Identità e motivazioni del turista

Identità e motivazioni del turista

 

 

 

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Identità e motivazioni del turista

L’empatia nella interazione residente-turista
Introduzione
Negli ultimi anni, nell’ambito della Psicologia Sociale, si sta sviluppando una nuova e importante branca di studi definita Psicologia del Turismo. Ma cos’è la Psicologia Turistica? Di che cosa si occupa? Cosa studia? La risposta più scontata è che la Psicologia Turistica studia l’uomo-turista. Questa definizione da un certo punto di vista può anche essere corretta ma, senza dubbio, è alquanto limitativa. Certo, la Psicologia del Turismo studia l’uomo in quanto turista, ma non solo. Il discorso è di sicuro più ampio ed articolato e richiede un’attenta riflessione ed analisi su cosa sia il “turismo” e su quali siano i fattori che concorrono nel svilupparlo.
Al giorno d’oggi, il turismo rappresenta una delle principali attività economiche del mondo. Un’attività che muove milioni di persone e che da lavoro a milioni di individui
Oltre a ciò, il turismo riveste una fondamentale importanza come fattore di benessere economico e di sviluppo sociale per molte zone depresse della terra, prive di altre risorse di sviluppo e di sostentamento. Di conseguenza, si può affermare che l’attività turistica è oggi uno dei fattori più decisivi fra gli agenti di cambiamento sull’ambiente dell’uomo. Un fattore che influenza non soltanto gli aspetti fisici del territorio, ma anche quelli sociali, psicologici e culturali. A tutto ciò bisogna aggiungere che, mentre nei secoli passati il viaggiare era un’attività tipica soprattutto delle classi più agiate, attualmente il turismo coinvolge milioni di persone di ogni livello sociale ed economico. Chi si occupa di turismo (operatori turistici, imprenditori, enti, comuni, residenti ecc...) tende, solitamente, a considerare questa attività principalmente da un punto di vista geografico-economico, spesso ignorando gli aspetti sopra considerati, che sono invece da prendere in seria considerazione laddove si voglia coniugare ed integrare il fare turismo con gli innumerevoli fattori che su questa attività incidono in vario modo. Pensiamo, solo per fare alcuni efficaci esempi, alle interazioni fra turisti e locali, alla soddisfazione (o insoddisfazione) del turista per la vacanza, ai comportamento nella località di vacanza, alle intenzioni e alle motivazioni che spingono gli individui a viaggiare, ai processi decisionali che portano alla scelta di andare o no in vacanza.
I movimenti turistici se da una parte sono in grado di contribuire alla crescita socio-economica delle
comunità locali ospitanti, dall’altra, se non adeguatamente gestiti, possono interferire con la conservazione dell’identità culturale della popolazione locale ospitante e generare pressioni sociali. Alcuni tra i processi negativi dal punto di vista sociale che il turismo può produrre nelle comunità locali sono rappresentati, ad esempio, dalla trasformazione di riti religiosi o etnici in prodotti turistici o dall’abbandono delle attività artigianali tradizionali in favore della soddisfazione di una domanda di souvenir. L’incontro tra turisti e popolazione locale può provocare anche conflitti culturali, legati, ad esempio alla conservazione degli usi e delle abitudini locali, al confronto tra differenti diversi livelli di benessere, all’aumento dei prezzi.
In questa prospettiva, la psicologia del turismo oggi è una disciplina che non solo di propone si favorire e promuovere l’interazione tra residenti e turisti ma contribuisce con le proprie moderne conoscenze scientifiche e i propri strumenti professionali alla realizzazione di un turismo, inteso come fenomeno generale, capace di caratterizzarsi per il rispetto dell’identità culturale delle comunità locali ospitanti e il miglioramento della qualità della vita tanto delle popolazioni locali ospitanti quanto dei turisti. In questo senso, la psicologia può offrire un contributo rilevante alla realizzazione di uno sviluppo del turismo che intenda fondarsi sulla gestione locale dei servizi turistici, sul pieno coinvolgimento dell’imprenditoria e della comunità locale nel processo di pianificazione e gestione dell’offerta turistica e sul ruolo attivo del turista nella tutela dell’ambiente e della cultura della comunità ospitante. Il prodotto e l’offerta turistica di una comunità locale coinvolgono necessariamente pressoché tutti gli operatori (imprese, enti pubblici, organizzazioni non profit, ecc.) del sistema locale. La qualità dell'offerta turistica, quindi, è legata invariabilmente alla qualità di tutte le sue parti e dall'efficienza di tutti gli attori coinvolti, compresi tra questi i turisti stessi. Se, da una parte, infatti, è indispensabile che quanti sono impegnati nelle imprese e nelle organizzazioni turistiche sviluppino la cultura dell’accoglienza, dall’altro non può essere ignorato il ruolo chiave del turista, che con il suo comportamento e l’orientamento delle sue scelte incide profondamente sulla predisposizione dell’offerta turistica.
Le interazioni tra residenti e turisti……cosa accade quando essi si incontrano?
Il turismo è un sistema complesso nel quale giocano un ruolo importante le relazioni. Concetto quest’ultimo che può esprimersi in vari modi: dai rapporti di amicizia che si instaurano con gli altri visitatori, ai rapporti sociali che si sviluppano con i residenti e persino i rapporti emotivi che si stabiliscono con il luogo visitato. Ogni località può suscitare sensazioni di simpatia o antipatia a seconda di come è tenuta, di come viene curata, ma anche per come viene vissuta dai residenti e per come questi ultimi si dispongono verso i turisti.
Il clima ed il livello di accoglienza di una destinazione, di un sistema turistico o di un’intera regione è influenzato dalle relazioni che si instaurano con l’ospite. L’atteggiamento dei residenti, il modo di porgere il saluto, il contatto visivo instaurato, la cortesia (spontanea e non costruita), la comprensione immediata delle richieste del turista, rappresentano solo alcune delle modalità con cui la popolazione locale e gli addetti ai lavori dovrebbero accogliere i propri turisti. Questo tipo di sensibilità poi dovrebbe essere ancora maggiore quando si ha a che fare con persone che hanno bisogni speciali (disabili fisici, psichici e motori, anziani, persone con malattie, allergie, con bambini in carrozzino, etc…). Disponibilità e cortesia sono gradite in ogni occasione, ma nel caso di clienti con bisogni speciali è richiesto un servizio professionale e di qualità in grado di rispondere alle diverse esigenze e una predisposizione naturale alla cura del turista/cliente.
Ma cosa accade quando si incontrano turisti e residenti di differenti culture? Diverse possono essere le dinamiche che si manifestano nell’incontro interculturale Molti infatti condividono l’idea che il turismo possa facilitare l’integrazione e l’incontro tra culture diverse, concorrendo al cambiamento degli atteggiamenti e alla riduzione dei pregiudizi (vedi scheda approfondimento) che ciascun gruppo sociale nutre nei confronti di un altro; in tal senso il turismo si configurerebbe come veicolo di diffusione culturale e mezzo per allargare la conoscenza (Ariani Vergani, 1979). Le ricerche tuttavia dimostrano che in una prima fase il turista è a caccia di prove che confermino la sua rappresentazione mentale della realtà (gli inglesi sono freddi, i francesi arroganti, ecc.). In questa fase può inoltre succedere che si escludano dal proprio orizzonte cognitivo alcuni elementi che non confermano le nostre aspettative oppure si elaborano dei controfatti: se una persona con accento inglese, ad esempio, si mostrerà caloroso è perché non è inglese, oppure spera di ottenere qualcosa da noi. Tuttavia se ha sufficientemente tempo, il turista supera le dissonanze cognitive che la realtà gli produce e in questo senso si arricchisce. Sono molti i contributi che dimostrano l’attenuarsi dei pregiudizi sociali e delle tensioni interrazziali grazie a contatti interculturali (Mann, 1959). Ad esempio nell’agosto 1984 un gruppo di turisti francesi in Sicilia ha donato il sangue per i bambini colpiti da anemia mediterranea; una ricerca di Shipka (1978) sugli Europei, che trascorreva le vacanze in America ha mostrato che questi trovavano gli Americani più amichevoli di quanto avessero immaginato, il Paese più sicuro del previsto e i prezzi non così esorbitanti; Amir e Ben-Ari (1985) hanno trovato che degli Israeliani con atteggiamenti negativi nei confronti degli Egiziani prima di una vacanza, li cambiavano positivamente dopo aver visitato l’Egitto. Occorre tuttavia chiarire che è sicuramente illusorio pensare che il semplice contatto interculturale possa avere i suddetti effetti benefici. È infatti necessario che tale contatto sia volontario e non casuale, stabile per un certo tempo, tra persone di pari situazione sociale e non con notevole dislivello (Fisher & Price, 1991). In tal senso anche i fattori individuali sono importanti, e con essi intendo lo stile inferenziale del turista più o meno disposto a disconfermare i preconcetti di partenza (Nisbett & Ross, 1989). Infine se è vero che il contatto sociale tra due diversi gruppi etnici, nelle condizioni sopra esposte, conduce ad una modificazione di atteggiamenti, tuttavia la direzione del mutamento dipende molto dalle condizioni in cui tale contatto ha luogo (Anastasopoulos, 1992). Ad esempio se il turista viaggia in un gruppo organizzato sarà maggiormente portato a sviluppare relazioni all’interno piuttosto che all’esterno del gruppo, limitando così il contatto con la popolazione locale. Si può quindi concludere che l’avventura sociale del turismo offre numerose occasioni di incontro sia nei confronti di persone che appartengono al proprio gruppo di turisti, qualora si viaggi in un gruppo organizzato (nello stesso pullman, nello stesso albergo, ecc…) sia nei confronti delle persone che abitano il Paese visitato. La qualità di tali contatti avrà una notevole rilevanza nel determinare le valutazioni che effettuerà il turista dopo la vacanza e la sua soddisfazione rispetto alla stessa.
Il ruolo dell’empatia nelle interazioni residenti-turisti
In un contesto turistico stereotipi e pregiudizi possono rappresentare veri e propri ostacoli alla comunicazione e alla relazione residenti-turisti. Da quando si è cominciato a studiare i pregiudizi, si è anche cercato di capire come questi possano essere ridotti e contrastati. A questo proposito, l’ipotesi del contatto (Allport, 1954) è senza dubbio una delle teorie più note. Allport sostenne che il contatto fra gruppi sociali differenti per etnia, nazionalità, religione o altra appartenenza categoriale produce effetti positivi perchè favorisce la conoscenza reciproca e la familiarità tra i gruppi interessati. È però importante che siano presenti quattro fondamentali condizioni: 1) che i due gruppi abbiano uno status simile; 2) che abbiano un obiettivo condiviso; 3) che siano tra loro interdipendenti e pertanto debbano cooperare per raggiungere l’obiettivo; 4) che la norma sociale e le istituzioni appoggino e favoriscano il rapporto. Più recentemente diversi ricercatori hanno affrontato questo problema individuando altre possibili strategie e strumenti ritenuti efficaci nella riduzione degli stereotipi e pregiudizi tra persone e gruppi sociali differenti. Ad esempio, un ruolo fondamentale in queste dinamiche può giocarlo l’empatia. Infatti, se il pregiudizio compromette le relazioni e la comunicazione interpersonale accresce la distanza percepita con il gruppo che ne è oggetto, l’empatia facilita l’avvicinamento con il potenziale interlocutore e può quindi aumentare le probabilità di una soddisfacente interazione.
Ma cos’è l’empatia? Come può essere definita? È opportuno chiarire, prima di procedere, la differenza tra i termini empatia e simpatia, talvolta usati impropriamente come sinonimi. Il termine einfühlung (in tedesco empatia), coniato da Tichener, evidenzia bene la differenza tra le due condizioni. L’empatia riguarda, infatti, il “sentire dentro” lo stato emotivo di un altro, vale a dire condividere l’emozione dell’altro al punto che essa diventa, se pure in modo vicario, la propria emozione. Nell’empatia la distanza tra le persone si riduce, a tal punto, che chi empatizza fa proprie le emozioni altrui. Osservare l’emozione di un’altra persona può, però, dare luogo a reazioni affettive che non sono soltanto di tipo empatico. Tra queste si colloca appunto la simpatia, che può essere definita come un “sentire con” o, meglio ancora, un “sentire per” un’altra persona. La simpatia non implica la condivisione del sentire altrui ed il viverne la stessa emozione. La simpatia, in quanto orientamento emotivo verso un’altra persona, comporta invece il provare interesse, sollecitudine nei confronti degli altri. Empatia significa dunque una comprensione dell’altro nel suo interno; ciò implica il sapersi calare nella sua esperienza emozionale e riuscire a provare ciò che l’altro prova: sentirsi con lui, dalla sua parte, non solo al suo posto, ma nella sua pelle.
In genere, si fa riferimento a due fondamentali tipi di empatia, definiti come empatia cognitiva ed empatia affettiva-emozionale (Stephan e Finlay, 1999). La prima consiste principalmente nell’assumere il ruolo o la prospettiva dell’altro – vedendo il mondo dal suo punto di vista – mentre la seconda consiste essenzialmente in risposte emozionali che possono essere simili a quelle dell’altra persona (empatia parallela) o in reazione alle esperienze emozionali dell’altro (empatia reattiva). In letteratura si tende anche a considerare l’empatia come il risultato dell’interazione tra funzioni cognitive ed affettive e, quindi, come un processo cognitivo-emozionale. In altre parole, l’empatia viene vista come capacità di condivisione affettiva e come capacità cognitiva di immedesimarsi negli altri, di mettersi dal loro punto di vista e di comprendere il loro modo di valutare una situazione. Essa è una risposta emozionale che deriva dallo “stato emozionale” o condizione di un altro.
Esiste un sostanziale accordo fra tutti i ricercatori sul fatto che sono essenzialmente due i processi cognitivi il cui sviluppo è indispensabile perché si possa parlare propriamente di esperienza empatica: l’abilità di discriminare e di riconoscere correttamente gli stati affettivi altrui e l’abilità di assumere il ruolo (role-taking) e la prospettiva dell’altro (perspective-taking). Con role taking in letteratura si definisce la capacità di mettersi nei panni degli altri, assumendone la prospettiva e il ruolo, anche quando questo è diverso dal proprio, senza per questo perdere la consapevolezza del proprio punto di vista, che si conserva attivo e saliente. Una particolare modalità di role taking è l’identificazione, intesa come meccanismo attraverso il quale un individuo si sforza di modellare sé stesso imitando l’altro. Si tratta, dunque, di un processo psicologico con cui un soggetto assimila un aspetto, una proprietà o un attributo di un’altra persona e si trasforma, totalmente o parzialmente, sul modello di quest’ultima. Con il termine perspective taking si designa, invece, la capacità di assumere il punto di vista degli altri in modo da poter inferire la visione che gli altri hanno della realtà. Con perspective taking o assunzione di prospettiva si intende, dunque, la capacità di vedere il mondo attraverso gli occhi della persona con cui empatizziamo. In definitiva, l’adozione del punto di vista di un’altra persona e l’identificazione con il suo ruolo sono i presupposti della comprensione delle emozioni, dei sentimenti e delle azioni di un’altra persona.
Il fenomeno dell’empatia può essere affrontato da diversi punti di vista e analizzato nei suoi diversi aspetti. Più in generale l’empatia entra in gioco quando si stabilisce una relazione, quindi in moltissime situazioni della vita, da quelle tipiche della vita professionale a quelle della vita privata, ed è una delle condizioni che facilita la comunicazione fra due parlanti. Comunicare è un bisogno psicologico dell’essere umano: infatti attraverso la comunicazione noi riceviamo dagli altri il riconoscimento della nostra esistenza e del nostro valore personale e sociale. Non è possibile non comunicare (anche la non comunicazione è una forma di comunicazione) e, facendolo, si interagisce con gli altri attraverso delle relazioni. Nella comunicazione non vi è solo uno scambio di informazioni, messaggi, ma nel comunicare ci si scambia anche sentimenti, emozioni. Da questo quadro emerge che l’empatia rappresenta un presupposto del dialogo. Essere empatici non significa necessariamente amare l’altro, o condividerne le ragioni, ma semplicemente accoglierlo così com’è, essere in grado di ascoltarlo e di capire il suo mondo soggettivo, comprendere il suo punto di vista mettendoci da parte, cercando cioè di non filtrarlo attraverso il nostro modo di vedere le cose.
A questo punto sembra chiaro come l’empatia possa intervenire e agire positivamente nella riduzione dei pregiudizi (Stephan e Finlay, 1999; Batson et al., 1997) facilitando in questo modo le relazioni con gruppi o persone differenti da noi. L’empatia può ridurre il pregiudizio perchè le persone vedono l’altro o il gruppo di persone con cui si confrontano meno minaccioso e si percepiscono meno differenti da loro (e per un cero verso più simili) di quanto avessero precedentemente pensato. Assumere il punto di vista dell’altro diminuisce la minaccia derivante da preoccupazioni circa differenze di norme, credenze, valori e sentimenti. L’empatia può essere efficace nel cambiare gli stereotipi, poiché induce ad approfondire le conoscenze circa il sistema di valori, credenze dell’altro. In genere, l’empatia induce a mettere in primo piano il benessere dell’altro, sollecita sentimenti più positivi e compassione nei confronti delle persone con cui interagiamo.
Se consideriamo nello specifico le relazioni che si possono instaurare tra residenti–turisti si riscontra molto spesso che tra questi ci siano delle forti differenze di cultura, di credenze, di valori per cui non è improbabile che i soggetti interessati giungano a situazioni conflittuali. Se ciascuna parte in causa ha la certezza di essere nel giusto, è difficile arrivare alla soluzione del problema, mentre se ci si sforza, empaticamente, di conoscere e comprendere il punto di vista altrui, si possono ottenere situazioni meno conflittuali. L’accettazione positiva dell’altro, l’atteggiamento di apertura e di non pregiudizio, produrrà un atteggiamento più maturo e consapevole, consentendo una comunicazione franca e aperta, migliorando così la relazione e diminuendo e azzerando il conflitto.
L’importanza dell’accoglienza nell’incontro tra residenti e turisti
Sulla base di quanto detto finora, l’accoglienza da parte dei residenti e degli operatori assume un’importanza strategica sia come principale strumento di promozione di un’area turistica sia come elemento determinante per il ritorno del turista in una determinata località. Se riflettiamo su quello che è il panorama attuale estremamente affollato di offerte di viaggi, molte delle quali assai avvincenti e vantaggiose sia in termini di qualità che economici, ci rendiamo conto che il fattore “accoglienza” viene realmente a rappresentare il principale punto di forza di una proposta turistica di qualità. Ciò perché il ruolo attribuito dal visitatore al come viene ricevuto nella località prescelta assume un’importanza sempre maggiore fino a diventare un “valore aggiunto” della destinazione. Ma cosa si intende esattamente con questo termine? In linea generale il “quadro di accoglienza” comprende tutto quanto concorre a mettere a proprio agio il turista, a fargli vivere più compiutamente l’esperienza di soggiorno, a “fargli venire voglia di tornare”, a renderlo “ambasciatore” presso gli amici e conoscenti dei valori e dei pregi della destinazione. E’ importante sottolineare che la sensibilizzazione a questo tema riveste un’importanza fondamentale nella valorizzazione delle risorse di una località e deve coinvolgere non solo gli operatori o gli amministratori ma tutta la popolazione. Far crescere la coscienza turistica e la cultura dell’accoglienza nella collettività rappresenta il primo obiettivo di marketing perché agisce sia direttamente sul turista, aggiungendosi ai fattori di attrazione che lo hanno portato a scegliere quella determinata destinazione, ma opera anche indirettamente sull’ambiente sociale in cui il turista vive e con il quale ogni giorno si relaziona, esercitando così anche su di esso la sua influenza.
Uno dei compiti principali dei residenti e di chi opera più specificatamente nel settore turistico è quello di capire, o meglio di comprendere lo stato d’animo del turista, cioè i suoi desideri, quello che apprezza, quello che detesta, le sue esigenze, motivazioni, ecc., fungendo anche da mediatore delle interazioni tra uomo e ambiente e fra uomo e gruppo. Ciò comporta in primo luogo la necessità di sviluppare una competenza interpersonale, che significa gestione delle dinamiche di gruppo, efficienza ed efficacia delle comunicazioni, conoscenza delle modalità di trasmissione ed elaborazione delle informazioni, ma anche attenzione alla dinamica delle decisioni. In sostanza tutto ciò significa saper accogliere il turista, facendolo sentire ospite e non oggetto di sfruttamento economico (Contessa, 1995; Fragola, 1972; Traini, 1991). Per riuscire a realizzare un obiettivo così arduo occorre attuare comportamenti che si basano sull’interesse, la capacità di empatia, l’attenzione verso gli altri, la gentilezza e l’accoglienza (Gattuso & Gattuso, 1990). Saper accogliere il turista significa, in ultima analisi, essere competente nell’individuare i suoi bisogni e nel considerarlo nella sua unicità di persona piuttosto che un numero. Infatti la percezione dell’autenticità della propria esperienza turistica sembra essere un fattore determinante nella nascita del sentimento di soddisfazione legato alla vacanza (Fridgen, 1984). Sono molte le persone che raggiungono il grado più alto di soddisfazione solo quando ritengono di aver vissuto un’esperienza autentica e unica partecipando in maniera piena e spontanea alla vita del luogo (Ryan, 1991). Di fronte a questo nuovo modo di fare turismo cambia anche il ruolo dell’operatore: oltre a dare semplicemente delle informazioni sui luoghi da visitare, sulle bellezze naturali o sui monumenti di interesse storico-artistico gli viene spesso chiesto di progettare degli itinerari turistico-culturali, adeguandoli alla competenza del turista, ovvero al livello di conoscenza pre-esistente e al desiderio di crescita e di sviluppo personale e culturale. Da quanto detto si evince che per soddisfare il turista alla continua ricerca di esperienze autentiche, non basta essere preparati sulla storia o la geografia di una determinata società, ma è necessario saperlo accogliere, ovvero saper individuare i suoi desideri, i suoi bisogni, le sue competenze considerandolo nella sua unicità di persona, aiutandolo a fruire nel modo migliore delle esperienze e delle conoscenze fatte in vacanza e portandolo a scoprire nuove opportunità, nuovi traguardi, nuovi itinerari attraverso i quali migliorarsi e ampliare i propri orizzonti.
Scheda di approfondimento
Stereotipi e Pregiudizi
IL comportamento degli esseri umani non è un dato oggettivo, non deve essere considerato come una semplice risposta alla realtà nel suo aspetto oggettivo, ma dipende dalla percezione che di quella realtà ogni singolo individuo ha, qui e ora. Si potrebbe quasi dire che la realtà esterna si crea in base alle nostre percezioni e alla nostra visione del mondo, oltre che di noi stessi, e non viceversa, come si è comunemente portati a ritenere. Accade così che se le idee che popolano la vita intrapsichica di una persona sono negative, se il suo confronto con gli altri è difficile, è probabile che anche la sua percezione della realtà sia tutt' altro che positiva. Questa disposizione d'animo, questa sensazione sbagliata del mondo può nel tempo irrigidirsi ulteriormente, lasciando che i pregiudizi si sostituiscano pian piano alla naturale curiosità per la vita e all'interesse per gli altri.
Ma quali sono le caratteristiche del comportamento di un attore sociale? In altre parole, si può distinguere un comportamento che un individuo assume in quanto entità unica e originale operante in un contesto di relazioni interpersonali, da un comportamento assunto dallo stesso individuo (in circostanze diverse) o da altri individui in quanto membri di un gruppo? La risposta che Tajfel dà a questo interrogativo è semplice: i due tipi di comportamento possono essere immaginati come posti su un continuum, ad un estremo del quale è posto il comportamento interpersonale caratteristico di tutte quelle situazioni sociali tra due o più persone in cui ogni interazione che ha luogo viene determinata dall’incontro diretto tra due persone e in cui i soggetti agiscono semplicemente come singoli individui, e all’altro estremo è posto il comportamento intergruppi caratteristico di quelle situazioni sociali tra due o più persone in cui ogni interazione reciproca è determinata dalla appartenenza a diversi gruppi o categorie sociali. Dunque, il comportamento interpersonale indica le azioni compiute da un individuo in quanto individuo, che possiede un certo numero di caratteristiche uniche ed idiosincratiche (per esempio ha un certo aspetto fisico, una particolare intelligenza e personalità, e intrattiene varie relazioni di amicizia e/o di ostilità con diversi individui). Il termine comportamento intergruppi allude, invece, alle azioni compiute dall’individuo in quanto membro di un gruppo (ad esempio comportarsi da docente, tifoso del Milan, comportarsi da studente o da poliziotto).
Ed è sulla appartenenza di gruppo che si costituisce secondo Tajfel l’identità sociale. Dividere il mondo in categorie non ci aiuta solo a semplificarlo e ad attribuirgli un significato, serve anche ad un’altra funzione molto importante, ci aiuta a definire chi siamo. Non solo classifichiamo gli altri come membro di questo o quel gruppo, ma collochiamo anche noi stessi in relazione a quegli stessi gruppi. Il nostro senso di identità, in altre parole, è strettamente legato alle nostre varie appartenenze ai gruppi. Come semplice dimostrazione di questo fenomeno, è sufficiente che ognuno di noi si ponga la seguente domanda: “Chi sono io?”. Se analizzassimo le risposte a questa domanda si potrebbe evidenziare che le diverse autodescrizioni si riferiscono alle affiliazioni ad un gruppo, sia in modo esplicito (per esempio “Sono un membro del club dei tifosi della Juventus), sia in modo implicito, attraverso l’indicazione dei ruoli sociali ricoperti dalle persone (per esempio:” Sono una casalinga”), del sesso (per esempio:”Sono una donna”) o della nazionalità (per esempio:”Sono una italiana”). L’identità viene definita proprio da Tajfel “come quella parte della concezione di sé di un individuo che gli deriva dalla consapevolezza di essere membro di un gruppo (o piu gruppi) sociale, oltre al rilievo emozionale collegato a questa condizione di membro” (Tajfel, 1981). In definitiva, l’identità sociale è legata al gruppo di appartenenza, e pertanto l’adesione al gruppo e il permanervi sono in funzione del contributo positivo che il gruppo dà a questa identità. D’altro canto vale anche l’inverso, e cioè l’individuo che si trova per qualunque motivo a far parte di un gruppo cercherà di rafforzare la caratterizzazione di quel gruppo in modo che risulti soddisfacente alla sua identità. Quando il gruppo non soddisferà più questo requisito l’individuo tenderà a lasciarlo.
I processi dell’identità sociale hanno forti implicazioni per il comportamento intergruppi. Ciò può accadere se supponiamo che gli individui preferiscano avere un concetto di sé positivo anziché negativo. Poiché parte della nostra identità è definita in termini di appartenenza a gruppi, ne deriva che preferiamo percepire i gruppi di appartenenza in modo più positivo. Ma come arriviamo a tale valutazione? Stabiliamo il valore o prestigio del nostro gruppo confrontandolo con altri gruppi. Il risultato dei confronti intergruppi è decisivo per noi perché contribuisce indirettamente alla nostra autostima. Se il nostro gruppo di appartenenza può essere percepito come chiaramente superiore rispetto ad altri gruppi su alcune dimensioni di valore (come la competenza o la socievolezza) allora anche noi possiamo godere di tale gloria riflessa. Cialdini (1976) trovò prove proprio di questo fenomeno tra i tifosi di calcio di un college. Nei giorni successivi alla vittoria della loro squadra, gli studenti che indossavano le magliette della squadra e altri distintivi furono in numero molto superiore rispetto ai giorni successivi alla sconfitta. Il nostro bisogno di avere un concetto di sé positivo ci porta ad effettuare dei confronti distorti dai quali il “nostro” gruppo può emergere sotto una luce più favorevole rispetto agli “altri”gruppi.
I processi di identità sociale e di categorizzazione sociale possono essere visti in un duplice aspetto: da una parte li possiamo considerare adattivi, in quanto consentono il formarsi di un’impressione rapida degli altri, e di trattarli in maniera appropriata, rendendo così il mondo sociale più controllabile e prevedibile; dall’altra, possono dar luogo a degenerazioni ed esiti patologici. Questo accade quando i processi di categorizzazione danno luogo a stereotipi e a pregiudizi. Gli stereotipi sono le impressioni che le persone si formano dei gruppi diversi dal proprio e che mediano il rapporto conoscitivo con essi; sono le rappresentazioni mentali che emergono dal raggruppare gli individui sulla base di fattori che li accomunano (ad esempio l’aspetto fisico, gli interessi, i valori), tralasciando quelli che li rendono unici, differenti l’uno dall’altro; sono il risultato di un processo di semplificazione della realtà che segue modalità stabilite dalla cultura del gruppo di appartenenza e che fa sì che le persone di un determinato gruppo sociale condividano delle credenze su quelle che sono le caratteristiche tipiche dei membri di un gruppo diverso dal proprio. Gli stereotipi sono categorizzazioni sociali talmente approssimative da dar luogo ad impressioni distorte delle persone che appartengono al gruppo sociale che vediamo in termini stereotipici diventando così la base dei pregiudizi, ovvero di “quegli atteggiamenti, che pur in assenza di dati empirici, sono ingiustificatamente sfavorevoli verso chi appartiene a determinati gruppi sociali”. Queste valutazioni, per lo più negative, fanno sì che una persona venga giudicata per la sua appartenenza ad un gruppo e non per quello che è in quanto individuo; e che un gruppo sia valutato per essere “quel certo gruppo”, al di là dei comportamenti o atteggiamenti che vengono messi in atto o manifestati da quel particolare insieme di individui. I pregiudizi implicano inevitabilmente un processo di discriminazione, il quale si articola in comportamenti e atteggiamenti discriminativi contro il gruppo verso il quale si nutre il pregiudizio e specularmente in una discriminazione a favore del gruppo di appartenenza, il quale ha per lo più il potere di emarginare il gruppo “altro”. Alla base di stereotipi e pregiudizi è possibile rintracciare categorizzazioni basate su concetti quali la razza, o l’appartenenza etnica, la religione, il sesso, le preferenze sessuali ecc.. Ad esempio, il razzismo e l’etnocentrismo portano a vedere i membri della popolazione di colore come pigri, non molto intelligenti, bravi nello sport, bugiardi e violenti; i pregiudizi religiosi fanno sì che gli ebrei vengano visti come ambiziosi, avari, ottimi commercianti; i pregiudizi sessuali e di genere spingono invece a vedere le donne come deboli, incapaci di comandare, dipendenti e a tagliarle fuori dalla possibilità di carriera nei luoghi di lavoro
Scheda di approfondimento
Empatia e tecniche di ascolto negli operatori turistici
Se consideriamo l’importanza che l’empatia può ricoprire nella relazione tra operatore turistico e utente/turista sicuramente si è concordi nel ritenere che essa è una competenza interpersonale che qualsiasi operatore deve possedere per poter gestire efficacemente la relazione con l’utente/turista.
L’empatia rappresenta un presupposto fondamentale per l’efficacia del rapporto interpersonale, soprattutto nel caso in cui un turista espone un bisogno o un problema.
Nell’ambito della relazione tra operatore e singola persona l’abilità dell’ascolto rappresenta la risorsa principale, la condizione necessaria per poter iniziare ad interagire, per dimostrare attenzione e interesse per “l’altro”e per porre le basi di un rapporto di fiducia, senza il quale sarà poi difficile essere ascoltati ed essere credibili. Ascoltare attivamente significa, essere empatici, mettersi "nei panni dell'altro", riconoscere e accettare il suo punto di vista, accogliendo e comprendendo le emozioni, i dubbi, le preoccupazioni che manifesta. Ma ciò non basta. Per ascoltare attivamente è necessario restituire tale comprensione e dimostrare in tal modo la presenza nella relazione, il rispetto e il riconoscimento dell’altro:“ci sono, ascolto, colgo e capisco il contenuto e le emozioni che lo accompagnano”. È importante perciò riuscire a vedere il mondo dell’altra persona dal suo punto di vista e non filtrarlo attraverso il nostro. Strettamente connessa e correlata a questo aspetto è la capacità di accettazione positiva incondizionata. Con ciò si intende un atteggiamento non valutativo e non giudicante. L’utente viene apprezzato senza cadere nel giudizio selettivo o nel pregiudizio. Si tratta di un sentimento spontaneo e senza riserve, che trasmette all’altro sincero interesse senza pretendere nulla in cambio e presuppone il rispetto profondo per l’altra persona. Solo se esistono tutte queste condizioni la relazione potrà esplicare la propria efficacia.
L’ascolto attivo implica non soltanto attenzione a quello che una persona dice, condizione questa peraltro necessaria, ma una precisa capacità di comprensione e decodifica sulla base della quale si parla di “ascolto attivo”. È questa una delle funzioni più delicate e difficili che un operatore debba effettuare: si tratta di assumere il punto di vista dell’utente fino a farlo proprio (senza mai dimenticarsi in realtà del principio del “come se”), fino ad avvertire profondamente i suoi pensieri e le sue emozioni. La capacità di ascolto attivo per realizzarsi pienamente non può essere disgiunta dalla capacità di osservazione, perché l’ascolto attivo presuppone un’osservazione attenta e competente. Il rischio maggiore che si corre nell’operazione di ascolto è quello di scambiare per comprensione quella che è in realtà è una vera e propria interpretazione, cioè una proiezione di nostri significati e valori sulle parole e sulle emozioni di un’altra persona. L’ascolto va effettuato non solo con l’udito, non solo con la vista, ma con tutto il corpo, in modo da cogliere tutte le possibili implicazioni della comunicazione non verbale. Per questa ragione risulta importante non solo quello che il cliente dice, ma in particolar modo come lo dice. È opportuno evidenziare che l’ascolto è un’abilità molto complessa che richiede formazione, impegno nell’applicazione, intenzionalità. Inoltre l’ascolto attivo presuppone un approccio alla comunicazione di tipo partecipativo, orientato alla valorizzazione dello scambio interattivo tra i soggetti coinvolti, attento alla componente emotiva e finalizzato all’attivazione delle risorse dei singoli per affrontare situazioni problematiche. Ma cosa si ascolta? L’ascolto attivo si basa su:
- ascolto dei contenuti, di ciò che l’altro dice con le parole (verbale) e di ciò che non dice con il silenzio, ascolto/osservazione delle tonalità, di come lo dice (paraverbale), ascolto/osservazione degli sguardi, della gestualità (non verbale) di come l’altro si presenta e si muove.
- ascolto del contesto in cui la persona vive, familiare, sociale, lavorativo, scolastico, dei vissuti, degli schemi di riferimento culturali, dei valori, “della sua narrazione”.
- ascolto da parte dell’operatore di se stesso, ascolto delle sue emozioni, ascolto del proprio contesto di riferimento, ascolto di quanto si attribuisce all’altro di ciò che appartiene a se stessi (processo di consapevolezza)
È importante sottolineare due principali tecniche di base dell’ascolto attivo: la riformulazione e la chiarificazione. La riformulazione consiste nel ridire ciò che l’altro ha appena detto utilizzando le stesse parole o in maniera più concisa, non aggiungendo nulla di proprio al contenuto, evitando in tal modo l’interpretazione. Attraverso la riformulazione l’operatore può ottenere l’accordo da parte della persona e la persona ha la conferma di essere stata ascoltata. La riformulazione svolge quindi una duplice funzione: garantisce la corretta ricezione di un messaggio ricevuto dall’utente e, contemporaneamente, comunica all’utente stesso il rispetto e l’attenzione di cui è fatto oggetto. È come se l’operatore inviasse questo messaggio: “Sono qui per ascoltarti, sono interessato a capirti con certezza, ti confermo che ti sto seguendo, continua pure”. La persona se si riconosce nella riformulazione è sicura di essere stata ascoltata e compresa e così è portata a esprimersi ulteriormente e a collaborare. E’ anche facilitata a rimanere concentrata sul problema e su come lo vive. La chiarificazione, invece, agevola la comprensione sottolineando anche le emozioni che accompagnano il contenuto (ad esempio “Mi sembra di cogliere dal suo sguardo uno stato di preoccupazione”, “Dalle sue parole ho l’impressione di cogliere delle perplessità circa……..”). Anche in questo caso l’attenzione è posta tanto alla comunicazione verbale quanto a quella non verbale.
Gli ostacoli più frequenti all’ascolto attivo e comprensivo sono: la soggettività (interpretazione soggettiva), la deformazione professionale (rispondere con una condotta abituale), il significato razionale (fermarsi al significato letterale delle frasi). Per non incorrere in queste distorsioni sarebbe opportuno che l’operatore imparasse a neutralizzare gli stereotipi sociali e i pregiudizi di cui è intriso.
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Fonte: http://www.viaggioadriatico.it/corsi/l-empatia-nella-interazione-residente-turista/i-l-empatia-nella-interazione-residente-turista.doc

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