IL QUADRO DI RIFERIMENTO
PER UN NUOVO MODELLO DI SVILUPPO
Nel corso degli Anni ’80 si è assistito ad una crisi del modello di sviluppo che nei precedenti decenni aveva garantito la crescita economica e sociale del nostro Paese: sono venute meno, infatti, da una parte la qualità dello sviluppo, dall’altra le sue connessioni economiche, sociali e territoriali. In conseguenza dei vuoti prodottisi nel modello di sviluppo e delle drammatiche vicende dell’occupazione si è aperto un grave problema di identità politica nel senso che sono state messe in discussione le capacità di governo e le modalità d’intervento dello Stato centrale, il ruolo del sistema delle autonomie regionali e locali, la gerarchia delle risorse sia materiali che immateriali a disposizione del Paese, i caratteri e le funzioni dei protagonisti dello sviluppo tanto quelli istituzionali quanto quelli sociali. La crisi è stata accentuata, poi, dalle dinamiche connesse ai processi di internazionalizzazione delle economie e di unificazione dell’Europa e, per le regioni del Mezzogiorno, dai problemi di conversione del modello di sviluppo indotti dalla cessazione dell’intervento straordinario.
In un contesto del genere è divenuto sempre più evidente come il mutamento dei caratteri dello sviluppo italiano richieda un profondo ripensamento dell’uso delle risorse, con l’attribuzione di un ruolo centrale alla cultura ed alla ricerca scientifica e tecnologica, ed una più avanzata strategia di connessione con le politiche, le esperienze e le occasioni, anche finanziarie, offerte dall’Unione Europea.
Da sempre gli operatori del territorio si misurano col fatto che i patrimoni storico-culturali, territoriali, paesistici ed ambientali "producono economia", cioè a dire grandezze economicheinfluenzano prezzi, rendite e livelli di reddività degli investimenti..
Se si pensa ai beni culturali come ad un mondo che può produrre redditi e occupazione da una gestione razionale delle proprie risorse assunte pure come "beni economici", allora occorre ricordare che per secoli la nostra cultura ha portato avanti la tesi di una contrapposizione di fondo fra mondo delle idee ed economia, fra arte e denaro, fra ciò che essendo immateriale e disinteressato appariva "puro", e ciò che essendo materiale e soggetto alle leggi economiche veniva ritenuto "impuro". Questa antinomia rende, tuttora, estremamente complessa la costruzione di una scienza economica dei beni simbolico-culturali. Ci si trova, in effetti, davanti al compito di concepire una economia dei beni culturali ed ambientali di tipo "materialistico", ma capace di tener conto del mondo delle idee e della storicità.
Un territorio è un campo strutturato di funzioni, spesso contrastanti tra loro: il paesaggio urbano e rurale, in Italia, è da sempre teatro di conflitti fra conservazione e distruzione che, nondimeno, non hanno condizionato il valore estetico dei luoghi, anzi, ne costituiscono - forse - il motivo più segreto di fascino. Oggi, una politica dei beni culturali va orientata verso la conservazione e, contemporaneamente, verso una gestione attiva delle risorse intesa a conciliare le scelte di tutela e salvaguardia con quelle di valorizzazione e fruizione. Queste dinamiche vanno accompagnate per un verso dalla elaborazione di strumenti appropriati di programmazione negoziata e cooperativa, in grado di orientare e raccordare a livello locale le decisioni e i conseguenti comportamenti dei soggetti pubblici e privati, per un altro dallo sviluppo di nuove professioni, dal rilancio delle antiche attività artigiane, dall’impiego di tecnologie innovative d’intervento.
I BENI CULTURALI E IL TURISMO
La funzione economica dei beni culturali è strettamente connessa alla loro fruizione. Un bene culturale è tale solo a posteriori. Qualsiasi bene, una volta domandato per motivi culturali (estetici, epifanici o cultuali) da consumatori singoli o collettivi, diviene bene culturale, ed entra, perciò, a far parte di un patrimonio il la cui usoutilizzazione rappresenta un valore d’uso per il paese sia sotto il profilo economico che sotto quello dell’identità storica e sociale della collettività.
I beni culturali, dunque, oltre ad avere un valore in sé - valore culturale - hanno un valore sociale, che implica una molteplicità di benefici d’uso, fra i quali prevalenti, sotto l’aspetto economico, sono stati finora quelli connessi al turismo culturale interno ed estero, al turismo di svago e vacanza, al turismo scolastico.
Il turismo ha esattamente due secoli di vita: nei dizionari di lingua inglese il termine "turista" compare nel 1800, il termine "turismo" nel 1811. Il viaggio di iniziazione culturale e di piacere, il turismo nell’accezione moderna del termine, viene sancito - nel 1836 - dalla pubblicazione da parte di un inglese, John Murray, di un Red Book sui viaggi in Europa, che l’autore correda di asterischi per segnalare i luoghi degni di visita. A questo punto il turista è dotato di una sua "bibbia", che verrà istituzionalizzata appena tre anni dopo dalla prima guida - sulla Renania - redatta dal tedesco Karl Baedacker, che sistematicamente estenderà le sue pubblicazioni ai vari paesi del mondo negli anni a venire.
Il turismo dei nostri giorni affonda dunque le sue radici, spirituali ed economiche ad un tempo, nella cultura: più precisamente nel romanticismo inglese, francese e tedesco. E’ solo poco prima della metà dell’Ottocento che la dimensione socio-economica del fenomeno comincerà ad emergere in tutta la sua portata. Nel 1841 Thomas Cook, anche lui inglese, organizza un viaggio della sua lega della temperanza da Loughborough a Leicester. Quattro anni più tardi dal successo di quell’esperienza nasce l’agenzia di viaggi Cook, che nel 1868 lancerà il libretto di viaggio a garanzia delle tappe dell’itinerario proposto al visitatore e nel 1875 si sarà già affermata come un’organizzazione di livello mondiale.
Fino a tutti gli Anni Dieci del Novecento, da questo processo di socializzazione restano emarginati, in Inghilterra, i contadini e gli operai di fabbrica: i primi, destinati a rimanere l’unico ceto sociale escluso, quasi per definizione, dal fenomeno. Solo dopo la prima guerra mondiale le ferie pagate rientrano nei contratti collettivi di lavoro. Ancora nel 1940 appena un quarto degli operai americani aveva diritto alle ferie pagate, ma negli Anni Trenta il turismo, specie quello balneare, aveva ormai assunto proporzioni a carattere di massa.
La storia del turismo è, in gran parte, storia della sua organizzazione: delle grandi agenzie di viaggio, delle catene alberghiere, delle società di trasporti e così via. E’, insomma, essenzialmente storia dei modi di produzione dell’offerta che influenza e, più spesso, crea la domanda. In Italia l’industria turistica è stata imperniata sul turismo estero, fatto di vacanze stanziali, di riposo soprattutto al mare ma anche ai laghi e in montagna, e di visita delle città d’arte. L’Italia, in latri termini, ha sfruttato la sua geografia e la sua storia come "fattori naturali" di affermazione, senza preoccuparsi eccessivamente di specializzare e potenziare le strutture d’offerta delle sue risorse, di redistribuire i flussi turistici sul territorio nazionale, di mantenere elevato il livello della domanda interna.
Per molti versi negli anni più recenti la crescita del turismo culturale, nel nostro Paese, ha di gran lunga sopravanzato le previsioni e posto i gestori dei patrimoni dinanzi a problemi del tutto inediti. Nell’epoca della democrazia di mercato sono mutate, in tempi straordinariamente brevi, le qualità in giuoco che hanno assunto, a volte, dimensioni ingovernabili. Tre i fattori principali di questo cambiamento: la crescita economica, con una forte interdipendenza tra livello del reddito, grado di acculturazione e domanda turistico-culturale. La continua espansione dei tempi liberi sociali. Il vertiginoso incremento del valoervalore monetario dei beni culturali e la relativa espansione della loro moda, con conseguienteconseguente esplosione della capacità d’attrazione (fascino del materiale/immateriale) soprattutto delle istituzioni museali.
Fino a qualche anno fa, nelle politiche economiche italiane, il turismo era una posta che arricchiva il processo di sviluppo e proteggeva l’andamento dei conti con l’estero. Il vero punto è che, secondo previsioni autorevoli, nei prossimi dieci-quindici anni il turismo, specie quello culturale, sarà il settore che registrerà il maggior sviluppo a livello d’economia mondiale e costituirà, quindi, un fattore importante - in alcune situazioni decisivo - dell’ulteriore sviluppo dell’economia italiana. Nello stesso tempo, la gestione del turismo culturale è rimasta nelle mani degli operatori turistici che non hanno, spesso, alcuna percezione della valenza dei beni culturali che generano quei flussi.
I BENI CULTURALI COME OGGETTO GIURIDICO
E’ solo con questo secolo che, nell’Italia unificata, i beni culturali da oggetto di negozi giuridici privati sono divenuti tema di disciplina normativa. La legge 20 giugno 1909, n. 364, "Norme per l’inalienabilità delle antichità e delle belle arti", riguarda le "cose mobili e immobili che abbiano interesse storico, archeologico, paleontologico e artistico", e viene emanata in vista della conservazione al Paese di beni di grande valore, offrendo allo Stato la possibilità di guadagnarle al patrimonio pubblico di fronte a rischi di perdita o deterioramento.
La legislazione del 1939 (la legge 1 giugno, n. 1089, che ancora parla di tutela delle cose d’interesse artistico e storico; la legge 29 giugno, n. 1497, per la protezione delle cosiddette bellezze naturali; la legge 22 dicembre, n. 2006, per la conservazione dei beni archivistici) muove dalla critica all’insufficienza ed al carattere poliziesco della normativa del 1909, e aspira a dare sistemazione integrale alla materia potenziando i presidi pubblici, attraverso un’armonica dosatura dei poteri delle amministrazioni e la costruzione di una rete organica di provvedimenti.
Nel complesso, con la legislazione del ’39 (soprattutto la legge sulla protezione delle bellezze paesaggistiche va messa in correlazione storico-politica con l’emanazione della prima, grande legge urbanistica, che è del ’42) si inizia a definire un ordinamento di settore fondato su una forte organizzazione - a livello culturale - degli strumenti per il controllo di beni e di attività ritenuti essenziali per la politica culturale del regime allora vigente. Prevalente rimane, nella regolamentazione, il profilo dell’appartenenza dei singoli beni o allo Stato o ai privati, ma mediante l’articolazione e il rafforzamento dei vincoli sui beni artistici e d’interesse storico si gettano le fondamenta di quella che diverrà la categoria dei beni culturali, unitaria sotto il profilo funzionale.
Le linee tracciate dalla leggi del 1939 furono riprese, nel nuovo clima politico-amministrativo del dopoguerra, dalla Costituzione repubblicana del 1948.
L’art. 8 include fra i princìpi fondamentali il fatto che "la Repubblica promuove lo sviluppo della cultura" e "tutela il paesaggio e il patrimonio storico-artistico della Nazione". Viene così delineato quello che è stato definito uno "stato di cultura" e, in ogni caso, viene posta una norma costituzionale a fondamento della legislazione sui beni culturali e sull’ambiente (anche se quest’ultimo viene preso in considerazione ancora sotto un profilo squisitamente estetico, quello del paesaggio).
Nella prima metà del Novecento, dunque, si assiste al passaggio da una fase in cui gli ordinamenti giuridici non mostrano interesse verso i beni di cultura ad una in cui essi regolamentano, spesso con una produzione legislativa di alto livello, i beni culturali, ma esclusivamente a fini di tutela.
Uno degli strumenti essenziali della legislazione del 1939 è quello del vincolo di porzioni specifiche di territorio o di ambiente, da proteggere attraverso il divieto di edificare o di modificare l’ambiente stesso. Di contro, un’importante apertura in positivo è rappresentata dalla possibilità di redigere "piani territoriali paesistici" per aree vaste, che viene prevista dalla legge sulla protezione delle bellezze naturali, ma che troverà piena espressione soltanto 46 anni dopo, con la legge n. 431 del 1985 "Conversione in legge, con modificazione, del decreto-legge 27 giugno 1985, n. 312, recante disposizioni urgenti per la tutela delle zone di particolare interesse ambientale".
In definitiva, nella prima metà del secolo, la legislazione sui beni culturali progredisce, ma lo fa con la lentezza che è propria dei settori dove il mercato agisce solo parzialmente perché poco stimolato da interessi economicamente e socialmente limitati. In questi casi la tutela dei diritti dei privati è garantita da sempre, mentre è il soggetto pubblico ad intervenire o per motivi di grandeur nazionale come sotto il fascismo, o per motivi di identità culturale e di educazione civica com’è per la Costituzione del ’48.
GLI STRUMENTI NORMATIVI DEGLI ANNI ’80
Come si è accennato all’inizio di questa introduzione, occorrerà attendere il decennio ’80 perché emergano nuovi orientamenti legislativi e i beni culturali vengano presi in considerazione anche come "beni economici". Le politiche proposte o gli interventi realizzati in quei dieci anni per consentire maggiori entrate e assicurare, così, una migliore tutela e una fruizione più ampia dei beni culturali, hanno privilegiato due indirizzi. Si è ritenuto, anzitutto, che fosse possibile creare nuovi redditi e nuovi posti di lavoro attraverso una crescita di efficienza ed una diversificazione delle attività esercitate nell’ambito dei beni culturali. E’ questa la finalità dei provvedimenti alla riorganizzazione degli istituti culturali, a cominciare dai musei, ed allo sviluppo dei servizi di supporto alla fruizione. Si è dato luogo, secondariamente, a strategie che hanno finanziato l’introduzione dell’informatica e la diffusione della multimedialità nel settore dei beni culturali ovvero le misure che collegano il sostegno finanziario degli interventi di recupero e di restauro alla loro capacità d’impatto sul turismo culturale e attività connesse.
In generale, i limiti di queste strategie d’intervento è derivato dal fatto che le due direzioni di movimento o sono state considerate tra loro alternative, e, quindi, non integrabili, o sono state messe in collegamento in forma debole per l’assenza di un programma complessivo d’intervento che stabilisse connessioni e gerarchie.
Il quadro normativo degli anni ’80 non sarebbe completo se non si ricordasse il decreto ministeriale del 21 settembre 1984, cosiddetto decreto Galasso, la sua traslazione in atto legislativo col DL 27 giugno 1985, n. 312 e la sua finale, tormentata, conversione nella già citata legge n. 431/1985. Questo complesso normativo segnava, sotto il profilo organizzativo e procedurale, un recupero della tutela paesistica, ed in particolare dei piani paesistici, così come definita dalla legislazione del 1939, includendovi princìpi di tutela ambientale preventiva estesa ad una quota rilevante del territorio nazionale, seppure ancora essenzialmente in forma di vincolo.
E’ appena del 31 marzo 1988 1998 l’emanazione del decreto legislativo n. 112 che, prima di ripartire le relative competenze fra Stato, Regioni ed Enti locali, definisce le nozioni di tutela, gestione e valorizzazione. Tutela è "ogni attività diretta a riconoscere, conservare e proteggere i beni culturali e ambientali"; viene chiamata gestione "ogni attività diretta, mediante l’organizzazione di risorse umane e materiali, ad assicurare la fruizione dei beni culturali e ambientali"; si definisce valorizzazione "ogni attività diretta a migliorare le condizioni di conoscenza e conservazione dei beni culturali e ambientali e a incrementarne la fruizione".
Emerge, dal testo del DL, una evidente sovrapposizione fra gestione e valorizzazione, in quanto ambedue esplicitamente finalizzate alla fruizione. Ma, soprattutto, si avverte la gracilità di definizioni avulse da un appropriato contesto e da una concezione degli interventi che sia in grado di definire fini e mezzi. I vari momenti dell’amministrazione pubblica dei beni culturali possono acquisire un senso, in ordine a politiche di sviluppo, unicamente se inquadrati in un disegno volto ad incrementare la produzione di merci e servizi collegati alla fruizione dei beni e ad utilizzare la spesa dei visitatori a vantaggio degli altri settori produttivi dell’area in cui i patrimoni culturali sono localizzati.
TESI PER UNO SVILUPPO SOSTENIBILELA VALORIZZAZIONE DEI BENI CULTURALI
L’ipotesi da cui è partito il presente Rapporto è che la valorizzazione dei beni culturali possa dare uno specifico contributo alla crescita dell’economia nazionale in generale ed a quella dei sistemi locali in particolare. Il settore dei beni culturali, d’altra parte, ha caratterizzato fin dal Grand Tour l’intera industria culturale del nostro Paese e appare, ancora oggi, in grado di assicurare all’Italia un vantaggio competitivo, uno di quei vantaggi sul mercato internazionale che discendono, cioè, da un canto dalla pluralità e dalla diversificazione dei contesti in cui si sviluppano i sistemi produttivi, dall’altro dalla capacità d’integrazione economica e di riproduzione sociale e culturale di cui tali contesti sono dotati.
Storicamente l’obiettivo primo delle strategie di valorizzazione dei patrimoni culturali del nostro Paese è stato quello di allargare il numero dei fruitori: se la domanda di beni culturali è a sostegno di cultura, allora ogni intervento diretto a promuovere l’offerta di servizi alla fruizione è di per sé un atto ad elevato contenuto formativo ed educativo.
Più di recente, da alcune parti si è sostenuto che l’attività di tutela - che è il cuore dell’azione tradizionale di salvaguardia e conservazione dei beni culturali a favore degli utenti attuali e, ancora più, di quelli a venire - può essere giustificata da un futuro incremento di valore dei beni in grado di compensare i costi dell’attuale processo conservativo; da altre parti, invece, la valorizzazione è stata riportata alla crescita culturale, etica, civile della collettività, ossia ad un incremento di valore del "capitale umano" del Paese secondo una logica che vede tale incremento come una sorta di arricchimento patrimoniale.
Oggi, sta diventando prevalente è la posizione di chi intende ottimizzare gli impatti del processo di valorizzazione dei beni culturali sul reddito e l’occupazione di una determinata area.
IL PATRIMONIO CULTURALE COME CAPITALE
Una delle cause principali dello scarso impatto occupazionale delle politiche finora perseguite nel campo dei beni culturali è dovuta la fatto che alla trasformazione delle finalità del processo di valorizzazione - da una valorizzazione vista, essenzialmente, come arricchimento culturale e professionale ad una intesa pure come crescita del reddito e dell’occupazione - non ha fatto seguito una ridefinizione del modello complessivo di sviluppo, che tenesse conto delle funzioni nuove attribuite ai beni culturali. E’ per questo motivo che le strategie e gli interventi realizzati non sono stati strutturalmente in grado di produrre i risultati attesi.
Più in particolare. Il patrimonio culturale, se concepito in senso tradizionale ed allargato - ma solo per alcuni aspetti - ai beni ambientali (tenendo distinte, quindi, tutte quelle attività che facciano riferimento a spettacolo, cinema, televisione, editoria, moda), non rappresenta una semplice posta dell’attivo patrimoniale di un paese, bensì un "capitale" a disposizione per la produzione di reddito e occupazione aggiuntiva. Un capitale fra virgolette perché i beni culturali più propriamente possono essere assimilati a quelle forze naturali che accrescono la produttività del lavoro impiegato nelle attività utilizzatrici creando, per questa via, una rendita differenziale a favore dei produttori.
In quanto capitale, il patrimonio dei beni culturali è, potenzialmente, idoneo a partecipare allo sviluppo economico e occupazionale dell’Italia in modo assai più consistente di quanto attualmente non avvenga.
A patto, però, che vengano rispettate alcune condizioni. In primo luogo, che da parte sia dell’analisi economica che delle strategie politiche venga modificato l’angolo visuale da cui si guarda il processo di valorizzazione, prendendo in considerazione non solo le attività direttamente necessarie per tutelare, conservare, rendere fruibili i beni, ma anche quelle che contribuiscono a definire la dotazione di servizi territoriali: qualità dell’ambiente architettonico, urbanistico e paesaggistico, qualità dell’ambiente sociale, qualità e quantità delle infrastrutture e dei servizi che garantiscono accessibilità e ricettività, e così via. Tali servizi vanno, con prontezza, adeguati alle esigenze della domanda che ci si propone di attrarre.
In secondo luogo, che la maggiore partecipazione delle risorse culturali ai processi di sviluppo prenda origine da una crescente specializzazione del "sistema Paese" in materia di dotazione e di offerta di un palinsesto storico-artistico, al quale da ogni parte viene riconosciuta un’assoluta eccellenza a scala europea e mondiale. In questo senso, la specializzazione va intesa come complementare ai processi di globalizzazione, dai quali, viceversa, l’Italia rischia di essere penalizzata, quanto e più di altri paesi occidentali.
L’INTEGRAZIONE INTERSETTORIALE
Perché un nuovo sviluppo, provocato da una più razionale ed avanzata offerta dei beni culturali, possa determinarsi bisogna, tuttavia, che si verifichi una serie di condizioni, addizionali rispetto al crescente (e già noto), interesse del pubblico al nostro patrimonio culturale ed al conseguente, progressivo incremento della domanda. Occorre, come s’è detto, che si verifichi un cambiamento di prospettiva in direzione di una desettorializzazione dell’universo di oggetti, di saperi, di statuti che finora è stato fatto rientrare nella categoria di "beni culturali" e di una contestuale integrazione della filiera produttiva di questo mondo in altri circuiti economici e sociali, a livello nazionale ma soprattutto a livello locale. Questa integrazione deve far capo, prima di tutto, ad un’industria turistica da modernizzare nella sua organizzazione e nelle sue modalità di comunicazione; ma deve anche connettersi alle attività terziarie, ed a quelle primarie e secondarie a scala locale, nonché ad operazioni di marketing del territorio, a programmi di adeguamento dei trasporti e, in genere, del sistema infrastrutturale.
E’ opportuno, anzi necessario, che le politiche settoriali continuino a garantite la tutela, la conservazione e l’accumulazione di conoscenze rispetto alle varie sezioni del patrimonio, anche indipendentemente dalla loro specifica capacità attrattiva, ma è solo se ad esse verranno ad aggiungersi strategie di maggiore integrazione funzionale ed economica della filiera produttiva dei beni culturali ai contesti d’appartenenza, che potranno generarsi processi in cui i beni stessi assumano quella funzione di armature territoriali, di infrastrutture di base, capace di farli divenire volano di sviluppo non soltanto per le ristrette economie della conservazione e della fruizione, ma anche per quelle assai più pervasive degli interi sistemi interessati.
Per ottenere risultati d’una certa rilevanza si tratta, in qualche caso, di dare attuazione a progetti già esistenti; più spesso di ideare e redigere nuovi progetti, preferibilmente in quegli ambiti territoriali del Paese che soffrano, in questo momento, di problemi di ruolo, di creazione di reddito e occupazione. L’obiettivo potrebbe essere quello di sostituire, con progetti di sviluppo dei servizi direttamente o indirettamente legati alla fruizione dei beni culturali, quei programmi di industrializzazione, connessi sia al settore manifatturiero che a quello agricolo, che si sono dimostrati irraggiungibili e/o che appaiono, oggi, superati dalle dinamiche del mercato internazionale.
Si tratta, soprattutto, di agire sui soggetti che tali progetti dovranno attuare e gestire, mettendoli in condizioni di operare entro nuovi e specifici "patti di sviluppo" a dimensione distrettuale.
Per produrre processi di crescita endogeni e sostenibili ogni territorio deve, infatti, far ricorso alla propria conformazione geografica, alla propria storia, alla propria cultura, alla propria struttura sociale e istituzionale: a tali risorse deve essere data veste unitaria promuovendo forme di programmazione negoziata e attribuendo precise responsabilità alle amministrazioni pubbliche.
LA "FORMA DISTRETTO"
Un modello di sviluppo centrato sulla valorizzazione dei beni culturali postula un’economia di distretto. Non un’economia monoprodotto, ridotta semplicemente al settore dei beni culturali, ma un processo produttivo completo in cui la produzione di beni e servizi vada di pari passo con la produzione dei fattori umani che, in maniera consapevole o inconsapevole, partecipano al funzionamento del sistema locale. In questa prospettiva è la dimensione territoriale a prevalere e il tipo di legame - ad un tempoptempo concorrenziale e cooperativo - che viene a determinarsi fra i soggetti attivi in quel particolare spazio, con il loro patrimonio comune di valori, di saperi, di capacità organizzative.
La "forma distretto" proviene dal mondo industriale, dove si è imposta quando sono venute perdendo vigore soluzioni fordiste fondate su un numero relativamente ristretto e fisso di standard tecnologici ed organizzativi. In fase di riflessione e di nuova progettazione si è riscoperta l’importanza decisiva della varietà e della differenziazione dei contesti quale fattore di mutamento e di rinnovamento, e si sono considerati i sistemi locali come insostituibile "matrice generativa" delle specifiche modalità d’integrazione delle imprese.
I distretti industriali, nell’esperienza italiana, discendono da una vicenda storica che è nello stesso tempo territoriale e sociale, e che è fondata sulla capacità di riprodurre i fattori materiali ed antropici da cui ha preso vita la stessa industrializzazione (intesa come produzione non solo di merci, ma anche di valori, di conoscenze, di capacità istituzionali. In una parola, di "ambiente").
Un distretto per la valorizzazione dei beni culturali non nasce spontaneamente dalla storia e dal tipo di ambiente che pure sono risorse di cui quel determinato territorio a sua volta dispone, ma che le società locali con il loro sistema istituzionale non sono riuscite a far divenire episodi economici rilevanti per un insieme estremamente diversificato di circostanze. Il "distretto culturale" nasce da un disegno progettuale, che è anche se non soprattutto volontà politica, e non può contare su degli automatismi alle spalle; proprio perché manca di un dispositivo naturale di avviamento, il "distretto culturale" deve assumere forma istituzionale dando un corrispettivo organizzativo al modello di sviluppo che intende promuovere ed attuare.
Questo Rapporto propone la ripresa di un vecchio istituto dell’ordinamento giuridico-amministrativo italiano, la "magistratura" applicata questa volta ad una dimensione distrettuale, per il valore stesso del termine che richiama capacità di porsi al di sopra delle parti, di regolamentare e fissare procedure, di promuovere forme di negoziazione territoriale, di controllare, monitorare e valutare qualità e risultati.
Il nocciolo della questione, comunque, sta nella necessità di dar vita ad una "autorità" in cui convergano pubblico e privato, per stabilire un’agenda, fissare i compiti di ciascun soggetto, prevedere tempi di progettazione e di attuazione dei progetti medesimi, stimare costi e benefici (finanziari e/o sociali) e così via. Nel dar vita ad un organismo del genere sarà opportuno tener conto del fatto che i beni culturali non si valorizzano, e persino non si conservano, se la stessa cura non si dedica all’ambiente, al territorio, al paesaggio che li circondano.
LO SVILUPPO SOSTENIBILE
La nozione di sviluppo sostenibile è, al momento, fra le più controverse e di più difficile interpretazione. E’ probabile che non esiste un modello di società compatibile con l’ambiente e che, piuttosto, si dia una pluralità di strade percorribili a seconda dei luoghi e dei tempi.
Da un punto di vista pratico il principio di sostenibilità sembra declinare - perlomeno nel mondo occidentale - attraverso scelte che rendano "sopportabile" lo sviluppo, perché ove non si crei un’ulteriore quota di ricchezza le regioni che hanno già raggiunto un certo stadio di sviluppo non disporranno delle risorse per soddisfare i propri bisogni, compresi quelli di natura ambientale. In contesti di questo genere esiste la necessità di perseguire condizioni territoriali che consentano di produrre un valore aggiunto esportabile, in grado, cioè, di rendere (o mantenere) attivo il saldo dell’interscambio con l’esterno e, dunque, di promuovere (o continuare ad alimentare) un processo di crescita.
Si tratta, quindi, di dar vita ad una regolamentazione puntuale degli interventi sul territorio, sviluppando un approccio basato su scelte scaglionate nel tempo e differenziate nello spazio, le quali, pur prevedendo l’utilizzazione di vincoli nelle situazioni-limite, ricorrano generalmente all’uso di strumenti flessibili.
Un processo di valorizzazione dei beni culturali e ambientali ispirato ai criteri dello sviluppo sostenibile dovrà tener conto di tre tipi di fattori. Il fattore "tempo", senza di cui non appare perseguibile alcuna concerta strategia operativa: in quest’ottica divengono necessari, peraltro, strumenti che premino le dinamiche orientate nella direzione prescelta, penalizzando - di contro - situazioni di staticità o, peggio, di regresso. Il fattore "spazio", che richiede operazioni conformi alle condizioni ambientali e socio-economiche di ciascun distretto turistico-culturale, differenziando misure che, in ogni caso, devono consentire il progressivo passaggio da una fase di difesa selettiva ad una di tutela globale, grazie anche all’adozione di nuovi strumenti di informazione e comunicazione oltre che di regolamentazione. Il fattore "funzione", infine, connesso alla transizione dalla semplice difesa dei patrimoni culturali e ambientali alla loro valorizzazione e gestione.
LE STRUMENTAZIONI DI SOSTEGNO
Strumentazioni finanziarie e fiscali
Un progetto di valorizzazione dei beni culturali in un’area vasta deve prendere in considerazione nuovi specifici strumenti finanziari: dai BOT o BOC per l’arte ai mutui agevolati, con contributi in conto capitale o in conto interessi da parte dello Stato o delle Regioni, dal leasing ai fondi immobiliari. Questi strumenti (da individuare area per area attraverso project financing ad hoc) vanno combinati con incentivi fiscali, che, rendendo più conveniente l’intervento privato nel settore, possano fornire le risorse finanziarie necessarie a supplire alla scarsa disponibilità di fondi pubblici.
In prima approssimazione si potrebbe prevedere:
- in materia di finanziamenti, il ricorso degli enti locali a fondi "a valere su quote dell’IRAP", da destinare strettamente alla valorizzazione delle risorse locali. Potrebbe essere prevista anche una priorità, nell’accesso ai finanziamenti, delle cooperative, delle espressioni del terzo settore, dei giovani che vogliano avvalersi della legislazione sull’imprenditoria giovanile. Si potrebbero creare fondi per il sostegno alla rilocalizzazione delle piccole imprese o per l’erogazione di sussidi e contributi ai singoli (artisti, artigiani, ecc.) che si insediano nell’area;
- in materia di servizi reali, l’offerta a prezzi agevolati di spazi attrezzati per artisti e per piccole imprese; l’offerta di servizi per la produzione, la promozione e la commercializzazione dei prodotti del settore. Potrebbe essere sostenuta la creazione di imprese miste ad hoc per la promozione e la distribuzione integrata dei prodotti culturali. Potrebbero essere creati uffici territoriali per la ricerca di personale specializzato o per l’offerta di lavoro "interinale";
- in materia di misure fiscali, la previsione di sistemi di incentivi che godano, appunto, di agevolazioni di tipo fiscale. La possibilità che gli utili di impresa, se reinvestiti in opere di restauro, possano essere detassati a seconda di percentuali a scalare che privilegino le aree meno favorite. Incentivi fiscali o parafiscali, riduzione degli oneri sociali, ecc. per le imprese che gestiscono beni e servizi nelle zone sotto utilizzate.
Altri strumenti
Ci sono altri due piani su cui è necessario operare a supporto dei processi di valorizzazione:
- strategie di sistema. Fondamentale, in qualsiasi strategia di valorizzazione dei beni culturali, è la domanda interna e, in particolare, quella locale, verso la quale va principalmente rivolto uno sforzo di promozione e di comunicazione. Sempre a livello locale di grande importanza può essere il contributo del sistema bancario territoriale, se debitamente coinvolto. Più in generale, va sottolineato come il prodotto di un processo di valorizzazione sia il risultato di tutte le fasi della filiera che fa capo ai beni culturali e dei microprodotti che la compongono. L’industria turistico-culturale va vista, quindi, come il prodotto dell’attivazione di circuiti, dove ogni attore è raccordato con gli altri, in modo che si attivino forme di cooperazione traducibili in consistenti economie di scala, di specializzazione e di agglomerazione. In questo senso, occorre costruire sistemi informativi a rete, che favoriscano le forme di aggregazione nel territorio e il coordinamento dei vari soggetti attraverso l’istituzione di flussi d’informazione permanenti;
- strategie operative. Centrale appare, nelle strategie complessive, il ruolo della formazione proprio per la creazione delle competenze richieste dal processo stesso di valorizzazione. Di grande importanza anche l’individuazione e l’introduzione di specifiche "procedure amministrative" affinché, partendo dai diversi soggetti pubblici e dalle diverse competenze messe in giuoco dai programmi in atto, possa essere individuato un processo decisionale chiaro e spedito. Procedimenti del genere, per la loro complessità, richiedono adattamenti da parte delle forze in campo, per cui la forma più opportuna di "avanzamento" è quella che si avvale di progetti pilota, idonei a sperimentare metodi e rapporti, forme di cooperazione e di coordinamento, dispositivi procedurali, strumenti attuativi e valutativi e così via. Stretto, infine, deve essere il rapporto dei gestori dei beni culturali con due categorie di sapere: l’una che fa capo agli antichi mestieri, alle culture materiali introiettate nelle attività artigianali, indispensabili per la conservazione, il restauro e la manutenzione dei beni culturali; l’altra che si rifà al mondo della ricerca scientifica e tecnologica, in quanto il settore dei beni culturali rappresenta un interessante, anche se "fragile", campo per lo sviluppo e la sperimentazione di sofisticate tecnologie: da quelle diagnostiche a quelle destinate alla protezione dei beni fino a quelle connesse alla costituzione di banche dati, alla comunicazione, all’offerta didattica. |