma ritengo che il benessere, il welfare, dei cittadini parta innanzitutto da una coesione diversa all’interno della comunità che la solidarietà all’interno della comunità sia fatta di scelte di priorità, che non vuole dire diventare assistenzialisti vuol dire cercare soluzioni che aiutino la crescita della dignità delle persone, soprattutto di queste persone che sono più svantaggiate e che hanno bisogno di maggiore sostegno. Concludo, dicendo una cosa che dico in ambito un po’ “chiesastico” quando vado nelle parrocchie: quando voi mamme avete avuto il primo figlio, non avete smesso di volere bene a vostro marito; però, tutte le attenzioni erano per il marmocchietto, soprattutto all’inizio; perché? Perché questo è normale, il bambino nella comunità familiare quando nasce è l’anello più debole, per natura e quindi è giusto e umano che io faccia maggiormente attenzione a lui. La stessa cosa capita nella nostra società: in una società che si fonda su valori di solidarietà, di giustizia, di pace, chi è l’anello più debole? Sono coloro che sono più esclusi, coloro che sono più poveri. Quindi non è che noi dobbiamo interessarci solo di loro, sbaglieremmo. Dobbiamo interessarci di tutti a partire però da un’attenzione privilegiata a loro che sono l’anello più debole. Se le politiche sociali fossero così, politiche per tutti con un’attenzione particolare per coloro che sono più deboli, effettivamente qualcosa potrebbe cambiare. Questa è una dichiarazione, tutti l’hanno in mente, la destra, a sinistra, il sotto, il sopra, quando poi si traducono nelle scelte operative, quando bisogna tagliare si taglia su quei servizi.
Che fatica tirare avanti
Rivista del Volontariato Novembre 2003 – Magda Mazzei
E’ difficile trovare le zucchine a meno di due euro al Kg. Anche in piena estate. Anche al mercato rionale. Anche in un Paese come l’Italia dove le zucchine non dovrebbero far fatica a crescere. Gli esperti ci dicono che, rispetto ad un anno fa, le verdure sono aumentate quasi del 30%. Impossibile trovare un appartamento in affitto in città, i prezzi sono talmente alti che equivalgono ad uno stipendio. Soprattutto per chi ha uno stipendio fisso.
Si calcola che il potere d’acquisto per gli impiegati negli ultimi 3 anni è diminuito del 13%. Si calcola che la disoccupazione giovanile in Campania arrivi al 58,2%. Si calcola che in Italia siano quasi 5 milioni i lavoratori “atipici”.
Insomma, una gran fatica tirare avanti. In molti si brontola, si fa qualche altra rinuncia, si tira a cinghia e si procede. Per molti, ma non per tutti. Un popolo sommerso, formato da persone fortemente a rischio di povertà, lentamente e costantemente va aumentando, sono i nuovi poveri, coloro che, spesso ma non sempre, nonostante abbiano avuto le condizioni anche economiche per vivere autonomamente, si trovano adesso ad arrancare, a far fatica, , a dover chiedere aiuto, o intuiscono il problema, si vedono scivolare lentamente in una situazione di limbo, tra possibilità sfumate e incapacità o impossibilità di frenare la discesa. Una povertà invisibile, non rientra nelle tabelle Istat, che prendono in considerazione solo variabili misurabili quale il reddito.
“La povertà oggi ha un profilo nuovo rispetto agli stereotipi a cui siamo abituati” dice Fiorenza Deriu , coordinatrice del progetto per la redazione del dossier Caritas “Disagio e povertà a Roma”. “Una povertà più fluida, non misurabile rispetto ai livelli di reddito, non riconducibile quindi a criteri meramente economici. Sono aumentate le fasce a rischio. Il fenomeno comprende tantissime situazioni che se dovessimo considerare solo il reddito sfuggirebbero: ci sono le persone anziane o sole, prevalentemente donne perché vivono più degli uomini, vedove molto anziane che spesso si trovano a sperimentare una vita di solitudine, con una pensione inadeguata anche in riferimento dell’aumento dei prezzi. Poi abbiamo le famiglie numerose, soprattutto al Sud d’Italia, famiglie con 3, 4 o più figli con almeno uno dei coniugi che ha perso il proprio lavoro e quindi in serie difficoltà economiche. Abbiamo i nuclei mono-genitoriali, dove c’è o solo il padre o solo la madre con i figli, e nel caso dei padri a volte con delle cifre di mantenimento che possono creare difficoltà nella gestione del quotidiano. Poi i nuclei dove ci sono o persone anziane disabili o minori disabili, famiglie con bambini con disagio mentale. In tutti questi casi è la famiglia che si fa maggiormente carico sia dal punto di vista dell’assistenza sia dal punto di vista economico e questo crea una esposizione maggiore a situazioni di disagio e povertà”.
Tutte queste persone non sono predestinate, sono persone a cui più o meno lentamente sono cambiate le “carte in tavola” e allora, quando proprio non ce la fanno si appoggiano ai servizi sociali. “Le persone che frequentano le mense sociali” prosegue Fiorenza Derriu, “ sono un target completamente diverso rispetto a quello che potevamo trovare qualche anno fa, quando alla mensa trovavamo il classico barbone, quasi sempre persone anziane di cui si diceva che avessero scelto quel tipo di vita. Oggi invece tra gli utenti delle mense sociali e degli ostelli troviamo mediamente persone molto più giovani, intorno ai 40 anni, e poi persone che frequentano le mense pur avendo delle piccole attività lavorative: hanno un nucleo familiare da sostenere e non ce la fanno ad affrontare alcune spese che sembrerebbero fondamentali, quale il vitto. In alcuni municipi di Roma, per esempio, è stato registrato come ai servizi sociali siano state presentate domande di aiuto, richiesta di genere alimentare. Il fatto che arrivino tutte queste richieste ci da la misura di questo disagio”.
Proprio per rispondere alle esigenze di vitto, ad Archi, in provincia di Reggio Calabria, è stato istituito un servizio di “pacco spesa” che consiste in pasta, riso, latte, burro, mortadella e formaggio, che viene consegnato una volta al mese ad una ventina di famiglie. “Il grosso problema della zona” dice Suor Maria Cristina, del Centro Ascolto Monsignor I. Calabrò, “è il lavoro, e quando nelle famiglie ci sono anche altri problemi, la mancanza di lavoro scatena reazioni disgreganti, spesso crea dipendenza da alcool. Da quasi 15 anni diamo una spesa ad un ventina di famiglie che ci chiedono aiuto. La maggior parte di queste vive in case del Comune. A metà delle famiglie manca completamente il lavoro, l’altra metà ha un lavoro insufficiente, lavora a giornata. Su 100 famiglie, qui solo 10 hanno un lavoro regolare e costante, quasi tutti si arrangiano. 2 famiglie che seguiamo sono costituite da pensionati che hanno ancora figli in casa, e che non riescono ad arrivare a fine mese. Poi ci sono 2 famiglie che vivono in case abusive. Inoltre, abbiamo una piccola mensa per 30 persone che quotidianamente mangiano da noi. Di queste circa 5 o 6 persone sono quelle che non ce la fanno ad arrivare a fine mese o a fine settimana e quindi vengono quando non hanno di che mangiare, in più c’è una famiglia a cui prepariamo il cibo in vaschette che porta via”.
La mancanza o la perdita del lavoro rappresenta l’evento scatenante di molte situazioni difficili. “Per le persone che si ritrovano senza lavoro il nostro territorio è ostile” dice Salvatore Gulletta , dell’associazione Santa Maria della strada di Messina, “soprattutto se hanno già 45/50 anni, diventa un continuo andare giù, si perdono i rapporti familiari, le persone vengono distrutte nella loro personalità, lentamente si danno all’alcool e inizia la discesa. C’è un percorso di espulsione dalla famiglia e di auto-emarginazione: la famiglia rimane compatta, cerca di arrangiarsi e il capo famiglia si auto punisce. Si allontana o viene allontanato. La donna anche quando perde il lavoro reagisce meglio, anche perché rimane legata ai figli. Il territorio offre poco o niente, e anche per noi diventa difficile affrontare queste situazioni, che purtroppo sono avvicinabili solo dopo che sono arrivate sulla strada”.
Il lavoro assume un’importanza fondamentale nell’equilibrio sociale, rappresenta la “certezza” psicologica, la possibilità di realizzare o meno un progetto di vita autonomo. La trasformazione del mondo del lavoro sta alla base della gran difficoltà con cui si vive l’andare avanti. “Oggi tutto ciò che ruota attorno al lavoro ha assunto dei contorni fortemente instabili”, prosegue Fiorenza Deriu. “Una grande difficoltà di inserimento nel mondo del lavoro, ma anche forte instabilità del posto di lavoro per chi ce l’ha. Ci sono oggi tante giovani coppie, quarantenni, destinate ad un precariato a vita, c’è una instabilità di fondo su quella che è la base del sostentamento di una famiglia che è la redditualità, il sostegno di tipo economico”.
Ma la crisi è molto più ampia e non riguarda solo il mondo del lavoro o comunque assume connotati diversi rispetto all’ambiente o alla regione geografica. “Su questa precarietà del mondo del lavoro si somma la mancanza di adeguate politiche di sostegno alle reti di aiuto familiare, alle reti di protezione sociale. Il fatto è che, in corrispondenza di questa incertezza lavorativa, non ci sono risposte dal punto di vista del sostegno sociale adeguate a fronteggiare tutti i disagi che la famiglia si trova a vivere. Manca una politica sociale di sostegno che potrebbe aiutare a rinsaldare quelle reti di aiuto e di solidarietà interne alla famiglia che in Italia, rispetto all’Europa, ancora reggono”.
Le famiglie sostenute da politiche sociali atte a prevenire o attutire i motivi del disagio. Famiglie che, quando ci sono, tengono il colpo, fanno cerchio, limitano i danni. La famiglia, la cerchia di amici, le reti di conoscenze che, al di là delle possibilità economiche, rappresentano la soluzione, l’ancora di salvezza per molte situazioni a rischio. Il sostegno, quindi, per le fasce a rischio, deve avvenire su più fronti. All’aiuto concreto va affiancata la solidarietà. Ecco un esempio.
“Il problema delle nuove povertà riguarda i padri separati” dice Vincenzo Spavone , presidente nazionale della Gesef, associazione non profit genitori separati dai figli, “sono quelli che, lo dicono i numeri, vengono fatti allontanare dalla casa coniugale e che devono poi trovare un altro appartamento. Se sono tra i fortunati che hanno la famiglia d’origine nella stessa città possono tamponare, altrimenti nell’emergenza vanno a dormire in automobile, o addirittura in un dormitorio pubblico. Negli anni abbiamo cercato di mettere a disposizione una serie di locali per le emergenze Quando veniamo a conoscenza che c’è un caso disperato cerchiamo di intervenire, con una rete di solidarietà, un mutuo soccorso. Al problema casa bisogna poi aggiungere il problema di poter campare perché nel caso di dipendenti o di persone con reddito fisso, quasi la metà dello stipendio viene utilizzato per alimenti a bambini e, se non lavora, anche alla moglie. Perciò diventa difficile con la rimanente parte, affrontare una nuova casa, pagare le utenze”.
Quindi esiste un problema economico, ma il sostegno avviene anche su un versante psicologico, che nei meno gravi si traduce in una rete di solidarietà. E’ esemplificativa la realtà di Bergamo, città ricca dove, come dice Stefano Galliani, operatore del Nuovo Albergo popolare di Bergamo: “Le persone che usufruiscono dei servizi come il nostro sono persone che hanno anche delle risorse economiche – alcuni hanno un lavoro – ma hanno difficoltà a gestire quelle risorse per ragioni individuali, di traumi relazionali e affettivi, di fragilità psicologica e di mancanza di una rete sociale e familiare che li aiuti a gestire il problema. In queste persone c’è anche la mancanza di lavoro e di casa, ma sono fenomeni che entrano nel quadro generale della persona, non sono le cause principali della deriva. Tra i nostri ospiti ci sono anche persone che hanno una storia lavorativa e sociale e di livello medio-alto, ma ad un certo punto un evento traumatico o una situazione trascinata hanno messo in risalto la fragilità della struttura personale. Persone che sicuramente non sono segnate in partenza”.
Nuove povertà che richiedono nuove risposte, nuovi interventi, nuovi investimenti economici, perché è vero che il fenomeno è relativamente nuovo ma, come dice Fiorenza Deriu, “ è sicuramente destinato ad aumentare”.
E se è vero che la forza di un Paese si misura dal benessere sociale che crea, il nostro deve domandarsi come mai, negli ultimi anni, per sempre più persone è una gran fatica tirare avanti!
Fonte: http://www.comune.pinerolo.to.it/web/images/sampledata/Servizi_sociali/vol_poverta.doc
Sito web da visitare: http://www.comune.pinerolo.to.it
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