Tema politico

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Tema politico

 

Il tema politico
La crisi della modernità ha comportato una diversa considerazione delle categorie etiche, giuridiche e politiche. Il connotato comune delle moderne teorie del diritto naturale è da ravvisare nella sostituzione della trascendenza con l'immanenza delle leggi e delle istituzioni politiche, con la conseguente prevalenza della volontà dello Stato sulla voluntas Dei .
La realtà è considerata matura per produrre da sé il giusto e, conseguentemente, anche il cosiddetto obbligo di diritto naturale, emancipandosi dalla sua base teonoma, è fatto scaturire dalla natura stessa delle cose, in uno sviluppo progressivo che lo fa evolvere in legge. Sul piano politico, lo Stato, risultato della riflessione e del calcolo, opera d'arte e prodotto dell' arte dello Stato e della scienza di governo, ha al suo vertice non più un principe nel senso feudale del termine, ma piuttosto un sovrano indipendente che fa di preferenza affidamento sulla sua intelligenza e sulle sue risorse piuttosto che su principi etici o sulla posizione che gli è affidata da Dio in una società piramidale.

La centralità dell’uomo messa in rilievo dall’umanesimo e dal rinascimento comporta una ripresa vivace delle riflessioni sull’agire politico, sulla sua au¬tonomia o dipendenza, e sul rapporto tra stato e cittadino, leggi umane e divine. Corrispondentemente al fragile equilibrio di questo periodo, che ab¬biamo visto essere una transizione al moderno, si ritrovano nella produzione del tempo due filoni tra loro distinti e anzi opposti. Il primo è quello che po¬tremmo chiamare del realismo politico (Machiavelli), e che fa i conti spre¬giudicatamente con le condizioni politiche reali dell’epoca; il secondo èquello che si riconnette a una tradizione antica e propone dei modelli ideali di comunità politica (Moro, Campanella, Bacone), che vanno sotto il nome di utopia.
L’opposizione qui evidenziata non deve però essere troppo assolutizzata, poi¬ché sovente, anche nel genere delle utopie, sono rintracciabili realistiche ana¬lisi della condizione presente. Talvolta possono essere esposte al rischio di es¬sere costruzioni puramente intellettuali o letterarie, ma spesso è proprio la li¬bertà di questa finzione stilistica a rendere la critica più attenta e pungente, dando prova di acuto realismo. L’opposizione permane però in quanto oppo¬sizione di principio, poiché il realismo di Machiavelli costruisce la politica sulla base del presupposto di ciò che gli uomini nel loro agire sociale sono di fatto, le utopie di Moro e Campanella disegnano invece una comunità ideale, quale dovrebbe essere.
In un certo senso una linea intermedia rispetto a queste due posizioni è quella che si dedica a individuare i princìpi di un diritto naturale (Grozio). Tra l’altro è proprio questa posizione quella che darà maggiori frutti nei secoli successivi. La ricerca di un diritto naturale, infatti, rappresenta il tentativo di individuare delle norme giuridiche che abbiano valore prescrittivo (ossia che obbligano tutti, al di là del fatto che siano convenienti in una determinata situazione), ma che siano inscritte nella natura umana. In certo modo ritroviamo così una dimensione ideale e una dimensione reale, che trovano composizione in pochi e universalmente riconosciuti princìpi, posti alla base dei rapporti sociali e po¬litici.
Resta il fatto che gli scritti politici del rinascimento, indipendentemente dal¬l’essere ascrivibili all’utopia o al realismo, sono profondamente legati al loro tempo e costituiscono un tentativo di intervenire in esso. Machiavelli muove dalla situazione dell’Italia divisa e tenta di promuovere un potere più saldo e più stabile; Moro vuoi contrastare il diffondersi della povertà nell’Inghilterra del suo tempo; Campanella mira ad attribuire alle nuove monarchie nazionali un universale compito di trasformazione, ispirato a una religiosità naturale; Bacone affida alla scienza il compito di consentire una vita migliore, perché ca¬pace di sottoporre la natura al dominio dell’uomo. Così, utopia e realismo si intrecciano, e talora si scambiano le parti.
Il realismo di Machiavelli libera per la cultura successiva un’acquisizione che diventerà fondamentale: quella che la politica ha leggi sue proprie, che non possono essere eluse. Ma egli resta anche prigioniero di un’aderenza miope alla situazione del suo tempo, ché non si avvede che gli stati nazionali cancelleranno la grandezza d’Italia e che non bastano le astute manovre di un prin¬cipe a costituire o consolidare il potere di uno stato.
L’utopia generosa di Moro, mentre pone problemi che resteranno attualissimi, come quelli dell’abolizione della proprietà privata e di un’uguale ripartizione del lavoro, non riesce a svincolarsi da modelli in via di estinzione, come l’eco¬nomia agricola e chiusa che ricorda il feudalesimo al tramonto.
Campanella , nonostante l’enfasi per un rinnovamento radicale e il tentativo di sottrarsi, con una religiosità naturale, ai conflitti di religione, impone una greve struttura teocratica.
Bacone, pur anticipando un sogno di dominio tecnico dell’umanità, che è vivo ancor oggi, non affronta che per cenni la questione se quell’utopia di sfrutta¬mento della natura non possa rivelarsi, in un futuro, come le tematiche ecolo¬giche oggi ci suggeriscono, una gigantesca forma di asservimento della natura che, in ultima istanza, si ritorce contro l’uomo stesso.
Il successo poi delle teorie di Grozio, che cercava un fondamento per le leggi positive, nonostante che per molti aspetti esse non fossero propriamente ori¬ginali, né immuni da equivoci, dipese da un diffuso e largo consenso nel rico¬noscere certe norme, e precisamente quelle da lui indicate, come razionali. Non è affatto certo infatti che i princìpi individuati e proposti da Grozio fos¬sero così evidenti in sé da non poter essere posti in dubbio e da dover conse¬guentemente essere considerati come naturali. Tuttavia su di essi si consentiva pressoché universalmente, e soprattutto si concordava sull’esigenza di indivi¬duare alcune norme fondamentali su cui costruire una scienza del diritto. Si trattava di operare in analogia a quanto avveniva nella fisica con Galilei, fa¬cendo così del diritto una scienza. Perciò occorrevano alcuni princìpi che fos¬sero posti come vincolanti.
Qui è l’origine del giusnaturalismo (teoria del diritto naturale), teoria che, ri¬chiamandosi a Grozio, ebbe larga diffusione nel seicento e nel settecento. D’altronde, come le date di pubblicazione delle varie opere consentirà di ve¬dere, ci troviamo con questi autori già all’inizio del seicento, e la loro opera travalica i limiti cronologici del rinascimento. Peraltro essi, pur avendo impor¬tanza anche successivamente, appartengono cronologicamente a un’epoca precartesiana della filosofia.

Il realismo. Machiavelli: la politica come scienza dell’esercizio del potere
La vita e l’opera
Niccolò Machiavelli nacque nel 1469 a Firenze dove morì nel 1527. Fu se¬gretario di cancelleria della repubblica fiorentina, ma si ritirò dalla vita po¬litica per il ritorno dei Medici a Firenze. Nel ritiro dell’Albergaccio, Machiavelli si dedica — come egli stesso ci testimonia in una celebre lettera all’amico Francesco Vettori — a intendere il complesso intreccio delle vi¬cende politiche, alla luce delle esperienze fatte in qualità di diplomatico e di uomo politico. Le sue opere principali sono Il Principe (1513) e i Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio (1513-1519). Scrisse anche commedie, di cui la più celebre è la Mandragola.

Nei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, Machiavelli aveva affron¬tato il tema politico sullo sfondo di un ideale colloquio con lo storico ro¬mano e quindi spuntato di un troppo immediato riferimento all’attualità. Nel Principe invece egli si volge a riflettere sul complesso intreccio delle vicende politiche del tempo, e pone le basi per una trattazione della poli¬tica come scienza, ossia come sapere che ha regole proprie e costanti, pur nel variare delle situazioni. E’ importante comunque premettere che que¬ste regole non sono norme astratte che Machiavelli contrappone ad altre, ma conclusioni a cui egli perviene attraverso un ragionamento induttivo,che muove dai casi concreti, singoli, a cui egli fa in gran copia riferi¬mento, per desumerne indicazioni di condotta di fronte a situazioni nuove.
Il giusto atteggiamento di chi studia la politica è seguire la verità effet¬tuale e non immaginarsi utopiche repubbliche e principati. Il vocabolo ef¬fettuale è creazione di Machiavelli. Con «verità effettuale» si vuole dire una verità che assume a proprio modello le condizioni di fatto, la realtà così com’è («come si vive», «quello che si fa») e non si costruisce modelli immaginari, utopistici e inesistenti (« come si doverrebbe vivere», « quello che si doverrebbe fare»):

Sendo l’intento mio scrivere cosa utile a chi la intende, mi è parso più conve¬niente andare drieto alla verità effettuale della cosa, che alla immaginazione di essa. E molti si sono immaginati repubbliche e principati, che non si sono mai visti né conosciuti essere il vero; perché elli è tanto discosto da come si vive a come si doverrebbe vivere, che colui che lascia quello che si fa per quello che si doverrebbe fare, impara più tosto la ruma che la preservazione sua.
N. MACHIAVELLI, Il Principe, XV, a cura di L. Firpo, Emaudi, Torino 1974, p. 71

La scelta di «effettuale» in luogo di «reale» lascia intravedere un aspetto importante del discorso di Machiavelli. Proprio per essere realisti, non ci si può limitare a constatare ciò che c’è — il reale —, ma occorre coglierne tutte le conseguenze, gli effetti: questo è propriamente l’effettuale.
La premessa, che pone a proprio oggetto la realtà qual è e non quale do¬vrebbe essere, guida le considerazioni successive: chi voglia essere buono in un mondo dove non vi sono solo buoni, finisce per rovinare. Dunque è necessario che impari, specie se è principe, a poter essere non buono.

Questo significa che la politica è un sapere autonomo, sganciato dalla mo¬rale, e che ha in sé le proprie regole: essa è, in sostanza, l’esercizio di un po¬tere. Quest’accentuazione dell’autonomia della politica e delle sue regole consente a Machiavelli di mettere a nudo, con spietato realismo, i mecca¬nismi del potere. Il gioco politico appare così governato fondamental¬mente dalla forza. L’arte del principe consisterà allora nella sua capacità —detta, con etimo di derivazione latina, virtù — di sfruttare o di contrastare la fortuna, ossia quel corso degli eventi che è sottratto al potere degli uo¬mini.
La metafora del centauro, metà uomo e metà animale, simboleggia la na¬tura dell’agire politico: le leggi, proprie dell’uomo, e la forza, propria della bestia. A entrambe deve ricorrere il principe per governare. Quando le leggi non bastano, deve sapere usare l’aspetto della bestia insita nella na¬tura umana, e deve farsi astuto come la volpe e possente come il leone:

Il che non vuoI dire altro, avere per precettore uno mezzo bestia et mezzo uomo, se non che bisogna a uno principe sapere usare l’una e l’altra natura; e l’una senza l’altra non è durabile. [...]
Sendo dunque un principe necessitato sapere bene usare la bestia, debbe di quelle pigliare la golpe e il lione; perché il lione non si difende da’ lacci, la golpe non si difende da’ lupi. Bisogna dunque essere golpe a conoscere e lacci, e lione a sbigottire e lupi.
N. MACHIAVELLI, I/Principe, cit., XVIII, pp. 84-86

Fonte: https://campodeifioriurbani.files.wordpress.com/2011/01/pon-incontro-7-il-tema-politico-nel-rinascimento.doc

Sito web da visitare: https://campodeifioriurbani.files.wordpress.com

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