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«Street Art: o dello sconfinamento. […] … quell’insieme di pratiche in cui lo spazio urbano diventa un laboratorio artistico. […] Con Street Art si può indicare qualsiasi tipo di espressione che utilizzi lo spazio urbano come palcoscenico (azioni, performance, installazioni) o risorsa materiale e concettuale (graffiti, pittura murale, interventi su segni o icone urbane preesistenti).»
(Dal Lago Alessandro, Giordano Serena, 2008, Fuori cornice. L’arte oltre l’arte, Einaudi, Torino
117, 119, 124). Il tema è interesse di contesti plurimi, un misto di arte, politica, sociologia dei comportamenti giovanili ecc. In diversi campi è destinata presto e con molta velocità a diventare un serbatoio inesauribile (una specie di nuovo “mondo-della-vita, Lebenswelt, dell’arte) e molto osservato (poliziescamente, politicamente, commercialmente e artisticamente), tra i più studiati per scovare e sfruttare nuovi stili espressivi, tendenze, gusti, proposte formali, temi al centro dell’attenzione giovanile e no. Al di là delle controverse valutazioni, la street art si impone come uno dei più potenti fattori evolutivi del senso estetico visivo pittorico, nel campo artistico e in quello della sensibilità comune; ed è un fenomeno globale, con forti intercambi di “artisti” (anche grazie ai voli low cost e a internet: «la rete non è solo un contenitore pluralistico di informazioni. Può anche produrre arte mediante un linguaggio specifico. Parliamo della Net Art che ci sembra sotto ogni punto di vista una naturale prosecuzione della Street Art (e dello spirito delle avanguardie storiche) […] Per Net Art non si intende dunque l’arte nella rete (gallerie virtuali, spazi di informazione), ma l’arte della rete: quel tipo di espressione cioè che utilizza Internet e le sue potenzialità per creare performance, happening ed eventi.». Dal Lago, Giordano 2008, 162).
[per un quadro orientativo di insieme sulle direzioni contemporanee vale il rimando a Parmesani Loredana (1998) 2012 L’arte del XX secolo e oltre. Movimenti, teorie, scuole e tendenze, Skira editore, Milano, e allo studio già citato di A. Dal Lago e S. Giordano, capitolo III)] Una nota sulle controverse valutazioni: «Sia chiaro: enorme è la quantità di junk-graffiti che hanno prodotto in questi anni. Orribili scritte su monumenti o palazzi, pasticci visivi che stuprano intonaci, marmi e treni.» (Botta Gregorio Di chi è la street art? La Repubblica 11.08.2013)
3.4.1. Una forma d’arte dai molti nomi: genericamente “graffitismo”, writers (graffitari), street art (arte di strada), aerosol art… ma si tratta di movimenti, direzioni, gruppi e soggetti ognuno dei quali rivendica una specifica autonomia artistica stilistica. La segnalazione più ricorrente è quella di non confondere la street art con due filoni, apparentemente paralleli ma tra loro estremi, non catalogabili con l’autentica street art. Anche se i confini non sono affatto tracciabili, da una parte i writers che fanno soprattutto “lettering”, ovvero scritte ed evoluzioni di caratteri alfanumerici; si tratta di coloro che si limitano a scrivere sui muri, a imbrattarli o a decorarli con le loro sole tag (firma o sigla di un graffitista, stilizzata e riconoscibile dagli altri writer, da ripetere all’infinito come un’autoaffermazione); «Un urlo vestito a festa con i colori squillanti di una grafica accesa. Prima ancora che esistesse la Rete, prima di YouTube, i guerriglieri della bomboletta hanno fatto delle strade un gigantesco web dove esprimersi liberamente e illegalmente.» (Gregorio Botta), composto sulla base del lettering e delle sue tecniche con manuali specifici, più o meno coloricamente efficaci, o a far comparire il simbolo (quasi come un logo) “space invaders”.
3.4.1.1. Le, la tag: «Sui muri compaiono le tag, grandi sigle o firme colorate che marcano il territorio e cercano di contrastare il grigiore del ghetto. Le tag possono essere individuali o di aggregazioni più o meno occasionali (le cosiddette crew, cioè ciurme , squadre). Talvolta, il confine tra giovani che si riuniscono per fare arte murale e membri delle gang locali è molto labile. Nel giro di pochi anni, il fenomeno si espande e si creano gruppi in competizione, come i writer del Bronx contrapposti a quelli di Brooklyn. La pratica dei graffiti, insieme alla musica e alle feste notturne, contribuisce a trasformare i ghetti in qualcosa di autonomo, se non di più umano o gradevole. […] Le grandi tag colorate sono spesso opere collettive e non solo per motivi ideologici. Realizzare un graffito al riparo dallo sguardo dei poliziotti non è facile, anche per ché si deve operare in fretta e magari su superfici di grandi dimensioni. Occorre quindi creare un gruppo organizzato che lavora e vigila allo stesso tempo. Alcune tag hanno qualcosa di monumentale, coprono diversi metri di muro e seguono regole compositive dettate dalla necessità di sintesi e rapidità. Molto spesso sono incorniciate da segni, che sembrano virgolette e rappresentano il movimento. Ma anche la loro esistenza non è statica. Gli autori sanno che la vita delle loro creazioni sarà probabilmente breve, che verranno coperte da altre tag o da strati di pittura bianca. Il graffito contemporaneo, dunque, nasce effimero e disponibile a modificarsi… […] L'illeggibilità è una caratteristica dominante di molte tag. Non sempre è possibile decifrare una sigla, una parola o una frase. Le lettere sono dilatate, gonfiate, semplificate all'osso, sovrapposte, stirate. Si può facilmente pensare alla volontà di farsi riconoscere soltanto da chi condivide la stessa cultura, e quindi a una specie di codice identitario. Ma le deformazioni sono anche il risultato di una sperimentazione formale e al tempo stesso l'espressione di un paradosso: un alfabeto riconoscibile ma che non si fa leggere. [riconoscibile nel come non si fa leggere] […] Questo atteggiamento ironico è in contrasto con l'intenzione originaria del writing, legata all'espressione d'una identità di gruppo, e tende a sostituirla. Infatti, con il tempo, la volontà di sperimentazione, l'aspetto ludico e quello performativo prendono il sopravvento sull'intenzione contro-culturale. La competizione fra crew si trasforma in concorrenza fra singoli artisti, gli stili si moltiplicano e si sovrappongono all'infinito. Più che manifestazione culturale o di gruppo, il writing diventa dunque espressione individuale di un linguaggio diffuso. Anche quando restano opere collettive o legate a un'espressione locale, i graffiti sembrano cercare echi fuori dal ghetto, e quindi una dimensione che, mediante un linguaggio semplice e diretto, li metta in comunicazione con il mondo. Come vedremo, nell'arco di pochi anni, stili, linguaggi e modalità dei graffiti si potranno riconoscere come simili in tutte le grandi metropoli della terra, anche e soprattutto grazie a Internet.» (Dal Lago, Giordano 2008, 132-134)
3.4.1.2. Dall’altro lato, e per lo più come avversari, vengono collocati gli street artist che realizzano principalmente figurativi; si tratta coloro che magari (ma qui si apre un’altra e radicale polemica) pensano di passare dalla pubblicità che la visibilità può dare alla loro arte su strada per accedere prima o poi alle mostre, ai musei, ai cataloghi e al mercato dell’arte. Ancora più urgente (soprattutto a dichiarazione degli attivisti e degli esperti) è evitare l’errore di confondere street art e writer (spesso in conflitto, come accade nel caso ormai classico dello scontro “murale” tra Banksy e la crew Robbo a Londra, ricostruito da De Gregori Sabrina 2010, Bansky. Il terrorista dell’arte, Castelvecchi, Roma, 49-60). Osserva Quit The Doner (Blogger e scrittore. Autore del libro-inchiesta Quitaly, Indiana edizioni): «L’errore più comune è pensare che writing e street art siano la stessa cosa, quando in realtà si tratta di due mondi contigui ma ben distinti. La street art è figurativa mentre il writing, salvo l’eccezione di qualche rara illustrazione chiamata puppet, ruota attorno al lettering, in genere un’evoluzione complessa della propria tag, la firma. Altra differenza rilevante è che la street art ha lo scopo di comunicare con il resto del mondo, il writing parla soprattutto a se stesso, e la visibilità dei pezzi è una variabile della gloria interna al circolo degli iniziati [(in un’opera più di performance che di arte, il writer mira a) …portare il suo nome in giro per altre stazioni, dove sarà notato e interpretato da altri writer, ammirato da qualcuno, odiato da altri, ignorato dai più e infine cancellato con i solventi nel giro di un mese al massimo]. Entrambe contemplano un certo grado d’illegalità, ma la street art è molto più propensa ad affacciarsi anche nelle gallerie d’arte o ai festival organizzati dalle istituzioni. Negli ultimi anni sono nati anche street artist che non dipingono mai in illegale, usano proiettori e ponteggi, il che per gli originatori della corrente è motivo di pesanti ironie e per un writer sarebbe come dire l’anticristo. Per capirsi Banksy, Obey o l’italiano Blu fanno street art, il tizio che vi tatua il suo nome sulla metropolitana che prendete per andare al lavoro è un writer.» (3.10.2014 la Repubblica, il Venerdì). Si tratta di un dato anche sociologico: «Le nostre strade sono tempestate di scritte: da quelle sui muri alle insegne dei negozi, dai cartelloni pubblicitari alle etichette dei citofoni. Una vera e propria "enciclopedia" urbana, che la grafica e designer Molly Woodward "cataloga" e conserva in Vernacular Typography, un gigantesco archivio online con oltre diecimila scatti raccolti in tutto il mondo e che documentano la storia delle nostre città. La Woodward ha fatto tappa anche in Italia immortalando le varie "calligrafie" sparse per le strade di Roma, Firenze e Venezia.» (© Molly Woodward / Vernacular Typography)
3.4.2. Autori e identikit.
Lontane (anzi lontanissime) origini: «le scritte murali, una forma embrionale di arte di strada, sono antiche quanto le città. Muri, edifici, ponti e monumenti sono sempre stati un foglio bianco per il pensiero popolare, la protesta e la satira - dai graffiti di epoca romana, passando per le pasquinate, fino all'ubiqua produzione contemporanea. » (Dal Lago, Giordano 2008, 124-125)
Le prime origini nel ‘900: «… alcuni ritengono che i graffiti risalgano all’immediato dopoguerra… […] l'arte di strada è stata praticata anche da artisti famosi. Pensiamo soprattutto alla pittura murale di David Alfaro Siqueiros, Diego Rivera e José Clemente Orozco. Negli anni venti, un gruppo di artisti messicani, influenzati dalla Rivoluzione, abbandona atelier e cavalletti per operare all'aperto. In opposizione al mito romantico dell'artista individualista ed egocentrico, realizzano grandi opere murali, anche collettive, in cui si raccontano letteralmente le lotte del popolo messicano, le culture autoctone e le vicende della colonizzazione. Lo stile dei murales è composito, ma vi si trovano facilmente rimandi all'arte precolombiana, alla tradizione dei retablos e alla grafica popolare. In un certo senso, l'idea dei tre artisti (e di altri minori) è lo spazio urbano come libro illustrato. I messaggi possono essere semplificati, divulgativi o retorici, ma il loro impatto sul pubblico è immediato e potente. L'arte murale messicana costituisce una sorta di grandiosa enciclopedia per tutti. Uno dei padri riconosciuti degli artisti che abbiamo citato è proprio un illustratore popolarissimo nel Messico del primo Novecento, José Guadalupe Posada. Le sue incisioni sono sintetiche e corrosive: tutti i suoi personaggi - poveri lavoratori e contadini, ma anche tronfi borghesi, militari, preti, profittatori ecc. […] Ma anche in Italia i murales costituiscono spesso una testimonianza della vita collettiva e delle lotte sociali di singole comunità, come in Sardegna (e soprattutto nella città di Orgosolo). […] Ma l'arte di strada ha conosciuto un nuovo impulso grazie alle culture urbane alternative, soprattutto negli Stati Uniti, a partire dagli anni sessanta. Infatti, a distinguere in linea di principio l'autentica Street Art dall'arte ufficiale è l'anonimato o la clandestinità. Si tratta di una scelta consapevole. Gli artisti di strada si contrappongono intenzionalmente all'ordine esistente: pubblico, politico, sociale e culturale. In questo senso, sono soprattutto i graffiti (writing o bombing) a rappresentare la vera anima contemporanea della Street Art.» (Dal Lago, Giordano 2008, 125-126, 129)
La “prima generazione” contemporanea: il momento degli antesignani riconosciuti come Dondi, Futura, Lee, Senn e soprattutto Keith Haring (1958-1990), Jean-Michel Basquiat (1960-1988), Juan Carlos Argüello (conosciuto come Muelle 1966-1995) Blek le Rat (opera,soprattutto a Parigi, dal 1970 al 1990 circa [ripreso nel Rat-man di Leo Ortolani, anche nel gioco anagrammatico rat - art]); «Un artista di strada recentemente convertito alle scarpe appese si firma Above… Above realizza frecce puntate verso l’alto. Possono essere monocrome o decorate e contenere una parola, per esempio Fun, Poke o Above [in nota: Fun, divertimento, scherzo; poke, colpo , spinta , above, lassù, in alto. Insieme, le tre parole compongono più o meno il messaggio «divertitevi a spingervi lassù»] Sono dipinte (su muri, fiancate di camion, vetri) oppure appese ai fili della luce, ai lampioni o a un albero. Above esorta i passanti ad alzare gli occhi, e quindi a compiere una mossa che ci isola, per un momento, dalla vita di tutti i giorni…» (Dal Lago, Giordano 2008, 119)
La “seconda generazione: i più noti, citati e ormai pubblicati anche in monografie (per non dire cataloghi! e si tratta di cataloghi patinati) sono Banksy (che protegge scrupolosamente la propria identità, forse Robin Gunnugham,nato a Bristol 1973 [?]), Obey (pseudonimo di Shepard Fairey), il gruppo C215 … e JR, Zevs, Marc Jenkins, Vhils e Isaac Cordal, Sten Lex, Blu e le più recenti firme Pao, Bros, Tomoko Nagao, Miste Wany, la street artist italiana MP5, esperti dell’animazione sul web (come Sio detto Scottecs) … ma sono vere e proprie per lo più anonime legioni dall’azione fulminea e imprevedibile, assolutamente proclamantisi fuori legge ma dotati di leggi ferree della professione; al loro interno, inoltre, ognuno di loro, o ogni “tribù”, ritiene di doversi rigorosamente distinguere secondo le proprie convinzioni di militante nella categoria, nel tipo di professione artistica che lo connota.
3.4.2.1. Il contrasto writer e street art. Segnala Arturo Pérez-Reverte (intervista 3.10.2014, la Repubblica, il Venerdì): «Il vero writer odia la parola artista. Vuole distinguersi dalla street art, quella tollerata e spesso sovvenzionata dalle istituzioni. Banksy lo detestano. Ritengono che abbia usato i graffiti per vendersi. Il writer non cerca il riconoscimento, il successo mediatico o economico. Non si spinge fuori dal proprio territorio. Ha ambizioni modeste. In primo luogo scrive per se stesso. E questo è lo stadio più narcisistico, onanistico, diciamo patologico dell’attività. L’adrenalina, l’odore delle vernici… Un piacere solitario. In seconda battuta si cerca il riconoscimento del gruppo e infine l’obiettivo è che il nick name, lo pseudonimo dipinto, mettiamo, su un vagone del metrò sia visto da migliaia di persone mentre vanno al lavoro. È vero. Nell’ambizione del writer a una micro-notorietà di pochi secondi c’è una componente di illusione romantica.» Osserva ancora Arturo Pérez-Reverte a proposito della componente illegale di questa attività: «Nella mia vita ho attraversato ambienti diversi, non sempre esemplari. Scoprendo che spesso la gente cosiddetta rispettabile osserva le regole molto meno di chi rispettabile non è. I gruppi marginali devono attenersi a un codice per sopravvivere. Altrimenti diventano vulnerabili, vanno in pezzi. Per questo puniscono con estrema durezza chi tradisce, chi trasgredisce la norma, perché violandola ha messo in pericolo l’intero gruppo, la tribù. Questo rende certe marginalità territori che si prestano a un’epica romanzesca. Quando un individuo, persino il più asociale e privo di morale, sacrifica sicurezza, comfort, interesse egoistico a favore delle regole di un gruppo, raggiunge una dignità paradossale che può farne un eroe letterario. […] Sono [i writer] qualcosa a metà tra monaci e guerriglieri urbani. Hanno la loro divisa, felpa nera con cappuccio, il loro gergo, i loro feticci e le loro liturgie. L'estetica è la loro etica. Pianificano le incursioni come commandos. Mentre i coetanei stanno in discoteca, davanti alla tv a un computer, loro se la rischiano. Si scontrano con poliziotti e vigilantes. Dicono: Se sono legali, non sono graffiti. È un mondo aspro, ispido, dove guadagni meriti solo se te li conquisti sul campo di battaglia. Come tra i toreri, i rapper, i narcos o i mafiosi, la parola chiave è Rispetto. Lo ottieni se ti sei messo in gioco, se hai fatto cose difficili, estreme». (Arturo Pérez-Reverte, intervista)
3.4.3. Si tratta di un’arte che prende forma nella situazione storica in cui si trova l’arte come è indicato da Benjamin: la fine dell’unicum, del sacro, della sua richiesta di musealità, di una committenza aristocratica … per contrapporvi una fruizione di massa dalle forme imprevedibili e nuove, di forte impatto (più o meno avvertito) per il mutamento e il divenire della sensibilità estetica. Uno degli elementi strutturali che fonda la street art è la consapevolezza che il dato primo percettivo è la continua modifica del nostro vedere estetico come prassi quotidiana del percepire e come esperienza mutevole e aperta del gusto e della bellezza, anche a fronte di opere prima facie non artistiche, lontane dai canoni formali classici; anche le opere più astratte e destrutturanti ci appaiono, prima o poi, familiari e “naturali”.
Nella street art, l’arte, l’immagine prodotta e la sua produzione, si impone e rivendica per sé l’apparenza immediata, istantanea, senza controlli esterni e senza limiti; un’arte immediatamente rivendicata, esibita e autogestita non senza una propria etica interna.
3.4.4. L’incidenza della produzione è legata alla varietà e novità delle forme e dei linguaggi e anche alla forte valenza dei richiami storici simbolici, fino al citazionismo della produzione classica: «…questa è un’altra caratteristica della new wave del graffitismo. I più bravi non sono autodidatti: vengono quasi tutti da scuole d’arte, ne conoscono la storia, ne riciclano stili e modi, fanno citazioni colte. Shepard Fairey, in arte Obey, ad esempio: è il poster-artist americano che ha disegnato l’Obama in rosso e blu con la scritta Hope, diventato il simbolo — e per qualcuno anzi un importante fattore — della prima vittoria presidenziale. Nei suoi manifesti si può riconoscere la lezione del Costruttivismo russo, della pop o dell'arte impegnata di Barbara Kruger. Ed è arrivato a citare — in un suo Manifesto — oltre allo scontato McLuhan anche Heidegger come fondamento delle sue operazioni creative.» (Gregorio Botta)
3.4.4.1. l'artista sceglie i suoi soggetti prestando più attenzione al linguaggio della comunicazione che al resto, nella convinzione che la forza visiva di chi viene rappresentato vince su tutto e convince. La tecnica che tende ad essere maggiormente utilizzata da parte della street art è quella dello stencil. Tecnica molto antica; si fa risalire all’epoca paleolitica superiore (come compare in alcune impronte di mani, circa 150, nelle Grotte di Gargas al centro della Francia, cfr. De Gregori, 23) e non scompare mai modificandosi nel tempo e nelle cultura fino ai giorni nostri e nella street art. «Ricerche analoghe furono esplorate, tra il '50 e il '60, da Andy Warhol e Robert Rauschenberg - tra gli altri ideatori e promotori della cosiddetta Pop Art (o Popular Art) - quando nel superamento dell'opera come pezzo unico si tentò l'idea della produzione seriale. In tal senso i nuovi linguaggi, intesi a coinvolgere l'ideazione artistica negli ambiti della pubblicizzazione e della comunicazione di massa e a trasformare le immagini più diffuse fino a trasformarle in icone, provocarono un impatto molto significativo sull'opinione pubblica, effetto che tuttora appare inalterato. I lavori pop non erano altro che traduzioni attraverso lo stencil. Nella New York del 1980 lo stencillismo assume i connotati di una vera e propria forma d'arte grazie al boom suscitato dalla Pop Art, animando le gallerie e l'intero panorama espressivo. Artisti come Jean-Michel Basquiat, Jean Dubuffet e Keith Haring furono diretta mente influenzati dall'arte di strada.
Sono anni questi, nei quali la Legge non spingeva le forze dell’ordine a sanzionare l'arte di strada. Era dunque molto semplice uscire e riversare le bombolette spray sui muri.
A differenza dei graffiti o delle semplici tag, gli stencil hanno messaggi diversi e più consapevoli. Chi li esegue e ne immagina la struttura è spesso coscientemente legato al territorio di espressione, cerca di comunicare in modo semplice e chiaro, indaga modi e linguaggi spesso originali e sperimentali.
Lo sviluppo dello stencil ha dato vita inoltre, a interi alfabeti con diverse font, esattamente come i caratteri tipografici utilizzati per le indicazioni stradali, il cibo, la televisione, le pubblicità. E Bauhaus fu un'enorme fonte di ispirazione per la tipologia del lettering e la creazione di nuovi modi figurativi per rappresentare le lettere. Josef Albers — ad esempio - sviluppò il Kombinations Schrift, un alfabeto che si adatta perfettamente all'utilizzo dello stencil.
La Francia è stato il Paese europeo in cui la tecnica dello stencil ha incontrato più fortuna e ha avuto un forte impatto sull'attività creativa. È proprio a Parigi infatti, che Blek le Rat comincia la sua carriera, assumendo il ruolo di pioniere di questa nuova tecnica e diventando famoso in molti altri centri francesi» (De Gregori Sabina 2010, Banksy. Il terrorista dell’arte, Castelvecchi, Roma, pp.24-26)
L’attuale tecnica dello stencil (sagoma, mascherina, stampino, matrice); una lastra con lettere o disegni a traforo, preparata in più copie e diverse forme in relazione alla sovrapposizione plurima per ottenere una ampia varietà di colori e raffigurazioni (per analogia potrebbe richiamare la funzione del cartone per la costruzione della sinopia di un affresco).
La tecnica dello stencil in altra presentazione: «Si diffonde ora la tecnica dello stencil, una mascherina in cui sono ritagliate sagome, semplici figure o scritte, che vengono riempite di colore. Questo stile semplifica inevitabilmente le forme. Inoltre, permette di agire individualmente, senza la collaborazione di una crew, perché i tempi di esecuzione sono molto brevi. Non più colori vivaci e grandi dimensioni, ma immagini essenziali e fortemente concettuali. Se la Pop Art è stata definita come l'irruzione della banalità nel mondo dell'arte, potremmo dire che ora la Street Art rappresenta l'irruzione dell'arte nella banalità del mondo. Nel primo caso l'azione si svolge dentro la dimensione dell'arte, nel secondo in quella del mondo reale. Nasce una nuova generazione di artisti metropolitani per i quali il panorama urbano è una continua fonte di ispirazione: non si rappresenta più se stessi o la propria cultura su muri o vagoni della metropolitana, ma si altera lo stesso significato degli spazi a disposizione, per esempio incorporando le tag o le figure realizzate con la tecnica dello stencil in graffiti preesistenti e persino nella ruggine dei vagoni. A Madrid, Noaz opera su grandi muri vuoti siglandoli con semplici immagini di animali. La vastità degli spazi genera spaesamento, che l'artista sottolinea con figure come una scimmietta in un angolo: il vuoto che la circonda esalta la sua espressione perplessa che diventa un dubbio cosmico. La presenza degli animali in questo genere di Street Art, che definiremmo Pop-concettuale, è significativa. Ratti, scimmie e corvi sbeffeggiano l'umanità alienata delle metropoli alla quale non appartengono e che guardano con spirito critico, ironico o malinconico. La pratica dello stencil consente di lasciare dovunque piccole tracce significative, ma anche di realizzare interventi più complessi, spesso di critica sociale, politica e pacifista. Accanto alle onnipresenti pubblicità che intasano il panorama urbano, compaiono marchi contraffatti che usano lo stesso linguaggio in modo polemico e graffiante. A New York, nel 2007, sul fondo scuro di un cancello metallico, un artista anonimo colloca un marchio rotondo. Al centro, la statua della libertà in mano non regge la fiaccola ma un mitra. Sotto il marchio la scritta: Made in America. Le variazioni sulla statua della libertà sono innumerevoli: per esempio a Montreal, nel 2006, ne compare una che al posto della testa ha un teschio. Cam Bsas, su un muro di Buenos Aires, realizza una pubblicità molto particolare: un coltello grondante sangue è sovrastato dalla scritta Bush and Sons. Cam Bsas ricorre a un tratto svolazzante che ricorda il marchio un po' vezzoso e liberty della vecchia Coca Cola e sigla la sua opera con un payoff (emblema o motto) in perfetto stile pubblicitario: Family butchers since 1989 [famiglia di macellai dal 1989].» (Dal Lago, Giordano 2008, 136-138).
Lo stencil diventa un vero e proprio linguaggio di comunicazione e dialogo, oltre che una tecnica di raffigurazione. Ne fa un ampio uso Blek le Rat ed è pienamente adottata da Banksy dal 1992 (anche nel suo simbolo primo ricorrente: il topo [rat, anagramma casuale o voluto di art]; animale tra i più disprezzati, ma capace, col numero, la riproducibilità, di bloccare una intera città). Tecnica che rende possibile l’ampiezza delle forme, l’ampiezza dei temi affrontati, la riproducibilità dell’immagine e la sua conseguente serialità in vista di una ostensione pubblica di massa. «Non dipingono più solo nomi o sigle: ma disegni, figure, pensieri, opere concettuali, figurazioni astratte, in alcuni casi di grande bellezza. E grazie a loro tristi architetture dei non luoghi hanno ricevuto un nuovo volto e un nuovo respiro. Anche la tecnica si è fatta via via più raffinata: non più mano libera, ma stencil, ovvero sagome ritagliate che consentono pitture veloci, perfette e uguali. Dicono che il primo ad usarle fu il francese Blek le Rat, ispirato — pensate un po' — dai volti di Mussolini visti in un viaggio in Italia e che erano fatti appunto in questo modo. Ma ormai siamo nella fase del multistencil: due, tre, quattro mascherine ritagliate per ogni affresco, in modo da renderlo più colorato e profondo. Altro che improvvisazione: artisti come C215 o gli italiani Sten Lex passano ore e ore nei loro studi a preparare le sagome per il palazzo che verrà. Gli interventi sono sempre più mastodontici, impegnativi, costosi: come IR che ha ricoperto pareti e tetti delle favelas di Rio con giganteschi ritratti in bianco e nero, restituendo un volto alle lamiere delle baracche. O come lo straordinario Blu, italiano, che ricopre intere facciate di edifici (Berlino, Roma) appollaiato su un carrello elevatore e munito di una grande scopa-pennello: operazione che richiede giorni di lavoro e tonnellate di vernice.» (Botta Gregorio Di chi è la street art? La Repubblica 11.08.2013)
3.4.4.2. Ma l’incidenza è anche, e forse soprattutto, legata alle scelte tematiche tendenti a suscitare potenzialità critiche; si tratta di immagini-messaggio che si presentano come un mezzo efficace di educazione al notare etico-politico nei confronti del sociale contemporaneo, dei suoi tratti, delle sue distorsioni e contraddizioni. Citando: Banksy «punta a distruggere l'establishment, il militarismo, la società basata sul consumo. I suoi personaggi sono disincantati, adorano i falsi miti, sono frutto di una civiltà capitalista e progressista. Banksy sovverte l'immaginario collettivo sfaldando le icone della società contemporanea tramite un'ironia allo stesso tempo elegante e brutale e mettendo in ridicolo le molteplici contraddizioni che fanno parte del nostro tempo.»(De Gregori, 157). Pao riprende con ritratti tipici di un Paese diverso, come in un mosaico, il nuovo volto multietnico delle società creando una nuova percezione estetica antropologica, base di una integrazione etnica immediatamente sensibile.
«“Le strade sono i nostri pennelli e le piazze le nostre tele” scriveva Majakovskij: un secolo dopo la profezia si avvicina. Può piacere o no, ma nell’epoca della crisi della pittura quest’arte di strada sembra in grado di restituirle forza e vitalità. Forse anche per questo, nella miseria asfittica dell’arte pubblica — soprattutto in Italia — ha occupato uno spazio di supplenza in modo prepotente e ormai ineludibile. Forse non sapremo mai di chi è la street art, ma certamente sappiamo che ne vedremo sempre di più.» (Botta Gregorio Di chi è la street art?)
Il processo in atto si configura come la «"politicizzazione dell'arte" di cui parlava Benjamin in contrapposizione all'"estetizzazione del politico"» (Montani 2014, 80); non più estetica del politico, monumentale e come celebrazione di sé o di un regime perenne memoria, ma politicizzazione dell’arte che trasforma l’ambiente in fatto e proprietà del sociale nella disponibilità creativa, anche rimemorativa, dei luoghi.
Come accade alla produzione e soprattutto alla tag di Muelle: «A metà anni Ottanta fu apripista del graffitismo in Spagna. I muri della Movida erano tempestati della sua firma: un ghirigoro a forma di molla che finiva ad aculeo, con sopra la erre cerchiata del marchio registrato. Sberleffo all’autorialità mercificata. Gli proposero di trasformare la sigla in griffe per collezioni di abbigliamento. Lui rifiutò. In obbedienza all’etica graffitara: illegale, antieconomica, a suo modo donchisciottesca. Sorta di moderno contemptus mundi, ascetico disprezzo verso le vanità del successo terreno» (Marco Cicala, la Repubblica, il Venerdì 3.10.2014, intervista a Arturo Pérez-Reverte). Afferma di loro Arturo Pérez-Reverte: «Non li approvo, ma ci rivelano qualcosa sulla crisi della nostra società» (Arturo Pérez-Reverte, in intervista; e il libro Il cecchino paziente 2014, su Muelle, cioè Juan Carlos Argüello, ma più in specifico sulla figura del graffitaro dai tratti mitologici o mitologizzata). E ancora, in critica a artisti della street art truffatori, creature commerciali: «La vera discriminante è il rischio. Vuoi essere artista? Ok. Giocatela. Scava nelle ipocrisie di un mondo che nasconde il dolore, la morte…. Un’epoca dove tutto deve apparire giovane, bello, sano, dove c’è una cura per qualsiasi cosa… Sbattile in faccia le tragedie, le guerre, gli tsunami, gli ostaggi sgozzati davanti alle telecamere… Nella società di massa c’è tanta di quella roba che potrebbe essere catturata da un occhio artistico... E non mi riferisco solo alle catastrofi».
Una ulteriore testimonianza, di Micol Passariello: «In un libro, le frasi, gli striscioni e i manifesti scritti dagli street artist di mezzo mondo. Basta una parola per lasciare un segno, politico e poetico. Messaggi in bottiglia? è più facile trovarli sui muri. «Potete sconfiggere il capitalismo, se lo volete» afferma a caratteri cubitali, nero su giallo, l'attivista americana Megan Wilson su un muro di New York. «Svegliati e respira a pieni polmoni» scrive, lungo una delle strade più trafficate di Los Angeles, lo Street artist Freewayblogger, che ha già lasciato più di 6 mila messaggi simili lungo le arterie intasate della California. «Smile» è invece il messaggio del writer Canvas sulla strada di un villaggio irlandese. Sono tanti gli artisti di strada che si esprimono solo attraverso le parole: messaggi dipinti su un muro, frasi su affissioni, striscioni sui cavalcavia, finti manifesti pubblicitari. Gli argomenti? Di ogni tipo: dai messaggi politici agli appelli sociali, toni provocatori e ironici, o note ecologiste. Nicholas Ganz, fotografo e Street artist tedesco che si firma Keinom, già autore del bestseller Graffiti World, si è preso la briga di documentare il fenomeno: ha girato dappertutto fotografando slogan, murales e manifesti dei più interessanti artisti di strada in circolazione. E il risultato è Street Messages |(Dokument Press, pp. 144, euro 24), un bel volume fotografico che testimonia l'arte di strada più radicale, con più di 80 graffiti sparsi nel mondo. «Le parole che i writer lasciano su muri, strade e spazi pubblici sono sia una forma di espressione artistica e filosofica, che un nuovo, più moderno tipo di poesia» sostiene Ganz, «questo libro vuole celebrare questi artisti, che lavorano per condividere le loro riflessioni e lasciarci dei messaggi».
Ci sono gli slogan politici dell'israeliano Signor G. Il collettivo Billboard Liberation Front, di San Francisco, che modifica i cartelloni delle multinazionali per boicottarle. E le scritte ambientaliste del newyorkese John Fekner. Ce n'è per tutti i gusti e per tutte le battaglie. L'inquinamento, la violenza, il vandalismo, la politica. Ma anche lo showbiz. Come per esempio il manifesto del francese Skki, pioniere dei graffiti a Parigi, che ha ritratto due bidoni della spazzatura, uno chiamato Britney Spears e l'altro Paris Hilton». (Passariello Micol, Venerdì La Repubblica, 18 settembre 2015).
In questa prassi emergono alcuni tratti irrinunciabili dell’arte contemporanea: 1. la tecnica della riproducibilità libera, immediatamente pubblica e dunque “su strada” (l’espressione street art va intesa come un indicatore della sede naturale dell’arte prima che come denominatore di gruppo o di tendenza); 2. le tematiche sociali e quindi la destinazione etico-politica di impegno e assunzione di responsabilità dell’arte per cause a difesa della natura, dei viventi, dell’umanità; 3. la consapevolezza e l’esibizione della illegalità e conseguentemente della clandestinità dell’arte – messaggi, considerata come condizione di indipendenza totale.
«Questo tipo di arte aiuta ancora a vivere. Siamo stati abituati a credere che l'arte aiuti a vivere e renda il mondo, anche nei suoi aspetti più crudeli e terrificanti, migliore e sopportabile. Crediamo che l'arte svolga comunque un ruolo consolatorio e che - non solo per chi l'ama e le dedica studio e riflessione – essa arricchisca e renda migliore l'esistenza. I momenti più alti dell'espressione e della creatività lo dimostrano. I Greci hanno individuato nella realtà i princìpi di armonia e bellezza, il Rinascimento ha colto e utilizzato le regole della visione prospettica per rappresentare un mondo ordinato e razionale, ha indagato la natura e posto i fondamenti della scienza, Caravaggio ci ha mostrato come il dolore e la morte fossero parte integrante della vita e come l'arte possa renderle anche dolci e sensuali. Abbiamo imparato la finitezza umana, i limiti e l'amara arrendevolezza.
Gli impressionisti hanno svelato e raffigurato la luce, Manet l'umiltà nel riconoscersi
uomo del proprio tempo, moderno e consapevole, coraggioso e fiero. I futuristi hanno cercato il movimento, Picasso la sintesi e la molteplicità, Hopper la solitudine, Pollock ha usato il suo stesso corpo; l'arte si è sempre servita di un motore instancabile, si è nutrita della vita di tutti i giorni ma anche del progresso, si è evoluta grazie ai geni che hanno contribuito a proiettarla nel futuro con le loro intuizioni rivoluzionarie. Le persone che assistevano al suo evolversi non sono quasi mai state alla sua altezza. L'arte e i suoi insegnamenti precorrono i tempi, come un regalo alle generazioni future come un nuovo punto di partenza e mai di arrivo. A Bansky si attribuisce, ormai piuttosto diffusamente, il ruolo di artista dei nostri tempi. » (De Gregori Sabina 2010, Banksy. Il terrorista dell’arte, Castelvecchi, Roma, 175)
3.4.4.2.1. Banksy crea l’antidisneyland: agosto 2015. «Dietro alle alte mura di quello che un tempo era un noto impianto balneare nell'Inghilterra occidentale, Banksy assembla in segreto e ora apre la sua creazione d'ispirazione disneyana: Dismaland, da "dismal", tetro. Non un "amusement park", parco di divertimenti, bensì un "bemusement park", parco di disorientamento. Sovversivo, amaramente comico, scioccante. […] È — ha detto Banksy stesso — un «parco divertimenti per famiglie non adatto ai bambini piccoli, un'evasione dall'evasione senza mente dalla realtà», «un festival dell'arte, del divertimento e dell'anarchia», ha detto al giornale locale Weston Mercury lo stesso misterioso artista rimasto al solito nell'ombra. […] …il mondo delle fiabe viene capovolto, sin dall'ingresso con finti metal-detector e guardie imbronciate. C'è la vasca con le barchette, ma a bordo ci sono i migranti. C'è un'orca che salta, ma spunta fuori da un water. Cenerentola non raggiungerà mai il principe: giace senza vita sulla sua carrozza rovesciata circondata dai paparazzi, come la sua moderna epigona Diana. C'è il castello delle fiabe, ma è triste e derelitto. […] … il Tropicana, un impianto balneare aperto negli Anni Trenta che vantava le piscine più profonde d'Europa. Chiuso nel 2000, era ormai un luogo abbandonato e fatiscente. Da domani riprenderà finalmente vita. «Da piccolo amavo il Tropicana, perciò riuscire ad aprire di nuovo queste porte è un vero onore». E forse la vera favola è questa, il sogno di un bambino che diventa realtà.» (Rosalba Castelletti, Banksy L’artista che creò l’anti Disneyland, la Repubblica 21.08.2015)
3.4.5. Un rischio affianca questa forma d’arte ed è in stretta relazione con il suo successo di attenzione ma poco in linea con la natura e la valenza culturale dichiarata del fenomeno street art; rischio che, tuttavia, non viene disdegnato, né è privo di effetti estetici considerati socialmente e artisticamente produttivi. «Da quando l'arte ha iniziato ad avere un suo mercato i critici detengono il potere di rendere celebre un'artista, o al contrario, di distruggere la sua carriera. Accanto a loro hanno giocato un ruolo fondamentale i committenti e i mecenati e oggi, gli acquirenti. Ma cosa succede se un personaggio del jet set dichiara che un'artista è il suo prediletto facendosi notare nelle gallerie e acquistando all'asta le sue opere? Panico mediatico e prezzi alle stelle.» (De Gregorio,185) «… già negli anni ‘70 le gallerie americane più cool intuirono che il mondo dei graffiti aveva potenzialità enormi. Keith Haring docet.» (Gregorio Botta, Di chi è la street art?, la Repubblica 11.08.2013) Il fiuto dei mercanti d’arte (mercanti d’aura) tenta (e per lo più vi riesce) di includere quelle opere nel tradizionale destino di musealizzazione o di commercio delle opere d’arte. Temi e forme sono immediatamente catturati dal mondo della pubblicità commerciale, dirottati e destinati a fini di stimolo all’acquisto (come la proposta fatta a Muelle, Juan Carlos Argüello, di trasformare la sua sigla, la sua tag, in griffe per collezioni di abbigliamento). Nota Arturo Pérez-Reverte: «Ai tempi di Rembrandt o di Velazquez o eri artista o non lo eri. Non c’era modo di esserlo se non lo eri. Oggi invece chiunque, fosse pure il più mediocre, sia spalleggiato dalla stampa, da un critico o da un gallerista, può diventare un’icona. La parola artista è diventata rifugio per troppi stronzi». Così come la presa viene da festival di street art e writing organizzati da collaboratori di gallerie d’arte (come la D406, Modena). Indirizzi di sviluppo che, quando privilegiano la nuova opportunità commerciale dell’arte che si apre proprio nella street art, distorcono, anzi negano e annullano le originali intenzioni di questa arte. Profetiche su questa deriva possibile e facile le impressioni di Walter Benjamin. «Benjamin vedeva positivamente un processo in cui gli artisti divenivano produttori (per esempio, grafici al servizio dei movimenti rivoluzionari), così come, di conseguenza, i produttori sarebbero stati artisti. […] Il fatto è che le cose non sono andate esattamente così, e non solo perché i movimenti rivoluzionari sarebbero stati sconfitti, o riassorbiti da regimi capaci tutt'al più di produrre una pietosa arte di propaganda.» (Alessandro Dal Lago, Serena Giordano, Mercanti d’aura. Logiche dell’arte contemporanea, ed. il Mulino 2006). Basta seguire le quotazioni delle opere di Haring, Basquiat, Banksy, Obey, C215; l’interesse mostrato per questa produzione da altri mezzi di comunicazione (il film Basquiat 1996, i suoi quadri contesi da musei e collezionisti), il richiamo delle mostre (a Obey, dal 6 dicembre, e fino al 28 febbraio 2015, la città di Napoli dedica una grande mostra, al Palazzo delle Arti (Pan) dal titolo “Shepard Fairey#Obey”. La direzione di impegno espositivo in più direzioni è esplicita in Obey, uno dei più celebrati street artist americani; nel 1989, un anno dopo essersi diplomato all'Accademia d'arte in South Carolina, pensò di realizzare "the Giant Has a Posse", disseminò letteralmente i muri della sua città con semplici adesivi raffiguranti il lottatore di wrestling André the Giant, e nel 2008, nel momento in cui la campagna elettorale del futuro presidente degli Stati Uniti d'America era nel pieno del suo svolgimento, sceglie la causa di Obama, ne getta il ritratto nelle strade americane in quadricromia, un po' come Andy Warhol aveva fatto con Marilyn Monroe - riconoscendolo come volto destinato a diventare icona del suo tempo e sottolineandolo; il volto nero di Barack si sovrapponeva sui manifesti alle parole Hope (speranza) e Change (cambiamento), riportavano termini come "Progress" e "Vote"; anche se il comitato elettorale di Obama prese le distanze dall'artista, soprattutto perché i manifesti erano affissi illegalmente (come vogliono le "regole" della street art), il presidente americano, una volta eletto, inviò una lettera a Obey per ringraziarlo di averlo reso "parte dell'opera d'arte".). Nello stesso destino potenzialmente inclusivo (ma non necessariamente ispirato ad una logica puramente strumentale) possono annoverarsi, ad esempio, l’invito da parte di musei e produzioni economico culturali (la tag di Muelle diventata quadro, fondale di convegni, logo per magliette); la mostra di fotografie riservate ai lavori dei writers dalla fotografa Martha Cooper, nell’arco di quasi quarant’anni (Pinacoteca di Arte Contemporanea di Gaeta dal 29 marzo al 17 maggio 2015), il festival parallelo Memorie Urbane Street Art Festival, la loro pubblicazione su National Geographic e le raccolte in volumi (come il Subway Art già nel 1984); iniziative riguardanti il turismo artistico della street art (come lo Street Art Bike Tour per ammirare i murales di una città; iniziativa questa nella logica del movimento e dell’arte di strada; più azienda turistica è il Banksy tour di Bristol, patria dell’artista, e pub Banksy). Il problema infatti è di percezione e uso sociale: «Che i murales possano produrre soldi non è una novità. La cosa straordinaria è un’altra: la comunità sente suo l’affresco con lo spray.» (Gregorio Botta, Di chi è la street art?, la Repubblica 11.08.2013) Un caso emblematico è la città Vitry-sur-Seine, vicino Parigi, si è «aperta alle bombolette di tutto il mondo: e le pareti della città fioriscono e rifioriscono in continuazione con i più imprevedibili disegni. Non a caso è stata scelta come residenza da C215, un altro celebrato muralista…» (G.Botta, 2013). A Milano, il muro grigio di via Ardigò, vicino alla ferrovia Stazione Forlanini, è diventato la tela di Denis Ascanio, pittore cubano; il primo murale è dedicato a Enzo Jannacci e al suo successo “El purtava i scarp del tennis” (ottobre 2015).
Una Roma a colori raccontata dai muri che una nuova (o semi-nuova) scena di artisti di strada sta trasformando in opere d’arte; le fotografie di Mimmo Frassinetti sono esposte nella mostra Urbs picta (23 ottobre 2015-17 gennaio 2016, in Villa Borghese); lavori di Axel Void, Blu, Sten Lex, J.B. Rock, Agostino Iacurci in progetti di riqualificazione urbana (Ostiense, Testaccio, San Basilio, Garbatella, Quarticciolo, Monte Mario, Vigna Clara, Trionfale); strade, piazze, stazioni e metro trasformate in una gigantesca galleria gratuita e accessibile a tutti; documentari, cortometraggi e lungometraggi accompagnano mostrano l’evoluzione in atto della street art nelle aree urbane.
3.4.6. Un ulteriore destino e destinazione di questa produzione artistica, che si va rafforzando e diffondendo in modo sempre più condiviso, è da individuare nella adozione dei suoi prodotti e della logica della street art nelle politiche di arredo urbano, nel recupero dell’attenzione all’abitare nella sua dimensione sociale; processo che va nel segno della speranza di Benjamin per la democratizzazione dell’arte. Alcuni esempi. Un esempio italiano il progetto M.U.Ro [Museo di Urban Art Romano], curato dall’artista David Daviù Vecchiato, autore del primo dei murales che rendono letteralmente istoriate le strade del quartiere del Quadraro e recuperano anche la memoria di una quartiere che nel marzo 1944 subì una delle più grandi deportazioni della capitale: 947 rastrellati dalla Gestapo agli ordini di Kappler in persona. Vi operano artisti come Ron English, considerato da molti il nuovo Andy Warhol, che ha realizzato il celebre Temper Tot, ribattezzato Baby Hulk; il romano Lucamaleonte che, per onorare la memoria dei deportati a settant’anni dal rastrellamento, ha disegnato sul lungo muro di via Monte del grano, un commovente Nido di vespe giallo e nero; Jim Avignon, Gaby Baseman, Alice Pasquini, Gio Pistone. E adesso appassionati, turisti e scolaresche, guidati da Giorgio Silvestrelli, compiono ogni settimana una full immersion in una storia che parla del passato con il linguaggio del presente. Un'arte della memoria che tiene unita la comunità e al tempo stesso la apre alla propria storia e al mondo. Un altro esempio italiano: «Strartisti: Roma, street art in stazione, quei muri che parlano. Le stazioni della metropolitana di Roma come una grande tela da disegno. E' il progetto Urban Breath Project, curato da Rmp-Lab/Lanificio Factory con la collaborazione dell'azienda dei trasporti pubblici, Atac. I lavori degli street artist coinvolti - Daniele Tozzi, Solo, Gomez e Diamond all'esterno delle stazioni, Ironmould all'interno - sono solo alcuni dei nuovi muri che grazie al bando Roma Creativa stanno contribuendo a trasformare la Capitale in grande museo di urban art (e un documentario Rep Tv: Strartisti di Arianna Di Cori, riprese di Valeria Lombardo, montaggio di Emanuelle Cedrangolo). Licei artistici tengono corso di street art invitando Writers noti, come al Liceo artistico Caravaggio di Milano (26-27 marzo 2015): «le firme della street art insegnano ai nostri ragazzi i trucchi del mestiere è un modo per spiegare la differenza fra un tipo di arte, quella di strada, e quelle schifezze di tag che imbrattano la città e non rappresentano nulla.» (Giuseppe Ritondale, la Repubblica 25 marzo 2015). Un Festival di arte urbana a Roma (10-11 ottobre 2015).Un ulteriore caso nel progetto di “salvataggio” di Civita di Bagnoregio (Viterbo) che, arroccata su di un monte, sbriciola a poco a poco, nel luglio 2015, affida il proprio allarme anche ad artisti disegnatori murali in una rassegna a forte valenza etica in un «Meeting internazionale dei disegnatori che salvano il mondo non per magniloquenza ma perché solo l'energia dell'arte può salvaguardare una bellezza in pericolo come questa. L'idea è di creare un luogo dove gli artisti siano al lavoro e il pubblico possa capire, fare domande, essere parte del processo creativo». L’iniziativa è contagiosa e tende ad essere ripresa e riadattata per piccoli borghi a rischio abbandono, come per Civitacampomarano (luglio 2015; street artist Alice Pasquini) e nelle grandi città, come nell’operazione dei “cento muri”, Milano giugno-luglio 2015, mette a disposizione spazi delle periferie che le varie crew (16K, N1[Nuclear One]), trasformano in “gallerie d’arte” a cielo aperto. Milano (agosto/settembre 2015) ospita alla Fabbrica del Vapore (centro culturale della promozione e della creatività giovanile) artisti di origine writers (Street art) che provengono da vari luoghi del mondo e hanno scelto forme d’espressione tra le più varie (tra gli artisti coinvolti: Hopnn, Laurina Peperina, Millo, 2501, Etnik, No Curves, Pixel Pancho, C215, D*Face, Reka, Rone, The London Police).
3.4.6.1. Un’utopia su misura. «Tali sperimentatori fondavano la ricerca di nuovi linguaggi intorno alla guerra al capitalismo e al desiderio di trasformare lo spazio urbano in ambiente aggregante, cui contribuire collettivamente e scambievolmente. Nell'intervista al New Yorker, Banksy disse: «Immagina una città dove i graffiti non siano illegali, una città dove ognuno possa disegnare dove desidera. Dove le strade siano immerse in milioni di colori e brevi frasi, una città in cui ci si senta come a una festa dove tutti sono invitati, non soltanto i proprietari dei beni immobili o i magnati implicati in grossi affari». Questa visione del mondo, rispecchia molto bene la posizione concettuale situazionista, nel desiderio di un ribaltamento delle leggi culturali, della condivisione e del modo di intendere gli spazi urbani e soprattutto del superamento dell'arte, da realizzarsi solo attraverso situazioni rivoluzionarie.» (De Gregorio, 178)
Una affermazione / proclama di Emile Zola chiude significativamente l’opera di Sabina De Gregori, dedicata a Banksy. Il terrorista dell’arte (p.235): «Odio gli ignoranti che spadroneggiano, i pedanti e i noiosi che rifiutano la vita. Credo nella libera manifestazione del genio umano. Credo a una sequenza infinita di creazioni, a un'eterna galleria di quadri viventi e mi dispiace di non poter vivere per sempre per assistere a questa commedia infinita, ma sempre diversa.
Gli sciocchi che non hanno il coraggio di guardare avanti, guardano indietro. Creano il presente con le regole del passato e vogliono che l'avvenire completo di opere e di uomini ricalchi le orme di tempi remoti. Ma i giorni futuri nasceranno liberamente, ognuno ci darà una nuova idea, una nuova forma d'arte, una nuova letteratura. Gli incapaci non vogliono un orizzonte più vasto; hanno compilato la lista delle opere esistenti e hanno così ottenuto una verità relativa che per loro è una verità assoluta. Voi non create, voi imitate. Ed è per questo che odio le persone stupidamente serie e quelle stupidamente allegre, gli artisti e i critici che proclamano scioccamente che la verità di ieri è la verità di oggi. Non capiscono che stiamo andando avanti e che il paesaggio cambia.»
3.4.7. Una conclusione in prospettiva: un bivio: « Negli ultimi vent'anni, la sfera del writing si è così differenziata, sia in termini strettamente stilistici, sia culturali e perfino commerciali, che lo stesso termine graffiti appare inadeguato. Tuttavia, il punto essenziale è un altro. È necessario distinguere tra una produzione incessante e variamente trasgressiva, che si alimenta allo spirito originario della cultura Hip Hop, e una più o meno addomesticata che suscita da tempo l'interesse del mondo ufficiale dell'arte. Una volta di più, tra le due sfere è impossibile stabilire una distinzione netta. Writer che negli anni ottanta agivano più o meno in clandestinità, e magari hanno subito l'arresto o il carcere, sono ricomparsi recentemente come artisti a tutto tondo (passando in certi casi alla pittura su tela) o fotografi specializzati e perfino curatori di mostre. È chiaro che questi artisti non rappresentano le intenzioni originarie dei graffiti, ciò di cui i nuovi writer talvolta li accusano, anche aspramente. Al tempo stesso, danno vita a una corrente che sta scompaginando non solo le categorie strettamente estetiche ma anche quelle che chiamano in causa la collocazione sociale e politica dell'arte.
Infatti, artisti di strada che qualsiasi purista del writing definirebbe «venduti» possono essere responsabili di opere e performance che assumono, grazie alla loro notorietà, un fortissimo impatto politico e morale. D'altra parte, la «semplice attenzione» dell'arte ufficiale al writing può tradursi in cooptazione, e quindi nell'annacquamento del significato autentico dei graffiti, senza che gli artisti ne siano del tutto consapevoli. Ciò avviene, per esempio, quando amministrazioni locali o istituzioni artistiche (magari in collaborazione), offrono ai writer spazi legittimi (le cosiddette hall of fame), per arginare o incanalare la produzione di graffiti spontanei o il legittimi.
Arriviamo cosi a una questione decisiva: può la Street Art prescindere dalla sua natura illegale e quindi clandestina ? E se lo fa, a quale prezzo?» (Dal Lago, Giordano 2008, 141-142). Il tema va affrontato anche con la consapevolezza che l’illegalità possa diventare un mezzo (di cui si è forse diversamente consapevoli) per il successo e anche per il mercato: «Molte operazioni artistiche, in strada come in rete (o in entrambi i luoghi), potrebbero essere accomunate dall'etichetta di illegal art. Tuttavia, l'«illegalità» non è necessariamente uno stigma. L'esempio di Banksy rappresenta un caso di inclusione proprio grazie alla sua natura illegale (realizzare clandestinamente un graffito).» (Dal Lago, Giordano 2008, 166)
3.4.8. Una conclusione in indicazione interpretativa, espressa da Gombrich H. Ernst, 1959, Arte e illusione. Studio sulla psicologia della rappresentazione pittorica, (Leonardo Arte, Milano 2002, 262), riferita all’opera, nel passaggio in esame, di Jackson Pollock, Numero 12, 1952 e con l’affermazione «Questo presumo sia ciò che si propone l'"action painter"»: «Se questo gioco ha una funzione nella nostra società, può essere quella di aiutarci a "umanizzare" le forme intricate e brutte di cui ci circonda la civiltà industriale. Impariamo così anche a vedere i fili contorti o i complessi meccanismi come prodotti dell'azione umana. Veniamo esercitati a una nuova classificazione visiva. I deserti della città e della fabbrica si mutano in un bosco incantato.»
Sul tema del disincantamento che induce sia smarrimento che un processo di riorientamento e scoperta, la memoria corre a Foucault, La parola e le cose e Utopie eterotopie. Alla conclusione del proprio testo, Fuori cornice. L’arte oltre l’arte, A. Dal Lago e S. Giordano pongono in esergo una affermazione di M. Foucault: «Le eterotopie inquietano. Senz'altro perché minano segretamente il linguaggio, perché vietano di nominare questo e quello, perché spezzano e aggrovigliano i nomi comuni, perché devastano anzitempo la sintassi e non soltanto quella che costruisce le frasi, ma anche quella meno manifesta che fa tenere insieme (a fianco e di fronte una all'altra) le parole e le cose.» Michel Foucault, Le parole e le cose, 1966.» (Dal Lago, Giordano 2008, 171)
3.4.9. Un’ulteriore sollecitazione interpretativa suggerita della Teoria estetica di T.W.Adorno. Nel suo aspetto effimero e precario, più o meno consapevolmente, la street art giunge al cuore dell’arte (o di un suo aspetto centrale). «Le opere d’arte puntavano in tutto e per tutto alla durata; essa è sorella del loro concetto, del concetto di obbiettivazione. Tramite la durata l’arte protesta contro la morte; la breve eternità delle opere è allegoria di una eternità non apparente. Tutta l’arte è triste piuttosto che tragica, e soprattutto lo è quella che sembra serena e armonica. […] Non appena le opere feticizzano la speranza della loro durata, soffrono già della loro malattia mortale: lo strato di inalienabilità che le riveste è al tempo stesso quello che le soffoca.» (T.W.Adorno, Teoria estetica, Einaudi, Torino 1977, 49). La tristezza dell’arte è collocata nel suo postulato/desiderio di eternità, di assoluto; la street art che fa dell’effimero il suo destino, nelle scelte formali, nei temi storicamente legati ai contesti contemporanei, negli ambienti in cui si collocano e nella scelta dei materiali compositivi, annulla o per lo meno contrasta la perdurante tristezza dell’arte quando esprime una urgenza di durata eterna; a meno che la stessa street art ceda alle lusinghe commerciali che trasformano ogni forma di arte in opera oggetto di mostra e di mercato miranti al perenne, essa incarna questa precarietà, esprime nel proprio destino di tramonto, la certezza della propria breve durata e in ciò esplicita ed espone universalmente la natura e la funzione dell’arte come espressione nell’attimo di consapevolezze profonde totali ma in transizione, in quanto espone il vivente e il nodo in cui ogni vivente inesorabilmente si colloca.
4. dall’immaginazione all’immagine o la logica delle direzioni contemporanee
Per far emergere la logica delle direzioni contemporanee evidenziate e degli effetti conseguenti esaminati, è opportuno portare l’attenzione al ruolo della immaginazione, dell’immaginare e dell’immagine. Un ruolo diversamente considerato nel tempo, l’immaginazione registra una lunga storia di affermazione, abbandoni e ritorni per essere infine centrale nell’estetica (percezione, arte e commercio) contemporanea, in un modo del tutto specifico.
Si cerca di affrontare il tema delle radici filosofiche della sensibilità e della produzione artistiche contemporanee; la sede individuata è quella del passaggio in atto dal simbolico (dal simbolo) all’immaginario (all’immagine) o, meglio e più radicalmente: lo svelamento (lo smascheramento) della finzione del simbolico nella contemporanea economia finzionale.
Motivo conduttore del percorso è il tema della autonomia dell’immaginazione e conseguentemente il ruolo o la vita propria dell’immagine (che va oltre il proprio rimando segnico); affermata o negata, diversamente sostenuta, indicata come principio di diversi processi produttivi, l’autonomia è comunque il tema che, magari sottotraccia, accompagna ogni riflessione sull’attività artistica. Può valere come guida la posizione di Konrad Fiedler (1841-1895) filosofo e critico d’arte responsabile della teoria formalistica della “pura visibilità” (attorno a cui si muove anche il dibattito italiano di primo ‘900, Benedetto Croce, Antonio Banfi): «L'artista non passa dall'intuizione all'astrazione ma rimane ancorato ai dati offerti dall'intuizione, accrescendoli attraverso un uso libero, senza limitazioni, della conoscenza visiva. Questo è il carattere essenziale della facoltà artistica. E la fantasia non può essere altro che una forza di rappresentazione di cui necessitiamo per possedere la realtà «sotto l'aspetto della visibilità». Per l'artista dunque la realtà stessa è prima di tutto ed essenzialmente un fenomeno visivo che egli tenta ostinatamente di riprodurre nella sua visione. La coscienza visiva risulta essere un campo infinito, poiché essa «non è più sottoposta ad alcuno scopo che sia posto al di fuori di sé medesima» (K. Fiedler, Il giudizio sulle opere d’arte figurativa, in L’attività artistica 1963).» (Maddalena Mazzocut-Mis, a cura di, I percorsi delle forme. I testi e le teorie, Bruno Mondadori, Milano 1997, 7)
4.1. Immaginazione: una storia di comparse, scomparse e ricomparse. Tre modi di conoscere e tre mondi: sensibilità, immaginazione, intelletto; la sorte e il ruolo dell’immaginazione.
4.1.1. Dall’analisi della percezione nel processo gnoseologico così come è stato impostato nel corso del tempo filosofico e scientifico, l’immaginazione si inserisce in una relazione tra tre mondi e nella storia della loro riduzione a due. L’indagine sulle facoltà umane cui si affida la realizzazione del processo conoscitivo tende a distinguere tra diverse forme di conoscenza, all’interno di un unico processo conoscitivo; ad esse corrispondono diverse facoltà e diversi esiti conoscitivi. La divisione analitica del processo conoscitivo, quotidianamente percepito come unico e lineare, permette di esplicitare alcune convinzioni: 1. la conoscenza non è istantanea ma è un movimento ed è dotata, conseguentemente, di una propria e specifica temporalità (il tempo interiore); 2. le conoscenze raggiunte in una tappa del cammino di conoscenza sono suscettibili di ripresa, da parte di forme conoscitive successive e diverse, e possono generare nuovi esiti conoscitivi, talora imprevedibili; 3. è possibile intervenire sul processo conoscitivo con strategie specifiche e mirate, influenzandone il corso, se i momenti del conoscere sono analiticamente evidenziati, definiti nella loro funzione e nella loro dinamica.
4.1.2. Su tale sfondo, le tappe di una storia della conoscenza e, in essa, della immaginazione.
4.1.2.1. Una prima tappa, dominante dall’antichità fino all’età moderna: tre mondi sulla base di tre facoltà conoscitive. Come visto, vanta una lunga storia, nel pensiero filosofico, la tripartizione del processo conoscitivo e del suo risultato oggettivo (come oggetto di una conoscenza) nei “tre mondi”: mundus sensibilis, mundus imaginabilis, mundus intelligibilis.
4.1.2.2. Una seconda tappa. La scomparsa dell’immaginazione o la sua sorte critica nella reimpostazione moderna del problema di conoscenza e di metodo scientifico. L’immaginazione, nell’età moderna, tende ad essere esclusa dal processo conoscitivo e tale esclusione diventa la condizione di una conoscenza scientifica non inquinata o non corrotta da “fantasie” o “immaginazioni” considerate prive di fondamento e di controllo. L’immaginazione trova il suo contesto privilegiato nell’arte, ma un simile rapporto quasi esclusivo contribuisce a togliere all’arte ogni valore conoscitivo (non è più una virtù dianoetica, come affermava Aristotele) e a incrementarne il discredito che le tesi di Platone, interpretate con la sola teoria mimetica, gettavano sull’arte; discredito formulato ufficialmente nei termini della filosofia dominante. «Immaginazione e arte. Questa esclusione dell'immaginazione dall'ambito della conoscenza, che vale del resto, ancor di più, per la tradizione razionalistica seicentesca, accentua e rende definitivo ed esclusivo il nesso tra immaginazione e arte. Tale connessione era stata per lo più estranea alle epoche precedenti quella moderna, e aveva avuto un riconoscimento teorico soltanto nel mondo ellenistico e tardoantico, quando la fantasia indicava le immagini che ornano il discorso del retore e del poeta, rendendolo più splendido e convincente (Quintiliano, Institutio oratoria, VI, 2; e si veda anche l'anonimo trattato Del Sublime, XV). Nell'età moderna, quando l'affermarsi delle scienze matematiche della natura accentua l'opposizione tra sapere scientifico e immaginazione, quest'ultima finisce per essere identificata come la facoltà che presiede alla poesia (F. Bacone, De dignitate et augmentis scientiarum, II, 1); ma, come questa, ha bisogno di una legittimazione e di criteri normativi». (Gianni Vattimo, in Enciclopedia Garzanti di filosofia, voce immaginazione 1981)
Quindi, nell’età moderna il mundus imaginabilis scompare come fattore di disturbo e di errore; la verità si affida o al primo mondo (genericamente: tradizione empirista) o al terzo (genericamente: tradizione razionalista) o al passaggio immediato e quasi biunivoco tra il primo e il terzo escludendo (o per lo meno minimizzando, oppure negando all’immaginazione il carattere di facoltà dotata di una produttività autonoma e di una logica specifica) qualsiasi apporto dell’immaginazione. A confermare quest’ultima impostazione vengono richiamate posizioni solitamente oggetto di critica da parte della filosofia moderna, quelle di Aristotele e della Scolastica, da cui la verità è definita “adæquatio rei et intellectus”. «Nulla può dare la misura del mutamento intervenuto nel significato dell’esperienza, quanto il rovesciamento che esso produce nello statuto dell’immaginazione.» (Agamben Giorgio 2001)
4.1.2.3. Una terza tappa. La funzione dell’immaginazione nello schematismo e la ricomparsa dei tre mondi: lo schematismo trascendentale e il ritorno dell’immaginazione (da Kant a Husserl) ma per lo più con ruoli di servizio intellettivo. Tra la visione (i dati sensibili) e i concetti puri (le categorie come regole di sintesi empirica concettuale) si segnala uno scarto di relazione per la non sovrapponibilità delle capacità di significato dei due campi: le intuizioni sensibili empiriche possono disporsi secondo concetti plurimi, analogamente le categorie possono avviare processi di sintesi concettuali dell’esperienza non unici né definitivi. A predisporre l’esperienza in vista della sua possibile lettura concettuale intervengono gli schemi, cioè l’immaginazione che, grazie al tempo come senso e movimento interiore, mette in sequenza i dati sensibili predisponendoli ad una particolare lettura concettuale. Si tratta di operatori ordinanti a priori o adattatori dell’esperienza allo scopo di renderla disponibile ad una definizione secondo categorie e quindi alla conoscenza. Gli schemi, nel processo conoscitivo, esprimono la funzione del tempo e dell’immaginazione: fermano l’esperienza nel suo scorrere, nel suo specifico movimento, quindi nella sua capacità di rimandare a significati non ancora concettualmente definiti, anzi in apertura e quasi provocazione nei confronti dei concetti. «Il punto cruciale è il ruolo degli schemi nei sistemi complessi adattativi. Essi hanno il compito di identificare, comprimere, e registrare le regolarità dell’esperienza così da permettere al sistema di adattarsi fornendo risposte rapide ed efficaci. […] Quella che si presenta come informazione in uno schema può essere rumore in un altro, e viceversa. […] È necessario a questo punto sottolineare che l’attività tramite cui gli schemi si adattano all’ambiente comporta una costante fluttuazione tra informazione e rumore. […] Inoltre, poiché l’esperienza eccede sempre la nostra capacità di elaborazione e l’autocoscienza non è mai completa, i significati prodotti dalla conoscenza non sono mai stabili, ma sempre mutevoli. Tale instabilità contiene una promessa di creatività e una minaccia di distruzione.» (Taylor C. Mark, Il momento della complessità. L’emergere di una cultura a rete, ed. Codice, Torino 2005). (Come se il mundus sensibilis solo attraverso il mundus imaginabilis possa costituire il mundus intelligibilis senza mai potervisi identificare .)
4.1.2.3.1. Nell’ambito del sentimento, nella stessa filosofia di Kant, si esalta il ruolo dell’immaginazione e se ne presenta il massimo potenziamento nell’esperienza del sublime. Il passo è noto: «Il piacere pel sublime della natura è perciò soltanto negativo (mentre quello pel bello è positivo), vale a dire è il sentimento dell’immaginazione che si priva da sé della propria libertà, in quanto si determina conformemente a un’altra legge, che non è quella del suo uso empirico. In tal modo, l’immaginazione raggiunge un’estensione e una potenza maggiore di quella che ha sacrificata, ma il cui principio le è ignoto, mentre sente però il sacrifizio o la privazione e, nel tempo stesso, la causa cui è sottomessa. Lo stupore che confina con lo spavento, il raccapriccio e il sacro orrore che prova lo spettatore alla vista di montagne che si elevano fino al cielo, di profondi abissi in cui le acque si precipitano furiose, di una profonda e ombrosa solitudine che ispira tristi meditazioni, etc., quando egli si senta al sicuro, non costituiscono un timore effettivo; sono soltanto una prova ad abbandonarvisi con la nostra immaginazione, per sentire il suo potere di collegare l’emozione suscitata da tali spettacoli con la serenità dell’animo, e di essere superiore alla natura in noi stessi, e quindi anche a quella fuori di noi, in quanto può avere influenza sul sentimento del nostro benessere.» (Kant Critica del Giudizio 122). Una esaltazione che trova la propria teoria nell’ambito del pensiero romantico, come e soprattutto nelle opere di Friedrich von Schlegel (1772-1829).
4.1.2.4. Una quarta tappa. Il passaggio dall’immaginazione all’immaginario. Nel Novecento (alla fine del positivismo) vengono formulate nuove direzioni di studio e di teoria sull’immaginazione: 1. le analisi di fenomenologia trascendentale di Edmund Husserl, 2. la ripresa del tema in chiave utopistica del pensiero di Hegel e di Marx ad opera di Ernt Bloch, 3. le tesi poste all’incrocio tra psicologia analitica (C. G. Jung) e antropologia strutturalista, nelle teorie di G. Bachelard, 4. le tesi sull’immaginazione espresse nella prassi e ricerca psicanalitica di S. Freud prima e J.Lacan poi. Il dato più rilevante è che, soprattutto in queste ultime interpretazioni e riprese, «il termine che diventa centrale, invece di «immaginazione», è «immaginario». Questo mutamento terminologico indica che qui non si tende più a definire l'immaginazione come una facoltà fra le altre, ma piuttosto si guarda ai suoi prodotti, al grande repertorio dei miti, dei simboli onirici, delle creazioni poetiche, cercando non tanto di interpretarli risalendo a una loro fonte, quanto piuttosto di coglierne il significato attraverso l'individuazione delle interne strutture differenziali. Mentre Bachelard, però, riconosce ancora all'immaginario una funzione complementare rispetto allo spirito scientifico, una radicale alternativa alle concezioni tradizionali sembra essere rappresentata dalla proposta di Lacan; egli individua infatti l'immaginario come il luogo psicologico delle false immagini che l'Io si fa di se stesso, a partire dalla cosiddetta fase dello specchio, investendo e fissando in esse le proprie energie libidiche. Ma queste identificazioni immaginarie sono segnate da un irrimediabile carattere di falsità e sono destinate a continui scacchi e delusioni, mentre la vera storia dell’Io può svolgersi solo al livello di quello che Lacan chiama il «simbolico», caratterizzato dalla mobilità e dalla struttura differenziale che lo lega al linguaggio e alla sua convenzionalità sociale. L’immaginario e, di riflesso, l’immaginazione sembrano perdere in questa dottrina gran parte dei caratteri che erano stati loro attribuiti nella storia del pensiero occidentale.» (Gianni Vattimo, in Enciclopedia Garzanti di filosofia, voce immaginazione 1981)
4.1.2.5. Una quinta (?) tappa. Nella stagione culturale contemporanea e per L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, con la fruizione di massa dell’arte, si proclama il ritorno sociale della immaginazione, dell’arte e della bellezza. «La bellezza è per l’appunto annunzio di un tempo nuovo, l’anticipazione di una gioia da vivere nel qui e ora dell'esistenza.» (Vercellone 2008, Oltre la bellezza p. 154); e in questo contesto si assiste al ritorno di quella terza facoltà che pareva esclusa dal pensiero moderno: oltre alla sensazione e all’intelletto, l’immaginazione; «E diviene qui centrale una facoltà, le cui ascendenze romantiche sono sin da subito palesi: l’immaginazione.» (Vercellone 2008, Oltre la bellezza p.154) «L’immagine assume nuovamente, in questo contesto, uno statuto mitico: è quasi un soggetto. Essa torna ad accompagnare con le sue fattezze e le sue movenze la vita quotidiana. È un mondo paradossalmente privo di emozioni, ma dotato di una grande animazione quello che grazie a Warhol si presenta ai nostri occhi. La bellezza torna a riferirsi agli uomini come una consuetudine; li accompagna passo a passo nella vita di tutti i giorni. È così una sorta di bellezza fredda e democratica, universalmente partecipabile e pubblicamente partecipata, quella che viene ora a prospettarsi. […] La bellezza è tornata a far parte del repertorio «normale»: è nuovamente un’esperienza consueta, «naturale» anche se non appartiene più, come per gli antichi, alla natura fiorente che abbiamo lasciato dietro di noi, ma fa parte di quel paesaggio che ci siamo creati dopo averla piegata alle nostre finalità e lasciata alle nostre spalle. La natura è natura ormai solo in quanto l’abbiamo conquistata e trasformata in immagine come tutto il resto del mondo che condividiamo. Ma è proprio questa la dimensione cui siamo naturalmente assuefatti, che unifica il nostro immaginario, che congiunge — a voler essere enfatici — gli individui e ne fa una comunità davvero universale nel segno della merce e della sua simbolica (quasi) ovunque condivisa…» (Vercellone 2008, Oltre la bellezza p.170,171)
4.1.3. Le tappe (ipotetiche o possibili) di una storia dell’immagine, della sua natura, del suo ruolo e dell’atteggiamento da assumere nei suoi confronti; la riflessione è guidata dalla progressiva consapevolezza della ambiguità plurima dell’immagine.
4.1.3.1. Il riferimento storico d’obbligo: la lunga controversia dell’iconoclastia, in un passaggio.
«È probabilmente proprio questa natura del vedere, così profondamente legata al corpo "fatto della stessa stoffa del mondo", come dice il filosofo francese [Maurice Merleau-Ponty], a fare da sfondo alla problematicità delle immagini. La lunga "guerra delle icone" che divise tra l'VIII e il IX secolo il cristianesimo d'Oriente portava con sé un problema che si è sempre presentato nella storia, e non solo in quella delle religioni o del solo cristianesimo: quello della natura di simili figure. Cos'era, dopotutto, un'immagine sacra? Un artificio atto a favorire nel fedele la rammemorazione di Cristo, della Vergine, dei santi e degli apostoli, o piuttosto una terribile tentazione capace di far confondere le immagini con ciò che esse rappresentavano? La storia di questa guerra non è che un episodio di una ben più lunga diatriba sullo statuto delle immagini, che ha investito tutte le religioni monoteiste (Belting, 1990).» (Fabietti Ugo 2014, Materia sacra. Corpi, oggetti, immagini, feticci nella pratica religiosa, Raffaello Cortina editore, Milano, 189)
Vi è il sospetto, implicito, di una deriva possibile: è in gioco il passaggio dall’immagine al simbolo, dal simbolo alla sua natura totemica e feticistica, dal feticcio alla merce per arrivare al feticismo delle merci anche per le immagini e ai conseguenti comportamenti.
4.1.3.2. Una indagine socio-psicologica. «In un suo celebre studio sul "potere" delle immagini, lo storico dell'arte David Freedberg ha esaminato l'opinione di vari autori cattolici che tra il XV e il XVII secolo si soffermarono sull'opportunità, o meno, di tenere presso di sé delle immagini, sia profane sia sacre. La conclusione di Freedberg è che in tutti questi autori vi fosse "la convinzione implicita che i corpi rappresentati da [tali immagini] godano in qualche misura dello status di corpi vivi" (Freedberg, 1989, p. 27, corsivo mio). La "vita" di questi corpi, che tanto preoccupava gli autori in questione, dipendeva dal fatto che le immagini erano considerate sì qualcosa che rinviava a qualcos'altro (in questo senso le immagini sono pur sempre dei segni), ma anche, e forse soprattutto, come qualcosa che è, che fa, che agisce su quanti le guardano o le toccano, suscitando in loro stati d'animo e motivazioni che potrebbero anche indurli a pensieri e comportamenti che poco avevano a che vedere con le verità e i comandamenti della religione. Freedberg cita, a questo proposito, l'opera del cardinale Giovanni Dominici il quale, nel 1403, pubblicò un trattato intitolato Regola di governo della vita familiare, una parte della quale è dedicata appunto all'uso delle immagini in ambiente domestico, e in cui l'autore esprime idee a quel tempo presenti anche in altri autori. Non è bene, dice tra l'altro il cardinale, tenere nella stanza da letto figure che riproducano persone di cui non si possieda già l'originale, perché la vista di queste figure potrebbe indurre in coloro che le osservano la tentazione di passare, come si direbbe, dagli sguardi ai fatti.» (Fabietti 2014, Materia sacra, 190)
4.1.3.3. La discussione sulla produzione dell’immagine, la produzione stessa e il suo consumo stanno in questa plurivalenza delle immagini: rappresentano, coinvolgono, modificano.
Rappresentano (sempre mimeticamente) e rimandano ad una realtà. Coinvolgono il soggetto chiamato ad essere attivo nella sintesi percettiva e interpretativa. Modificano i diversi atti in cui il soggetto è operativo,la percezione, l’interpretazione, la gestione culturale di ciò che ne deriva. In particolare, la vita propria dell’immagine, la sua personificazione, il suo potenziale di simbolo e, finalmente, la trasformazione del simbolo in immagine finisce per creare una interferenza e non periferica, nel processo soggettivo di costruzione di una immagine di sé personale e sociale.
4.1.3.4. La centralità dell’immagine, nei suoi aspetti estetici tecnici, assume anche un’altra contemporanea direzione: tende a diventare il soggetto della narrazione, è ciò che accade e non l’immagine di ciò che accade. Si tratta di una evoluzione che sorregge le direzioni dell’arte contemporanea e la sua fruizione sociale. Un caso emblematico è dato dall’immagine fotografia, di cui parla a lungo anche Benjamin. «E lo strumento usato a questo scopo — fino al momento in cui la pratica diventa così abituale che l’immaginazione, ormai condizionata, può farlo da sola — è la macchina fotografica. «“Anche il nostro senso di situazione è oggi articolato dagli interventi della macchina fotografica. La loro onnipresenza suggerisce persuasivamente che il tempo è fatto di eventi interessanti, di eventi che vale la pena di fotografare. Ciò, a sua volta, autorizza a pensare che qualsiasi evento, una volta avviato, qualunque siano le sue coordinate morali, ha bisogno di un completamento, perché possa venire al mondo qualcos’altro, e cioè la fotografia”. Lo spettacolo crea un eterno presente di aspettative immediate e la memoria cessa di essere necessaria o desiderabile. Con la perdita della memoria abbiamo perso anche la continuità di significato e giudizio. La macchina fotografica ci solleva dal peso della memoria. Come Dio, ci sorveglia e sorveglia in nostra vece. Ma nessun altro dio è mai stato così cinico, poiché la macchina fotografica registra allo scopo di dimenticare. Susan Sontag individua questo dio molto chiaramente nella storia. È il dio del capitalismo monopolistico.» (Berger John 1980 Sul guardare, B. Mondadori, Milano 2003, 61)
4.1.4. Nel corso della storia, nessuna società è mai stata dominata dai messaggi visivi quanto la nostra. Eppure, paradossalmente, siamo sempre meno capaci di vedere le immagini per quello che sono. Da un lato accettiamo acriticamente i messaggi della pubblicità, dall'altro attribuiamo alle immagini dei quadri del passato un'importanza e un contenuto che va oltre ciò che tali immagini realmente mostrano. Da quando l'opera d'arte è diventata riproducibile attraverso mezzi meccanici, essa ha perso gran parte dell'"aura" che le derivava dall'essere unica e originale. Quello che resta sono le semplici immagini, a prescindere da chi le ha create, e il loro linguaggio, che può essere utilizzato per vari scopi. (come introduzione a John Berger, Questione di sguardi, Feltrinelli).
4.1.4.1. Quelle parole che, dal periodo antico, accompagnano la produzione artistica e ne mettono in luce la complessa natura, delineano l’area entro la quale si configurano le ambivalenze, le ambiguità, le complessità interpretative dell’arte, e soprattutto dell’arte-tecnica (dell’arte nell’epoca della sua produzione e della sua riproducibilità tecnica). «Nel divario tra l’immagine percepita come documento oggettivo e l’immagine trasmessa come interpretazione soggettiva, si nasconde una drammatica ambivalenza tra la realtà e l’artificio. Chi riceve l’immagine supponendo che essa corrisponda alla realtà, si comporta di conseguenza: matura convincimenti ed effettua scelte sociali, economiche, politiche coerenti con la realtà che suppone gli sia stata comunicata e spesso rimane vittima di una menzogna. Molti ricorderanno il pellicano ricoperto dal petrolio che fu un’immagine simbolo della prima guerra del Golfo; qualche anno dopo ci informarono che era un falso. Le immagini della primavera araba ci hanno interessato e commosso come l’alba di nuove democrazie; ma ora, a distanza di tempo, altre informazioni ci dicono che molte di quelle immagini erano false e che, comunque, contrariamente alle speranze non stanno nascendo nuovi stati di diritto ma nuove teocrazie. Siamo stati troppo precipitosi negli entusiasmi e troppo lenti nei ripensamenti. È ingenuo pensare che la fotografia sia una tecnologia neutra, capace di registrare oggettivamente dati della realtà. Le manipolazioni sono tante: avvengono prima dello scatto (messa in scena e messa in posa), durante (cura della fotogenia, messa in quadro, scelta della prospettiva, scelta del momento in cui scattare, esclusione di ciò che sta attorno) e dopo (manipolazione dell’immagine, inserimento in un contesto diverso da quello reale, aggiunta di una didascalia, di un commento o di una musica). La ragione fatica a farsi strada tra le immagini, la realtà e le emozioni.» (Violante Luciano 2013 Politica e menzogna, Einaudi, Torino, 106- 107)
4.2. L’immaginazione ricompare e pretende per sé una centralità e una priorità quasi solitaria nel mondo della civiltà dell’immagine: come l’immagine acquista il centro.
«È un errore continuare a credere che “arte” sia soltanto quella che si venera nei musei o nelle sale da concerto, mentre oggi l’arte [...] è proprio quella che viene diffusa dai mass-media e che viene prodotta con sistemi industriali […] è un errore non dare la dovuta importanza ad alcuni dei fattori dominanti nell'attuale situazione artistica come: la rapidità del consumo, l’obsolescenza, l’usura delle forme e delle immagini e il valore simbolico di tali forme.» Gillo Dorfles, Il consumo delle immagini e la comunicazione artistica.(Carmagnola 2006, 1) (questa le note che seguono sono tratte da Carmagnola Fulvio 2006, Il consumo delle immagini. Estetica e beni simbolici nella fiction economy, Bruno Mondadori, Milano; e da Carmagnola Fulvio 2009 Design, la fabbrica del desiderio, Lupetti, Milano)
4.2.1. Una trasformazione fondamentale e progressiva: dal simbolo all’immagine. «… quando i simboli diventano merci, tutto cambia.» (Carmagnola 2009, 35)
4.2.1.1. il simbolo, come una definizione di accordo di significato. «Noi stiamo vivendo la trasformazione dei simboli in immagini, ovvero la dissoluzione dello spazio o del dominio simbolico» (cfr. Baudrillard) (Carmagnola 2006, 27) e «"immagine" segna la fuoriuscita della produzione artistica dall’alveo secolare della storia dell’arte» (De Seta Cesare 2013 Che cosa resta dell’arte, uccisa da show e mercato (articolo in la Repubblica 30.06.2013, 44-45).
«Il simbolo rappresenta, indica, sta al posto di (di un significato, di un valore), in modo riconoscibile e condiviso per una comunità. Quindi il simbolo non è solo un indicatore, piuttosto “tiene insieme” (syn-). […] “Simbolico” va inteso in senso forte, come una condizione, non come una modalità tecnica della rappresentazione. Simbolico con la maiuscola, come modello sociale e culturale complessivo.» (Carmagnola 2006, 2, 34) Si tratta di uno strumento o progetto identitario che segna e unisce fideisticamente un gruppo, una persona, una visione del mondo…
4.2.1.2. la trasformazione in atto dal simbolico all’immaginario. «Il simbolo, secondo la tesi di questo libro, quando assume carattere “immaginario” cambia la sua natura. Perde la funzione di indicare, di fare cenno a un significato, a un valore riconoscibile. La sua funzione di rappresentanza diventa opaca, intransitiva o indifferente, indiscernibile, e la stessa domanda sul significato («che cosa significa quello che vedo, quello che mi sta davanti?») diventa irrilevante per l’utente.
In questa circostanza quindi la stessa nozione consueta di immaginario deve essere a sua volta riconsiderata. L’immaginario non svolge più la funzione anticipatrice e creativa che viene dalla facoltà di presentificare l’assente, di offrire una sporgenza di senso rispetto al mondo del reale. Piuttosto pertiene a un terzo regno, quello della medialità, che non è altro dal reale e dal quotidiano, non ha più il valore di posizione di un'utopia o di un bene da raggiungere, da tenere di fronte a noi per regolare su di esso le nostre vite e la nostra condotta.» (Carmagnola 2006, 2)
Il processo in atto è dunque quello di una «ricreazione immaginaria del simbolico», «la sua moderna “invenzione”». (Carmagnola 2006, 21, 22) «…l’immaginario è il luogo, il territorio, il contenitore o l’archivio dei simboli.» (Carmagnola 2006, 25) Dunque l’espressione che riunisce il passaggio in atto: «simboli immaginari» (Carmagnola 2006, 25). Ma con una precisazione: «l’immaginario non è che il simulacro del simbolico, lo spettro di un cadavere.» (Carmagnola 2006, 38); ha natura e funzione finzionale.
4.2.2. Estetica come economia, un’economia “finzionale”.
«L’ipotesi … è che il simbolo e il simbolico, trasformati in immagine e immaginario, siano diventati la componente specificamente estetica che contribuisce al buon funzionamento dell’attuale economia. Potremmo di conseguenza definire l’economia attuale sia come postfordista sia come immaginaria o finzionale.
Definisco l’economia finzionale come quella situazione nella quale i prodotti dell’immaginazione (fiction) hanno smesso di rappresentare forme di alterità — secondo il luogo comune romantico che intende l’immaginazione come facoltà di differenziazione, di creazione distanziante, potenza creativa di anticipazione utopica — per diventare il nuovo punto chiave dei processi di valorizzazione. È per questo che mi sembra impossibile una dimensione estetica senza la critica dell’economia politica.» (Carmagnola 2006, 5) «Esistono “merci di culto” che hanno una storia, ma questa storia può essere a sua volta inventata, prodotta dalla fiction mediale — ecco una delle motivazioni dell’uso del termine “economia finzionale”.» (Carmagnola 2009,34) Quindi la tesi generale fondata su di un doppio processo in atto: «I cambiamenti, le derive, gli slittamenti vanno almeno in due direzioni: la prima potrebbe essere definita come un’opacizzazione del simbolico, la seconda come una sua dislocazione, più precisamente un passaggio nell’economico (economia del simbolico, o più precisamente economia dell’immaginario…).» (Carmagnola 2006, 26)
In questa economia finzionale il ruolo indispensabile dell’apparenza come fattore di creazione di valore: «L’apparenza è diventata una delle componenti necessarie delle strategie di produzione (post)industriali […] l’apparenza è diventata parte della struttura della merce.» (Carmagnola 2009, 21,24) «… l’apice dei processi di valorizzazione delle merci si è spostato dal pesante al leggero, dall’hardware al software — dalla quantità di lavoro socialmente necessario incorporata nei prodotti, alla quota di “immaginario sociale” che il prodotto è in grado di portare su di sè e di comunicare all’utente sollecitandone il desiderio.» (Carmagnola 2009, 32)
4.2.3. Il consumo e la valorizzazione a partire dal desiderio.
«È il marginalismo … che assume «la nozione di desiderio come fonte del valore». In corrispondenza con la teoria del desiderio, il valore diventa soggettivo, «un'illuminazione delle cose sotto il raggio proiettato dal nostro desiderio» (Goux, 2000). Il valore regolato sul desiderio perde stabilità, fluttua, diventa frivolo, ma nello stesso tempo la frivolezza acquista valore. Un altro modo per dire la stessa cosa: la valorizzazione economica degli aspetti immateriali, immaginari, simbolici appunto.» (Carmagnola 2006, 17) [detto alla Kant, si passa dal giudizio determinante al giudizio riflettente per definire il valore… e la merce entra nei confini dell’estetico e dell’arte]
4.2.3.1. La dinamica della valorizzazione attraverso il consumo e l’estetizzazione dell’economia.
«Ma che cosa, propriamente, produce il consumo? Potremmo dire: il consumo partecipa alla rielaborazione delle icone narrative mediali dell’immaginario. I consumatori rimescolano e ricombinano le icone delle brand, sono loro che mettono in comunicazione i differenti territori della medialità. In questo senso, come molti di questi interpreti concordano, il tempo del consumo è partecipe della generazione di valore. Questo tempo informale, non calcolabile, privato, entra nel meccanismo stesso della produzione, è un analogo del lavoro nero, inclassificabile, che sfugge alle statistiche ma partecipa alla produzione di ricchezza sociale. Bisognerebbe allora considerare come il general intellect produttivo esteso al sociale sia in accoppiamento strutturale con la specifica tonalità estetica del consumo. L’estetizzazione del mondo della vita entra a far parte della produzione allargata. Intelletto diffuso e sensibilità estetica diffusa, intelletto e gusto, tonalità cognitiva e tonalità estetica, rigorosamente tenute distinte da uno dei fondatori del pensiero moderno, Immanuel Kant, tendono a fondersi o almeno a comparire come declinazioni complementari di una pratica sociale che le comprende entrambe.» (Carmagnola 2006, 20)
«L’economia, dal punto di vista della merce e del consumo, è dunque finzionale, nel senso di immaginaria…» (Carmagnola 2006, 23)
«… è solo con il capitalismo moderno che il sistema di promozione dei beni diviene centrale, tanto che la stessa produzione di merci oggi avviene in vista di un pubblico di consumatori e in riferimento a un'immagine del prodotto costruita essenzialmente per vendere. I nuovi mezzi di comunicazione che hanno via via caratterizzato il consolidarsi della società moderna - dai giornali alla radio, dalla televisione a Internet - si sono configurati tutti, oltre che essi stessi come beni di consumo, anche come veicoli per lo sviluppo del sistema promozionale, ospitando e diffondendo richiami pubblicitari di ogni genere. […] Se con cultura si intende l'insieme delle pratiche significative mediante le quali gli attori sociali si orientano nel mondo, con cultura materiale si vuole intendere l'insieme degli oggetti, artefatti o meno, che vengono dotati di senso da tali pratiche e che, a loro volta, contribuiscono a dar senso alle pratiche stesse: è un concetto che supera la distinzione materiale/simbolico e che sottolinea che gli oggetti fanno parte di un sistema di significati aperti che richiedono un'attività di messa a punto da parte dei soggetti.» (Sassatelli Roberta 2004 Consumo, cultura e società, il Mulino Bologna, 12, 13)
4.2.4. L’importanza del passaggio dal simbolo all’immagine per il processo di valorizzazione.
«La condizione per lo sviluppo di una economia del simbolico — dove le componenti immateriali di creazione di senso si trasformano in elementi effettivi del processo di valorizzazione economica — è che il simbolico stesso cambi la sua natura. Ecco l’importanza di quelle posizioni che sottolineano la differenza tra le (ipotetiche) società basate sullo scambio simbolico e le attuali declinazioni immaginarie del simbolico, che mettono in risalto dunque la differenza tra simbolico e immaginario.» (Carmagnola 2006, 20-21)
Analiticamente, è in atto un doppio passaggio nell’oggetto che diventa merce nella società dei consumi: una realtà materiale 1. è prodotta in relazione ad un bisogno (esistente o creato da lei stessa); 2. si carica di una funzione simbolica, cioè di un significato che va oltre la relazione tra merce e bisogno in termini di uso, creando tuttavia un bisogno nuovo che colloca la merce stessa in un nuovo circuito del consumo, essa è consumata come simbolo. Sulle tematiche segno / simbolo osserva Ugo Fabietti: «Oggetti-segno e autorità dei simboli. Si può "credere" in un oggetto solo a una condizione: che esso funzioni come simbolo di qualcosa. […] Il motivo di ciò è che la funzione simbolica non è per nulla in contrapposizione al piano materiale ma, anzi, lo rende significante, in quanto quest'ultimo, qualora mancasse di una qualche interpretazione, nemmeno esisterebbe. Con la complicità di Peirce possiamo dire che un simbolo è un segno che si rivolge a qualcuno evocando in quest'ultimo qualcosa di più ampio della cosa indicata dal segno medesimo. […] un segno … è tale solo perché è possibile interpretarlo come tale, … esso è capace di generare, nella mente di una persona, "un segno più sviluppato", quello che noi chiameremo qui un simbolo. Un segno indica dunque qualcosa per qualcuno, non per chiunque. Bisogna infatti che quel qualcuno sia in grado di riconoscerlo come "qualcosa che significa"». (Fabietti Ugo 2014, Materia sacra. Corpi, oggetti, immagini, feticci nella pratica religiosa, Raffaello Cortina editore, Milano, 42-43)
La relazione merce – segno – simbolo – immagine e la direzione biunivoca del legame. Nei prodotti dei sistemi economici finalizzati ad un alto consumo, è difficile non attribuire ad un prodotto la triplice veste di merce, segno, simbolo ed è difficile decidere quale dei tre sia commercialmente più efficace. Un oggetto è merce soddisfa un bisogno, segno di andamento dell’economia, simbolo di uno status sociale. Ma, nell’economia in cui tutto può diventare merce, la dinamica può attuarsi in senso contrario: un simbolo (ad esempio una croce), può essere segno (di appartenenza), può diventare merce (un gioiello di marca; che se è considerata merce da esibire è merce e, in altro modo, ancora simbolo).
4.2.4.1. Il simbolo è immagine mediale, consumata nella medialità, logo e brand in vendita.
«I simboli per diventare parte del processo di valorizzazione devono diventare icone dell’immaginario mediale, significanti liberati dal loro primitivo vincolo sociale e culturale, dal loro valore di comunità (Nancy, 1995). Non più portatore di valori e condivisi, non più ancorato a un riconoscimento codificato — il leone e la forza, la volpe e l'astuzia, il capo indiano e la dignità — il simbolo si trasforma allora in logo, icona delle brand, fluttuante nell’etere mediale, terminale aperto predisposto ad associazioni vaghe ma sufficienti per costruire una catena semantica indeterminata, per tenere desto il desiderio che gravita intorno al sistema della moda, del design, della merce in generale. Nuovi miti, nuovi (deboli) riti, per parafrasare il titolo di un’opera di Gillo Dorfles, vero e proprio precursore nell’osservazione di questi complessi fenomeni (Dorfles, 1965, nuova ed. 2003).» (Carmagnola 2006, 21)
Come esempi: Pontiac, e la testa di un capotribù pellerossa, «è una brand della multinazionale dell’automobile General Motors. […] campeggia una testa di indiano, come l’angelo sul cofano delle Rolls inglesi, o il cavallino sulle Ferrari.» (Carmagnola 2006, 21). L’immagine del “Che” o di Einstein non impegnano più politicamente o scientificamente chi le porta, le tag dei writer sulle magliette non fanno un writer o un contestatore, una croce appesa come gioiello al petto non fanno un cristiano (vedi ad esempio la abbondante simbologia religiosa [già nel nome] di “Madonna”), la falce e martello ripresi da Andy Warhol non ne fanno un filosovietico.
«… i nostri luoghi comuni, nei quali immagini, miti, simboli, convivono pacificamente come sinonimi nel “grande logo” che ogni cultura rappresenta e possiede — con punti condivisi, universali, e punti particolari, tipici di ognuna…[…] I conservatori francesi si sbagliavano dunque, almeno in questo: che l'immagine del “Che”, nelle culture giovanili, tende a somigliare a quella di una galleria di personaggi che va da Jim Morrison a Gesù Cristo, da Madonna agli Iron Maiden o alle motociclette di Easy Rider, più che al rivoluzionario e al combattente nella giungla boliviana. Non c’è molto di politico in questa immagine, ovvero non si tratta più di un simbolo, se non per una minoranza — e forse, paradossalmente, nemmeno per loro. Il terreno dell’immaginario, infatti, a differenza del terreno del simbolico, è transpolitico. Questa differenza tra simbolico e immaginario può contribuire a chiarire molti aspetti legati al ruolo dei media nel presente.» (Carmagnola 2006, 26, 27) «Per questo, l'uso immaginario delle immagini si distingue dall'uso simbolico delle stesse: è in ogni caso un uso non religioso, non politico (o postpolitico, se si preferisce): volendo essere nostalgici possiamo chiamare questo fenomeno “perdita del sacro”.» (Carmagnola 2006, 29)
4.2.5. L’immagine (il/la brand) è l’oggetto in vendita, ed è un oggetto estetico, vetrinizzato per il desiderio, ostentato per la sua fruizione piacevole di massa, e forma l’apparire di una economia finzionale mediale estetizzata di massa. «Immaginario e merce mediale sono la stessa cosa.» (Carmagnola 2006, 40)
«C’è dunque un’economia finzionale e c’è un capitalismo dell’immaginario, una capitalizzazione, una messa-a-profitto della capacità di finzione degli esseri umani. L’economia finzionale mette in opera o valorizza da un lato la mente collettiva, dall’altro l’aspetto sentimentale della merce.» (Carmagnola 2006, 23-24) Individui e singolarità che danno molto del loro, con entusiasmo, spirito di iniziativa e accanimento esibizionistico, nel sentirsi realizzati in un immaginario collettivo mediale condiviso, adeguatamente estetizzato secondo i canoni dominanti dell’immagine considerata occasione “imperdibile”. «Avviene insomma per il design quanto avviene in tutto il mondo delle Brand la forma come (plus)valore di mercato, integrata perfettamente nelle strategie di marketing globale. […] Non basta dire che un bene è simbolico o diventa simbolico — anche un bene funzionale può acquisire questa qualità — quando la sua utilizzazione è “rituale”, ovvero quando il suo possesso, il suo uso, non serve a “bisogni” funzionali, ma fa entrare l’utente, il possessore, in un dominio di comunicazione e di apparizione che mette in luce, indica, segnala una dimensione di gusto, di status o di stile di vita — un ethos insomma — che si esprime attraverso le apparenze della merce. Espressioni come “marketing tribale” si riferiscono appunto a questo potere di rappresentanza dei beni simbolici in relazione a gruppi, a collettivi fisici o virtuali che ne fanno il loro segno di riconoscimento […] Il loro esser simboli di- (di che cosa, ancora non lo sappiamo) anzi la loro potenzialità di simboli entra a far parte della catena del valore. Della loro appetibilità sociale. E dunque del prezzo che il consumatore è disposto a pagare per averli. E del profitto dell’azienda che li produce. In realtà dunque il valore di scambio non viene eliminato, anzi riemerge prepotentemente.» (Carmagnola 2009, 22, 27, 28) E riemerge in forma paradossale: «… nella strana circostanza attuale nella quale, come ha spiritosamente notato Slavoj Žižek, non è il valore che determina il prezzo, ma al contrario, il prezzo determina il valore: che cosa accadrebbe infatti se una borsa di Prada o un vestito di Armani o una Ferrari o un pranzo da Cracco costassero “troppo poco”? Conseguenza paradossale: varrebbero meno...» (Carmagnola 2009, 40)
4.2.6. Come conclusione sul tema:
4.2.6.1. in pessimismo: «Le immagini sono a loro volta brandelli dell’immaginario, cioè frammenti caotici che hanno spezzato il legame di coappartenenza e con un sistema di significati e valori e che restano, per così dire, significanti opachi e disponibili, turbinanti nell’universo mediale, soggetti a scelte arbitrarie (o “di puro gusto”).» (Carmagnola 2006, 28, 29)
4.2.6.2. in ottimismo: Ma questa loro liberazioni dai canoni rigidi di un simbolico, magari usato come cemento comunitario indiscutibile e dogmatico, non ha nulla di catastrofico o di perdita identitaria; non deve alimentare nostalgie, che come ogni nostalgia è privata della possibilità di un ritorno di ciò o verso ciò che si è perduto. È materiale delle macerie storiche, come da sguardo dell’Angelus Novus di Benjamin, messo a disposizione della libertà per nuove e responsabili costruzioni. Più che dissacrazione barbara è disvelamento di una finzione storica costrittiva affidata spesso al feticismo dei simboli. In questo senso, che appare di dissacrazione, in realtà proprio la tradizione continua per ciò che grazie ad essa riusciamo liberamente a progettare, fedeli alla sua stessa ottica ed etica costruttiva. «È infatti ciò che accade, oggi, nel dia-bolizzarsi dei simboli, nel loro trasformarsi da syn-bolon, desiderio di co-appartenenza in un comune universo (Sini; 1989 e 1994) a dia-bolon, fantasma vagante e opaco, disponibile a innumerevoli accoppiamenti (l'osservazione è di Michel Tournier).» (Carmagnola 2006, 29-30)
«Ho accennato all’inizio a due movimenti di slittamento del tradizionale universo simbolico: il primo va in direzione dell'opacizzazione, cioè un divenire immaginario del simbolico. La seconda direzione, come si è detto poc'anzi, è invece una dislocazione in direzione dell’economico. Le espressioni “economia delle esperienze”, o feeling economy, o “economia del simbolico” (dell’immaginario) o ancora “economia finzionale” alludono a una medesima circostanza: il fatto che da un lato il visibile, l'iconico, il percettivo in generale si sono slegati dall'appartenenza simbolica, e dall'altro, nel regime dell’immaginario, è venuta meno qualsiasi pretesa di alterità — così era appunto il sogno romantico che l’arte e in generale gli universi immaginativi costituiscano un continente immune dalla violenza della razionalità economica, tecnocratica e strumentale.
La modificazione storica del sistema dei simboli li trasforma in icone opache e la loro dislocazione dal simbolico all’immaginario li rende artefatti maneggevoli — precisamente nel senso del management. E “management dell’immaginario" può appunto definirsi l’insieme dei sistemi mediali che costituisce l'attuale ambiente narrativo, capace di passare indifferentemente dal fumetto al cinema, dal videogame al romanzo, dai vecchi ai nuovi media e così via. […] I simboli, dunque, continuano a sopravvivere in un certo statuto, ma il Simbolico non è più tra noi ad animare la comunità.» (Carmagnola 2006, 32-33)
4.3. Immagine o la seduzione della visibilità e le possibilità “salvifiche” dell’arte.
Il ruolo dell’arte nel salvare l’immagine come ambito di realizzazione della funzione estetica, tratto strutturale antropologico, funzione sociale culturale, espressione e costruzione di bellezza.
4.3.1. L’immaginario, nella sua intrinseca natura di finzione (finzionale) ha in realtà anche l’efficacia, come funzione, di mettere in luce e denuncia la finzione che è presente in quel simbolico che sembra distruggere o trasformare; ne svela in realtà l’intrinseca essenza storica; mette in luce come ogni uso del simbolico è prodotto dell’immaginario; un immaginario che si serve dell’affermazione della natura sacra del simbolico solo a scopi doppiamente finzionali: nasconde la intrinseca finzionalità del simbolico, vuole celare l’operazione strumentale del simbolico che intende mettere in opera, ingannando e celando l’inganno. L’immaginazione, nel suo essere finzionale, svela dunque: «come il simbolico sia, già dall’inizio, una finzione, è reso oggi manifesto proprio dalla sua versione farsesca, il racconto pseudomitico dell’immaginario, che tradendo il simbolico ne svela i presupposti finzionali presenti fin dall’inizio. L’immaginario sarebbe allora la verità del simbolico finalmente disvelata, secondo la quale non c’è origine: l’origine era una finzione necessaria e ora è diventata un gioco perverso.» (Carmagnola 2006, 38) «L’immaginario allora non è solo la perversione del simbolico ma il suo [del simbolico] diventare, finalmente, consapevole di sé. La via dell’immaginario postmoderno è anche la fine possibile di quell’autoinganno della coscienza moderna al quale, secondo Nancy, abbiamo finora aderito. Forse i simboli sono sempre stati immaginari. Il fatto che ora ce ne accorgiamo, grazie all'avvento della cultura mediale, può essere fonte di lutto ma anche di liberazione.» (Carmagnola 2006, 42).
4.3.2. Nella situazione contemporanea, in cui l’ansia e la corsa alla visibilità diventa la corsa ad inserire se stessi e scomparire nei mass-media: massima visibilità e massimo controllo, la riflessione estetica diventa analisi di come l’arte possa presentarsi come una strada di salvezza possibile.
La seduzione della visibilità è il tema di una raffinata analisi di Bauman Zygmunt, Sesto potere. La sorveglianza nella modernità liquida (Liquid Surveillance. A Conversation), Laterza, Roma-Bari 2014: «Quanto alla «morte dell’anonimato», di cui Internet ci fa gentile omaggio, la storia è leggermente diversa: in questo caso siamo noi, per nostra volontà, a mandare al massacro il nostro diritto alla privacy.»
4.3.2.1. Si incontrano qui due processi (opposti) la volontà di controllo totale (da parte del potere, i droni), la volontà di visibilità totale (da parte degli individui, Internet e piazze virtuali: facebook, twitter, blog…) «Io credo che la caratteristica più saliente della versione contemporanea della sorveglianza sia il fatto che è riuscita in qualche modo a costringere e persuadere gli opposti a lavorare all’unisono, a metterli tutti al servizio della stessa realtà. Da una parte, il vecchio stratagemma panottico («non saprai mai quando osservano il tuo corpo, e in tal modo la tua mente non smetterà mai di sentirsi osservata») viene implementato, gradualmente ma in modo coerente e apparentemente inarrestabile, su una scala pressoché universale. Dall’altra parte, ora che il vecchio incubo panottico di «non essere mai soli» ha ceduto il posto alla speranza di «non essere mai più soli» (abbandonati, ignorati e negletti, bocciati ed esclusi), la gioia di essere notati ha la meglio sulla paura di essere svelati.»
4.3.2.2. La volontà di visibilità totale porta all’estremo la logica della commercializzazione: al primo feticismo delle merci (le merci si comportano come persone: Marx) subentra la mercificazione delle persone (il soggetto diventa promotore di sé come merce) «Essi sono promotori di merci, e al tempo stesso le merci che promuovono.»; promuovendo se stessi come merci nella rete/società della visibilità totale in autopromozione. Paradossalmente, l’eccesso della visibilità, una visibilità totale universalmente estesa, annulla la visibilità stessa, la possibilità di essere notati, crea una (frustrante, ma potrebbe rivelarsi consolante e rassicurante) situazione di solitudine proprio quando si è all’interno di enormi flussi sociali comunicativi (si è certamente più soli in una metropoli come Parigi, che in un piccolo comune di provincia). (Bauman Zygmunt, Sesto potere. La sorveglianza nella modernità liquida (Liquid Surveillance. A Conversation), Laterza, Roma-Bari 2014, 6-20 passim).
4.3.2.3. Le raffinate violenze o la specifica violenza dell’immagine (cfr. in proposito Baudrillard Jean Violenza dell’immagine violenza contro l’immagine in Baudrillard Jean L’agonia del potere, Mimesis, Milano 2008, citazioni con commento e utilizzo libero).
Il dato contraddittorio: l’universale mostrare e la necessaria visibilità contesto di scomparsa di ciò che si mostra. «Tutto deve esser visto, tutto deve essere visibile. L’immagine è il luogo per eccellenza di questa visibilità. Tutto il reale deve convertirsi in immagine, ma quasi sempre è a costo della sua scomparsa.» (p. 39) Farsi immagine e immagine totale, per la totale visibilità, è il reificarsi come immagine; scompare dall’immagine la funzione del rimando alla realtà di cui è immagine, scompare completamente la sua funzione mimetica; in tal caso è l’immagine che si reifica, diventa infatti una second life (ma a volte addirittura prima, per il tempo di vita e la rilevanza emotiva e di coinvolgimento che essa assume), fino a diventare un avatar di se stessi e forse lì la vera vita esteticamente e sentimentalmente desidera e sognata.
Sul tema due passaggi e due posizione tra loro molto divergenti: il virtuale fa emergere il reale portandone in visione la potenza nascosta o fa sparire il reale proprio (e per assurdo) in forza di una totale visibilità che è solo regno, potenza e violenza dell’immagine? [1] una presentazione problematica, [2] una riflessione critica.
[1] L’essenza dell’arte è gestione di forme, di immagini ed è immaginazione ma immaginazione interattiva; da questo punto di vista essa sembra avere il proprio massimo potenziamento nel mondo della forme di una realtà virtuale. «Da un punto di vista semplice, esteso e primario, "corpo virtuale" è per esempio qualsiasi oggetto-immagine visibile attualmente e più comunemente sullo schermo di un computer, che consente un'interazione tale da modificarlo, almeno nel senso di azionarlo, costituirlo come evento specifico. […] si tratta della rappresentazione dell'utente e dei suoi comportamenti, del suo alter ego virtuale: io, utente di questo ambiente specifico, prendo figura dentro di esso, appaio nello schermo come rappresentazione grafica di me stesso; in tale ambiente agisco, e il mio corpo-rappresentante virtuale, per mezzo di opportuni strumenti, svolge i compiti che gli ordino. Quanto l'avatar compie ha impatto sull'ambiente virtuale e lo modifica; tale ambiente è connettivo, a esso partecipano diversi avatar, che possono interagire. […] quale "senso" dello spazio può avere (posso io avere attraverso) un (il mio) avatar? Il corpo umano non ha un senso omogeneo o meramente geometrico dello spazio, stabilito soltanto da distanze misurabili, lo spazio per noi è disomogeneo, denso e, come il tempo, sempre qualitativo, e questo è un problema per i programmatori.» (Diodato Roberto 2005, Estetica del virtuale, B.Mondadori, Milano, 7-9) Diventa qui determinante una conoscenza e gestione estetica della percezione: ambienti e corpi virtuali sono in grado di produrre esperienze percettive nell’utente non solo e non tanto per simulare ambienti reali, ma per «aprire le possibilità artisticamente rilevanti della virtualizzazione dell’immaginario […] il virtuale è il principio attivo, il rivelatore della potenza nascosta del reale. È ciò che è in opera nel reale.» (Diodato 2005, 15, 16 citazione di P. Quéau).
[2]«La violenza dell’immagine (e, in generale, dell’informazione o del virtuale) consiste nel far sparire il Reale. Farsi immagine è esporre tutta la propria vita quotidiana, tutte le sue disgrazie, tutti i suoi desideri, tutte le sue possibilità. E non mantenere nessun segreto. Parlare, parlare, comunicare instancabilmente. Questa è la violenza più profonda dell’immagine. È una violenza che va in profondità, all’essere particolare, al suo segreto. Al tempo stesso è una violenza contro il linguaggio che, a partire da questo momento, perde anch’esso la propria originalità; non è nient’altro che un operatore di visibilità, nient’altro che un medium, perde la sua dimensione ironica di gioco e distanza, la sua dimensione simbolica autonoma: quella in cui il linguaggio è più importante di ciò che dice.» (Baudrillard Jean 2008, p.40) La condizione necessaria per entrare a far parte dell’immagine è l’azzeramento della propria realtà, il farsi simili, distruggere una propria autentica “immagine” (diventare mìmesis omologata, farsi imitazione e gestire con accanimento, anche estetico, una distruzione di sé). Se tutto deve essere visibile, tutto è dato al vedere ed è istantaneo nella (e per) la sua insignificanza; il darsi al vedere passa attraverso l’azzeramento delle differenze o la piena integrazione nella logica della società dello spettacolo (vedi il numero dei partecipanti a quegli eventi che si sa vengono trasmessi dai media: la frequenza è in rapporto alla garanzia della visibilità, seppur momentanea e insignificante, come il salutare con la manina, ripetere le banalità richieste e attese.) «Anche l’immagine è più importante di quello che dice: è ciò che si dimentica, ed è anche, oltre che della violenza dell’immagine, la fonte della violenza contro l’immagine…. Ci si fa nulla con il fine di essere visti e guardati come nulla — estrema protezione contro la necessità di esistere e l’obbligo di essere se stessi.» (Baudrillard Jean 2008, p.40, 41) «… realtà virtuale è un'idea piuttosto banale. Non ci fa pensare a niente. Realtà virtuale significa: "Guarda come siamo bravi a generare un'apparenza con i nostri giochini tecnologici e come alla fine possiamo considerare tale apparenza una realtà". Ritengo sia più preoccupante la realtà del virtuale. Il virtuale è qualcosa, ma non il tutto, è, se così vogliamo vederla, l'effetto concreto del reale. Qui sta il vero problema.» (Slavoj Žižek in Badiou Alain, Žižek Slavoj 2005 La filosofia al presente, il melangolo, Genova 2012, 34).
4.3.3. Le possibilità “salvifiche” dell’arte (l’arte e la salvezza dell’immagine, dell’estetica e del loro ruolo) o come l’arte possa essere nella condizioni di restituire all’immagine un ruolo mimetico, non passivo ma di rimando e di relazione; mimetico dell’essenza della natura: il suo manifestarsi; come l’arte affianchi e assecondi tecnicamente l’aprirsi della realtà alle forme imprevedibili delle proprie possibilità [in questa direzione ricompaiono in sintesi imprevista e come prime comparse le impostazioni di Platone, Aristotele, di Kant e di Benjamin]. Al contrario e a contrastare le derive precedenti occorre ripristinare una possibilità e un cammino di rilancio produttivo dell’arte e dell’estetica: il ruolo dell’arte, in particolare della pittura e della poesia per l’immagine. La pittura (la poesia, l’arte) è la salvezza dell’immagine (del senso: della sensibilità e del significato); la pittura (la poesia) colloca nel visibile (nel dicibile; il possibile verosimile imprevedibile) ciò che è e resta invisibile (indicibile), lo fissa in un’immagine (parola) immobile che però rimanda ad una continua mobilità dei e nei richiami; la pittura (la poesia) è dunque la cura del vedere (dire), la salvezza dell’immagine in una società del vedere e dello spettacolo (del parlare e del dibattere, dei talk show) in cui il diventare immagine (e il prendere la parola, l’essere portavoce) è pagato al prezzo della distruzione del significato dell’immagine stessa (e della parola), annullata un una ripetizione in copie (stereotipi) prevedibili e preordinate. C’è dunque immagine e immagine (parola e parola). La pittura (l’arte, la poesia) salva l’immagine (la parola) come comparsa originaria, prima e profonda (sempre interpretabile) della realtà solo se liberamente dilata e moltiplica le proprie forme e amplia imprevedibilmente gli ambiti della propria presenza fino all’utopia di una società ispirata dall’amore per la bellezza e le sue cangianti forme. «L’immagine sarà per cogliere il vero.» (Platone, Simposio 215a)
4.3.4. Quest’ultima tesi può rilanciare di nuovo l’ipotesi di una situazione utopistica:
4.3.4.1. «L'estetica diffusa è, in conclusione, un'impresa incompleta; potrebbe essere la salvezza dell'umanità, immergendola nella felicità, se caratterizzasse il modo di vita di ogni individuo sulla terra, in quanto, una volta liberatosi dalle difficoltà della so¬pravvivenza propria e della propria prole, sollecitato ad un comportamento ritualizzato continuo, impegnato in una festa perenne di scienza, musica, danza e arti, non avrebbe più tempo per pensieri di guerra e per conflitti personali e col¬lettivi, inverando l'antico sogno sociale di un'umanità appa¬gata. Un'umanità che potesse riappropriarsi della tecnica, ri¬trasformandola in un mezzo, e ridistribuendo l'infinita ricchezza del mondo nell'utopia politica dell'equità.» (Francalanci, Ernesto L. 2006 Estetica degli oggetti, il Mulino, Bologna)
4.4. La fine o il fine dell’arte, alla ricerca delle possibilità salvifiche dell’arte. Si “avvera” la profezia di Hegel sulla “fine” dell’arte; che coincide però con il suo trasferimento di sede, di forme, di fruitori. «Hegel con la fortunatissima dizione di "fine" dell’arte, poi divenuta icasticamente "morte dell’arte", non intende dire che non ci sarà più poesia o pittura nella civiltà del tempo che vive, ma piuttosto che lo "spirito del mondo" non trova più consapevole espressione in esse, come è accaduto per millenni: l’arte è trascorsa in altre forme. […] Sta di fatto che la profezia romantica è divenuta realtà, l’arte parla a pochi e gli artisti si parlano addosso. […] L'arte, sprofondata nell’abisso acefalo del mercato, ci riconduce nelle braccia di Walter Benjamin […] Natura e cultura, tecnologia e immagine si rincorrono, e rischiano di mettere in crisi il già sacro valore contemplativo dell’arte. […] L’arte assume così un carattere interattivo, non più contemplativo, nato esso stesso dalle tecnologie più avanzate e in impetuosa trasformazione. […] Ad un’arte contemplativa e, dunque, da museo, succede un’altra prefigurazione dell’immagine nel nostro tempo che estende le sue potenzialità a tutto l’universo artificiale: compresa architettura, e paesaggio, e non solo arte da galleria o da museo. […] Amen! Disse l’angelo della storia di Benjamin, e vorremmo poter condividere il suo ottimismo, anche perché a questo mondo dell'arte in tanti abbiamo dedicato molti anni della nostra vita. Ma l’incombente dominare del mercato e della società dello spettacolo, dell'arte come show e choc permanente, non induce a fondate riserve e a molta cautela?» (De Seta Cesare 2013 Che cosa resta dell’arte, uccisa da show e mercato, articolo in la Repubblica 30.06.2013, 44-45)
Alla ricerca della strada per l’efficacia della funzione educativo-salvifica dell’arte in una civiltà dell’immagine diventa necessario segnalare la base antropologica di quello scopo e, in particolare, le caratteristiche e le potenzialità, naturali e supportate tecnologicamente, della percezione e della immaginazione.
4.4.1. Il contesto storico: l’eccesso di offerta di immagini in rapporto alla sua gestione tecnico figurativa e simbolico concettuale.
«Non era mai accaduto prima, nella storia dell'umanità, che un così grande numero di immagini fosse reso accessibile a un numero quasi altrettanto grande di persone dotate della competenza sufficiente per raggiungerle, scaricarle, condividerle, archiviarle ma anche - e questo aspetto è ancora più importante - per produrle, manipolarle e caricarle in rete. Andate su Instagram o su Mixbit, se non l'avete mai fatto, e vi renderete conto della stupefacente quantità ed eterogeneità dei materiali audiovisivi che ci troverete: ma anche della loro altrettanto straordinaria facoltà di trasformarsi negli elementi di un repertorio che, come minimo, possono essere montati e rimontati in sequenze o in percorsi. Come minimo. E come massimo?
Non ci sarebbe forse la possibilità di prevedere un diverso futuro - diverso, intendo, dalla semplice pratica del caricare in rete e condividere materiali più o meno "espressivi" - per la nostra attuale familiarità con la produzione e l'uso delle immagini? Non ci sarebbe, in altri termini, la possibilità di pensare che i processi di alfabetizzazione spontanea relativi a questa eccezionale (e di certo irreversibile) opportunità tecnica, già da qualche tempo partiti in modo disordinato, rapsodico e sostanzialmente dipendente dalle procedure di default predisposte dai sistemi in uso, possano essere indotti ad assumere linee di sviluppo che li facciano somigliare alle procedure complesse con cui elaboriamo il senso - e molte altre cose ancora, a partire dal dolore e dalla perdita, che sono i prototipi di ogni esperienza elaborativa? O non sarà vero, al contrario, come molti sostengono, che questo commercio con le immagini è destinato a non sapersi innalzare al di sopra del balbettamento e della ripetizione di modelli di basso o infimo profilo, oppure a segregarsi in nicchie regressive e autoreferenziali?
Io sono convinto che bisognerebbe, in ogni caso, accettare la scommessa e provare a vedere a quali condizioni si potrebbe sperimentare una versione elaborativa della nostra attuale competenza di produttori e utenti di immagini. E se per caso queste condizioni non siano per niente diverse, in ultima analisi, da quelle che definiscono lo statuto della nostra immaginazione. La quale ha la tendenza a esternalizzarsi in una tecnica (o in diverse tecniche) e a farsi potentemente istruire e guidare nella sua interazione col mondo reale da questi processi di esternalizzazione tecnica senza perdere la sua attitudine creativa e anzi, come cercherò di mostrare, incrementandola».
(Montani Pietro 2014, Tecnologie della sensibilità. Estetica e immaginazione interattiva, Raffaello Cortina editore, Milano, 11-12)
4.4.2. La base antropologica generale: le direzioni dell’immaginazione relative alla sensibilità.
«La nostra immaginazione, infatti, è allo stesso titolo riproduttiva (un dispositivo che conserva e richiama ciò che ha conservato), produttiva (un dispositivo che ricombina, integra, progetta e configura) e interattiva (un dispositivo che incide sulla modificazione dell'ambiente facendosi guidare da ciò che vi trova o da ciò che vi scorge e vi proietta). Mi occuperò dello statuto interattivo dell'immaginazione …sottolineando in particolare il suo essenziale radicamento nella sensibilità dell'essere umano (che è del tutto caratteristica e presenta requisiti specie-specifici) insieme alla sua spontanea attitudine a farsi rappresentare e indirizzare dalle protesi tecniche nelle quali la sensibilità umana si prolunga in modo altrettanto spontaneo e costitutivo.» (Montani 2014, 12)
4.4.2.1. Occorre pendere in esame la centralità e la rilevanza (soprattutto contemporanea) della sensibilità ampliata sotto la conduzione e gestione dell’immaginazione interattiva, a sua volta sostenuta da una strumentazione tecnologica con cui entra educativamente ma naturalmente e per abitudine spontanea in cogestione e sintonia; come accade alla generazione dei cosiddetti “nativi digitalizzati” la cui sensibilità, capacità e modi di reazione agli stimoli, direzioni e tempi della progettazione, risulta essere qualitativamente modificata e dunque diversa dalla gestione della sensibilità propria di generazioni a loro precedenti. Una tecnologia destinata ad intervenire potentemente «sulle capacità elaborative imputabili all'immaginazione e all'immagine»; occorre studiare come e in quali direzioni.
4.4.2.2. È necessario quindi «esplorare più dettagliatamente la natura di queste protesi e le loro potenzialità interattive nella progettazione di testi, oggetti, ambienti e forme dell'esperienza.» (Montani 2014, 13) Ciò che va posto in esame riguarda «le prestazioni elaborative che ho supposto si possano attribuire a un'immaginazione che si esternalizza nelle tecniche oggi disponibili (vale a dire in tecniche prevalentemente digitalizzate) e che potrebbe aspirare a elevare il tenore creativo dell'interattività accessibile a queste tecniche, cioè la loro capacità di influire significativamente sui comportamenti simbolici complessi dell'essere umano e di modificarne l'habitat. Delle tre funzioni dell'immaginazione, infatti, quella interattiva è senz'altro la meno indagata nella sua specificità e nella sua tecnicità, mentre sia l'una (la specificità) sia l'altra (la tecnicità)… sono molto elevate e non debbono essere appiattite sulle prestazioni semplicemente produttive dell'immaginazione stessa né confuse con una generica attitudine alla cooperazione interpretativa (vale a dire a integrare immaginativamente il dato, a completarlo, a ipotizzare criteri di ordinamento ecc). Entrambe inoltre - specificità e tecnicità dell'immaginazione interattiva - sembrano potersi avvalere oggi di un campo osservativo particolarmente ricco e in evidente, vivace espansione.» (Montani 2014, 13).
4.4.3. L’apprendimento percettivo nel contesto dei processi di apprendimento in contesto tecnologico.
4.4.3.1. Due processi di apprendimento: «le nostre modalità di apprendimento sono due: quella percettivo-motoria e quella simbolico-ricostruttiva. Il primo tipo di apprendimento, più originario del secondo, è tipicamente rappresentato dalla "bottega", dove qualcuno, un maestro, insegna a qualcun altro, un allievo, tramite ostensione e sperimentazione diretta, le operazioni necessarie per ottenere un risultato, per esempio la produzione di un oggetto (o di un'opera d'arte, se la "bottega" è quella di un artista). In questo tipo di apprendimento l'immaginazione svolge il ruolo dominante. Il secondo tipo, esploso e impostosi in modo incontenibile dopo l'invenzione della stampa a caratteri mobili (ma assai più antico quanto al suo principio), consiste nell'apprendere l'ordine delle operazioni necessarie per ottenere un risultato pratico o la concatenazione concettuale necessaria per afferrare un contenuto cognitivo astratto, ricostruendoli passo dopo passo, cioè linearmente, tramite la lettura di un testo scritto. In questo secondo tipo di apprendimento si può dire che è l'intelletto a svolgere il ruolo dominante.» (Montani 2014, 13-14)
4.4.3.2. la situazione creata dalla strumentazione tecnologica divenuta vera e propria protesi per la gestione sensibile e immaginativa dei dati. «Il punto che qui ci interessa è il seguente: che queste due tecniche di apprendimento, distinte fin dall'origine e sottoposte a ulteriore divaricazione dal potente processo di linearizzazione dei nostri comportamenti simbolici sorti all'interno della "galassia Gutenberg" (McLuhan, 1962), mostrano oggi di potersi riunificare negli ambienti simulativi, come la "realtà virtuale", realizzabili con tecnologie digitali. Francesco Antinucci arriva a immaginare che in un futuro nemmeno troppo lontano i processi di apprendimento potrebbero servirsi largamente di supporti didattici concepiti nella forma del videogioco. Supporti, cioè, capaci di trasformare anche le nozioni astratte in esperienze percettivo-motorie direttamente osservabili e manipolabili. In una parola: in esperienze sostanzialmente interattive.» (Montani 2014, 14) (cfr. lo studio di Diodato Roberto 2005, Estetica del virtuale, B. Mondadori, Milano)
4.4.3.3. quindi l’occasione estetica contemporanea: l’ipotesi di incontro tra i due processi di apprendimento, a partire dal percettivo-immaginativo nella sua versione contemporanea naturale – tecnologica; «trasformare anche le nozioni astratte in esperienze percettivo-motorie direttamente osservabili e manipolabili» e la «dipendenza di uno schematismo "oggettivo" e logico da uno schematismo plastico ed estetico» (Montani 2014, 30) o meglio, la loro correlazione.
«Non c'è bisogno di ribadire il ruolo determinante che in questo modello di apprendimento verrebbe giocato dall'immaginazione. Si tratta, piuttosto, di capire meglio a che titolo vi rientrerebbero il linguaggio e la scrittura. Se cioè la loro funzione sarebbe ridotta a un ruolo secondario, di supporto o di commento, o se non si realizzerebbe piuttosto un'inedita condizione di reciprocità, o di vero e proprio scambio dei ruoli, tale da riqualificare il paradigma simbolico-ricostruttivo all'interno di quello percettivo-motorio e viceversa. […] la condizione di reciprocità, o scambio dei ruoli, tra il simbolico-ricostruttivo e il percettivo-motorio che ho appena indicato, dalla quale uscirebbero specificamente riqualificate le prestazioni dell'immagine … può facilmente appoggiarsi su una rilettura generale delle linee di sviluppo della cultura audiovisiva nata con l'invenzione della fotografia e soprattutto del cinema.» (Montani 2014, 14-15) Il riferimento, per analogia ma anche per trasferimento opportuno di gestione, va infatti all’arte del montaggio presente nel cinema in grado di gestire in modo imprevedibile le correlazioni tra campi diversi di sensibilità; il montaggio permette di gestire la sinestesia secondo modificazioni temporali che rendono sensitivamente e intellettivamente vivace la sensibilità estetica, sotto la guida di una "immaginazione intermediale". L’attenzione va rivolta dunque alla «questione del montaggio, vale a dire sulla predisposizione delle immagini (cinematografiche, ma non solo) a lasciarsi sottoporre a procedure di effettiva "articolazione" tali da mediare tra il requisito della densità iconica e quello di una discorsività più o meno complessa» (Montani 2014, 14) (cioè articolazione interrelata delle due forme di apprendimento).
4.4.4. Il ruolo dell’arte definita da un ritrovato incontro o da intrecci contemporanei. Il terreno del rilancio dell’arte e della sua direzione nella costruzione di una sensibilità estetica viva e mutante è dato dagli incontri contemporanei tra settori spesso e per lungo tempo isolati tra loro e a volte contrapposti come reciprocamente negantisi, come l’opposizione immaginazione e intelletto, arte e tecnica, unicum e seriale, aristocrazia della cultura e gusti delle “persone comuni”… Ora si uniscono, in congiuntura produttiva più elementi e più funzioni: lo sguardo rivolto al passato come materiale di valori e opportunità liberato però da vincoli di filosofie della storia, la quantità delle immagini a disposizione e la centralità dell’immaginario, l’imporsi di un modello di apprendimento giocato dall'immaginazione base per la ricerca di un rilancio del linguaggio e della scrittura (mondo percettivo e mondo concettuale), il trattamento tecnico informatizzato dell’immagine per ruoli costituenti e nelle contestuali direzioni dell’utilità e della bellezza, la percezione dell’uomo naturalmente interattiva e ora supportata dalla sempre più sofisticata strumentazione tecnica, l’arte nell’epoca della sua riproducibilità seriale e della sua fruizione pubblica spontanea e “in distrazione” (come una protesi che accompagna nel quotidiano, ovunque e senza interruzione, la sensibilità; in forza cioè di una “estetizzazione diffusa gestita da supporti tecnologici; Montani 2014, 18n) e, in questo contesto il recupero dell’originaria indistinzione tra arte e tecnica, già messa in luce nelle opere di Platone e di Aristotele. Forse è bene affrontare più analiticamente alcuni degli incontri citati vista la loro rilevanza.
4.4.4.1. incontro primo: tra “le risorse dell'articolazione discorsiva e quelle della densità iconica”; «la forza prevalentemente emotiva dell'afferramento simultaneo e quella prevalentemente intellettuale della costruzione sequenziale […] si possono trarre indicazioni di evidente pertinenza quanto alle capacità autonomamente elaborative dell'immagine e alla nuova alleanza che vi dimostrano le risorse dell'articolazione discorsiva e quelle della densità iconica.» (Montani 2014, 15-16). Un mondo simbolico linguistico e concettuale che riprende vigore dalla potenza delle immagini e dell’immaginario tecnicamente supportati e rielaborati. Va riscoperto e riscritto il ruolo dell’apprendimento percettivo-motorio, estetico-artistico nei processi educativi (come nel progetto di paideia costruito da Platone – Repubblica VI).
4.4.4.2. incontro secondo: la tradizione liberata dal peso di ideologie delle filosofie della storia e reso libero, come materiale e valori, per un nuovo montaggio. Si tratta del “tempo opportuno” (kairòs) in una storia presente che guarda al lascito passato senza pretese di comporne i dati in una visione coerente; pretesa che, mentre dichiara di voler ricostruire e conservare la memoria del passato se ne serve per scopi presenti e al prezzo di distruggere proprio quel passato che dichiara di voler salvare; l’attenzione va alle riflessioni espresse da Walter Benjamin 1955 Angelus novus. Saggi e frammenti. Tesi di filosofia della storia, Einaudi, Torino 1981. Occorre far intervenire, in questo campo, l’attuale abilità del montaggio rivelatasi nel mondo del cinema: «L'opportunità di estendere le procedure di montaggio (anche nel senso allargato e intermediale…) all'immenso archivio di materiali accessibili in rete è sotto gli occhi (e i polpastrelli) di chiunque. Si tratta solo di capire se e come da questo esorbitante accumulo di macerie visive possa "guizzare" improvvisamente un'immagine che sia in grado di elevare il tasso di "leggibilità" del nostro tempo presente, consentendoci di elaborare qualcuno dei suoi molti punti oscuri o enigmatici. Alludo qui evidentemente alla celebre immagine benjaminiana dell'"Angelo della storia"…collegandola all'idea di una "estetica dei valori espositivi" capace di mettere al lavoro anche, e soprattutto, le immagini prive di ogni pregnanza auratica e perfino quelle dozzinali e consunte.» (Montani 2014, 16)
4.4.4.3. incontro terzo: il ritrovato incontro tra arte e tecnica contesto per ridefinire il compito e il ruolo oggi dell’arte. «Spetta dunque sostanzialmente alle arti ideare e sperimentare forme di collegamento tra i due paradigmi. A condizione, come ho già detto, che le arti stesse, riallineandosi a una tradizione antichissima e solo da poco sospesa, sappiano nuovamente ripensare la loro inerenza alla tecnica». (Montani 2014, 18) Si tratta di un incontro suggerito, in particolare dalla attenzione all’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica e dalla consapevolezza dell’ampia potenzialità derivante dalle «competenze accreditabili a un'immaginazione interattiva» quando opera nell’incontro arte e tecnica: «Le potenzialità dunque ci sono: si tratta solo di coglierle e di favorirne la crescita. Da molti secoli questo compito è stato tipicamente svolto da ciò che chiamiamo "arte", e non si vede perché proprio oggi l'originaria parentela dell'arte e della tecnica dovrebbe scontare una fase di ingiustificabile atrofia.
Così non è, infatti - e vengo alla questione del "controllo critico" - se solo si riconosca una volta per tutte e con la necessaria spregiudicatezza che mai come in questo momento storico arte e tecnica si trovano a essere potentemente sospinte verso un nuovo terreno di incontro di cui da tempo si stavano preparando le condizioni. E si tratta… innanzitutto di condizioni estetiche: quelle che stanno a fondamento di un'immaginazione interattiva e dei suoi esiti creativi (si tratti di "oggetti" come le opere d'arte oppure di esperienze elaborative di carattere aperto e processuale non riconducibili al paradigma della "messa in opera"). La nostra sensibilità (aisthesis, in greco) ha infatti raggiunto un gradiente di esternalizzazione tecnica così elevato da essere ormai del tutto disponibile a consentire una delega tecnica senza riserve. Il che comporta, accanto a rischi tanto notevoli quanto spesso inavvertiti, anche il profilarsi di rilevanti opportunità. Una prova di questo fenomeno che da quantitativo sembra essersi fatto qualitativo sta nella comparsa di wearable technologies (WT) sempre più intimamente incorporabili e sempre più performanti. È probabile che questo sia, come si dice, il nostro futuro. Di certo è uno dei suoi scenari possibili. Qui mi interessa metterne in rilievo … le possibili valenze elaborative, le quali prospettano un modello di interattività alquanto diverso da quello a cui ho fatto riferimento fin qui. Ho parlato infatti di immaginazione interattiva riferendomi all'ambito di operazioni produttive (come scattare e caricare in rete una foto o un filmato o manipolare e condividere immagini accessibili ecc.) effettuate in un ambiente digitalizzato (o virtuale), mentre l'ambito di esercizio delle tecnologie indossabili è il mondo reale, nel quale le WT ci ricollocano con un corredo (incrementabile) di abilità e informazioni in grado di incidere profondamente sulla nostra propriocettività e sul modo in cui siamo sensibili ai fenomeni e interagiamo con il mondo-ambiente. In questo caso… l'interattività dell'immaginazione si orienta in modo spontaneo verso lo spazio pubblico e la dimensione del politico. E prospetta una modalità di elaborazione creativa delle immagini (ma non solo delle immagini) del tutto indipendente dal concetto di "opera". Ovvero capace di riaccogliere al suo interno l'esperienza dell'opera conclusa in modo innovativo.» (Montani 2014, 17-18)
4.4.5. Processi, direzioni, tendenze e incontri contemporanei che pongono fine ad una lunga tradizione che ha voluto (non senza motivo e non senza efficaci innovazioni) creare un senso ed uno spazio estetico specifico, autonomo, separato (una sorta di “differenziazione estetica”, di “coscienza estetica”), le cui opere confluirebbero in un mondo a sé, un Artworld, riservato agli addetti, competenti e raffinati [così la lettura che Schiller propone di Kant,Hegel…]. Quelle direzioni e quegli incontri permettono all’arte di tornare ad essere un produrre e un sentire estetico aperto nelle forme e nei temi, imprevedibile, partecipabile, interattivo.
5. Il destino della bellezza, la natura dell’arte e il piacere estetico: uno sguardo psicanalitico
Temi ripresi a partire da una prospettiva psicanalitica; non nel senso che la psicanalisi entra nel campo dell’arte per decidere che cosa in essa viene messo in risalto, sicuramente ad insaputa dell’artista o dello spettatore (ad esempio, affermare che qui è in opera la conflittualità edipica, qui l’investimento libidico, qui un soddisfacimento deviato del rimosso…), ma nel senso che entrambe, e in autonomia di metodo, pongono a tema la soggettivazione: «In gioco è il farsi stesso di un soggetto, è come si trasforma un soggetto, come si soggettiva un soggetto». «… continuo ad attribuire un grande valore alla tesi di Freud secondo la quale gli artisti anticipano sempre le scoperte della psicoanalisi. In questo senso la pratica dell'arte non è mai apparsa ai miei occhi come un terreno da colonizzare con gli strumenti della psicoanalisi (a questo si è invece ridotta spesso la cosiddetta "psicoanalisi applicata"), ma come un luogo affine, implicato alla psicoanalisi. L'arte e la psicoanalisi sono pratiche della sublimazione del linguaggio, ma soprattutto sono pratiche che non trovano fondamento se non in se stesse… […] In gioco è anche una meditazione - attraverso l'arte, la sua pratica e i suoi testi - intorno al processo di soggettivazione così come esso viene inteso alla luce della psicoanalisi. In gioco è il farsi stesso di un soggetto, è come si trasforma un soggetto, come si soggettiva un soggetto o, direbbe con maggior enfasi Lacan, come avviene quella trasmutazione soggettiva che resta al centro della pratica della psicoanalisi. Più che una incursione, più o meno arbitraria, di uno psicoanalista nel campo dell'arte, Il miracolo della forma è un libro che prova a mostrare come, a partire da una lettura critica di certi fenomeni dell'arte contemporanea, si realizza la soggettivazione di uno stile, dunque come si realizza il desiderio del soggetto, la sua singolarizzazione contingente». (Recalcati 2011, Il miracolo della forma, XI, XII)
5.1. Uno strumento meta-psicologico, un concetto strutturale: “la Cosa” (das Ding). L’espressione “la Cosa” viene introdotta nella strumentazione metapsicologica di Jaques Lacan per indicare in modo formale e preliminare, con una sorta di sostantificazione, il concetto di Alterità presente nei processi psichici strutturali e strutturanti. Alterità per la forte specificità procedurale che li caratterizza. Lo scopo che spinge ad applicare ad essi il meta-concetto di “Cosa” è quello di conservarli nella loro radicale irriducibilità a forme stabili, definite una volta per tutte come nozioni condivise; conservarli dunque e potenziarli nella loro apertura. La natura topica e insieme meta-psicologica del concetto “la Cosa” (das Ding) infatti sta nella pluriapplicabilità di questo strumento topico e meta-concettuale a una varietà estrema di processi: «polisemica nei suoi modi teorici di impiego» (Recalcati 2011, Il miracolo della forma, 41) all’interno delle varie relazioni di carattere linguistico e come principio di tipo causale, all’esterno di esse per la sua non riducibilità a ciò che si presentifica nel significare (nelle forme determinate e finite del pensato,voluto, agito ora). I due processi e settori richiamati come esempio da Recalcati sono: la legge morale kantiana, il corpo della madre di Melanie Klein; ma, per uno scopo specifico, i tratti che definiscono “la Cosa” vengono applicati a molti concetti indicanti processi (“le incarnazioni molteplici di das Ding”): pulsione, simbolo (simbolizzazione, simbolico), sublimazione… e , allo scopo, vengono applicati gli aspetti della irrapresentabilità, anche alla bellezza; prendendo in considerazione particolare la bellezza nell’arte o nella produzione artistica; più esplicitamente il “grande Altro del sistema dell’arte” (Recalcati 2011, Il miracolo della forma, 29) in una “estetica de vuoto”. «L’estetica del vuoto ha come presupposto che la Cosa non possa mai presentificarsi direttamente – questo invece accade nella clinica delle psicosi o delle declinazioni psicotizzanti e perverse di certe tendenze dell’arte contemporanea.» (Recalcati 2011, Il miracolo della forma, 43; il riferimento va in particolare a certe forme di body art).
5.1.1. Legando applicativamente (e liberamente) la definizione del meta-concetto “la Cosa” alla bellezza. La Bellezza, nella sua concezione formale/strutturale, può essere «definita, non senza un certo effetto paradossale, come un pieno di godimento e come un vuoto centrale. Questa oscillazione tra il vuoto e il pieno consente di mostrare i due volti fondamentali della Cosa [e, applicativamente, della bellezza]: nella prospettiva del significante la Cosa [e la bellezza come passaggio difensivo nei suoi confronti] è un vuoto perché essa sfugge a ogni rappresentazione possibile, è letteralmente irrappresentabile, ma nella prospettiva del godimento la Cosa [e, di riflesso e come effetto, la bellezza] è un «centro di incandescenza», è un pieno che eccede il soggetto sottoponendolo a una ripetizione oscura. […] un assoluto fuori significato e un abisso che inghiotte, rispetto al quale l'ordine simbolico prende necessariamente le forme di una difesa ben più originaria della rimozione…» (cfr Recalcati 2011, Il miracolo della forma, 12).
È incapacità di ospitare la bellezza assoluta, ma ne è anche l’unica sede possibile per la capacità dell’opera d’arte di comporsi secondo una unità formale che fa sì che ogni opera d’arte si presenti come una «totalità chiusa … e il godimento estetico è indicizzato su questa pienezza formale». (Bois, Krauss, 1997, 14) Ma è ad un tempo, per la dialettica vuoto/pieno, terreno fonte per ogni imprevedibile significazione: «In altre parole, il soggetto dell'inconscio resta sì strutturato come un linguaggio, nel senso che il suo funzionamento continua a rispondere alla legge della catena significante, ma — proprio a partire dalla "svolta" del Seminario VII — al centro stesso di tale funzionamento appare una dimensione irriducibile a quella del significante e che, grazie a questa resistenza interna, si costituisce come luogo (vuoto) di scaturigine di ogni possibile rappresentazione […] … essa non è una raffigurazione simbolico-immaginaria, ma è la condizione di ogni possibile rappresentazione simbolico-immaginaria.» (Recalcati 2011, Il miracolo della forma, 40, 42). L’arte e, in essa, la ricerca delle bellezza, si configura come una barriera nei confronti di quel vuoto/pieno, travolgente, imprevedibile, inquietante e devastante nella sua irrapresentabilità: il «più scabroso volto della Cosa lacaniana: è vuoto, è perduta, ma è anche un troppo pieno, un eccesso, un plus insostenibile di godimento.» (Recalcati 2011, Il miracolo della forma, 43).
5.1.2. La riflessione prende le forme di una «estetica del vuoto». La Bellezza, e l’arte come ricerca intorno alla bellezza, dunque è comprensibile all’interno della antinomia, irrisolta e operativa: pieno di godimento e vuoto centrale. Perciò è un «centro di incandescenza», è un pieno che eccede il soggetto sottoponendolo a una ripetizione oscura. Pieno e vuoto che, per la loro antinomia e relazione reciproca, restano attivi in un processo continuo di pluralizzazione dei possibili modi della bellezza. (Compare sullo sfondo, in richiamo, il primo movimento dialettico che definisce la Scienza della Logica di Hegel: Essere, Nulla, Divenire come essere determinato)
5.1.3. «…la Cosa è circoscritta da alcune barriere che impediscono all’uomo di essere aspirato nel suo vortice incandescente. La prima di queste barriere è il Bene, la seconda è il Bello. […] La seconda barriera è quella del Bello. Lacan pensa al Bello innanzi tutto come forma, come efficacia simbolico-immaginaria della forma. Ma l'efficacia della forma risulta proprio dal suo prendere una certa di stanza dalla realtà inquietante della Cosa. L'opera d'arte non può mai essere una pura presentificazione della Cosa, perché il Bello è un velo necessario che ricopre il Terrificante di das Ding. D'altra parte, però, l'accentuazione della funzione protettiva della bellezza ci conduce a riconoscere la sua funzione di scongiuro rispetto allo spettro inquietante del reale maligno della Cosa. (Recalcati 2011, Il miracolo della forma, 43)
5.1.4. «Il Bello, piuttosto, ci accosta alla Cosa pur mantenendoci separati dalla Cosa. Il problema maggiore non è quello dell'immagine della bellezza che deve scongiurare l'incontro con l'orrore e con il Terrificante, bensì come un'immagine possa incaricarsi di manifestare il reale in una sublimazione che non sia semplicemente distruttiva, ma capace di integrare continuamente — in un movimento mai risolto una volta per tutte — la forza dell'informe nella forma. Per questo, scriveva Nietzsche, «non esiste superficie che sia bella senza la terribilità degli abissi». È questo movimento che mantiene la bellezza in contatto con l'abisso del reale - e non in contrapposizione rigida - e che rende un'opera d'arte riuscita. Non si tratta di negare il brutto del reale, il suo carattere informe o amorfo, ma di trasportare questo reale verso una forma possibile.» (Recalcati 2011, Il miracolo della forma, 44) [il pensiero corre da Van Gogh a Bacon]
5.2. Il piacere estetico in rilettura. In questa rilettura il tema che viene ulteriormente affrontato è quello del piacere estetico (se si vuole, l’abusata “sindrome di Stendhal”), considerato nella particolarità che ne caratterizza la natura. Il tema viene presentato e reso applicativo a partire dalla riflessione sul concetto di sublimazione; “la sublimazione artistica occupa il vuoto abissale di das Ding … attraverso una pluralità possibile di oggetti immaginari”, “… nella sublimazione artistica il soggetto si confronta… con il vuoto della Cosa”, “Nella sublimazione artistica l'oggetto d'arte diventa un oggetto immaginario che si colloca, per via di un'elevazione simbolica, nel luogo vuoto del reale della Cosa.” (Recalcati 2011, Il miracolo della forma, 14ss)
5.2.1. È necessario partire dal concetto di pulsione (Trieb), come viene espresso da Freud, per affrontare il concetto di sublimazione. «Freud segnala una doppia tendenza della pulsione: una tendenza alla fissazione del godimento (alla ripetizione) e una tendenza plastica (alla trasformazione), legata alla capacità della pulsione di realizzare la propria soddisfazione attraverso spostamenti e inversioni. La sublimazione come destino possibile della pulsione scaturisce precisamente da questa tensione tra fissazione e plasticità pulsionale, accentuando però il carattere "plastico" della pulsione rispetto a quello "fissato". […] Al tempo stesso, però, le pulsioni non possono nemmeno essere integralmente sublimate. La plasticità freudiana della pulsione, in altri termini, è sempre in rapporto, come puntualizza Lacan, a una certa dose di fissazione. La tendenza alla fissazione mostra infatti che ogni pulsione è strutturalmente parziale, dunque legata alle zone erogene che definiscono freudianamente la dimensione pregenitale della sessualità umana. «Qualcosa - insiste Lacan - non può essere sublimato»; si tratta di un'esigenza libidica, di un limite incarnato nella forza della pulsione, si tratta «dell'esigenza di una certa dose, di un certo tasso di soddisfazione diretta». …la tendenza della sublimazione artistica a realizzarsi in una forma non potrà mai pretendere di cancellare il reale assillante dell'informe.» (Recalcati 2011, Il miracolo della forma, 15-16) E ritorna al centro la relazione forma – informe.
5.2.1.1. Plasticità pulsionale alla base della sublimazione, ma non in totale assoluto; resiste un legame di fissazione libidica diretta che costituisce un limite e un vincolo prezioso, rivolto alla fisicità complessiva della vita psichica. «La tesi della plasticità della pulsione ha dunque senso solo se inclusa in quella del limite introdotto dalla fissazione. Lacan indica come, nella sua teoria della sessualità pregenitale, Freud mostri il carattere irriducibile di questi residui di forme arcaiche della libido. La dimensione pulsionale viene associata a quella di un residuo reale che esige la soddisfazione e che limita necessariamente il movimento sublimatorio come movimento plastico-trasformativo. Non aver tenuto conto di questo residuo reale fu l'errore fatale di Jung; la plasticità positiva delle pulsioni non può mai pretendere di neutralizzare del tutto la dimensione della fissazione pulsionale, allo stesso modo in cui la tendenza della sublimazione artistica a realizzarsi in una forma non potrà mai pretendere di cancellare il reale assillante dell'informe.» (Recalcati 2011, Il miracolo della forma, 16)
5.2.1.2. sublimazione non è rimozione, né conseguente ricerca di soddisfacimento sostitutivo alterante in nevrosi le “normali” funzioni. «Seconda tesi di Freud: la sublimazione è disgiunta dalla rimozione. L'enigma maggiore della sublimazione è costituito dal fatto che in essa vi può essere soddisfazione senza rimozione. La sublimazione implica un cambiamento, una sostituzione di meta e di oggetto della pulsione, ma questa sostituzione, diversamente dal ritorno del rimosso che definisce una modalità sintomatica della soddisfazione, non avviene attraverso il processo della rimozione. Dobbiamo cioè riconoscere l'esistenza di due distinte economie della sostituzione: quella del significante che costituisce il sintomo come formazione di compromesso, e quella sublimatoria che esige un cambiamento di meta della pulsione. Se le pulsioni sessuali rimosse determinano la produzione di sintomi che alterano le funzioni non sessuali, la sublimazione compie il percorso opposto: in essa le pulsioni sessuali si dirigono verso mete non sessuali. La pulsione sublimata non è rimossa, ma condotta al soddisfacimento per deviazione rispetto al soddisfacimento sessuale. Essa impone dunque un cambiamento di meta, senza però ridurre la dimensione della soddisfazione pulsionale in quanto tale.» (Recalcati 2011, Il miracolo della forma, 17)
E precisando altre componenti della sublimazione: «La sublimazione non è una idealizzazione… non [è] una copertura dell’essere pulsionale, ma …una possibilità inedita della pulsione. La dimensione del riconoscimento sociale è centrale nella sublimazione freudiana … c’è un elemento di rinuncia che accompagna il destino sublimatorio della pulsione… l'iscrizione simbolica del soggetto nel campo dell'Altro sociale. […] Per Lacan, la sublimazione, più che riflettere un sacrificio forzato della pulsione, manifesta innanzitutto la possibilità di raggiungere un'altra soddisfazione […] …un meccanismo che sfrutta simbolicamente la spinta pulsionale conducendola a una realizzazione ulteriore» (Recalcati 2011, Il miracolo della forma, 18-20, 21)
5.2.2. sublimazione e piacere: il piacere estetico nella sua particolare natura e dinamica.
«Nella sublimazione artistica l'oggetto d'arte diventa un oggetto immaginario che si colloca, per via di un'elevazione simbolica, nel luogo vuoto del reale della Cosa. Si tratta […] di una formula che evoca una delle definizioni freudiane più note della sublimazione, quale «cambiamento della meta sessuale con una meta più elevata e di maggior valore sociale». (Recalcati 2011, Il miracolo della forma, 14]
«Ogni pulsione è sublimatoria […] si tratta di una possibilità pulsionale e non di una neutralizzazione della pulsione. Questa possibilità… è un modo di entrare in rapporto con das Ding senza tuttavia lasciarsi bruciare, distruggere, annientare dalla sua incandescenza. […] La sublimazione è una soddisfazione pulsionale (senza rimozione), dunque un prodotto della pulsione, ma è anche, nello stesso tempo, una difesa dalla pulsione. […] In altre parole, per Lacan, la sublimazione, anziché deplusionare la pulsione, ne porrebbe invece in luce il carattere strutturale. […] Questo significa che la sublimazione illumina il tragitto stesso della pulsione anziché rappresentarne il contrario (la sua rimozione). La sublimazione, cioè, ci permette di tracciare la traiettoria della pulsione come rotazione intorno a un vuoto.» (Recalcati 2011, Il miracolo della forma, 28, 30)
5.2.3. le componenti del piacere estetico e la sua dinamica. Il piacere dell’arte è dovuto all’ampio arco delle situazioni di esperienza e delle facoltà che l’arte richiama e coinvolge.
5.2.3.1. lo spazio (totale) indicato dal binomio forma – informe; ove l’informe inquieta e sollecita il formale nella varietà delle sue espressioni; come notato: «la tendenza della sublimazione artistica a realizzarsi in una forma non potrà mai pretendere di cancellare il reale assillante dell'informe.» (Recalcati 2011, Il miracolo della forma, 16). (Come nel ruolo cosmologico che Platone assegna alla chòra: «la madre e il ricettacolo delle cose generate visibili e pienamente sensibili» Timeo 51a)
5.2.3.2. l’intreccio indefinito e dinamico tra le sue molte componenti: realtà (verità), simbolo, idea, immagine (forma e informe), matericità (elementi sensibili). Una realtà che nel simbolo diventa verità e idea essenziale; nell’arte infatti la realtà acquista l’essenzialità di una idea nella concretezza di un’immagine («…la funzione stessa del simbolo: l'arte è un trattamento simbolico-immaginario del reale» Recalcati 2011, Il miracolo della forma, 32) e nella materialità sensibile e plastica degli elementi naturali (creata e modellata nelle sue forme di dati naturali della materia, della luce e del colore, del suono…).
5.2.3.3. l’azione “creativa”: organizzare il vuoto. Distinguendo tra “sublimazione artistica”, “sublimazione religiosa”, “sublimazione scientifica”, M. Recalcati ricorda: «L’organizzazione del vuoto definisce invece il tratto specifico del lavoro artistico»; a differenza della scienza che “rigetta il non senso, esigendo di reperire il senso dovunque”, della teologia “l’idea teologica che l’essere coincida con il Bene”; «Organizzare il vuoto intreccia il simbolico e l’immaginario con il reale, in quanto indica un processo di organizzazione che allude alla dimensione dell’articolazione significante e alla funzione dell’immagine…» (Recalcati 2011, Il miracolo della forma, 33)
5.2.3.3.1. Contro l’ideologia dell’informe, spesso fondata sulla tesi di un’arte considerata, nella sua assenza di forma, espressione diretta dell’inconscio, si impone una riflessione sull’opera d’arte e l’inconscio. «È noto il giudizio severo di Freud sulle avanguardie storiche, in particolare verso coloro - i surrealisti, per esempio - che alla psicoanalisi guardavano invece con grande interesse. Questa severità verso l'arte del suo tempo trova una motivazione profonda nella concezione freudiana del l'arte stessa: il travasamento diretto dell'inconscio non realizza mai, di per sé, un'opera d'arte. Anzi, Freud, e con lui Lacan, sembrano piuttosto affermare il contrario, ovvero che l'emergenza senza filtri simbolici dell'inconscio dell'artista tende a rendere impossibile l'evento dell'opera d'arte come tale, perché una "comunicazione diretta" dei propri sogni a occhi aperti o del proprio fantasma inconscio non costituisce di per sé un fatto artistico ma, al contrario, tende a diventare un ostacolo per la creazione di un'opera d'arte. […] Un'opera - è Freud ad affermarlo nel Poeta e la fantasia - inizia solo a partire da una "velatura" dell'inconscio e non da un suo dispiegamento immediato, da una qualche sua espressione energetica. Questa tesi della necessità che l'opera d'arte veli l'inconscio, anziché esprimerlo senza alcuna mediazione simbolica, giustifica, almeno in parte, la severità e l'estraneità di Freud verso l'arte a lui contemporanea, la quale gli appariva, in sostanza, come un utilizzo antistilistico dell'inconscio, a fini più ideologici che estetici». (Recalcati 2011, Il miracolo della forma, 72-73) Del resto, due osservazioni di buona evidenza: 1. anche l’inconscio ha una propria logica; 2. anche l’informale, per manifestarsi, si decide per una forma.
5.2.3.3.2. Velatura perenne dell’inconscio che si manifesta in continuazione nel trattamento psicanalitico delle libere associazioni, cioè proprio in quella prassi esplorativa che a prima vista sembra porsi come sede in cui l’inconscio emerge dalla latenza della rimozione per darsi nella forma linguistica e creare le condizioni per un suo affiorare alla coscienza del comunicare. «Il capitonaggio del senso non può infatti che annodare solo provvisoriamente il suo scorrere infinito. Questa impossibilità di catturare il senso una volta per tutte, di disciplinarne l'apparizione, è l'esperienza che il soggetto in analisi incontra attraverso la regola fondamentale dell'associazione libera. […] L'associazione libera, infatti, non è il modo ingenuo di pensare come possibile lo svuotamento del sacco dell'inconscio - "dire tutto" - ma la regola che esibisce l'impossibilità della parola di saldare una volta per tutte significato e significante, enunciato ed enunciazione, dunque di poter dire veramente "tutto". In questo modo la parola analitica dell'associazione libera si trova marcata a fuoco da questa fuga del senso. E da questa impossibilità di determinare il senso, di catturarlo integralmente, sorge quello sfondo di assenza che il linguaggio ha reso disponibile all'essere parlante decretando la morte della Cosa e, dunque, proprio a partire da questo esilio originario dalla Cosa, la possibilità stessa che vi sia una pratica della parola.» (Recalcati 2011, Il miracolo della forma, 195) «L'amplificazione significante non è un'evaporazione del senso, ma si finalizza all'incontro traumatico con l'abisso da cui la parola stessa sorge. In questo senso la poesia è incontro non solo con le possibilità infinite della parola, ma anche con i limiti del linguaggio, con il linguaggio come muro. L'amplificazione significante è coordinata con un'operazione di riduzione: il gioco dei significanti — come accade in un'analisi — deve poter dare luogo a una riduzione essenziale, alla definizione del poema soggettivo nella sua struttura minima, ridotta appunto, al suo reale. […] La saldatura operata da Freud tra dicibile e indicibile concerne la psicoanalisi in quanto apertura della parola del soggetto dell'inconscio come parola che "viene dall'abisso" e, nello stesso tempo, come costruzione, articolazione, tessitura significante che restituisce al soggetto il senso della sua storia. […] … il movimento di spola si chiarifica come un'andata e ritorno continui dall'indicibile al dire, al dicibile, ma solo per isolare l'impossibile a dire.». (Recalcati 2011, Il miracolo della forma, 204, 205)
5.2.3.4. il piacere di una sfida centrale e continua, perché «il reale quale dimensione che eccede l'ordine simbolico del significante». «Con la tesi dell'arte come organizzazione del vuoto Lacan sembra spingersi al di là di questa prospettiva di ricerca, alludendo non tanto all'omologia tra il soggetto dell'inconscio (le sue procedure di simbolizzazione) e l'arte, ma indicando come cruciale il rapporto dell'opera d'arte con la dimensione del reale quale dimensione che eccede l'ordine simbolico del significante. In questo senso possiamo riprendere un'altra indicazione preziosa di Adorno circa l'essenza dell'opera d'arte che non è in un rapporto diretto con la personalità dell'artista «bensì con ciò che è a lui ineguale [...] con qualcosa che resiste» (T.W.Adorno, Teoria estetica, Einaudi, Torino 1977, 17). Come per Adorno, anche per Lacan l'opera d'arte si confronta effettivamente con qualcosa che resiste, tanto da potersi quasi affermare che tutto il problema di un'estetica lacaniana consiste proprio nel dare un volto possibile a questo qualcosa che resiste». (Recalcati 2011, Il miracolo della forma, 39) Come nell’episodio biblico di Giacobbe che lotta con l’Angelo, vincendolo ma rimanendo contemporaneamente sconfitto, l’arte ingaggia un infinito (nel tempo e nelle forme) confronto con il reale creandolo nel proprio significare, avvertendone l’irriducibile alterità, cogliendone la forte resistenza.
«Per un verso, dunque, «le cose del mondo umano sono cose di un universo strutturato in parola, segno che il linguaggio, i processi simbolici, governano tutto», ma per un altro verso persiste un'estimità, una «esteriorità intima» che abita il centro del linguaggio e che ne costituisce il limite interno. Ciò significa che la presa del simbolico sul reale primordiale - o, se si preferisce, la presa dell'universalità del significante sul particolare irriducibile del soggetto - non può mai essere esaustiva, perché c'è sempre un'area di non coincidenza tra il reale e il simbolico. Questa non coincidenza è precisamente un residuo, un resto, «qualcosa che resiste» per utilizzare l'espressione adorniana: un resto reale che segnala che il simbolico non può significantizzare in modo integrale l'essere». (Recalcati 2011, Il miracolo della forma, 40-41)
5.2.3.5. lo smontaggio e la gestione di una altrimenti irrigidita funzione identificatoria della “funzione quadro” nel cammino della rappresentabilità del soggetto (auto-rappresentabilità). «Come definire, dunque, la "funzione quadro"? Possiamo metterne in risalto due significati fondamentali. Il primo è in riferimento alla tyche, nel senso che l'opera d'arte deve, per essere tale, avere la capacità di produrre "incontro con il reale". Il secondo concerne invece l'omologia strutturale tra la "funzione quadro" e il problema della rappresentabilità del soggetto. […] Un quadro non sta lì, nella sua inerzia oggettuale, nella sua passività di oggetto, di fronte al soggetto attivo della visione - come sembra credere una certa storia dell'arte -, ma è ciò che buca la cornice della rappresentazione provocando un'inversione della direzione dello sguardo rappresentativo, un rovesciamento della coscienza. Nel contempo, questo essere presi, questo essere punti, guardati dall'opera, non è nemmeno un cadere del soggetto nel vortice della Cosa, non dà luogo a una sindrome di Stendhal (sic!), a un effetto di risucchio che inghiotte il soggetto in un oceano indistinto o che semplicemente lo annulla. Lacan fa piuttosto riferimento a un piacere dell'occhio, all'essere presi dal quadro come a un'esperienza estetica di abbandono, di pacificazione, come a una deposizione dello sguardo. In questo senso l'opera d'arte è un «doma-sguardo», proprio perché localizza in uno spazio determinato - quello del quadro - un'esperienza - quella dello sguardo dell'Altro - che è, come tale, sempre potenzialmente persecutoria, come dimostra il delirio paranoico di coloro che si sentono costantemente osservati e nell'impossibilità di separarsi da questa presa assillante. […] La "funzione quadro" approssima questo secondo statuto (extrasignificante) del soggetto lacaniano; non fornisce una rappresentazione del soggetto quanto, piuttosto, una rappresentazione dei limiti di ogni sua possibile rappresentazione. Quest'impossibilità della rappresentazione o, se si preferisce, questa rappresentazione dell'impossibile da rappresentare, trova la sua incarnazione in ciò che Lacan chiama "funzione macchia". Essa mostra il soggetto come consegnato allo sguardo dell'Altro, a uno sguardo che viene dal di fuori e sovverte l'idea classica del soggetto come artefice della rappresentazione. […] La "funzione quadro" non è dunque una funzione identificatoria, bensì una funzione che punta a sciogliere le cristallizzazioni identificatorie che immobilizzano l'immagine nel già visto, nel già saputo, nel già sentito. Il soggetto - come afferma Lacan - può reperirsi come tale in questa funzione proprio perché non è mai "questo", non è mai ciò che vedo, non è mai ciò che è. È questo il gioco perturbante che regge la "funzione quadro"… È la famosa formula di Paul Klee: il compito dell'arte non è riprodurre il visibile, ma rendere visibile.» (Recalcati 2011, Il miracolo della forma, 54-58)
5.3. il piacere e la sua “forclusione” nella teorie / ideologia dell’informe e nel corrispettivo uso “romantico” dell’inconscio e la contro tesi estetica dialettica. A differenza della rimozione, la forclusione cancella definitivamente un avvenimento che non rientrerà mai più nella memoria psichica, ma ritorna dal di fuori come dato estraneo generando intolleranza totale nei suoi confronti; è la rimozione della rimozione o negazione di un processo comunque costitutivo nella psiche e nella esperienza personale. Il mancato riconoscimento e il mancato lutto per una perdita diventa ottusa improduttività, annullamento della iniziativa significante, banale ripetizione del detto, un negarsi alla propria perenne alterità singolare, alla propria singolarità.
5.3.1. La teoria o l’ideologia dell’informe. Il presupposto: « I teorici dell'ideologia dell'informe sferrano un attacco al cuore della concezione cosiddetta "modernista" della forma. La loro tesi di fondo è che la categoria di forma sostenga inevitabilmente una concezione ideale della bellezza, i cui fondamenti antropologici sarebbero da rintracciare nella centralità del soggetto umanistico, prefreudiano, identificato con la padronanza verticale e rappresentativa dell'io, dunque in un'ontologia idealistica tanto del soggetto quanto dell'opera d'arte. «L'interpretazione modernista dell'arte moderna [...] fa parte prima di tutto di un progetto ontologico», affermano Krauss e Bois [Rosalind Krauss e Yve-Alain Bois]. Questo progetto farebbe perno sulla centralità dello sguardo e sulla sublimazione dell'alterità informe della materia che verrebbe negata dall'idealizzazione della forma». (Recalcati 2011, Il miracolo della forma, 83)
La destinazione: oltre la forma. « e l’opera, nella sua visione modernista, implica una Gestalt unitaria, la trasgressione radicale della bella forma […] punta a un al di là della forma. 84
… l’informe è «agli antipodi dell’informale» (Kraus e Bois). Più che di un concetto si tratta di un’«operazione»…» (Recalcati 2011, Il miracolo della forma, 84,86)
«La critica alla priorità estetica della categoria di forma ispira l'ideologia contemporanea dell'informe. Se l'opera d'arte vuole avere un rapporto etico con il reale, non si può più occupare di coltivare l'Ideale estetico, meramente decorativo, del Bello. La crisi postmoderna dei grandi Ideali orientativi della soggettività occidentale esige che l'arte s'impegni in un'opera radicale di sperimentazione al di là dell'orizzonte estetico tradizionale, dominato dall'idea della forma come giusto equilibrio. Recentemente, oltre a Krauss e Bois, anche Slavoj Žižek ci ricorda che, con Lacan, saremmo autorizzati a inoltrarci in un'estetica del brutto capace di sopportare e di manifestare l'irriducibilità del reale nei confronti di ogni idealità formale: il brutto «nella sua esistenza ripulsiva, o piuttosto, nella sua esistenza tout court diventerebbe così un nome possibile del Reale della Cosa». In questo modo un unico denominatore potrebbe unificare tendenze anche eterogenee dell'arte contemporanea: respingere la seduzione immaginaria della bellezza per mostrare ciò che essa cela - l'orrore della Cosa - e aprire una breccia nella grande dissimulazione che identifica la creazione artistica alla "tanto venerata sublimazione". La via intrapresa dall'arte contemporanea, quella del culto del deforme e dell'abietto, quella della critica spietata e nichilistica nei confronti dell'idea stessa di forma estetica, finisce così non tanto per porre l'arte in relazione al reale, quanto per devastare il luogo stesso dell'arte, distruggere l'arte come esperienza simbolica a causa di un'eccessiva presenza del reale. In questo modo l'arte - come accade per il corpo isterico nella clinica contemporanea - non sembra più essere il luogo simbolico-immaginario dove si realizza un trattamento possibile del reale, quanto piuttosto un luogo ingombrato da un ritorno sregolato del reale stesso.» (Recalcati 2011, Il miracolo della forma, 99-100)
5.3.2. In controtesi: la salvezza etica ed estetica, sociale e psicologica della bellezza; non solo come contrappunto teorico ma sul fondamento di una strumentazione psicanalitica in corretta interpretazione: il corpo isterico, il processo della sublimazione, la natura e la logica dell’inconscio nella sua relazione con i processi simbolici della soggettività.
Intervenendo esplicitamente in nota, Recalcati si propone: «Il cammino solitario di questo mio libro prova a tracciare una alternativa possibile a questo destino. Un’opera orgogliosa com’è quella di Jean Clair mi ha fatto sentire meno solo. Cfr J. Clair, De immundo, Abscondita, Milano 2005»(Recalcati 2011, Il miracolo della forma,100).
«Nell'Etica della psicoanalisi Lacan ci ha ricordato che l'essenza dell'opera d'arte non consiste solo nella sua prossimità al vuoto innominabile e osceno della Cosa, ma soprattutto nella sua capacità di riuscire a darne un'organizzazione simbolica, di realizzare il miracolo di una forma capace di integrare la forza della pulsione. L'arte, infatti, non è il vuoto della rappresentazione, quanto piuttosto la rappresentazione del vuoto che implica sempre una esposizione della forma all'irrapresentabile, a ciò che sfugge a ogni possibile rappresentazione.» (Recalcati 2011, Il miracolo della forma, 92) Diventa qui indispensabile fare riferimento alla complessa accezione di inconscio esposta da Lacan; essa comporta un passaggio attraverso una duplice accezione: «Dalla tesi dell'inconscio strutturato come un linguaggio, che si accompagna con quella dell'autonomia e del primato dell'ordine simbolico, alla tesi del «non tutto è significante», dell'inesistenza dell'Altro dell'Altro, ovvero all'idea della centralità irriducibile e inassimilabile, all'ordine del significante, del godi mento». (Di Caccia Antomio, Recalcati Massimo 2000, Jacques Lacan, B. Mondadori, Milano p. 4) La pulsione tende al simbolico e alla sua soddisfazione nella sublimazione (anche artistica), ma essa non può mai venire totalmente consegnata all’ordine del simbolico; esiste un irrappresentabile.
5.3.2.1. corpo isterico: la sua corretta nozione e la sua funzione.
5.3.2.1.1. Nell’ideologia dell’informe, proclamato per se stesso al di fuori di ogni tensione con la ricerca formale nel linguaggio e nell’arte emerge una materialità corporea priva di senso, di significazione e di valore simbolico nel proprio tendere e rimandare. «Infatti, mentre l'anatomia fantastica del corpo isterico mostra tutta la distanza che separa il corpo pulsionale dall'organismo naturale esibendosi come corpo-espressivo, come forma sintomatica di un desiderio conflittuale e censurato, il corpo dell'informe s'immergerebbe in una pulsionalità animale, disorganizzata, frammentata. […] Nella clinica contemporanea il rifiuto isterico del corpo sembra invece radicalizzarsi, torcendosi contro se stesso, diventando rifiuto del corpo nelle forme estreme di una sua degradazione mortificante e distruttiva. Il corpo martoriato dell'anoressica, il corpo marchiato da piercing e tatuaggi, ricoperto da tagli reali (come nelle esperienze estreme dei cutters), mascolinizzato nell'attività frenetica ed estenuante dell'esercizio fisico o mostrato senza veli nella sua esibizione pornografica, ridotto a oggetto di sevizie e di attività masochistiche le più varie, il corpo trasfigurato dall'uso sempre più illimitato e perverso della chirurgia estetica, sconvolto dalla chimica anestetizzante e ipereccitante delle nuove droghe, il corpo "troppo pieno" e osceno dell'obesità, appaiono come indici di un narcisismo mortifero, come declinazioni contemporanee del l'accentuazione nichilistica del rifiuto del corpo rispetto alla dimensione simbolica della compiacenza somatica». (Recalcati 2011, Il miracolo della forma,101) E in alcune forme dell’arte contemporanea emergono, ad esempio (e in analisi) i «Destini psicotici e perversi del corpo nella Body art». (Recalcati 2011, Il miracolo della forma, 103 ss)
5.3.2.1.2. Di contro, la nozione e la funzione simbolica del corpo isterico. «Il corpo isterico da cui Freud estrae il soggetto dell'inconscio appare invece come un corpo organizzato dalla rimozione […] In questo senso il corpo isterico è un corpo che parla. La nozione freudiana di compiacenza somatica, che inquadra i fenomeni clinici di conversione isterica, definisce precisamente questa disponibilità del corpo a essere ingravidato dal simbolo. Le sue manifestazioni (paralisi, accessi di tosse, vomiti, contorsioni, irrigidimenti, svenimenti, disturbi visivi, pseudogravidanze) sono manifestazioni di linguaggio, ritorni del rimosso, cifrature del desiderio inconscio che si dispiegano invocando la loro interpretazione nell'Altro. Sono messaggi criptati in attesa di decifrazione. Messaggi, dunque, indirizzati all'Altro, strutturalmente sotto transfert. Il desiderio inconscio ritorna nella forma simbolica del sintomo di conversione; la conversione è conversione di un desiderio inconscio rimosso in un'alterazione solo apparentemente organica, poiché l'organo che si presta a questa operazione di cifratura (diversamente dalla lesione psicosomatica) non è in se stesso patologicamente alterato. Il corpo isterico è tagliato dall'azione del significante. […] Per questo Lacan può scrivere che nel sintomo isterico la verità inconscia s'iscrive «in lettere di sofferenza nella carne del soggetto». (Recalcati 2011, Il miracolo della forma, 101)
Come accade alla parola nel suo prender forma nella poesia (e nel lavoro di analisi psicologica): «La saldatura operata da Freud tra dicibile e indicibile concerne la psicoanalisi in quanto apertura della parola del soggetto dell'inconscio come parola che "viene dall'abisso" e, nello stesso tempo, come costruzione, articolazione, tessitura significante che restituisce al soggetto il senso della sua storia. […]… il movimento di spola si chiarifica come un'andata e ritorno continui dall'indicibile al dire, al dicibile, ma solo per isolare l'impossibile a dire. […] Qual è, in fondo, il miracolo della parola? È la capacità del simbolico di trasformare il reale. Mentre nel trauma "patologico" il reale irrompe direttamente sulla scena e devasta il simbolico producendo effetti catastrofici, nella poesia e nella psicoanalisi è il simbolo a operare sul reale. È solo attraverso il simbolo, infatti, che il soggetto può incontrare il reale senza impazzire o suicidarsi.» (Recalcati 2011, Il miracolo della forma, 205, 207)
5.3.3. la corretta relazione tra inconscio e forma o formalizzazione (si tratta infatti, in entrambi i casi, di processi e non di sostanze) reso esplicito nella lettura della produzione artistica di Jackson Pollock. Nei primi decenni del ‘900 (per Pollock emblematicamente nel 1942 con Stenographic Figure e certamente nel 1947 con Full Fathom Five), nella scena della produzione artistica fa irruzione l’inconscio e il suo legame con l’informe, legame considerato naturale e necessario sia per rispettare la natura e spontanea dell’arte, sia per contrastare la “cultura” e il “disagio della civiltà” (alla Freud) che essa provoca con il culto repressivo e soffocante del formale. «All’inizio degli anni quaranta Pollock aveva sperimentato la scrittura automatica insieme ad altri pittori newyorchesi come Roberto Motherwell, William Baziotes e Roberto Matta, uniti in uno sforzo collettivo per entrare in contatto con ciò che si considerava la forza più importante dell’universo umano: l’inconscio. […] …l’inconscio era una forza in guerra contro la “cultura” (vista come una forma di energia libidica che non può produrre nient’altro che una civiltà prigioniera del proprio “disagio”, per riprendere l’espressione di Freud)…» (Bois, Krauss, 1997, 91). Secondo una lettura del problema e del rapporto (inconscio e informe/forma) da un punto di vista psicanalitico: «… l'agire pittorico non si esercita mai come una scrittura automatica, intesa come quella prassi creativa — collaudata storicamente dal surrealismo — che attingerebbe la propria energia direttamente dall'inconscio. Per Pollock il processo creativo non consiste nella liberazione ingenua del processo primario, non consiste, se si può dire così, nel far dipingere l'inconscio. L'opera non deriva affatto da una serie improvvisa di eventi sismici casuali, ma è il frutto di una tensione continua tra spinta gestuale e ricerca estetica di un equilibrio possibile, di una circoscrizione dell'energia espansiva che abita l'atto, tra la forza e la forma.[…] Pollock ci insegna, pertanto, qualcosa di essenziale sulla natura dell'opera d'arte e sulla logica del processo creativo. Nella sua opera si consumano due rotture decise nei confronti di due diversi, e in un certo senso antitetici, modelli del gesto creativo.
5.3.3.1. La prima rottura si consuma nei confronti dell'estetica idealistica di matrice crociana che sostiene l'equivalenza tra intuizione ed espressione, che vorrebbe l'opera già presente, come idea ispirata, come "intuizione", nella mente dell'artista […] La creazione non è un rapimento estatico, un'intuizione ideale, ma produzione, tensione soggettiva, alternanza di gesti e pause; non c'è alcuna idea dell'opera che preceda il processo creativo, perché l'essenza dell'opera è tutta nel processo che la realizza.
5.3.3.2. La seconda rottura si consuma nei confronti del modello surrealista, che intende la creazione artistica come il risultato di una manifestazione diretta dell'inconscio. […] Diversamente, per Pollock il lavoro della pittura non è un travasamento senza mediazioni dell'interno all'esterno - secondo un'applicazione ingenua della nozione di inconscio - ma realizza, per così dire, l'inconscio, nel senso che lo costruisce ex nihilo, lo realizza, nell'avvenire, al futuro anteriore, in quella che eventualmente, al termine del processo, sarà stata un'opera. In altri termini, Pollock non si limita a pensare l'inconscio come a una profondità psichica che l'azione artistica dovrebbe ricondurre alla superficie, perché l'inconscio, come insegna Lacan, non è un deposito mnestico di immagini - come in fondo crede ancora il Pollock junghiano delle opere di transizione -, ma si manifesta come taglio in atto, dunque in aperto contrasto con l'idea di un'origine mitica alla quale risalire. L'inconscio non è affatto questa origine bensì la sua dislocazione permanente, non è il primitivo quanto piuttosto l'assenza radicale di ogni primitivismo, non è il "già stato" che opprime l'avvenire ma, come precisa Lacan, qualcosa che attende ancora di realizzarsi, qualcosa nell'ordine del non-realizzato. […] Non si tratta affatto di abbandonare il concetto di forma nel nome di un'ideologia dell'informe, quanto piuttosto di raggiungere un'idea di forma non come controllo, come ciò che guida la visione, ma come campo aperto di possibilità». (Recalcati 2011, Il miracolo della forma, 170-172)
[Sembra di diverso avviso il critico Achille Bonito Oliva nell’interpretare l’action painting di Pollock; la presenta in termini di immediatezza tra inconscio e forma: «L’artista americano ci ha liberato del peso gravitazionale, ci ha insegnato che ben altre materie e ben altri magmi si muovono sotto l'apparente armistizio che regola la distanza tra i corpi solidi e i nostri corpi gasati. Ha perforato la corazza e la pelle dei fenomeni, per rovesciare davanti ai nostri occhi ogni pulsione. Ma per arrivare a questo bisogna prima disarmarsi, bisogna che egli abbandoni ogni controllo e si abbandoni letteralmente ai buchi neri dell'inconscio. Dopo Freud e il surrealismo, l'arte non è più il ponte levatoio che porta verso verticali purezze, ma diventa la talpa che scava in profondità per risucchiare verso l'alto della forma i flussi e i miasmi esalanti da un luogo interdetto con le sue stratificazioni e ossidazioni, con la sua temporalità circolare, preme con la sua emergenza. L'automatismo del gesto è direttamente proporzionale all'automatismo della psiche, al moto inconsulto e involontario del profondo. La forma porta alla luce l'oscurità, promuove la salita e una chiara esposizione che neppure l'artista riesce a denominare senza il gesto garante dell'arte.» (in la Repubblica 09.08.2015)
5.3.3.3. la relazione tra formale e informe, inconscio e simbolo trova la propria sede (psicanaliticamente) nel processo della sublimazione e nella corretta accezione di inconscio: «L'ebbrezza dell'opera - non dell'artista - è l'effetto di una costruzione e non di un'improvvisazione senza freni. Non c'è arte, infatti, senza l'uso calcolato e sapiente del medium simbolico. Controllare la colata di pittura, o negare l'esistenza stessa del caso come dice provocatoriamente di fare Pollock, non è governare la forza della pulsione ma inventare una tecnica pittorica precisa che consenta la sua canalizzazione simbolica, la sua realizzazione sublimatoria. L'idea di Freud che l'arte sia un'opera di sublimazione dev'essere pensata proprio in questo senso: il processo creativo sfrutta la forza della pulsione e la tecnica artistica è il modo in cui si realizza simbolicamente questo sfruttamento.» (Recalcati 2011, Il miracolo della forma, 174-175)
5.3.3.4. per assurdo, o per ironia della sorte, o per inevitabile necessità anche l’informale espone in forme ed entra nella logica delle forme quando le opere d’arte inesorabilmente prendono la strada espositiva e commerciale delle gallerie, mostre, esposizioni, aste… La provocazione, la denuncia, lo stupore, lo shock presto diventano maniera, si piegano alle esigenze del mercato, diventano stereotipi, anonimi cliché. In altri termini, irrigidire il contrasto tra forma e informe, forma di ordine e materia amorfa ha l’effetto di esporre inesorabilmente l’arte informale ad un destino di nemesi storica di vendetta della forma che pone in evidenza una ricorrente contraddizione: la natura formale dell’informale e il suo destino di mercificazione. La materialità che, pur respingendo ogni forma in quanto costrittiva, si espone in opere d’arte, si manifesta in immagini, si consegna comunque ad una situazione formale che finisce per chiedere ospitalità ai luoghi tradizionali e “sacri” di esposizione dell’arte: gallerie, musei, accademie, luoghi pubblici, mercato dell’arte. Anche l’informale denuncia e insegue un destino di merce dell’arte.
Fonte: http://www.terzauniversita.it/corsi_15-16/dispense/corso15_lez10.doc
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