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1. La campagna antisemita in Italia: i documenti ufficiali e il ruolo della stampa nazionale
a cura di Rosa Castellaro
1. Il 1938: la nascita dell’antisemitismo di stato
L’antisemitismo di Mussolini si dichiarò in modo netto solo a partire dalla seconda metà del 1936. Nonostante le chiassose manifestazioni antisemite di alcune ali estreme del fascismo, fino a quell’anno la stessa possibilità che in Italia si determinasse un problema ebraico appariva agli occhi di tutti non solo remota, ma addirittura assurda, anche in considerazione della legge sulle Comunità israelitiche approvata nel 1931, che garantiva una sostanziale libertà di culto.
Secondo lo storico Renzo De Felice (in Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, Torino, Einaudi, 1972), “Mussolini non può essere considerato per molti e molti anni un antisemita. Sino al 1937 l’idea di un antisemitismo di stato fu lontanissima da lui… Certo verso gli “ebrei” Mussolini ebbe sempre una certa diffidenza, ma si trattava della diffidenza tipica di tutti i nazionalisti: era la diffidenza tipica del provinciale insofferente di tutto ciò che, in un modo o in un altro, costituiva un legame che non fosse quello meramente nazionale. L’alta banca e l’internazionale ebraica erano per lui una realtà, con la quale però non voleva scontrarsi e che, in ogni caso, non riteneva avesse in Italia agganci molto potenti… Un certo ‘mito della razza’ è riscontrabile nel suo pensiero e nella sua opera sin dai primi anni e dopo la marcia su Roma; esso non ebbe però mai nulla in comune con il razzismo nazista. Gli scopi e i limiti del ‘razzismo’ mussoliniano non andarono mai, sino alla conquista dell’Etiopia, oltre la realizzazione di una politica sanitaria, demografica ed eugenetica,e, più latamente, oltre l’aspirazione di sostituire negli italiani alla coscienza ‘borghese’ dell’’Italietta’ una coscienza ‘imperiale’ di Roma, non oltre – insomma – la vitalizzazione e il potenziamento fisico e morale degli italiani… [Intervenendo nella] relazione del 30 aprile [1929] alla Camera del ministro Rocco sull’esercizio dei culti ammessi … il duce aveva tra l’altro affermato:”… Gli ebrei sono a Roma dal tempo dei Re; forse fornirono gli abiti dopo il ratto delle Sabine. Erano cinquantamila ai tempi di Augusto e chiesero di piangere sulla salma di Giulio Cesare. Rimarranno indisturbati”. (opera citata, pagg. 235/236. Dal cap. VI della stessa opera sono ricavati molti dati riportati in seguito).
La svolta dell’atteggiamento di Mussolini sulla questione della razza, e, in particolare su quella ebraica, risalente al 1936, se fu avviata da una serie di circostanze di varia natura (la presa di posizione antifascista di singoli ebrei e di organizzazioni ebraiche in occasione della guerra d’Etiopia e di quella di Spagna; la convinzione dell’esistenza di una Internazionale ebraica alleata i nemici del fascismo; le critiche alla politica economica mussoliniana mossa da alcuni industriali e uomini d’affari ebrei; il timore che, conquistata l’Etiopia, la razza italiana potesse contaminarsi attraverso un ‘meticciato’ di vasta scala; l’influenza di un entourage sempre più apertamente antisemita; soprattutto Farinacei e Preziosi…), ebbe come sua vera causa la convinzione che per “rendere granitica” l’alleanza italo-tedesca fosse necessario allineare la politica dei due regimi in tutti i campi, compreso quello dell’antisemitismo.
La politica razziale messa a punto tra il 1937 e il 1938 e la conseguente legislazione del 1938 costituiscono dunque il “pegno” di Mussolini verso la Germania nazista. Se si considera il peso che l’antisemitismo aveva assunto nell’ideologia nazista, risulta evidente la necessità per un alleato, che volesse essere considerato veramente tale , di adeguarvicisi, senza cercare di aggirare vanamente la questione.
Le tappe dell’antisemitismo di Mussolini coincidono quasi costantemente con un suo ulteriore avvicinamento al nazismo: dopo la visita di Mussolini in Germania ( 25 – 29 settembre 1937), viene affidato a Ciano il coordinamento della campagna antisemita; nei mesi antecedenti alla visita di Hitler in Italia (3 – 9 maggio 1938), la stampa italiana scatena una vasta campagna antisemita; il 14 luglio 1938 è pubblicato il “manifesto della razza”, seguito dal Comunicato del P.N.F. sulla razza (26 luglio); dopo l’incontro a Monaco (29 – 30 settembre 1938) tra Hitler e Mussolini, il Gran Consiglio decide la persecuzione contro gli ebrei (6 ottobre).
L’antisemitismo di stato diventa da questo momento una realtà concreta e attiva. E’ interessante tuttavia mettere in rilievo l’intenzione costantemente manifestata da Mussolini di mantenere all’intera legislazione “per la difesa della razza” una caratteristica “italiana” ben precisa, che la differenziasse da quella nazista. Specialmente in questo campo, Mussolini aborriva di apparire un imitatore di Hitler.
2. L’antisemitismo nei documenti ufficiali del 1938
Mentre già a partire dal 1936 si susseguono sempre più apertamente dichiarazioni, e azioni, di tono antisemita in vari ambienti vicini al governo, la prima manifestazione ufficiale del nuovo atteggiamento di Mussolini verso gli ebrei si colloca nel 1938. Si tratta dell’Informazione diplomatica n.14, redatta personalmente da Mussolini e pubblicata il 16 febbraio 1938.
A una prima parte di tono conciliante, in apparenza rivolta a fugare le apprensioni di chi temeva imminenti provvedimenti del governo contro gli ebrei (“Il Governo fascista non pensò mai, né pensa adesso, a prendere misure politiche, economiche, morali, contrarie agli ebrei, in quanto tali, salvo, beninteso, nel caso in cui si trattasse di elementi ostili al Regime”), segue una “precisazione” finale che lascia intravedere quale fosse in realtà l’intenzione del duce nei confronti degli ebrei: ”Il Governo fascista si riserva tuttavia di vegliare sull’attività degli ebrei di recente giunti nel nostro paese e di fare in maniera che la parte degli ebrei nella vita d’insieme della nostra Nazione non sia sproporzionata ai meriti intrinseci individuali e all’importanza numerica della loro comunità”.
La cautela di questo documento ha varie motivazioni: da una parte la consapevolezza di Mussolini dell’ostilità, per il momento, dell’opinione pubblica italiana impreparata verso drastici provvedimenti contro gli ebrei, dall’altra la preoccupazione circa la risonanza che disposizioni più rigide avrebbero avuto all’estero e presso la Santa Sede. Poté non essere estraneo a questo atteggiamento prudente di Mussolini anche il timore di una fuga improvvisa dall’Italia di grossi capitali in mano agli ebrei.
Il secondo documento ufficiale è il Manifesto degli scienziati razzisti del 14 luglio, che fissa la posizione ufficiale del fascismo nei confronti dei problemi della razza. Il documento porta la firma di un gruppo di docenti universitari, tra i quali si trova Nicola Pende, ma a giudizio di Galeazzo Ciano fu scritto interamente da Mussolini .
Il Manifesto si compone di dieci capitoletti che portano i seguenti titoli: 1. Le razze umane esistono; 2. Esistono grandi e piccole razze; 3. Il concetto di razza è concetto puramente biologico; 4. La popolazione dell’Italia attuale è di origine ariana è la sua civiltà è ariana; 5. E’ una leggenda l’apporto di masse ingenti di uomini in tempi storici; 6. Esiste ormai una pura razza ariana; 7. E’ tempo che gli italiani si proclamino francamente razzisti; 8. E’ necessario fare una netta distinzione fra i mediterranei d’Europa (occidentali) da una parte, gli orientali e gli africani dall’altra; 9. Gli ebrei non appartengono alla razza ariana; 10. I caratteri fisici e psicologici degli italiani non debbono essere alterati in alcun modo.
Il tono del documento è chiaramente razzista, ma al suo interno solo il capitoletto 9° si occupa in modo esplicito degli ebrei: ”Dei semiti che nel corso dei secoli sono approdati sul sacro suolo della nostra Patria nulla in generale è rimasto. Anche l’occupazione araba della Sicilia nulla ha lasciato al di fuori del ricordo di qualche nome; e del resto il processo di assimilazione fu sempre rapidissimo in Italia. Gli Ebrei rappresentano l’unica popolazione che non si è mai assimilata in Italia, perché essa è costituita da elementi razziali non europei, diversi in modo assoluto dagli elementi che hanno dato origine agli italiani.”
Ben più chiaro risulta l’atteggiamento di Mussolini nel documento ufficiale successivo, l’Informazione diplomatica n.18 del 5 agosto. Nella parte centrale del documento si dice: “Occorre anche un forte sentimento, un forte orgoglio, una chiara onnipresente coscienza di razza. Discriminare non significa perseguitare. Questo va detto ai troppi ebrei d’Italia e di altri paese, i quali ebrei lanciano al cielo inutili lamentazioni, passando con la nota rapidità dalla invadenza e dalla superbia all’abbattimento e al panico insensato. Come fu detto chiaramente nella nota n.14 dell’Informazione diplomatica, e come si ripete oggi, il Governo fascista non ha alcun piano persecutorio contro gli ebrei in quanto tali. Si tratta di altro. Gli ebrei in Italia nel territorio metropolitano sono 44.000, secondo i dati statistici ebraici, che dovranno però essere confermati da un prossimo speciale censimento; la proporzione sarebbe quindi di un ebreo ogni mille abitanti. E’ chiaro che, d’ora innanzi, la partecipazione degli ebrei alla vita globale dello Stato dovrà essere, e sarà, adeguata a tale rapporto” .
Sulla basa di questa precisazione ufficiale, si mette subito in moto un apparato persecutorio nei confronti degli ebrei, che vede coinvolti tutti i Ministeri e in particolare quello dell’Educazione Nazionale. Già il 6 agosto il ministro Bottai invia ai Provveditorati italiani una circolare nella quale si raccomanda di creare nella scuola dell’infanzia “il clima adatto alla formazione di una prima, embrionale coscienza razzista, mentre nella scuola media il più elevato sviluppo mentale degli adolescenti, già a contatto con la tradizione umanistica attraverso la studio delle lingue classiche, della storia e della letteratura, consentirà di fissare i capisaldi della dottrina razzista, i suoi fini e i suoi limiti. La propagazione della dottrina continuerà, infine, nella scuola superiore dove la gioventù studiosa, col sussidio degli cognizioni umanistiche e scientifiche già acquisite, potrà approfondirla e prepararsi ad esserne, a sua volta, divulgatrice e animatrice”.
Un ulteriore aggravamento delle condizioni di vita degli ebrei italiani fu determinato dal Decreto Legge emanato dal Consiglio dei Ministri il 2 e 3 settembre 1938. In esso si vietava agli ebrei stranieri di fissare stabile dimora nel Regno, il Libia e nei possedimenti dell’Egeo. Tutte le concessioni di cittadinanza italiana fatte a stranieri ebrei in data posteriore al 1° gennaio 1919 erano revocate. Gli ebrei erano esclusi dall’insegnamento nelle scuole di ogni ordine e grado e gli alunni di razza ebraica non erano ammessi alla frequenza delle scuole pubbliche.
Nel periodo che intercorre tra l’agosto e l’ottobre del 1938 furono fatti censimenti degli ebrei italiani e stranieri presenti nel Regno; fu iniziata l’elaborazione statistica e nominativa per categorie dei beni degli ebrei e delle loro istituzioni.
Altre iniziative collaterali furono rivolte a escludere la presenza “giudaica” in tutti i settori della vita nazionale, soprattutto in quello della cultura. Speciali disposizioni vietarono, ad esempio, l’esposizione nelle librerie di libri di autori “non ariani” o la trasmissione da parte dell’EIAR di musiche e testi di autori ebrei.
I provvedimenti più duri e espliciti nei confronti degli ebrei furono quelli presi dal Gran Consiglio nella notte tra il 6 e il 7 ottobre. A quella data, Mussolini si era ormai convinto che l’antisemitismo era inoculato nel sangue degli italiani: ora avrebbe continuato da solo a circolare e a svilupparsi.
Dopo aver ricordato che “il Fascismo ha svolto da sedici anni e svolge un’attività positiva, diretta al miglioramento quantitativo e qualitativo della razza italiana, miglioramento che potrebbe essere gravemente compromesso, con conseguenze politiche incalcolabili, da incroci e imbastardimenti”, il Gran Consiglio stabiliva:
“a) il divieto di matrimoni di italiani e italiane con elementi appartenenti alle razze camita, semita e altre razze non ariane;
b) il divieto per i dipendenti dello Stato e di Enti pubblici – personale civile e militare – di contrarre matrimonio con donne straniere di qualsiasi razza;
c) il matrimonio di italiani e italiane con stranieri anche di razze ariane dovrà avere il preventivo consenso del ministro dell’Interno;
d) dovranno essere rafforzate le misure contro chi attenta al prestigio della razza nei territori dell’Impero”.
Per quanto riguardava i rapporti tra ebrei e Fascismo, il Gran Consiglio si esprimeva in questo modo:
“…. L’ebraismo mondiale – specie dopo l’abolizione della massoneria – è stato l’animatore dell’antifascismo in tutti i campi … L’ebraismo estero o italiano fuoruscito è stato – in taluni periodi culminanti come nel 1924 –25 e durante la guerra etiopica – unanimemente ostile al Fascismo … Tutte le forze antifasciste fanno capo ad elementi ebrei; l’ebraismo mondiale è, in Spagna, dalla parte dei bolscevichi di Barcellona”.
Dopo aver affermato che “l’espulsione degli indesiderabili … è indispensabile”, il Gran Consiglio dettava i criteri per stabilire “l’appartenenza o meno alla razza ebraica”:
“a) è di razza ebraica colui che nasce da genitori entrambi ebrei;
b) è considerato di razza ebraica colui che nasce da padre ebreo e da madre di nazionalità straniera;
c) è considerato di razza ebraica colui che, pur essendo nato da un matrimonio misto, professa la religione ebraica;
d) non è considerato di razza ebraica colui che è nato da un matrimonio misto, qualora professi altra religione all’infuori dell’ebraica, alla data del primo ottobre XVI”.
Nello stesso provvedimento erano elencate le categorie di ebrei che potevano essere “discriminate”, per particolari meriti, patriottici e di difesa della causa fascista, rispetto a quanto previsto dalle norme fissate; in nessun caso però agli ebrei era consentito l’insegnamento nelle scuole di ogni ordine e grado.
Per tutti gli altri ebrei venivano fissati i seguenti divieti:
“I cittadini italiani di razza ebraica, non appartenenti alle suddette categorie, nell’attesa di una nuova legge concernente l’acquisto della cittadinanza italiana, non potranno:
L’esercizio delle professioni sarà oggetto di ulteriori provvedimenti”.
il Gran Consiglio decise inoltre:
“1) che agli ebrei italiani allontanati degli impieghi pubblici sia riconosciuto il normale diritto di pensione;
2) che ogni forma di pressione sugli ebrei, per ottenere abiure, sia rigorosamente repressa;
3) che nulla si innovi per quanto riguarda il libero esercizio del culto e l’attività delle comunità ebraiche secondo le leggi vigenti;
4) che, insieme alle scuole elementari, si consenta l’istituzione di scuole medie per ebrei”.
Non veniva esclusa, nello stesso tempo, la possibilità di una “controllata immigrazione di ebrei europei in qualche zona dell’Etiopia”.
Con il Decreto Legge del 17 novembre 1938, le decisioni più importanti del Gran Consiglio furono trasformate il leggi dello stato, con alcune modifiche e integrazioni. Tra esse citiamo quelle contenute negli articoli 11, 12, 13:
Art. 11. Il genitore di razza ebraica può essere privato della patria potestà sui figli che appartengano a religione diversa da quella ebraica, qualora risulti che egli impartisca ad essi un’educazione non corrispondente ai loro principi religiosi o a fini nazionali;
Art. 12. Gli appartenenti alla razza ebraica non possono avere alle proprie dipendenze, in qualità di domestici, cittadini italiani di razza ariana.
Art. 13. Non possono avere alle proprie dipendenze persone appartenenti alla razza ebraica:
Altri Decreti Legge, contemporanei o successivi, furono rivolti a regolare particolari aspetti della questione ebraica (ad esempio il D.L. del 15 novembre, n. 1779), fissava precise disposizioni persecutorie nei confronti degli ebrei nell’ambito scolastico); un’incalcolabile quantità di circolari, talora contraddittorie, si faceva carico di rendere esplicita agli uffici pubblici la volontà del Duce nei confronti degli ebrei.
3. La partecipazione dei giornali italiani alla campagna antisemita
Il ruolo svolto dalla stampa nazionale nella campagna antisemita appare fondamentale, ancor più di quanto non lo sia stato nella preparazione della guerra etiopica. Come afferma Paolo Murialdi, “la rilevanza e la peculiarità del ruolo dei giornali deriva da due considerazioni. La prima è che un problema ebraico, e, tanto meno, l’abominio razzista erano estranei ai sentimenti della stragrande maggioranza degli italiana; le tendenze antisemite, già affiorate prima del fascismo ma alimentate da capi fascisti fanatici, erano circoscritte a pochi e ristretti ambienti. E’ stata quindi la stampa, nei modi e nei diversi gradi che vedremo, ed esclusi alcuni fogli cattolici, a creare prima un problema ebraico e poi a tentare di convincere che la difesa della razza imponeva gli interventi persecutori contro gli ebrei.
La seconda constatazione è che l’opera di inoculazione del veleno razzista, perseguita fin dai primi anni del fascismo dai giornali di Farinacci [direttore di Cremona nuova e de Il regime fascista], Interlandi [direttore de Il Tevere e successivamente de La difesa della razza] e Preziosi [direttore de Il mezzogiorno, quotidiano di Napoli], trova altri giornali pronti a collaborare prima che Mussolini dia il via all’orchestrazione generale della campagna “. (ne La stampa del regime fascista, Laterza, Bari, 1986, pag. 164)
Filippo Sacchi, ritornando con la memoria a quegli anni, afferma:”Allora, uno che leggeva i giornali, anche solo i titoli, doveva pensare che ogni redazione fosse una specie di cittadella fascista, dove incontrandosi nei corridoi i redattori si scambiassero il saluto romano e ogni velina del Minculpop fosse accompagnata da un vigoroso alalà. Niente di meno vero. Il giornalismo italiano, chi c’era allora ha potuto constatarlo, non è mai stato così inerte, così pigro: ma era trascinato, dico trascinato proprio con la cavezza, dalla pattuglia di punta di quei quattro o cinque organi d’avanguardia, quelli che davano il la (“Il Popolo d’Italia”, “Cremona nuova”, “Il telegrafo”, “Il Tevere”, ecc…) e bisognava che gli altri, anche pompando a vuoto, tenessero il passo.” (F. Sacchi, Fascismo e antifascismo, Milano, Feltrinelli, 1962)
Per spiegare questa situazione, Oreste Del Buono osserva che “nonostante il livello di servilismo a cui si era ridotto, il giornalismo fu sempre carriera ambita da vecchi e giovani sotto il fascismo. Alle leggi fascistissime che avevano strangolato ogni libertà di stampa, avevano fatto seguito l’ammodernamento tecnico dei giornali (servizi fotografici, trasmissioni di foto da lontano, più pagine, pagine speciali, caratteri nuovi, titoli a macchina, intercettazioni radio, colore, una corsa al progresso iniziata dalla “Gazzetta del Popolo” e subito proseguita in gara sempre più serrata da “La Stampa” e dal “Corriere della Sera e da nuovi quotidiani appositamente fondati) e soprattutto il contratto giornalistico (il migliore del mondo, con alti stipendi, ferie abbondanti, assicurazioni, indennità).
La categoria dunque, aveva finito per integrarsi, in buona o mala fede, con molte umiliazioni e qualche discutibile ritorsione, il piccolo sabotaggio sotterraneo operato attraverso il taglio di una riga, la sostituzione di un sinonimo, lo sgonfiamento di un aggettivo, una specie di indiretta, immaginaria opera d’erosione del costume e della mentalità dominante in compenso a montagne di frasi fatte male, di idee confuse ricevute, di spropositi assolutamente sbagliati. (In Eia, Eia, Eia, Alalà La stampa italiana sotto il fascismo 1919/1943 Milano, Feltrinelli, 1971, pag. XVI. Da questo stesso testo è tratta la citazione di Sacchi)
D’altra parte Mussolini attribuiva una fondamentale importanza all’organizzazione del consenso operata dai giornalisti, come si può rilevare da questo passo di un suo discorso del 1933, rivolto ai dirigenti del Sindacato dei giornalisti: ”I giornalisti italiani devono considerarsi militi comandati a guardare il settore più avanzato e più delicato del fronte fascista e a manovrare l’arma più potente e pericolosa di ogni battaglia. Il duce si è servito di questa arma per le prime conquiste, se ne serve ancora per colpire alto, lontano e vicino. Oggi tutta la nazione è blocco e scudo: e tutti i giornali formano una sola bandiera. Pensiero e azione sono nel commento e nella notizia più fusi che mai.”
L’istituzione, nel 1935, del Ministero per la Stampa e la Propaganda, affidato a Galeazzo Ciano, conferma la volontà di Mussolini di un assoluto controllo su tutti gli organi di stampa. Nel 1937 questo ministero assumerà il nome di Ministero della Cultura Popolare, presto denominato Minculpop.
Si deve considerare che la diffusione della stampa quotidiana, negli anni immediatamente precedenti la guerra, è abbastanza alta; nel 1939 il Corriere ha una tiratura media di 597.000 copie giornaliere (compresa l’edizione del pomeriggio); La Stampa e la Gazzetta del Popolo hanno più o meno la stessa tiratura, intorno alle 300.000 copie; tra i quotidiani romani, Il Giornale d’Italia è fisso sulle 250.000 copie, Il messaggero sulle 200.000 (si veda P. V. Cannistraro, La fabbrica del consenso - Fascismo e mass media, Laterza, Roma – Bari, 1975)
Se si analizza il quadro generale dei giornali italiani del periodo fascista, antecedentemente al 1938, si possono individuare tre momenti di specifica offensiva razzista: la prima metà del 1934, il settembre 1936 e la primavera del 1937. Nel 1934 l’antisemitismo è ancora strettamente collegato all’antifascismo e all’antitalianità; nel 1936 si insiste in particolare sull’origine giudaica del bolscevismo (anche in collegamento con la guerra civile spagnola); nel 1937 l’occasione per la ripresa degli attacchi razzisti da parte della stampa è data dalla pubblicazione del libro di Paolo Orano Gli ebrei in Italia, violentemente antisemita, recensito in modo favorevole dai più importanti quotidiani italiani.
Nel 1938 la campagna antisemita muta decisamente di tono; in conformità al “nuovo corso” voluto da Mussolini nei confronti degli ebrei, i quotidiani italiani, a partire dai primi mesi di quell’anno, accentuano i toni della precedente campagna razzista e antisemita.
E’ interessante rilevare la gradualità di questa operazione; inizialmente l’argomento “ebrei” viene presentato per così dire di scorcio, cioè attraverso una serie di articoli tendenti a sottolineare tanto i problemi determinati in tutto il mondo dall’invadenza degli ebrei, quanto le iniziative intraprese da molti stati europei per difendersi dalla loro odiosa presenza. Solo a partire dal 15 luglio il “problema della razza” viene affrontato direttamente, sia attraverso l’illustrazione del Manifesto degli scienziati razzisti, sia attraverso la pubblicazione di numerosi articoli di carattere scientifico, rivolti a chiarire il concetto di razza e a sottolineare la necessità di difenderne la purezza. Il 31 luglio tutti i quotidiani riportano a grandi lettere il monito di Mussolini: “Anche nella questione della razza noi tireremo diritto”.
Da questo momento il linguaggio antisemita dei quotidiani si fa più aspro; le “necessità biologiche dell’impero italiano” di difendere la razza sono poste in primo piano; a chiare lettere i quotidiani riconoscono che in Italia il clima è maturo per il razzismo italiano, “patrimonio spirituale del nostro popolo, base fondamentale del nostro stato, elemento di sicurezza per il nostro impero” e danno ampio spazio alle considerazioni di Mussolini sulla “stirpe italiana”.
In agosto giunge ai giornali la nota di servizio che li sollecita a svolgere con continuità la propaganda razziale, completata dall’ingiunzione di usare l’espressione “giudaismo” e antigiudaismo” anziché “ebraismo e antiebraismo”. (si veda F. Flora, Stampa dell’era fascista – Le note di servizio, Milano, Mondatori, 1945)
Il 5 agosto esce il quindicinale La difesa della razza, diretto da Telesio Interlandi; la sua diffusione nelle scuole italiane di ogni ordine e grado e nella università è raccomandata dal Ministro dell’Educazione Nazionale, Bottai.
Da questo momento scompaiono le residue differenze tra i giornali cosiddetti “nazionali” e la stampa fascista, vero strumento politico del regime; crescono contemporaneamente gli scambi con giornali e agenzie tedesche, anche in seguito a specifici accordi italo – tedeschi sulla funzione della stampa voluti da Goebbels.
Solo alcuni fogli cattolici riescono a mantenere una certa indipendenza nei confronti dell’antisemitismo; come afferma Renzo De Felice “non vi fu giornale che non si lanciasse contro gli ebrei in generale e non si affrettasse a chiedere a gran voce l’adozione di provvedimenti contro di essi. Su un piano generale, gli attacchi erano di vario tipo: oltre alle solite elucubrazioni sulle “caratteristiche giudaiche”, sull’antifascismo degli ebrei (per fare un esempio, molti giornali pubblicano l’elenco degli ebrei che a suo tempo avevano firmato il “manifesto Croce”), sul sionismo e sull’internazionale ebraica, molta attenzione venne data ai commenti stranieri favorevoli al nuovo orientamento italiano e alle prese di posizione e ai provvedimenti presi in altri paesi contro gli ebrei e contro la loro immigrazione. Ampio rilievo fu dato pure ai reati comuni commessi da ebrei in Italia e all’estero … Su un piano più particolare, gli attacchi ebbero soprattutto due direttrici principali: da un lato contro lo “strapotere ebraico” in Italia, dall’altro contro il “pietismo”, contro coloro cioè che – ed era la stragrande maggioranza degli italiani – non capivano la politica della razza… Si può dire che non ci fu giornale, nazionale o locale, che non fece la sua brava inchiesta sugli ebrei, stranieri ed italiani, denunciando quanti erano, quanto possedevano, che cariche ricoprivano, che attività economiche esercitavano” (R. De Felice, Storia degli Ebrei italiani sotto il fascismo, cit. pagg. 263/264).
Col mese di settembre, i quotidiani italiani, anticipati come sempre da Il popolo d’Italia, passarono dalla semplice elencazione degli ebrei residenti nelle varie città agli attacchi personali contro tutti quegli ebrei che ricoprivano un ruolo importante in una qualsiasi attività, dall’industria, alle più varie professioni, allo sport.
Di tutti costoro veniva chiesto non solo l’allontanamento dalle cariche esercitate, ma addirittura l’espulsione dai confini nazionali (si veda l’articolo Pietismo fuori posto, su La Stampa di Torino del 10 settembre 1938. Una posizione critica nei confronti della persecuzione antisemita fu mantenuta invece dai giornali cattolici L’Italia di Milano e L’avvenire d’Italia di Bologna).
Quando i deliberati del Gran Consiglio furono trasformati in leggi dello stato (ottobre – novembre 1938), la stampa fu direttamene sollecitata a dare il massimo rilievo al problema giudaico e a condannare qualsiasi forma di opposizione alla politica della razza voluta da Mussolini. Come sempre, i quotidiani italiani risposero con entusiasmo a questo invito del duce.
Renzo De Felice, Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, Torino, Einaudi, 1972
Oreste Del Buono, Eia, Eia, Eia, Alalà - La stampa italiana sotto il fascismo 1919/1943 Milano, Feltrinelli, 1971
Levi Fabio, L’ebreo in oggetto, Zamorani, Torino, 1991
Paolo Murialdi, La stampa del regime fascista, Laterza, Bari, 1986
Scarlatti Michele, Gli orientamenti antisemiti di Mussolini nel 1938, Zamorani, Torino, 1994
2. Il tempo nel pensiero dell’uomo
a cura di Giorgio BRANDONE
Di questa tesina è stata presentata alla Commissione soltanto la traccia. La stesura completa è stata utilizzata per prepararsi al colloquio e per verificare i tempi dell’esposizione. Come vedi il percorso è stato concepito e proposto sotto forma di mappa concettuale: è uno dei possibili modi di presentare la traccia del proprio lavoro e ha una particolare efficacia per la sua chiarezza e la sua immediata leggibilità.
Il tempo nel pensiero dell’uomo
Cronologia |
Argomenti |
Materie |
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1905 |
Il crollo della concezione di “tempo assoluto”: Einstein e la teoria della relatività. da sempre il tempo era stato oggetto di analisi |
Fisica |
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49 d.C. inizio ‘900 1977 |
Il tempo relativo al soggetto |
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Latino Storia dell’arte |
II sec. a.C. |
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Il tempo relativo alla storia |
Greco |
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Bibliografia
Ugo Amaldi, Fisica Moderna, Bologna, Zanichelli, 1999.
Luciano Perelli, Seneca - Antologia degli scritti filosofici, Firenze, La Nuova Italia, 1970.
Italo Svevo, La coscienza di Zeno, Milano, Mondadori,1985.
Marcel Proust, Un amour de Swann, Paris, Gallimard, 1998.
Marcel Proust, Il tempo ritrovato, Roma, Newton, 1990.
Remo Ceserani-Lidia De Federicis, Il materiale e l’immaginario, vol.VIII/2, Torino, Loescher, 1982.
Martin Heidegger, Il concetto di tempo, Milano, Adelphi, 1998.
Friedrich Wilhelm Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Roma, Newton, 1999.
Carlo Sini, “Tempo” in Enciclopedia di Filosofia, Milano, Garzanti, 1982.
Margherita Hack, “I tempi dell’uomo” in Iter, Roma, Treccani, anno III n. 7, gennaio-aprile 2000.
Eccoti ora la stesura utilizzata, come abbiamo detto, per prepararsi al colloquio.
Il tempo nel pensiero dell’uomo Difficile, forse impossibile definire cosa sia il tempo. Molti pensatori hanno tentato di farlo, fornendo la propria interpretazione. Ma ogni descrizione è limitata, ristretta, limitante, può essere veritiera per un ambito del sapere, completamente errata per un altro. Perché il tempo è ineliminabile, non v’è azione umana che prescinda dal tempo. Per questo è così arduo, ma così affascinante avvicinarvisi. |
3. Il sogno
a cura di Giorgio BRANDONE
IL SOGNO Profezia del futuro o proiezione del desiderio? Letteratura greca: - Omero, Odissea Letteratura italiana: - Dante, La Divina Commedia, Purgatorio Letteratura latina: - Apuleio, Le metamorfosi Filosofia: - Freud, L’interpretazione dei sogni Fisica: - I fenomeni del miraggio e della fata morgana Bibliografia: Sigmund Freud, Il sogno, Roma, Newton,1993 |
Da sempre l’uomo si e’ interrogato su quale rapporto sussiste tra la realtà e il sogno. Nell’ora che comincia i tristi lai Il sogno non solo è veritiero, ma sembra anticipare l’interpretazione freudiana secondo la quale il sogno, proteggendo il sonno, ingloba nel contenuto del sogno manifesto delle percezioni che provengono dall’esterno. In effetti, mentre Dante sogna di essere rapito dall’aquila, portato in cielo e prendere fuoco (per la forte impressione di calore si sveglia), viene effettivamente trasportato da S. Lucia alle soglie del Purgatorio. Il calore era causato dal sole già alto nel cielo. A Dante appare una donna mostruosa, balbuziente, monca, con gli occhi storti e pallida. Mentre il poeta la osserva, la donna mostruosa si trasforma in una donna avvenente, che, cantando, dichiara di essere una sirena, colei che attira con il suo lascivo fascino i marinai. Ed ecco apparire un’altra donna di fianco a Dante, una donna premurosa ed onesta, che richiama Virgilio al suo compito di rivelare al discepolo la verità; questi si avvicina alla donna tentatrice, le strappa gli abiti e ne mostra a Dante il ventre, da cui emana un fetore tale da risvegliarlo. La spiegazione del sogno sarà fornita da Virgilio mentre i due poeti si avviano verso la quinta cornice, quella degli avari e prodighi. Il poeta latino spiegherà che l’orribile donna è il simbolo della concupiscenza, i cui peccati di avarizia, gola e lussuria vengono espiati nella tre cornici del Purgatorio che ancora li attendono e dalla quale ci si può liberare solo per mezzo della ragione (o della filosofia). |
4. L’energia
a cura di Giorgio BRANDONE
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Energia: impulso e forza di vita
- L’origine della vita nel Precambriano
- Il principio di conservazione dell’energia Dall’energia in campo fisico e scientifico all’energia come spirito vitale del pensiero filosofico, letterario, artistico.
- La natura da madre a matrigna
- Accettazione ed esaltazione dei valori vitali
- La tragedia di Sofocle: Antigone
- Seneca: il furor soccombe nel messaggio morale
Bibliografia: E. Nolte, Nietzsche e il nietzscheanesimo , Sansoni, Firenze, 1991 |
Energia: impulso e forza di vita L’energia è stata intesa quale motore primo della vita, ciò che l’ha animata e resa possibile dalla sua origine al suo sviluppo. Come le altre stelle, il Sole ebbe origine – circa 5 miliardi di anni fa - da un ammasso di polveri e di gas di elio e di idrogeno, dalle collisioni dei quali, in seguito ad un aumento della temperatura, si verificarono fusioni tra i nuclei degli atomi di idrogeno; tali reazioni termonucleari sono tuttora la fonte di energia che si irradia dalla superficie della stella alla Terra. La nascita della vita sulla Terra nel periodo Precambriano è strettamente connessa a tale energia. Il pianeta in formazione abbondava di energia: ad esempio gli elementi radioattivi interni, le frequenti eruzioni vulcaniche, l’energia termica sia sotto forma di calore secco, sia come calore umido prodotto dal vapore acqueo, i violenti temporali accompagnati da fulmini che fornivano energia elettrica, i bombardamenti di particelle e le radiazioni ultraviolette del Sole. Vari esperimenti, prima di Oparin (1922), poi di Miller (1950), hanno dimostrato che quasi tutte le forme di energia – in particolare, si ritiene, quella solare - avrebbero potuto trasformare le molecole presenti sulla superficie terrestre e la sua particolare situazione atmosferica - costituita prevalentemente da idrogeno, vapore acqueo, metano e ammoniaca - in composti organici complessi (quali, si ipotizza, aminoacidi e nucleotidi, componenti essenziali di DNA e RNA): l’energia è stata dunque il motore del passaggio dall’inorganico all’organico. Nelle sue varie forme, l’energia di un sistema isolato si conserva costante: è questo il principio di conservazione dell’energia nella sua formulazione più generica, di cui è caso particolare il primo principio della termodinamica. Partendo da una considerazione dell’energia in ambito geologico, biologico, chimico e fisico, cercherò ora di sviluppare un percorso che rivisita il concetto di energia e lo indaga quale spirito vitale, anima del pensiero filosofico, letterario, artistico. All’interno del Romanticismo tedesco è stata approfondita in modo particolare la concezione di natura quale energia vitalistica: nelle opere e nelle filosofie di tale periodo si sviluppa, infatti, una filosofia della natura organicistica (la natura è una totalità organizzata nella quale le parti vivono in funzione del tutto), energetico – vitalista (è una forza dinamica, vivente ed animata), finalistica (è strutturata per determinati scopi), spiritualista (è spirito in divenire) e dialettica (è organizzata secondo coppie di forze opposte). Secondo tale concezione le forze fisiche e i fenomeni sensibili non sono che manifestazioni e simboli dell’unica forza spirituale che si estende per tutto l’universo e si identifica con il principio divino. Tale visione è particolarmente evidente nella Filosofia della Natura di Schelling: attività spirituale inconscia, organismo che organizza se stesso, la natura è incondizionata e infinita come l’assoluto. E’ infinita attività creatrice, che si manifesta nella lotta tra forze opposte: dalla infinità di tale lotta nasce la vita. Anche Leopardi sottolinea il nuovo rapporto romantico con la natura, fonte della capacità di sentire, primigenia madre, della quale l’uomo ha bisogno poiché dal rapporto con essa nasce non solo la poesia, ma la vita stessa. Il mondo antico era, secondo il poeta, più vicino alla natura, nella mimesi che di essa realizzava. Per questo Leopardi si riaccosta al classicismo, nel quale però non ricerca un armonico equilibrio, traendo invece da esso una spinta agonistica, una volontà di esperienza forte, propria della vitalità autentica e primigenia e ignota ai romantici italiani, ripresa, invece, proprio dal Romanticismo europeo. Quando, con l’approfondirsi del pessimismo leopardiano, la natura da madre diviene matrigna, la poesia rimane come ultima forza capace di far resistere le illusioni vitali, poiché se la natura dona l’esistenza – il cieco svolgersi di un ciclo biologico verso il nulla - proprio la lirica diviene fonte della vita – intesa quale vitalità, forza del sentire e dell’illudersi, impulso agonistico. Nella poesia il leopardi vede uno strumento di conoscenza di sé: la poesia è espressione della persona, è la forma che rende possibile un accrescimento di vitalità. Essa ha la capacità di commuovere e di agitare: deve suscitare nel lettore “una tempesta, un impeto, quasi un gorgogliamento di passioni” (Zibaldone, agosto 1823). La lirica, tra i vari generi il più vicino all’espressione della natura, può realizzare nel modo più diretto la tendenza autentica della poesia, che, dando voce all’indefinita immediatezza della coscienza, suscita anche solo per brevissimi lampi una capacità di sentire l’esistenza e diviene così fonte di energia. Nell’idealismo tedesco, dinamica e vitalistica è la concezione dell’Aufhenbung, dialettico superamento di sé che può essere interpretato quale evoluzione vitale continua. Lo spirito vive di opposizione e di lotta: lo schema triadico non fa che simboleggiare il processo vitale; si può leggere, infatti, nella tesi l’esordio spontaneo, ma ancora malcerto e circonfuso di mistero, della ricerca teoretica o dell’intuizione artistica o dell’atto volontario; nelle antitesi il dubbio, la negazione sconfortante, insomma tutto l’intimo travaglio della riflessione e della critica; nella sintesi, finalmente, la riconquista, la sicurezza del possesso, la catarsi teoretica o morale. Raggiunta la sintesi, tuttavia, il fecondo travaglio dello spirito non subisce un arresto. In effetti ogni sintesi segna una pausa ed un riposo di cui lo spirito gode, ma essi sono momenti di tregua e di raccoglimento che preludono ad un nuovo slancio. La sintesi è un atto di limitazione che non può pareggiare l’attività infinita da cui il moto si alimenta. Da qui nasce nello spirito un vitale scontento delle soluzioni volta a volta conseguite, dei risultati del lavoro già compiuto, che è sprone a nuove ricerche e a nuovi cimenti. Se non si dà questa insoddisfazione, se l’opera compiuta pareggia in tutto l’energia dell’autore, allora è la morte. Ma la morte stessa non ha valore che per l’individuo, che è una sintesi sempre in qualche modo limitata dell’attività totale dello spirito; l’umanità nel suo complesso, invece, esprime nell’infinità della sua vita l’infinità dell’energia spirituale che la suscita. Anche nella filosofia di H. Bergson è presente la concezione della vita come fenomeno che tende perpetuamente a un’evoluzione: essa non segue una linea unica e semplice, ma varie e numerose direzioni, senza un disegno preformato; è creazione libera e imprevedibile, uno slancio vitale nel quale è “tutta intera l’unità della vita” e che si realizza a poco a poco, ha in se stessa le proprie leggi e in ogni sua fase, con la forza, crea qualcosa di veramente nuovo e originale, dotato a sua volta di forza. Si è ritenuto che in ambito artistico massimo interprete di quella forza che anima e sostiene la vita stessa, propria sia della natura sia della coscienza e dell’anima umana, sia stato V. Van Gogh. Come scrisse O. Mirbeau: “Egli non si è immedesimato nella natura, ma ha immedesimato la natura in se stesso, obbligandola a piegarsi, a modellarsi, secondo le forme del suo pensiero, a seguirlo nelle sue impennate e a subire le sue deformazioni”. E’ in tal senso che si può passare all’analisi del pensiero nietzschiano, in particolare facendo riferimento a quanto esposto nel testo La nascita della tragedia. Nietzsche accoglie le considerazioni di Schopenhauer sulla vita e sulla volontà – inconscio, cieco irresistibile impeto, forza vitale, impulso e bisogno teso alla conservazione della vita -: dolore, lotta, senza una precisa finalità. Tuttavia Nietzsche, rifiutando la rassegnazione e l’ascetismo, propone l’accettazione totale della potenza naturale, forza ingenua, spontanea, primitiva, simbolo della quale è Dioniso: l’affermazione religiosa della vita totale, non rinnegata né frantumata. E’ l’esaltazione entusiastica del mondo com’è, senza diminuzione, senza eccezione e senza scelta: esaltazione infinita dell’infinita vita. E’ la volontà orgiastica della vita nella totalità della sua potenza. Dioniso è il dio dell’ebbrezza e della gioia, il dio che canta, ride e danza: egli bandisce ogni rinuncia, ogni tentativo di fuga di fronte alla vita. L’accettazione integrale della vita trasforma il dolore in gioia, la lotta in armonia, la crudeltà in giustizia, la distruzione in creazione. Tutti i valori fondati sulla rinuncia e sulla diminuzione della vita, tutte le cosiddette virtù, tendono a modificare l’energia vitale, a spezzare e a impoverire la vita. Solamente l’atto dell’accettazione, la scelta libera e gioiosa di ciò che la vita è nella sua potenza primitiva, determina la trasfigurazione dei valori e indirizza l’uomo verso l’esaltazione di sé, anziché verso l’abbandono e la rinuncia. Ben consapevole del momento tragico e crudele dell’essere, Nietzsche propone un accoglimento della vita nell’insieme dei contrari che la caratterizzano: apollineo e dionisiaco. Come scrive ne La nascita della tragedia, “I due istinti, tanto diversi tra loro, vanno l’uno accanto all’altro, per lo più in aperta discordia, ma pure eccitandosi reciprocamente a nuovi parti sempre più gagliardi, al fine di trasmettere e perpetuare lo spirito di quel contrasto, che la comune parola “arte” risolve solo in apparenza; fino a quando, in virtù di un miracolo metafisico della “volontà” ellenica, compaiono in ultimo accoppiati l’uno con l’altro, e in questo accoppiamento finale generano l’opera d’arte, altrettanto dionisiaca che apollinea, che è la tragedia attica”. Per Nietzsche, è la tragedia stessa a essere veramente grande e paradigmatica; o, più precisamente, è l’epoca nella quale la tragedia poté esistere ad essere tale: un’epoca grandiosa della vita degli uomini, nella quale il conflitto fra gli dei si compie nel mito, e la vita conosce il senso del vivere e presenta “unità di stile” in tutte le sue manifestazioni. Esemplare nella tragedia attica è l’opera sofoclea; seguendo l’analisi di Nietzsche sulla tragedia, è possibile individuare nell’opera complessiva di Sofocle, ma soprattutto nell’Antigone, la conciliazione tra i due opposti impulsi umani, indagando anche il medesimo contrasto nella tragedia latina. Anche nella tragedia latina, di cui a noi restano solo le nove tragedie di Seneca, cardine è la rappresentazione dello scatenarsi rovinoso di sfrenate passioni, non dominate dalla ragione, e delle conseguenze catastrofiche che ne derivano. Tuttavia in esse si inserisce un forte scopo pedagogico e morale, individuabile nell’intenzione di proporre esempi paradigmatici dello scontro nell’animo umano di impulsi contrastanti: apollinei e dionisiaci. Da un lato la ragione (di cui sono portavoce personaggi secondari), dall’altro il furore, l’impulso irrazionale, la passione, presentata da Seneca come manifestazione di pazzia, che sconvolge e travolge l’animo umano, versante oscuro della colpa: nel fondo dei personaggi tragici risulta così evidenziato il valore di esemplarità negativa. Si possono individuare eventuali connessioni politiche al pensiero nietzschiano, benché esso sia stato sempre e solo filosofico, e lo stesso uber–mensch risulti una figura sfocata e priva di riferimenti contingenti, così come il concetto di volontà di potenza. In effetti, il pensiero di Nietzsche è stato considerato espressione del cosiddetto “pangermanesimo”, un pensiero che, senza caratterizzarsi mai quale organico movimento politico e culturale, si presentò come un atteggiamento di fondo di parte della nazione tedesca, volto all’esaltazione dell’individualità e della potenziale grandezza germanica, fin dall’età romantica (si tengano presenti i Discorsi alla nazione tedesca di Fichte) come reazione alla dominazione napoleonica. Relegato ai margini della vita intellettuale tedesca dalla politica bismarkiana e dall’ingerenza prussiana, il pangermanesimo si riprende forza con l’insorgere di teorie razzistiche (significativo il testo di U.S. Chamberlain Le basi del secolo XIX del 1899, che anticipa i contenuti del Mein Kampf hitleriano), fomentato soprattutto dalla politica militare aggressiva di Guglielmo II, che comportò un ulteriore indubbio aumento delle tendenze razzistiche ed espansionistiche. Alla conclusione del primo conflitto mondiale, l’umiliazione per i trattati di pace fece sì che il pangermanesimo ritrovasse forza nella teoria dello spazio vitale. Pur tenendo dunque in considerazione la notevole distanza temporale che intercorre tra Nietzsche e il nazismo, si può rilevare come quest’ultimo possa essere considerato la messa in pratica, da parte di un popolo intero, guidato dal Führer, della “volontà di potenza”: ossia la traduzione realistica di una barbarie per Nietzsche accettabile, forse, solo sul piano teorico. Ciò che egli scrive (“... è resa possibile la nascita di stirpi internazionali, che si pongano il compito di allevare una razza di dominatori, i futuri “signori della terra”; - una nuova, enorme aristocrazia, edificata sulla più dura autolegislazione, in cui sarà conferita una durata di millenni alla volontà di violenti uomini filosofici e di tiranni artisti; una specie superiore di uomini che, grazie alla loro sovrabbondanza di volontà, sapere, ricchezza e influsso, si serviranno dell'Europa democratica come del loro strumento più docile e maneggevole per prendere in mano le sorti della terra, per plasmare, come artisti, l’uomo stesso.”) conferma quanto di lui ha scritto, nel 1940, il Lowit: “Nietzsche rimane un compendio dell’antiragione tedesca. Un abisso lo separa dai suoi divulgatori senza scrupolo, eppure egli ha preparato loro la strada che lui stesso non volle percorrere”. Si può concludere, quindi, che, per quanto mediato e indiretto, vi è un rapporto tra il pensiero di Nietzsche ed il nazionalsocialismo, tra il decadentismo raffinato e filosofico del primo e l’élite politica spietata, preda di un delirio antisemita, a capo del secondo. “Mille sentieri vi sono non ancora percorsi; mille salvezze e isole della vita.
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Fonte: http://www.capitello.it/online/Esempi_tesine.doc
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